Il Calderone di Severus

Alaide - What harbour shelters peace away from storms?, Tipologia: Long-fic Severus - Genere: Introspettivo - Rating: per tutti - Avvertimenti: AU - Epoca: Post 7 anno - Personaggi: Minerva, Pomona, Personaggi originali -Pairing: Severus/Pers. originale

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view post Posted on 3/3/2023, 15:56
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Partecipando alle sfide dei 15 anni con Severus, ho scritto alcune storie collegate tra loro e, in particolare, una di queste (Whoin?) ha dato il la alla scrittura di questa long (di cui ho già pronti diversi capitoli. Quindi non si verificherà il problema di Winterreise), anche se il centro narrativo è qualcosa che avevo in mente da tempo, ma che non avevo ancora chiaro come sviluppare.

Buona lettura a tutti!

Autore/data: Alaide – gennaio 2023 – in corso
Beta-reader: Chiara53
Tipologia: Long Fic
Rating: Per tutti
Genere: Drammatico, introspettivo
Personaggi: Severus Piton, Minerva McGranitt, Pomona Sprite, Personaggio Originale (più di uno)
Pairing: Severus/Personaggio originale
Epoca: Post settimo anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: Era lo scopo che si era dato: tentare di aiutare veramente i ragazzi, come non gli era mai stato possibile prima. Era qualcosa che doveva a tutti loro ed era l’unica cosa che poteva fare per non affogare nella consapevolezza di essere sopravvissuto quando altri, più meritevoli, erano morti.

Nota 1: Il titolo è tratto dal libretto del Peter Grimes di Benjamin Britten.

Nota 2: Per quanto non ne sia un diretto seguito e non sia necessario aver letto le altre storie per poter leggere queste, il racconto è legato a Voci, Ricordi, Scelte, Années de pèlerinage, Whoin?.

Nota 3: Prima della pubblicazione del secondo capitolo, inserirò un elenco di personaggi [troverete il link nell'indice] che verrà aggiornato man mano che prosegue la storia e entrano nuovi personaggi.
Ogni tanto verranno inseriti dei capitoli chiamati "interludi" che bloccano lo scorrere cronologico della vicenda per presentare dei flashback estesi.

Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.


What harbour shelters peace away from storms?



Indice



Dramatis Personae
Capitolo I (pubblicato qui sotto)
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Interludio I
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Interludio II
Capitolo IX

***




Capitolo I



Hogwarts, 30 agosto 2000



I corridoi erano silenziosi, come sempre accadeva prima dell’inizio dell’anno scolastico, ma Minerva quasi non badò a quella tranquillità. Camminava decisa verso la sua meta, cercando di non pensare al fatto che il Ministero e il Consiglio della scuola avevano nominato, poche settimane dopo la fine della guerra, un incompetente come Preside, soprattutto quando la scuola già ne aveva uno. Eppure, sapeva che quella situazione non sarebbe cambiata nei prossimi giorni, né men che meno nei prossimi mesi. Ricordava ancora la conversazione che aveva avuto con Severus poco più di due anni prima, sulla Torre di Astronomia. Era stato un dialogo decisamente teso all’inizio e colmo di verità che la donna faticava ad accettare anche in quel momento.
Trasse un sospiro, quando si fermò davanti ad una porta dall’aria fin troppo modesta, a cui bussò. Non dovette nemmeno attendere troppo, prima che la porta si aprisse, rivelando l’ufficio, piccolo e angusto, che era stato assegnato a Severus in qualità di Capocasa di Serpeverde. Avrebbero dovuto restituirgli i suoi vecchi quartieri, ma il Preside aveva affermato che, secondo il regolamento della scuola, un adulto che non ricopriva nessuna cattedra non aveva diritto ad alloggi simili a quelli di un insegnante.
Forse, quel codicillo era veramente presente in qualche vecchio foglio ingiallito, ma Minerva era certa che Severus fosse il primo Capocasa a non elargire alcun insegnamento nella storia di Hogwarts.
«Ti stavo aspettando», le disse l’uomo, distogliendola dalle sue riflessioni.
La guidò verso la porta che immetteva nelle sue stanze e le sembrò che i libri sugli scaffali fossero aumentati dall’ultima volta in cui gli aveva fatto visita, soltanto due giorni prima. A volte aveva l’impressione che il collega più giovane stesse tentando di costituire una raccolta piuttosto impressionante di libri. Non che la cosa la stupisse, considerando che Severus stava, con ogni probabilità, sostituendo quelli che aveva perso quando la sua abitazione era stata incendiata pochi giorni dopo la fine della guerra.
«Quest’anno hanno tutti risposto affermativamente alla lettera della scuola», annunciò, osservando il volto fin troppo magro di Severus. «Il Preside è particolarmente orgoglioso della cosa, come se fosse merito suo.»
La donna aveva appena dovuto sorbirsi l’ennesimo discorso privo di senso dell’uomo che il Ministero e il Consiglio della scuola avevano scelto due anni prima per guidare Hogwarts. Aveva personalmente protestato con i membri dell’Ordine che avevano raggiunto le cariche politiche più importanti, ma tutti le avevano detto che quella era la scelta migliore e più saggia, per quanto Minerva fosse certa che volessero unicamente apparire rassicuranti davanti all’opinione pubblica, cercando di far letteralmente sparire qualsiasi traccia della guerra.
«E chi ti dice che non sia merito suo?»
«Non lo credi nemmeno tu, Severus», ribatté la donna, mentre si sedeva su una poltrona. Gli alloggi privati del collega più giovane le piacevano per quanto il Capocasa di Serpeverde si fosse lamentato della loro grandezza, sprecata per un uomo solo. Effettivamente erano presenti tre camere da letto – ma una era diventata fin da subito un laboratorio di pozioni – il che faceva presupporre che quelle stanze fossero state pensate per un insegnante che viveva a Hogwarts con la sua famiglia. O, forse, considerando l’esiguità dell’ufficio, era stata riservata a degli ospiti della scuola. «Quel Thwaite non ha nessuna idea di come si diriga una scuola, cosa che non mi stupisce considerando che era uno studente completamente inetto e Tassorosso per di più.»
«Sono certo che Pomona sarebbe felicissima di sentirti parlare in questo modo.»
«Nemmeno lei lo ha in simpatia, se per questo. L’ho sentita chiaramente dire che è una disgrazia per la sua Casa», affermò Minerva, voltandosi verso Severus che aveva posato teiera e tazze sul tavolino. Non aveva ancora capito perché l’uomo si ostinasse a preparare e servire la bevanda alla maniera Babbana, ma si procurava sempre dei tè di qualità, aromatizzati con spezie particolari. «Forse, Severus, è giunto il momento perché tu…»
«Ne abbiamo già parlato, Minerva», la interruppe bruscamente il mago, cercando di non badare al pulsare sordo della ferita al collo. «Sai anche tu, come so io che nessuno accetterebbe di buon grado la tua idea.»
«Non è soltanto una mia idea, ma quella della scuola stessa. Sei perfettamente cosciente che anche quest’anno il Preside non è riuscito a entrare nelle stanze della presidenza. Hogwarts continua a considerarti la sua unica guida.»
Severus non commentò le parole di Minerva, preferendo bere un sorso di tè. Era una discussione ormai ciclica, che la strega riproponeva da quando avevano parlato per la prima volta dopo la fine della guerra.
A quel tempo, era stato molto più brusco con lei.
Ma, allora, non avevano ancora iniziato a ricostruire realmente il loro rapporto. In quel momento, invece, l’amicizia che aveva creduto di aver perso per sempre dopo aver ucciso Albus si era ricomposta o, forse, si era manifestata in maniera totalmente diversa. Minerva, a volte, era stranamente materna con lui.
«Severus, so che non ti piace parlarne, ma, forse, dovresti riconsiderare la questione. Sono certa che alcuni dei ragazzi che hai aiutato gli anni scorsi abbiano parlato di te a casa e se lo hanno fatto… forse, i tempi sono maturi.»
L’uomo scosse il capo alle parole accorate della donna, chiedendosi come avrebbe fatto a cercare gli studenti più bisognosi di aiuto, dopo che, durante l’estate, Mrs Purr era morta. Nei due anni precedenti, infatti, la gatta aveva ripreso a pattugliare i corridoi, in cerca non più di ragazzi che infrangevano il coprifuoco, ma di studenti in difficoltà, di vittime della guerra che stavano soffrendo più di altre.
Era lo scopo che le aveva dato dopo che la gatta aveva deciso di seguirlo ovunque.
Era lo scopo che si era dato: tentare di aiutare veramente i ragazzi, come non gli era mai stato possibile prima. Era qualcosa che doveva a tutti loro ed era l’unica cosa che poteva fare per non affogare nella consapevolezza di essere sopravvissuto quando altri, più meritevoli, erano morti.
Forse, era riuscito ad aiutare quei pochi che, appartenenti o meno alla sua Casa, avevano bussato alla porta delle sue stanze, ma altri non avevano nemmeno voluto parlare con lui.
E non se ne stupiva affatto.
Il tempo trascorso da quel giorno di giugno, in cui Minerva gli aveva detto per la prima volta che la scuola lo considerava ancora il Preside, non aveva modificato la realtà dei fatti.
Quelle rare volte in cui si trovava a dover andare a Diagon Alley o in qualche altro luogo magico della Gran Bretagna, aveva notato lo sguardo sospettoso delle persone e aveva sentito i mormorii. Nessuno gli aveva più sputato addosso, com’era accaduto nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, ma ciclicamente la Gazzetta del Profeta pubblicava un articolo in cui ci si chiedeva per quale motivo un Mangiamorte assolto malamente vagasse ancora tra le mura di Hogwarts e altrettanto ciclicamente un gruppo di Auror faceva irruzione nelle sue stanze per cercare manufatti e pozioni oscure.
«Severus…»
«Sai che ho ragione, Minerva», la interruppe. «Il Ministero non ha avvallato la soppressione della mia Casa, soltanto per motivi puramente storici e, forse, perché spera che il Cappello Parlante smetta di smistarvi alunni, ma l’opinione pubblica non ne è stata particolarmente felice e i primi a spingere per porre fine a Serpeverde sono stati proprio coloro che ne hanno fatto parte, in passato. Non mi stupisco nemmeno di questo. Si tratta soltanto di un modo di preservarsi, di far dimenticare a vicini e amici quella macchia, nonostante queste persone non abbiano avuto nulla a che fare con l’Oscuro Signore, così come ci sono studenti di Serpeverde che non hanno nemmeno un parente che è stato un Mangiamorte o un simpatizzante di quella causa malata. Il Mondo Magico è in cerca di un capro espiatorio, di un modo per avere la coscienza tranquilla, senza più realmente pensare a quello che è accaduto. So, Minerva, che tu credi realmente in quello che dici, che pensi veramente che se io salissi i gradini che portano fino allo studio che ho usurpato un tempo, la scuola sarebbe gestita meglio. Ma anche se così fosse, ritieni veramente che, tra tutti i Serpeverde, il Mondo Magico accetterebbe proprio me come guida di Hogwarts?»
Minerva notò che la voce di Severus non era nemmeno tagliente, ma unicamente sconfitta. D’altronde, gli anni precedenti erano stati particolarmente difficili ed era certa che quello che sarebbe cominciato tra due giorni non sarebbe stato da meno.
Ricordava ancora quanto fosse ristretto il numero di Serpeverde durante l’anno scolastico 1998-1999. Anche le altre Case erano più striminzite del solito, ma quella di Severus era ben più ridotta. Molti dei ragazzi più grandi, che erano sopravvissuti alla Battaglia di Hogwarts, non erano tornati a scuola. Sapeva che alcuni erano andati a studiare all’estero o avevano, col tempo, sostenuto gli esami da privatisti. Soltanto due erano stati i nuovi smistati e l’anno scolastico successivo non era stato di certo migliore: con l’uscita dell’ultimo anno e l’ingresso di quattro nuovi primi anni, il numero di Serpeverde era ulteriormente diminuito.
Sapeva che Severus aveva parlato con ogni nuovo entrato entrambi gli anni e che aveva fatto il possibile per aiutare i più grandi, soprattutto in considerazione del modo in cui gli appartenenti delle altre Case parevano voler emarginare chiunque indossasse le insegne verde-argento.
Ed era anche cosciente che l’uomo aveva usato Mrs Purr per scovare i ragazzi più in difficoltà in modo tale da offrire loro un aiuto in maniera diretta – raramente, considerando che molti diffidavano di lui – o indiretta.
Ma la gatta era morta quell’estate e Minerva si era ripromessa di fare il possibile per essere utile al collega in quella nuova missione solitaria che si era attribuito. Aveva provato a fare la sua parte, gli anni precedenti, ma si sentiva troppo vecchia per quello. O, forse, non conosceva la sofferenza tanto quanto il mago che le stava di fronte, intento a sorseggiare il suo tè.
«Quanti orfani di guerra ci sono quest’anno?»
La voce di Severus la riscosse bruscamente da quei pensieri e Minerva avrebbe voluto dirgli che il Preside scelto da Ministero e Consiglio non le aveva posto quella domanda, ma era cosciente che le parole che l’uomo aveva pronunciato pochi istanti prima erano purtroppo fin troppo veritiere. Aveva dovuto litigare personalmente con la nuova professoressa di Incantesimi, nominata l’anno prima, dopo che Filius aveva deciso di abbandonare l’insegnamento, per difendere il mago. Era come se a nessuno importasse di quanto Severus aveva sofferto per permettere a tutti loro di essere liberi.
«C’è un ragazzino, Soren Hardwick che è orfano di padre. Immagino tu ne abbia sentito parlare.»
Severus annuì soltanto. La Gazzetta del Profeta, nei mesi successivi alla guerra aveva dedicato alcune pagine giornaliere agli eroi comuni e, tra questi, c’era anche Simon Hardwick, un ex Tassorosso, impiegato nell’anagrafe magica che era stato ucciso, poco dopo la caduta del Ministero, perché aveva tentato di distruggere alcuni documenti che indicavano i nomi di una manciata di Nati Babbani.
«Altri?»
«Ne ho contati sei. Di questi quattro vivono negli orfanotrofi, mentre gli altri due sono stati affidati a dei parenti.»
Quell’anno il numero di orfani di guerra era più elevato rispetto ai due precedenti e quello era un pensiero che gli faceva salire la bile in gola. Quanti di quei bambini aveva privato dei genitori? Quanti avrebbe potuto sottrarre a quel destino se i piani di Albus fossero stati diversi?
«Dei bambini in orfanotrofio, non so molto se non i loro nomi. Quello che mi preoccupa di più è Decius Mulciber. Temo che possa ripetersi quel che è accaduto con Antigone Avery l’anno scorso.»
Minerva ricordava perfettamente quella bambina dal volto preoccupato e triste. L’aveva notata subito quando aveva chiamato i nomi per lo Smistamento: una ragazzina bionda con lo sguardo perso. Almeno il Cappello l’aveva piazzata a Tassorosso, ma i primi mesi erano stati difficili. Alcuni ragazzi l’avevano presa di mira, ma, almeno, un gruppo di suoi compagni di Casa era stato ospitale e, nell’ultimo periodo, gli altri, anche quelli più ostili, avevano iniziato ad ignorarla.
«Avrebbero dovuto cambiare loro il cognome», commentò Severus. «Laius Avery si lamentava spesso della figlia. Diceva che non era ancora riuscita a capire come andassero le cose. L’avevo incontrata, in due occasioni, prima dell’anno scorso, ed era terrorizzata dai suoi genitori. Decius Mulciber è stato allontanato da casa dalla nonna materna, dopo la morte della madre e sono certo che la donna non l’abbia cresciuto nell’idolatria dell’Oscuro Signore. È stata assassinata dal genero pochi giorni prima della fine della guerra.»
«Il Ministero avrebbe dovuto lavorare per dare in adozione quei bambini», commentò Minerva. «Invece, hanno preferito riempire gli orfanotrofi. Nessuno dei ragazzini entrati a scuola a partire da due anni fa ha trovato una famiglia adottiva.»
«Non credo che interessi», affermò Severus, versandosi nuovamente del tè. «Sulla Gazzetta del Profeta non si parla più della guerra e non si sta facendo nulla per ricordare quello che è accaduto», non disse che le poche volte che si parlava dei fatti di pochi anni prima era per esprimere lo scandalo circa la sua mancata condanna. «Credevo che si decidessero a porre una stele qui a scuola per onorare i ragazzi caduti vittime della battaglia, ma nessuno ne ha mai fatto cenno. Tutto è stato ricostruito senza lasciare un solo segno. Non so cosa sperino di ottenere, ma rischiano di creare linfa vitale per il primo mago con manie di grandezze che nascerà in Inghilterra e non occupandosi di quei bambini orfani, come dovrebbero fare, stanno soltanto aumentando il rischio che ciò avvenga. Antigone ha rifiutato di parlare con me e so che Pomona ha avuto difficoltà a farlo, ma mi ha detto che la ragazzina sembra essere colma di rabbia repressa.»
Non disse che rivedeva in quei bambini dallo sguardo terrorizzato e perso sé stesso. Anche lui, da piccolo, era stato colmo di paura e, poi, di rabbia e, guidato da quei sentimenti e da una malriposta sete di rivalsa, era caduto fin troppo facilmente nel baratro offerto dal Marchio Nero. Aveva cercato un gruppo a cui appartenere e, sapendo perfettamente a cosa sarebbe andato incontro, aveva segnato la sua condanna. Era stato cosciente che avrebbe dovuto torturare e uccidere se avesse accettato di servire l’Oscuro Signore, ma lo aveva fatto con gioia perché aveva creduto di trovare lì le risposte alla paura e alla rabbia che ancora, a diciott’anni, lo attraversavano.
«Severus…»
«Gli orfanotrofi hanno inviato delle note su questi bambini?»
Minerva osservò il volto pallido e scarno del mago. Sapeva che l’aveva interrotta prima che potesse tentare di scusarsi per la sua cecità. Durante quei due anni aveva riflettuto a lungo sulle ragioni che avevano portato un ragazzo brillante come Severus a diventare Mangiamorte e si era chiesta se parte della responsabilità non fosse da imputare al modo in cui la scuola aveva chiuso più di un occhio di fronte alle azioni di James e Sirius. Aveva cercato di parlarne con il collega, ma il mago era stato categorico nel dirle che non aveva bisogno che lei cercasse delle scusanti per le sue azioni. Eppure, a Minerva sembrava di aver fallito come insegnante con Severus e di non aver fatto abbastanza per altri ragazzi, anche della sua Casa, che era stati attratti da Tu-Sai-Chi.
«Poche righe, tutte inerenti al loro andamento scolastico, ma nessuna che ci possa dire qualcosa sui traumi che hanno vissuto.»
Severus bevve un sorso di tè, ormai tiepido, chiedendosi se il Mondo Magico sarebbe mai stato realmente abbastanza maturo da occuparsi della salute psicologica dei suoi membri. Gli orfani dell’anno precedente avevano tutti gli occhi vuoti e terrorizzati, ma nessuno – nemmeno lui, per quanto avesse provato ad aiutare l’unico di loro smistato a Serpeverde – aveva fatto realmente qualcosa di utile per loro.
Erano degli innocenti che avevano subito più di tutti quella maledetta guerra, ma il Ministero e l’intero Mondo Magico sembrava averli dimenticati relegandoli nei due orfanotrofi che si trovavano nel Regno Unito, nascondendoli, quasi.
Severus non era nemmeno certo di essere la persona migliore per aiutare quei bambini, ma non sarebbe mai riuscito ad andare avanti, in quella vita che si era ritrovato inaspettatamente a vivere, se avesse deciso di abbandonarli al loro destino.





Espresso per Hogwarts, 1° settembre 2000


Soren Hardwick salutò un’ultima volta la mamma, prima di iniziare a cercare uno scompartimento vuoto o occupato da altri ragazzi che sembrassero del primo anno. Non dovette nemmeno cercare a lungo. In uno c’era soltanto una ragazzina che stava rannicchiata contro il finestrino, quasi volesse scomparire.
Forse era intimidita.
Forse era una Nata Babbana e non sapeva come adattarsi a quel nuovo mondo.
«Posso sedermi?»
La ragazza annuì soltanto, prima di raggomitolarsi, se possibile, ancora di più. Soren si sistemò di fronte a lei, poi guardò fuori dal finestrino e salutò con un gesto della mano la mamma. Sapeva che sarebbe tornata presto ad Aldeburgh e ne conosceva le motivazioni per quanto la donna non gliele avesse mai dette esplicitamente.
Si voltò verso la ragazzina, ma non lo stava guardando.
E non stava nemmeno osservando il viavai fuori sulla banchina. Si chiese se non dovesse chiederle qualcosa, ma la mamma l’aveva avvisato di non essere troppo insistente. Non poteva sapere quanto la guerra avesse toccato la vita dei suoi futuri compagni di scuola.
Forse era un’orfana, si disse, reprimendo a stento un brivido.
Non riusciva ad immaginare una vita senza la mamma, ma sapeva che esistevano suoi coetanei non altrettanto fortunati.
«Sei anche tu al primo anno?» domandò, dopo aver lasciato trascorrere qualche altro minuto di silenzio.
La bambina annuì rigidamente.
Soren incontrò per un istante gli occhi marroni della compagna di scompartimento e notò che erano spaventati, proprio come dovevano essere stati i suoi, un tempo.
«Forse saremo nella stessa Casa», decise di dirle, abbozzando un sorriso, ma la ragazzina sembrò ancora più spaventata. «Mi chiamo Soren.»
«Medea», mormorò l’altra con un filo di voce.
Forse non avrebbe dovuto parlare, si disse, ma il ragazzo era stato solamente cortese e non poteva rifiutare di rispondergli, per quanto avrebbe preferito che tacesse. Erano stati chiari, quando l’avevano accompagnata all’Espresso quella mattina e lei era certa che avessero ragione. Tornò a guardare fuori dal finestrino, chiedendosi se sarebbe riuscita a non far capire agli altri studenti quanto marcio fosse il suo sangue.
Non appena udì la porta dello scompartimento aprirsi, si rannicchiò maggiormente quasi sperasse di non essere vista. Non alzò nemmeno il capo quando una voce femminile chiese se poteva sedersi, né prestò attenzione alle parole degli altri due ragazzi, preferendo guardare fuori dal finestrino, dove il sole illuminava i genitori degli altri.
Lei non aveva più un madre o un padre.
Non aveva più nessuno, se non gli inservienti dell’orfanotrofio e loro avevano unicamente ribadito qualcosa che sapeva già perfettamente da sola.
Rabbrividì, mentre il treno iniziava a mettersi in moto.
«In che casa pensi di essere smistato?»
«Non lo so», disse Soren, rispondendo alla domanda di Isabel, la ragazza dalla carnagione scura che era entrata nello scompartimento poco prima che il treno partisse. Sembrava l’esatto opposto di Medea, sorridente, con i capelli neri raccolti ordinatamente in due folte trecce e gli occhi marroni grandi e luminosi. «Mamma era una Tassorosso, ma mi ha detto di non preoccuparmi, se dovessi finire in un’altra Casa.»
Il ragazzo non aggiunse che sperava di finire in Serpeverde, per quanto credesse di non possedere nessuna delle caratteristiche proprie di quella casa. Aveva letto sulla Gazzetta del Profeta che molti abitanti del Mondo Magico volevano vedere scomparire quella Casa e non aveva idea di come la pensassero in proposito Isabel e Medea.
«Ma non hai nemmeno una preferenza?»
«Ho provato a fare ipotesi, ma non so a quale possa essere più adatto.»
«Nemmeno io, per quanto papà sarebbe felice se capitassi in Tassorosso come lui», affermò Isabel, con un sorriso. «Mamma era una Corvonero e mi ha detto di non dare a retta a papà.»
«E tu, Medea?»
Soren osservò la ragazza sobbalzare, come se quella domanda la terrorizzasse.
«Non lo so», mormorò solamente.
«In che casa erano i tuoi genitori?»
Medea non rispose a quella domanda, preferendo rannicchiarsi ancora di più. Soren si voltò verso Isabel, ma l’altra ragazza pareva incerta, esattamente come era lui. Non riusciva a comprendere cosa spaventasse tanto Medea. Era come se fosse terrorizzata da loro, ma il ragazzo era certo di non avere un aspetto spaventoso e Isabel sembrava una persona tranquilla e sorridente.
Era certo di poter diventare amico di quest’ultima, probabilmente anche se sarebbero stati in due Case diverse, ma voleva provare ad aiutare Medea che sembrava volersi fare ancora più piccola, ogni volta che si sentivano dei passi nel corridoio del treno.
«Non vedo l’ora di iniziare a studiare Trasfigurazione. Mamma me ne ha parlato come di una materia affascinante», affermò Isabel, rompendo il silenzio. «Anche Incantesimi deve essere interessante.»
«Io aspetto con curiosità Pozioni. E Incantesimi, ma credo che anche Erbologia possa essere bella. E tu, Medea?»
Quella era una domanda neutra, si disse Soren, non come quella relativa alla Casa o ai genitori. Forse era veramente un’orfana, come aveva ipotizzato prima dell’arrivo di Isabel, e parlare di suo padre e sua madre la faceva star male.
«Astronomia», mormorò la ragazzina con un filo di voce, senza guardarli.
Però, almeno aveva risposto e a Soren quello bastava.
Forse, era solo timida e non era mai stata abituata a stare insieme ad altri bambini, proprio com’era stato lui un tempo.





Hogwarts, 1° settembre 2000


Medea Koesel non riusciva a prendere sonno nel nuovo dormitorio, ma, in fondo, non era mai riuscita a dormire bene nemmeno nell’orfanotrofio nei pressi di York, anche se lì aveva una camera solo per lei.
Le sue nuove compagne di Casa dovevano essersi addormentate da un pezzo, ma erano sorridenti, esattamente come Soren, il ragazzino che aveva incontrato in treno e che era diventato un Corvonero, proprio come lei.
Erano buoni e lei non lo era.
Aveva capito, durante la cena, che Soren voleva diventare suo amico, che era forse preoccupato per lei, ma lei non poteva avere amici.
Non voleva avere amici.
Si rigirò nel letto.
Non poté impedirsi di rabbrividire.
Aveva paura di quello che sarebbe accaduto il giorno dopo.
Era terrorizzata all’idea di poter fare del male agli altri ragazzi e, anche se non avesse nutrito quel terrore, sarebbe stata, comunque, impaurita da quello che avrebbero fatto o detto all’orfanotrofio. Aveva visto Rachel osservarla con attenzione ed era certa che avrebbe riferito ogni sua mossa alla Direttrice.



Edited by Alaide - 13/5/2023, 15:07
 
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view post Posted on 12/3/2023, 10:02
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Dramatis personae

A Hogwarts



Studenti

Soren Hardwick, Corvonero del I anno, orfano di padre
Medea Koesel, Corvonero del I anno, orfana
John Hackett e Jeremy Adair, Corvonero del I anno

Edward Fairchild, Serpeverde del I anno, orfano
Iphigenia Whitegood, Serpeverde del I anno
Rosalinde Collins, Serpeverde del I anno
Timothy e Calliope, Serpeverde del I anno

Isabel Millward, Tassorosso del I anno
Antigone Avery, Tassorosso del II anno

Rachel Honeychurch, Grifondoro del I anno
Decius Mulciber, Grifondoro del I anno

Corpo docenti

Arminius Thwaite, Preside nominato dal Ministero e dal Consiglio della scuola da giugno 1998
Severus Piton, Capocasa di Serpeverde
Minerva McGranitt, Capocasa di Grifondoro e insegnante di Trasfigurazioni
Pomona Sprite, Capocasa di Tassorosso e insegnante di Erbologia
Bernard Cropper, Capocasa di Corvonero e insegnante di Difesa contro le Arti Oscure
Artemisia Wilkins, insegnante di Pozioni

Edited by Alaide - 4/4/2023, 14:40
 
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view post Posted on 12/3/2023, 10:43
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Come promesso, troverete l'elenco dei personaggi QUI. Verrà aggiornato, ogni volta che introdurrò nuovi personaggi

Capitolo II




Hogwarts, 4-8 settembre 2000




La Sala Comune di Serpeverde era silenziosa, lunedì mattina, quando Severus fece il suo ingresso. Avrebbe voluto parlare con i ragazzi del primo anno durante il fine settimana, ma la ferita al collo aveva pulsato in maniera più dolorosa del solito e la pozione che aveva ideato per bloccare il tremore alle mani, frutto del morso di Nagini, lo aveva lasciato spossato, come accadeva ogni volta che trangugiava l’intruglio. In tali condizioni non era stato in grado di fare il suo dovere, come lo era, invece, quella mattina, in cui riusciva a celare accuratamente la stanchezza.
D’altronde, non si permise di riflettere su null’altro se non il compito che lo attendeva. La sua priorità erano i suoi Serpeverde, si disse, mentre si avvicinava ai ragazzi del primo anno che sembravano quasi persi in una stanza immaginata per un numero decisamente maggiore di studenti. Sapeva che i Prefetti – i pochi che gli erano rimasti – li avevano avvisati che avrebbe parlato con loro quella mattina. I cinque ragazzini si trovavano uno accanto all’altro, come se avessero paura di rimanere soli troppo a lungo. Severus ne osservò i volti e notò che tre di loro avevano un’espressione quasi serena, mentre una ragazzina teneva il capo chino e un altro aveva gli occhi azzurri colmi di paura e di rabbia.
«Non vi tratterrò a lungo», disse, dopo essersi seduto davanti a loro. La notte scorsa aveva dormito poco e male – come gli accadeva fin troppo spesso – e sentiva la ferita al collo pulsare, ma, nonostante tutto, avrebbe compiuto il suo dovere nei confronti di quei bambini, senza rimandare oltre. «So che potreste essere rimasti delusi a non avermi visto tra i vostri insegnanti in Sala Grande, venerdì, ma, considerando che sono qui unicamente come Capocasa, è stato ritenuto opportuno che così fosse.»
Era una decisione del Preside e Severus non aveva opposto nessuna obiezione perché era fin troppo cosciente della tensione che avrebbe generato la sua presenza alla tavola alta, accanto a Minerva o a Pomona. Era perfettamente cosciente che non era altro che un reietto del Mondo Magico, un rimasuglio di una guerra che tutti si ostinavano a voler dimenticare.
«Professore», la voce era timida, ma la ragazza, una delle tre di quell’anno, sembrava fiduciosa. «Possiamo venirle a parlare in ogni momento?»
Edward Fairchild avrebbe voluto che Iphigenia non avesse posto quella domanda, che potessero uscire quanto prima dalla Sala Comune.
Era certo che Piton avesse riconosciuto la sua paura e la sua rabbia, ma non aveva alcuna idea di come celarle.
Nessuno sarebbe stato felice di ciò che era accaduto la sera precedente e lui era decisamente preoccupato per la cosa. Non aveva nemmeno idea di come iniziare a scrivere che era stato smistato proprio in Serpeverde.
Sentì gli occhi del suo Capocasa su di sé, ma non disse nulla, al contrario di Iphigenia e Timothy. Anche Calliope fece una domanda. Soltanto Rosalinde e lui stesso continuavano a rimanere in silenzio. D’altronde, era certo che non sarebbe riuscito a pronunciare nemmeno una parola davanti all’uomo, che pareva così incredibilmente tranquillo. Aveva letto di Severus Piton sulla Gazzetta del Profeta e gliene avevano parlato più di una volta.
Il mago non avrebbe dovuto trovarsi lì.
Il suo posto era ad Azkaban, ma non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, non in sala comune di Serpeverde. Non aveva nessuna idea di ciò che passava per la mente degli altri quattro ragazzi, né men che meno di quelli più grandi.
Quando furono congedati, uscì rapidamente dall’ampia stanza, ma, quando si trovò in Sala Grande, quasi non riuscì a gustare la colazione. Guardò con nostalgia le tavole di Corvonero e Grifondoro, le Case dei suoi genitori, di cui non avrebbe mai potuto fare parte.
Gli avevano detto che il Ministero era stato tentato di rendere fuorilegge la Casa di Serpeverde, ma non ne aveva fatto nulla, preferendo affidarsi al Cappello Parlante che, però, si disse Edward, era palesemente difettoso.
Quando dovette andare alla prima lezione del giorno, si mantenne distante dagli altri quattro ragazzi, con il chiaro intento di sedersi da solo nell’aula di Difesa Contro le Arti Oscure e si sentì sollevato quando un Corvonero gli chiese se potesse sistemarsi accanto a lui.
Il professor Cropper sembrava una persona gentile e si domandò se non avrebbe potuto provare a parlare con lui, a chiedergli se ci fosse un precedente nella storia della scuola in cui uno studente era stato tolto dalla Casa in cui era stato smistato per essere assegnato ad un’altra. Non gli importava nemmeno quando fosse accaduto, ma doveva esistere anche un solo caso.
Se fosse riuscito a trovare una soluzione, nessuno sarebbe rimasto deluso da lui.
«Che lezione hai adesso?»
La voce del Corvonero lo colse quasi di sorpresa, mentre stava sistemando la borsa. L’altro ragazzino sembrava sereno, ma, d’altronde lui non era stato smistato in quel luogo orrendo.
«Ho un’ora di buco fino a pranzo e poi Erbologia con i Tassorosso», rispose, prima di presentarsi. Forse era inutile e l’altro conosceva già il suo nome, ma Edward non era stato per nulla attento dopo che il Cappello Parlante lo aveva smistato a Serpeverde. Il compagno d’anno non parve farci caso e, quando ne sentì il nome, si disse che forse era stato fortunato. «Com’è Corvonero, Soren?»
«Non lo so ancora», rispose l’altro, osservando per qualche istante Edward Fairchild, non appena si trovarono fuori dall’aula. «La sala comune è bellissima, ma lo deve essere anche la tua.»
Soren era piuttosto orgoglioso della sua risposta. Mamma gli aveva detto di essere il più diplomatico possibile e credeva di esserlo stato.
«Non lo è», sbottò l’altro. «Non c’è nulla di bello in Serpeverde.»
«Però, se il Cappello ha deciso di metterti…»
«Speravo… tuo padre è morto ucciso dai Mangiamorte, proprio come i miei genitori, e faccio loro un torto a stare nella Casa dei loro assassini.»
Edward si chiese se non avesse parlato troppo, ma sentiva la necessità di confidarsi con qualcuno e nessuno dei suoi quattro compagni di Casa gli sembrava adatto; invece, credeva che Soren Hardwick potesse essere un buon candidato.
«Non è detto che chi ha ucciso i tuoi genitori sia stato un Serpeverde.»
«Invece, deve esserlo», Edward cercò di capire da dove venisse quell’idea al Corvonero. Tutti sapevano quanto marcia fosse la Casa in cui era stato smistato.
«Forse, ma non tutti i Serpeverde sono malvagi», insisté Soren. «Di certo non lo è il tuo Capocasa.»
«Come fai a dirlo? È un Mangiamorte…»
«Mamma ha detto che hanno fatto bene ad assolverlo», spiegò Soren, chiedendosi se stesse facendo bene.
«Era una Serpeverde?»
«No, mamma era in Tassorosso, ma mi ha sempre detto che il professor Piton era il suo insegnante preferito», Soren si accorse che, nel corridoio davanti all’aula di Difesa contro le Arti Oscure, erano rimasti soltanto loro. Aveva sperato di poter parlare nuovamente con Medea, per capire perché la compagna di Casa avesse deciso di seguire la lezione da sola, quasi nascosta in un angolo.
«Sai, quando sono finito sotto il Cappello, ho quasi sperato di finire in Serpeverde per poter avere come Capocasa il professor Piton.»
«Ma non ha senso», sbottò Edward. Forse aveva sbagliato tutti i suoi calcoli, quando aveva deciso di parlare delle sue sensazioni con l’altro ragazzo. Era stato certo che Soren Hardwick, il figlio orfano di un eroe di guerra, sarebbe stato della sua stessa opinione. «Piton è un Mangiamorte che è stato assolto soltanto perché i giudici del Wizengamot sono stati ciechi e frettolosi. Non tutti, certo, dato che una parte di loro, per quanto non sufficiente, era a favore di una condanna.»
Sapeva di star ripetendo quanto gli era stato detto più volte, ma, in fin dei conti, dovevano aver ragione.
Così come era ovvio che avessero ragione riguardo a quello che era accaduto il giorno in cui i suoi genitori erano morti, non importava ciò che credeva di aver sentito.
«Chi ti ha detto queste cose?»
«Le ho capite da solo», affermò Edward, ma era certo di aver mentito malissimo, considerando il volto perplesso di Soren. «Ho letto… gli articoli sulla Gazzetta del Profeta, anche quello su tuo padre… è stato un eroe.»
«Forse», la voce di Soren si era fatta improvvisamente tesa, come non era stata prima e a Edward parve, per un istante, che il ragazzo non considerasse suo padre un eroe. «Ma credo che il professor Piton sia stato ben più eroico in questa guerra. So che credi il contrario, ma forse, dovresti provare a rivolgerti a lui… è il tuo Capocasa. Immagino che abbia già parlato con voi.»
«L’ha fatto stamattina.»
«E che impressione ti ha fatto?»
Edward si rese conto di non saper come rispondere alla domanda di Soren, considerando che non aveva quasi ascoltato le parole di Piton. Era stato troppo terrorizzato al pensiero di doverli informare della Casa in cui era stato smistato per farlo. Era stato troppo arrabbiato con il Cappello Parlante.
Ma non poteva dire nessuna di quelle cose a Soren che sembrava avere un’idea così strana dell’uomo.
«Nessuna.»
«Almeno vi ha parlato. Il professor Cropper non l’ha ancora fatto.»



Iphigenia Whitegood era stata la prima dei più piccoli tra i Serpeverde ad andare a parlare con lui, quella mattina. Era una ragazzina tranquilla, figlia di un mago e di una Babbana, che non si era trovata in Gran Bretagna durante il fin troppo lungo dominio dell’Oscuro Signore. Sapeva cos’era accaduto durante la guerra, ma non ne era rimasta ferita e questo la rendeva un’eccezione all’interno della sua Casa e forse dell’intera scuola.
Degli altri quattro non si era ancora visto nessuno, e di tutti loro era certo che Edward Fairchild non si sarebbe mai presentato. Aveva notato la sua paura e la sua rabbia lunedì mattina ed era sicuro che non avesse ascoltato una sola parola di ciò che aveva detto. Iphigenia gli aveva confidato che sembrava evitarli e Severus poteva comprenderne perfettamente bene le motivazioni.
La guerra aveva lasciato fin troppi orfani.
E non poteva fare a meno di sentirsi responsabile per loro.
Per quanto sapesse di non aver partecipato attivamente, nella maggior parte dei casi, alla loro tragedia, non era in grado di lasciar andare il senso di colpa che provava nei loro confronti.
Quei bambini erano unicamente degli innocenti, vittime della violenza degli adulti che avrebbero dovuto proteggerli.
Decius Mulciber, Medea Koesel, Edward Fairchild, Rachel Honeychurch, Dorothy O’Connor, Rosemary Terfel.
Aveva imparato i nomi degli orfani entrati a Hogwarts quell’anno. Di alcuni di loro conosceva perfettamente la storia. Sapeva, naturalmente, il destino dei genitori del piccolo Decius e quello dei Fairchild e degli Honeychurch. Non aveva idea di cosa fosse accaduto alla famiglia Koesel o agli O’Connor, mentre aveva sentito parlare della morte dei coniugi Terfel, al San Mungo, poco dopo la fine della guerra.
«Severus», la voce di Minerva lo colse di sorpresa. «Ho bussato, ma non hai risposto.»
Il volto della strega era preoccupato, come accadeva, a volte, quando si rivolgeva a lui. Si chiese se, nella solitudine delle sue stanze, avesse lasciato che il senso di colpa apparisse sul suo volto. Con Iphigenia Whitegood aveva mostrato un’espressione calma, una maschera ben diversa da quella che aveva indossato quando era stato l’odiato professore di Pozioni, ma pur sempre una maschera. Non avrebbe giovato a nessuno se avesse mostrato quali sentimenti provocavano in lui quei bambini feriti da una guerra che avrebbe dovuto essere combattuta unicamente dagli adulti, ma che li aveva coinvolti fin troppo direttamente. La piccola Serpeverde ne era rimasta lontana, ma gli aveva confessato, timidamente, che credeva che le sue due compagne di dormitorio dovessero aver sofferto durante quel periodo perché si erano svegliate due volte in preda a degli incubi.
«Immagino che tu sia venuta a condividere le tue impressioni prima di andare a parlare con gli altri Capocasa e gli insegnanti.»
«Sono preoccupata per il piccolo Mulciber», gli disse, poco dopo. «Ho parlato espressamente con i miei Prefetti per sottolineare come sia indispensabile farlo sentire accettato in Grifondoro e di spiegarlo con attenzione anche agli altri. L’ho avuto stamattina a lezione e mi è apparso molto timido. Sai, per un istante mi ha ricordato la signorina Seabrook, non so se te la ricordi», Severus annuì. Era sta una Tassorosso del terzo anno quando era morta Lily. «Gli tremava la mano prima di fare il suo primo incantesimo. Almeno sembra trovarsi bene con la signorina Honeychurch, un’altra dei nostri orfani.»
«Cosa mi dici di Fairchild?»
«Mi è sembrato un ragazzino tranquillo, per quanto un po’ timido. Considerando che i tuoi Serpeverde sono dispari, si è seduto accanto ad una Tassorosso durante le mie ore.»
«La prossima volta osservalo con più attenzione. Lunedì era pieno di paura e rabbia.»
Minerva annuì, chiedendosi se ci fosse qualcosa di più che lei potesse fare in qualità di Vicepreside, ma, senza l’appoggio dell’attuale Preside, non aveva molte possibilità di agire in maniera efficace. Gli aveva accennato del problema dei molti orfani di quell’anno scolastico, ma l’imbecille aveva affermato di essere certo che negli orfanotrofi magici avessero fatto un ottimo lavoro.
«Qualcuno è già venuto a parlare con te?»
La donna quasi sorrise quando Severus le parlò della piccola Iphigenia Whitegood. Era stata l’ultima ad essere smistata, una ragazzina dall’aria tranquilla con i capelli neri raccolti in una spessa treccia.
Non dissero molto altro, prima di uscire insieme dalle stanze dell’uomo. Era una delle rare occasioni in cui il mago partecipava ad una riunione di insegnanti. Mentre camminavano, Minerva si voltò diverse volte verso Severus, chiedendosi se non dovesse parlare con Poppy. Le pareva più sofferente del solito, nonostante avesse trovato un modo per fermare il tremore alle mani conseguenza della ferita di quell’orrendo serpente. Sapeva che Madama Chips non era stata per nulla contenta del modo in cui Severus aveva portato avanti la sua sperimentazione e che i due avevano litigato furiosamente l’estate del 1999, quando il mago aveva trovato un intruglio dall’aspetto rivoltante che assumeva, ormai, ogni tre mesi e che lo lasciava spossato, per quanto fosse certa che Severus non lo avrebbe mai realmente ammesso con nessuno.
«Dovresti prenderti maggiore cura di te», gli disse, quando furono lontani da un gruppo di ragazzi del terzo anno.
«Sono perfettamente in grado di…»
«Sai che è inutile usare questo tono con me, Severus», lo interruppe. «So che hai ripreso a distillare le pozioni per l’Infermeria e che stai portando avanti le tue ricerche. Sono anche cosciente che sei preoccupato per i ragazzi, ma sembra che tu non abbia dormito da anni.»
«Dormo quel che serve, Minerva.»
La voce di Severus era stanca, notò la donna, chiedendosi se ci fosse anche solo la possibilità di aiutarlo o di convincerlo a delegare alcuni dei suoi doveri, ma era certa che su quel punto sarebbe stato completamente sordo.
«E la ferita…»
«Ci ho fatto l’abitudine», la interruppe più bruscamente di quanto non avrebbe voluto. Sapeva che la strega era preoccupata per lui, ma l’uomo si sentiva unicamente a disagio di fronte a quelle attenzioni materne. D’altronde non aveva nemmeno idea se le poteva definire tali, considerando che non aveva mai conosciuto l’amore di una madre. «Ho anche trovato un interessante manoscritto della scuola pozionistica di Granada che potrebbe essermi d’aiuto.»
Mentre camminavano la luce del sole al tramonto penetrò dalle finestre del corridoio illuminandolo per un istante di rosso.
Soren, dalle finestre della Sala Comune di Corvonero osservava quegli stessi colori, mentre si chiedeva se non dovesse fare un nuovo tentativo con Medea. La mamma gli aveva suggerito di non essere troppo insistente, nella risposta alla lettera che le aveva inviato il secondo giorno di scuola. Aveva notato che gli altri compagni di Casa avevano iniziato ad ignorarla, come se non potessero fare nulla per lei, ma, forse, loro non avevano mai sperimentato la solitudine e lui non voleva che Medea fosse così sola e spaventata.
Si allontanò dalla finestra e si avvicinò alla poltrona su cui la ragazzina era rannicchiata, con in mano uno dei loro libri di scuola.
«Posso sedermi?»
Medea fece forza su sé stessa per non alzare il capo verso Soren. Non aveva nemmeno bisogno di guardare chi fosse, perché era l’unico che ancora tentava di parlare con lei. Avrebbe voluto rispondere, ma non disse una parola. Rachel non era lì, ma sentiva su di sé lo sguardo di Christian ed era certa che avrebbe riferito ogni sua mossa.
«Cosa stai studiando?»
Soren era persistente e Medea non sapeva cosa fare. All’orfanotrofio era abituata ad essere evitata da tutti, esattamente come gli altri bambini come lei e si era aspettata che lo stesso avvenisse a Hogwarts. Aveva fatto di tutto perché i suoi compagni di Casa la ignorassero. Chiuse con cura il libro di Pozioni e alzò il capo verso il ragazzo.
«Non voglio studiare con te.»
Erano le parole migliori che potesse dire.
Le uniche che volesse dire.
Ma sapeva da sola che non era vero. Avrebbe voluto fare i compiti insieme a Soren, potersi sedere con lui e Isabel in biblioteca, ma non poteva.
Era cattiva.
E non voleva fare del male a Soren.
«Perché, Medea?»
Il ragazzo non riusciva a staccare lo sguardo dagli occhi spaventati della compagna di Casa. Aveva notato che aveva guardato in direzione di un gruppo di studenti del terzo anno, ma non riusciva a capirne il motivo, considerando che Medea era sempre da sola, com’era stato lui quando aveva iniziato a frequentare la scuola elementare.
«Io…», la voce della ragazzina si spezzò e Soren sperò che fosse sul punto di dargli una spiegazione sensata. «Mi piace studiare da sola.»
«Ma domani…»
Soren non riuscì a finire la frase. Medea si era alzata in piedi velocemente e, prima che potesse dire o fare altro, era quasi fuggita nel dormitorio delle ragazze.
Rimase a lungo immobile, chiedendosi cosa potesse fare. La paura della compagna di Casa, la sua solitudine lo preoccupavano. Avrebbe inviato nuovamente una lettera a mamma, ma non credeva che bastasse. Forse avrebbe dovuto rivolgersi ai Prefetti o alla Caposcuola, ma non era certo che fosse una buona idea.
Scosse appena il capo e si avvicinò ad alcuni dei suoi compagni di dormitorio che stavano giocando agli scacchi magici, limitandosi però ad essere uno spettatore, anche quando gli fu chiesto di unirsi a loro in un torneo improvvisato.
Quando fu sotto le coperte, si chiese se non dovesse rivolgersi al professor Piton, per chiedergli un consiglio. Aveva sentito un ragazzo dell’ultimo anno dire che l’uomo gli aveva offerto più di un valido aiuto in precedenza. Eppure, temeva di offendere il suo Capocasa se fosse andato a parlare con quello di Serpeverde.



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Capitolo III




Hogwarts, 9-12 settembre 2000




Soren non riusciva a decidersi a bussare alla porta, illuminata da un raggio di sole. Sapeva che non aveva nulla da temere dal professor Cropper. Eppure, non era in grado di ignorare l’idea di star tradendo Medea ad andare a parlare con l’uomo. Oppure, il problema non era nemmeno quello. Erano anni che non si trovava da solo con…
Scosse il capo, come per scacciare qualsiasi idea dalla mente.
Si fece coraggio e bussò.
Quando il professor Cropper lo invitò ad entrare, accostò soltanto la porta senza chiuderla. Si attese quasi che l’uomo lo sgridasse, ma non sembrò nemmeno accorgersene. O, almeno, così credette il ragazzo.
«Cosa posso fare per te, signor Hardwick?»
«Sono preoccupato per una mia compagna di Casa, professore.»
Soren osservò con attenzione l’uomo che sedeva, placido, dietro alla scrivania che al bambino parve fin troppo ordinata. Nemmeno un foglio era leggermente storto. Trattenne un brivido. Quella precisione non gli piaceva.
Era fredda.
E cattiva.
«Per chi sei preoccupato?»
Il ragazzo si prese un attimo prima di rispondere. Distolse lo sguardo dalla scrivania, posandolo sul volto dell’insegnante, che gli parve troppo affabile.
«Si tratta di Medea, professore», affermò, sperando di aver mantenuto la voce calma. In fondo, non era colpa del professor Cropper se amava tenere il suo scrittoio in perfetto ordine e se aveva un volto cordiale. «Ci evita ed è sempre sola.»
«Immagino si tratti di una scelta della signorina Koesel, signor Hardwick.»
«Non ne sono sicuro. È sempre spaventata.»
«Credo che tu stia esagerando. Ho avuto modo di parlare con la signorina Koesel e di osservarla in classe ed è unicamente introversa.»
«Però, professore, ho fatto il viaggio con lei e già allora era spaventata», provò ad insistere. «Mi è sembrato che avesse paura di me.»
«Ritengo che tu abbia letto male l’espressione facciale della signorina Koesel», spiegò il professor Cropper con un tono che a Soren parve fin troppo tranquillo. «Probabilmente non riesce ancora ad ambientarsi. In fondo, è passata una sola settimana.»
«La ringrazio, professore.»
Soren non sapeva cos’altro dire e, quando l’uomo lo congedò, si affrettò ad uscire. Una volta richiusa la porta alle sue spalle, si chiese cosa dovesse fare. Forse, sarebbe potuto andare a parlare immediatamente con il professor Piton. Mamma gli aveva sempre parlato bene di lui e gli aveva, proprio quell’anno, spiegato per quale motivo lo stimasse così tanto. Eppure, non aveva idea se quello fosse il momento più appropriato. Inoltre, aveva promesso a Isabel di studiare con lei, quel sabato mattina. Con ogni probabilità era anche già in ritardo e la compagna d’anno doveva aspettarlo da tempo.
Affrettò il passo, raggiungendo rapidamente la biblioteca. Isabel era effettivamente già arrivata e accanto a lei, ad uno dei tavoli di studio, si era seduto Edward, il Serpeverde con cui divideva il banco a Difesa contro le Arti Oscure e a Storia della Magia.
«Credevo che non arrivassi più», mormorò la ragazza, quando si fu seduto.
«Sono andato a parlare con il professor Cropper», rispose, mentre posava sul tavolo il libro di Incantesimi e alcuni fogli di pergamena. «Mi spiace di aver fatto tardi.»
Isabel annuì alle parole di Soren, prima di riprendere a lavorare sul compito. La biblioteca, priva com’era di un bibliotecario da quando era finita la guerra, era sorvegliata, quel giorno, dalla professoressa Sprite che aveva sorriso nella sua direzione, quando aveva acconsentito alla richiesta di Edward di sedersi con lei. Forse, la sua Capocasa era contenta del fatto che stava studiando con uno studente proveniente da una Casa diversa.
D’altronde aveva il ragazzo come compagno di lavoro a Erbologia e a Trasfigurazione ed era felice di star facendosi degli amici al di fuori di Tassorosso, anche se non era certa che papà sarebbe stato contento dell’amicizia con Edward, considerando che lavorava per la giustizia magica e, a casa, non aveva avuto parole molto gentili per Serpeverde, al punto che i suoi fratelli minori erano stati terrorizzati alla prospettiva di vederla finire in quella Casa, perché papà, allora non le avrebbe più voluto bene. Isabel li aveva rincuorati dicendo loro che non sarebbe mai accaduta una cosa del genere e anche mamma aveva usato parole simili alle sue.
La mattinata trascorse tranquilla, mentre lavoravano al compito di Incantesimi, scambiando, di tanto in tanto, qualche informazione, ma Isabel notò che Soren appariva distratto e Edward si era fatto improvvisamente teso, quando gli altri membri della sua Casa del primo anno si erano seduti a un tavolo non troppo distante dal loro.
«Avete finito anche voi?» Isabel attese che i due ragazzi annuissero. «Potremmo andare fino a lago, prima di pranzo.»
Edward si sentì sollevato quando la ragazza pronunciò quelle parole. Aveva notato che Iphigenia e Rosalinde lo avevano fissato quando erano entrate in biblioteca e, sinceramente, non voleva rimanere in loro compagnia, né in quella degli altri. Aveva tentato di trovare traccia di qualcuno che era riuscito ad ottenere, in passato, di cambiare Casa, ma sembrava che non fosse mai accaduto nulla del genere, nemmeno dopo che Salazar Serpeverde aveva abbandonato la scuola.
Aveva, quindi, deciso di tentare di rimanere il minor tempo possibile in compagnia degli altri membri della Casa dove era stato smistato. Non era una soluzione ottimale, lo sapeva da solo, ma non poteva fare diversamente. Forse, in quel modo, si sarebbero arrabbiati meno quando avesse scritto svelando in quale marciume era stato mandato.
«Com’è il tuo Capocasa, Soren?» domandò improvvisamente Isabel, mentre camminavano in direzione del lago.
«Non so cosa pensare di lui», disse il ragazzo, preferendo rimanere sul vago. Non aveva nessuna intenzione di spiegare che si era sentito a disagio nello studio dell’uomo, né per quale motivo fosse accaduto. «In classe spiega bene, ma oggi non ha saputo essermi di aiuto.»
«Ci sei andato per Medea?»
Soren annuì. Aveva parlato con Isabel delle sue preoccupazioni nei giorni scorsi, prima o dopo le lezioni che condivideva con Tassorosso, e la ragazza aveva notato le stesse identiche cose. D’altronde, già durante il viaggio in treno era impossibile non accorgersi del terrore presente negli occhi di Medea.
«Tu cosa ne pensi, Edward? Forse l’hai notata… rimane sempre da sola in ogni classe. Sia io che Soren le abbiamo chiesto se potessimo sederci accanto a lei, ma sembra aver paura di noi.»
«Si chiama Koesel di cognome? Ieri il professor Cropper l’ha chiamata per rispondere ad una sua domanda. Mi è sembrata sicura di sé, però, in effetti, quelle poche volte in cui l’ho osservata mi è sembrata molto timida.»
«Non è solo quello, Edward», spiegò Soren. «Se la guardi negli occhi noterai che ha paura di tutto o, forse, ha paura soprattutto di noi.»
«E il tuo Capocasa cosa ti ha detto?»
«Niente.»
Soren non aggiunse altro, quando notò che Edward si era improvvisamente irrigidito, impallidendo di colpo. Si voltò seguendo lo sguardo dell’altro ragazzo e notò subito la professoressa McGranitt intenta a parlare con un altro mago che riconobbe come il professor Piton. Lo aveva visto una sola volta, prima di allora, per caso, quando era piccolo, ma era certo che l’uomo non si ricordasse più di lui. D’altronde quel ricordo era nebuloso e confuso, ma rammentava perfettamente gli occhi neri che lo avevano fissato allora.
«Edward, stai bene?»
Soren tornò a concentrarsi sul compagno, che aveva distolto lo sguardo dai due adulti per portarlo su Isabel che, come sempre, appariva calma e tranquilla.
«Non credevo… pensavo che Piton rimasse sempre nei suoi alloggi. Non va mai in Sala Grande.»
La ragazza notò solo in quel momento la presenza, a non troppa distanza da loro, della professoressa McGranitt e del Capocasa di Serpeverde. Si chiese se non dovesse dire qualcosa, ma non aveva nemmeno lei idea di quali parole pronunciare. Avrebbe potuto ripetere quelle di papà, però non era certa che fosse una buona idea.
«Perché dovrebbe farlo? Non è un prigioniero.»
«Ed è questo il problema, Soren. Lui… dovrebbe essere ad Azkaban come tutti gli altri», la voce di Edward era sorda, quasi rabbiosa, al punto che Isabel si chiese se i due insegnanti lo avessero sentito. «Ne abbiamo già parlato, ma tu… tu credi che sia un eroe… ma io non riesco…»
«Forse, dovresti andare a parlare con lui», mormorò Soren. «So che non vuoi, ma è il tuo Capocasa e potrebbe aiutarti. Non credo che la professoressa McGranitt parlerebbe con lui se quello che è stato detto al processo non fosse vero.»
Edward non sapeva cosa rispondere a quelle parole. Si voltò verso Isabel, ma la ragazza appariva pensosa e incerta, come non l’aveva mai vista prima. Avrebbe dovuto controllarsi meglio, ma non si era aspettato di vederlo. Aveva creduto di poter fingere di appartenere ad un’altra Casa, di essere un Tassorosso o un Corvonero, come i due ragazzi con cui stava legando di più.
«Non lo so, Soren», disse, infine. «Forse, potremmo trovare un posto dove sederci e parlare di qualcosa d’altro.»
Isabel fu lieta di udire le ultime parole pronunciate da Edward. Non voleva vederlo litigare con Soren e non si sentiva in grado di intervenire realmente. Aveva pensato di dire qualche parola, ma non desiderava alimentare una discussione tra i due ragazzi, spiegando che papà era stato uno dei giudici durante il processo al professor Piton e che aveva votato per la sua condanna.
Non aveva nemmeno idea di cosa pensare in proposito.
Ma non voleva che quella questione diventasse un motivo di tensione tra quelli che stavano diventando suoi amici e Isabel si ripromise di trovare il modo di evitare che Soren e Edward litigassero sul professor Piton, per quanto fosse certa che sarebbe stato difficile.
Quando si sedettero sul bordo del lago, Edward e Soren erano più sereni e lei si sentiva più tranquilla, mentre il sole settembrino illuminava le acque placide vicino a loro.
«Cosa ne pensi di quei tre ragazzi, Severus?» Minerva non si voltò verso il collega, preferendo osservare i giovani Fairchild, Hardwick e Millward che stavano parlando sulla sponda del lago, dopo essersi allontanati da loro. «So che sei preoccupato per il tuo Serpeverde, ma mi sembra tranquillo.»
«Adesso lo è», affermò Severus. Prima che i tre ragazzi si allontanassero, aveva notato il modo in cui Fairchild si era irrigidito non appena aveva incrociato il suo sguardo. «Questo non toglie che eviti con cura di passare del tempo con i suoi compagni di Casa. Anche Pomona mi ha detto che durante le sue ore si è unito ai Tassorosso. Ho chiesto ai miei Prefetti di osservarlo e non credo abbia parlato per più di un minuto con gli altri quattro del primo anno. Ritengo che odi l’idea di essere un Serpeverde.»
«Hai idea della motivazione?»
«Quella la posso ipotizzare fin troppo bene. È un orfano, Minerva, lo sai perfettamente anche tu.»
La donna non ebbe bisogno che Severus aggiungesse altro per capire che i suoi genitori erano stati uccisi dai Mangiamorte. Ricordava bene la madre del signor Fairchild, che era stata Prefetto nella sua Casa. Era una ragazza tranquilla e solare, che doveva essere caduta vittima della guerra perché aveva sposato un Nato Babbano di Corvonero.
«Hai pensato a parlare con lui?»
«Più di una volta, ma non sarebbe giusto nei suoi confronti», spiegò l’uomo che iniziò a chiedersi se fosse stata una buona idea lasciarsi convincere da Minerva ad uscire quella mattina. Aveva accettato perché credeva di poter osservare in quel modo i ragazzi, soprattutto quelli del primo anno. «E non avrebbe senso farlo se diffida di me.»
«Forse con il tempo arriverà a fidarsi, Severus, e deciderà di rivolgersi a te.»
«Ritieni veramente che un noto Mangiamorte sia la persona adatta a parlare con lui?»
«Non sei più…»
«Lo sono stato, invece, Minerva. Ho scelto di essere marchiato come tale e tu lo sai perfettamente», la interruppe bruscamente. «E questo mi definisce agli occhi degli altri o non hai notato come la nostra nuova insegnante di Pozioni stia parlottando con quella di Incantesimi guardando, senza alcuna sottigliezza, verso di noi?»
«Quelle due donne sono delle sciocche pettegole.»
«Che condividono l’opinione della maggioranza del Mondo Magico. Tutti sanno che sono stato un Mangiamorte e sicuramente lo sa Edward Fairchild i cui genitori sono stati torturati e assassinati poche settimane dopo la morte di Albus.»
«Eri presente?»
«Non ha importanza, Minerva. Il ragazzo non verrà mai a parlare con me, ma potrebbe confidarsi con un altro Capocasa. È amico di una Tassorosso. Forse dovresti parlare con Pomona e chiederle di avvicinare la ragazza.»
La strega annuì, per quanto fosse certa che l’unico che potesse realmente aiutare il signor Fairchild fosse Severus.
E l’amicizia della signorina Millward e del signor Hardwick.



Soren si allontanò rapidamente dall’aula di Pozioni, senza attendere che Edward lo raggiungesse. Era una fortuna che durante quelle ore non sedessero accanto, ma che seguissero la disposizione voluta, il primo giorno di lezione, dalla professoressa Wilkins, che aveva assegnato loro dei posti fissi seguendo l’ordine alfabetico. Si era ritrovato accanto un suo compagno di Casa il cui cognome iniziava con la H e Edward era accanto ad un altro Corvonero.
Durante il tragitto, dovette chiedere l’informazione ad un Serpeverde del quinto anno che, insieme ad altri ragazzi del suo anno, stava camminando lungo il corridoio dei sotterranei che aveva imboccato. Se non avesse avuto tanta fretta, gli avrebbe chiesto se, anche con loro, l’insegnante di Pozioni stava insistendo così tanto sulla parte teorica, senza ancora aver fatto loro produrre nemmeno il composto più semplice.
Camminò rapidamente, quasi che temesse di cambiare idea e, quando arrivò davanti alla porta, si asciugò i palmi delle mani sulla divisa. Poi bussò e gli parve di essere ben più sicuro di quello che stava facendo rispetto a sabato. Gli fu detto di entrare quasi subito e dopo aver oltrepassato la porta e averla chiusa alle sue spalle, si disse che preferiva quello studio più piccolo a quello del professor Cropper.
«Posso parlarle, professor Piton, anche se non sono della sua Casa?»
«Siediti.»
Severus osservò il Corvonero avvicinarsi al tavolo e sistemarsi davanti a lui. Non si era aspettato di veder entrare Soren Hardwick, di cui aveva memorizzato le fattezze il sabato precedente, presso il lago.
«Sono preoccupato per una mia compagna di Casa, professore.»
«E non hai pensato a rivolgerti al tuo Capocasa?»
La voce del mago era aspra, ma Soren si sentiva a suo agio, ben più di quanto fosse accaduto quando era andato a parlare al professor Cropper, forse perché il tavolo non sembrava ordinato con quella precisione maniacale.
«L’ho fatto, professor Piton, ma non credo che mi sia stato ad ascoltare.»
«E cosa ti fa pensare che io lo farò, signor Hardwick?»
«Sono sicuro che lei lo farà, professore.»
La voce del ragazzo era stranamente decisa, nonostante gli si fossero arrossate le guance. Anche lo sguardo possedeva la stessa sicurezza e, per quanto Severus non volesse vedere nulla del genere negli occhi di un bambino, c’era un che di adulto nell’espressione di Soren Hardwick.
«Cosa ti preoccupa di questa tua compagna di Casa?»
Il ragazzo sembrò rilassarsi dopo che ebbe pronunciato quella banale domanda, ma nulla nell’atteggiamento del giovane Corvonero gli permetteva di capire perché si fosse rivolto proprio a lui e non a Minerva o a Pomona. Sapeva che il padre di Hardwick era stato assassinato da Avery – se n’era vantato poco dopo – e aveva notato, negli anni precedenti, che chi era stato vittima, in un modo o nell’altro, dei Mangiamorte lo aveva evitato con cura o aveva diffidato di lui per buona parte dell’anno. Di certo, non andava a parlargli dopo poco più di una settimana di scuola.
«Si tratta di Medea Koesel», iniziò il ragazzo. «Sono preoccupato per lei perché… non so come spiegarlo, ma è sempre spaventata.»
Soren si aspettò che il professor Piton facesse delle domande, ma l’uomo lo stava fissando silenzioso e al ragazzino quel silenzio piacque. Almeno, non lo stava liquidando come aveva fatto il professor Cropper.
«L’ho conosciuta durante il viaggio e sembrava spaventata», continuò, sperando di riuscire a spiegarsi bene. «Ho pensato, in un primo momento, che potesse essere una Nata Babbana che non sapeva ancora adattarsi all’idea di essere una strega, però… non aveva molto senso, quindi, mi sono chiesto se non fosse un’orfana.»
«Se hai capito questo punto, non hai pensato che la sua paura sia legata proprio a quello?»
Severus notò che il ragazzino si era fatto pensoso, ma Soren Hardwick doveva essere riflessivo di natura e sensibile – forse fin troppo – se aveva intuito che la piccola Koesel era stata privata dei genitori. D’altronde il Corvonero aveva perso il padre e poteva aver sentito una certa affinità con la compagna di Casa.
«Però sembra spaventata da noi… quando le ho provato a parlare era come se avesse paura di me o di Isabel, una mia amica di Tassorosso. I professori le hanno fatto delle domande in classe e ha sempre risposto con sicurezza. Ha anche ottenuto alcuni punti per la nostra Casa, ma non parla con nessuno. Le ho chiesto di studiare con me ed è quasi scappata in dormitorio.»
«Gli altri tuoi compagni di Casa come si comportano con lei?»
«La ignorano. I primi giorni hanno provato a sedersi accanto a lei a lezione, ma rifiuta sempre e non è… non lo fa con rabbia, ma sempre con paura.»
Severus osservò per qualche istante il volto preoccupato del giovane Hardwick. La bambina poteva essere stata vittima degli altri ospiti dell’orfanotrofio, ma aveva la sensazione che quella non fosse la vera motivazione del terrore di cui parlava il ragazzo.
«Ed è questo che hai detto al tuo Capocasa?»
«Ho provato a spiegarglielo, ma non ha voluto starmi a sentire, ma ne ho parlato con Isabel e anche lei è preoccupata. E poi c’è dell’altro», Soren si interruppe per un istante, prima di proseguire spedito. «Ho notato che, a volte, Medea osserva degli altri ragazzi. O, forse, sono loro a osservare Medea. Quando le ho chiesto di studiare, qualche sera fa, ha guardato verso un gruppo di ragazzi del terzo anno e stamattina, in Sala Grande, avevo lo sguardo fisso sul tavolo di Grifondoro. E poi c’è quello che succede a Pozioni. La professoressa Wilkins ci ha sistemati in ordine alfabetico, però Medea siede da sola e non ha senso dato che il suo cognome inizia con la K. Dovrebbe essere seduta di fianco a Calliope, ma non è così.»
Del fiume di parole di Soren quell’ultima informazione era la più preoccupante. Era come se Artemisia Wilkins volesse isolare Medea Koesel dagli altri bambini. Non sarebbe nemmeno stato facile comprendere per quale motivo la donna stesse agendo in quel modo, considerando le scarse informazioni che gli orfanotrofi avevano dato alla scuola.
«La professoressa Wilkins ha dato spiegazioni?»
«No. Ci ha solo detto che riteneva che disporci in ordine alfabetico ci rendesse più disciplinati.»
Non aveva mai incontrato prima dell’anno scolastico precedente la donna, di una decina d’anni più vecchia di lui, e non aveva letto che due o tre pubblicazioni che si erano rivelate essere di una banalità sconcertante. Di certo quella sua spiegazione era di un’idiozia completa e si chiedeva se credesse veramente di evitare incidenti in aula con un metodo così illogico.
«Parlerò con lei della questione», decise di dire, notando che il ragazzo appariva soddisfatto della cosa. D’altronde il piccolo Soren gli aveva dato un pretesto per farlo, quando aveva nominato Calliope, una dei suoi Serpeverde.
«Cosa posso fare, professor Piton?»
«Hai due scelte, signor Hardwick. Puoi tentare di essere sottile e insinuarti nella vita della signorina Koesel oppure puoi forzarle la mano, facendole capire quali siano le tue intenzioni, in maniera decisamente più esplicita.»
«Credevo che avesse capito che voglio soltanto essere suo amico.»
«Forse», ma poteva non averlo fatto, pensò Severus. Se Medea era stata ferita profondamente dalla vita non sarebbe stata forse in grado di riconoscere un volto amico. «Immagino tu sappia che la signorina Koesel potrebbe ferirti senza volerlo.»
«Potrebbe anche averlo già fatto, ma… la verità, professor Piton, è che non vorrei vederla così sola e isolata», Soren si interruppe, chiedendosi se dovesse spiegare all’uomo da dove gli venisse quell’idea, ma preferì tacere per il momento. Mamma gli aveva detto che in pochi avrebbero capito e, per quanto fosse certo che il mago lo avrebbe fatto, preferiva concentrarsi su Medea. «Non credo che sarei un buon amico se smettessi di esserlo perché Medea mi ha fatto soffrire, senza volerlo veramente.»
Severus osservò gli occhi del bambino, che si erano fatti pensosi. Non erano neri come i suoi, ma abbastanza scuri da sembrarlo alla luce delle candele, ma era certo che fossero ben più luminosi, perché Soren Hardwick aveva un animo innocente, ben lontano dal lordume in cui aveva immerso il suo.
Ripensando alle ultime parole pronunciate dal ragazzo si rese conto che, un tempo, avrebbero potuto essere simili ad una stilettata, ma, negli anni che erano seguiti alla sua assoluzione, aveva avuto il tempo e la tranquillità di riflettere sul suo passato. Si era accorto che Albus non lo aveva mai considerato un figlio e, più lentamente e dolorosamente, era giunto alla conclusione che l’amicizia con Lily era stata distrutta da entrambi. Non rinnegava le sue responsabilità, ma aveva imparato a convivere con l’idea che la Grifondoro non aveva nemmeno tentato di porgli le poche domande necessarie affinché lui le spiegasse perché aveva pronunciato quella maledetta parola, quel giorno, né gli aveva mai chiesto cosa lo avesse portato a trascorre del tempo con Avery e Mulciber.
Nei due anni passati aveva smontato e fatto a pezzi ogni singolo ricordo di Lily e dopo quel lavoro lungo e doloroso non gli era più rimasto nulla, se non i resti di un’amicizia appena abbozzata e morta lentamente durante gli anni a Hogwarts.
«Posso suggerire a Medea se riuscissi… posso dirle di venire a parlare con lei, professor Piton?»
«Se lo ritieni necessario.»
«Grazie, davvero, professore.»
Soren Hardwick gli rivolse un sorriso, che lo fece sembrare più giovane. O, forse, dimostrava unicamente i suoi undici anni, mentre, prima, mentre parlava con lui di Medea Koesel era apparso ben più maturo della sua età.
Dopo che il ragazzino fu uscito, Severus si chiese se gli avesse dato realmente dei buoni consigli, se fosse riuscito ad aiutare almeno lui, nel suo tentativo di instaurare un rapporto di amicizia con la sua compagna di Casa. Si domandò se avesse fatto qualcosa per Soren stesso, perché aveva notato che nascondeva qualcosa nel profondo del suo animo innocente.
La guerra gli aveva portato via il padre.
Almeno il ragazzino aveva conservato la madre.
Eppure, c’era qualcosa di strano in quell’insistere del bambino a non volere che Medea Koesel fosse sola.
A Severus sembrò quasi che Soren Hardwick sapesse fin troppo bene cosa fosse la solitudine.



Edited by Alaide - 26/9/2023, 18:58
 
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view post Posted on 4/4/2023, 14:43
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Ecco un nuovo capitolo (che mi è venuto incredibilmente lungo).
Lascio il link all'elenco dei personaggi e al primo capitolo



Capitolo IV



Hogwarts, 12 – 15 settembre




Soren rimase fermo nel corridoio all’esterno dello studio del professor Piton, mentre ripensava a come l’uomo fosse stato realmente ad ascoltarlo, al contrario di quello che aveva fatto il suo Capocasa. Era certo che il pozionista avrebbe fatto il necessario per Medea, anche se questo non sarebbe stato facile.
Il ragazzo si riscosse e iniziò a camminare rapidamente verso l’aula di Trasfigurazione, che si trovava diversi piani sopra. Non aveva molto tempo prima dell’inizio della lezione, ma credeva che non sarebbe arrivato in ritardo. Quando giunse davanti all’aula, notò di essere uno degli ultimi. Fece passare quattro Grifondoro, prima di entrare a sua volta e andarsi a sedere accanto a Medea che, come al solito, si trovava da sola, sul fondo della stanza.
La professoressa McGranitt iniziò la lezione pochi istanti dopo e Soren ne fu felice, perché la compagna di Casa non avrebbe potuto cacciarlo. Durante il tragitto aveva riflettuto a lungo sulle parole del professor Piton e aveva deciso di essere più diretto con Medea e di farle comprendere che l’unica cosa che desiderava era esserle amico. Sapeva che alcuni avrebbero potuto trovare strana quell’insistenza, considerando che la ragazza aveva fatto capire fin troppo bene che non desiderava la loro compagnia, nonostante il poco tempo trascorso dall’inizio della scuola.
Mentre la lezione proseguiva, tentò di concentrarsi sulle parole della professoressa McGranitt, ma quando si trattò di mettere in pratica l’incantesimo di quel giorno, non riuscì a ricavarne nulla di buono, come la maggior parte della classe.
«Non ti saresti dovuto sedere di fianco a me», gli disse Medea non appena uscirono, per ultimi, dall’aula.
La voce della ragazza era tesa. Il suo sguardo era fisso su un punto alle sue spalle e Soren dovette fare uno sforzo su sé stesso per non voltarsi.
«Non c’era nemmeno nulla che mi impedisse di farlo. Inoltre, non… sei sempre sola… ed io…»
Medea non disse nulla. Non aveva idea di come rispondere alle parole di Soren, ma sapeva che avrebbe dovuto trovare il modo di cacciarlo. Rachel la stava osservando dall’altra parte del corridoio ed era certa che, per quanto non dovesse sentire una sola parola, la ragazza avrebbe scritto all’orfanotrofio. La Direttrice sarebbe venuta a sapere di come lei stesse fallendo, di come stesse rischiando di contaminare il compagno di Casa.
«Medea, voglio solo esserti amico.»
«Non pos… voglio essere amica né di te, né di nessuno.»
Medea sentiva le lacrime pungerle gli occhi, ma le ricacciò indietro. Sperava che Soren non avesse colto il modo in cui si era quasi tradita. O, forse, non si era nemmeno tradita, perché sapeva di non potere né volere essere amica del ragazzo.
«Perché? Permettimi almeno di capire… ti posso giurare che non ti farò mai del male.»
«Tu non capisci…», stava perdendo il controllo, lo sapeva. «Sono cattiva… e… ti farei del male.»
«Medea, non…»
Ma non lo lasciò finire.
Non poteva farlo. Corse via, sperando che Soren non la seguisse. Aveva detto troppo e se qualcuno lo avesse scoperto, sarebbe stato terribile. Erano stati chiari all’orfanotrofio: non doveva parlare con nessuno, se non con gli insegnanti.
Ma degli adulti in quella scuola non aveva paura. Non doveva far altro che mostrarsi interessata alle lezioni e preparata.
E non aveva di certo problemi a leggere quanto veniva chiesto e a fare i compiti.
I libri non potevano ricordarle di quanto fosse cattiva, né della sua costante paura di poter nuocere agli altri ragazzi.
Riuscì a tornare nel dormitorio di Corvonero senza che nessuno la fermasse. Erano tutti in Sala Grande a cenare e lei poté rannicchiarsi sul letto e piangere, mentre la pioggia ticchettava violenta contro i vetri e sull’intero castello.
I corridoi erano deserti, quando Severus uscì dalle sue stanze, dopo aver cenato in solitudine, come accadeva ogni sera. Si mosse rapido, fino a quando non raggiunse gli alloggi dell’insegnante di Pozioni, che un tempo erano stati suoi e in cui non metteva piede da anni. Sapeva che la Wilkins era già rientrata, abbandonando la Sala Grande prima del tempo.
La donna aprì subito e sul suo volto apparve un’espressione sorpresa, seguita da un esagerato corrugare di sopracciglia.
«Piton, hai bisogno di qualcosa?»
«Mi servono delle delucidazioni circa alcune notizie che mi sono state riferite, professoressa Wilkins», disse il mago, usando un linguaggio volutamente formale, mentre studiava con attenzione la strega, che si scostò per farlo entrare in quelle che erano state le sue stanze e che gli apparvero irriconoscibili, spoglie com’erano di libri. «Mi è giunta voce dello strano modo di disporre gli studenti nella sua classe.»
«Mi piace l’ordine», rispose seccamente la donna, che pareva non veder l’ora di levarselo dai piedi.
«Una cosa ammirevole in un’aula di Pozioni», sibilò quasi Severus. «Eppure, sembra che ci siano dei problemi nella classe di Corvonero e Serpeverde del primo anno.»
«Qualcuno dei tuoi studenti si è venuto a lamentare?»
«Si tratta soltanto di un problema di alfabeto, si potrebbe dire, professoressa», il volto della Wilkins aveva la stessa espressione di uno studente scovato nei corridoi oltre il coprifuoco. «Mi chiedo per quale motivo una studentessa il cui cognome inizia con la K non siede accanto ad un’altra il cui cognome inizia con la L.»
«Gli studenti sono dispari.»
«Una ben misera scusa, non crede? Nulla le vieta di avere una postazione a cui siedono tre studenti.»
La strega rimase a lungo in silenzio, ma a Severus parve chiaro che non avesse idea di come rispondere alle sue parole, fornendo una spiegazione logica. C’era però altro, dietro a quella indecisione, ne era certo.
Artemisia Wilkins doveva aver agito spinta da motivazioni ben precise, che l’avevano portata a voler isolare la signorina Koesel.
«Ammetto di non aver pensato a questa soluzione.»
«Evidentemente», ribatté il mago. «Ha due scelte: può posizionare Medea Koesel accanto a Calliope Lowell e poi porre gli ultimi tre dell’ordine alfabetico insieme oppure creare una postazione a tre mettendo la signorina Koesel accanto a chiunque la preceda.»
Severus aveva espressamente nominato la sua Serpeverde nella speranza che la Wilkins non seguisse quel primo consiglio, ma che facesse sedere la signorina Koesel accanto al signor Hardwick. Era quasi del tutto certo che il ragazzo avrebbe tentato un approccio esplicito con la compagna di Casa, esattamente come aveva fatto nel rivolgersi a lui.
«Hai bisogno d’altro, Piton?»
«No, professoressa Wilkins. Ha risposto a tutte le mie domande.»
Il giorno dopo avrebbe parlato con Minerva, si disse, mentre si recava, a passo più lento di quanto avrebbe voluto, verso le sue stanze. La ferita aveva iniziato a pulsare dolorosamente durante il colloquio con l’insegnante di Pozioni, ma, soltanto in quel momento, lo sentì realmente. Una volta raggiunte le sue stanze, procedette a cambiare i bendaggi intorno alla ferita al collo e a trangugiare la pozione che doveva prendere ogni sera e che aveva progressivamente migliorato, con l’intento di allungarne gli effetti.
Le osservazioni di Soren Hardwick e le parole non dette dalla Wilkins lo portarono a interrogarsi su Medea Koesel, una ragazzina innocente che stava soffrendo, come troppi altri in quella scuola. Non aveva idea delle motivazioni di quella sofferenza, ma era certo che avesse un legame stretto con la guerra, come nel caso di Edward Fairchild o di Decius Mulciber.
Nessuno pensava realmente a loro.
Non il Preside della scuola, né il Ministero, né l’opinione pubblica.
Erano rimasti soltanto lui, Minerva e Pomona, che si univa soltanto di rado a loro, ma che Severus sapeva attenta al benessere dei ragazzi, come lui non aveva mai potuto né voluto essere.
Era stato necessario essere duro e crudele per mantenere la sua copertura, per avere qualcosa da presentare all’Oscuro Signore al suo ritorno. Aveva fatto leva soprattutto sul fatto che stesse diffondendo i suoi ideali malati sotto gli occhi ciechi di Albus. Era stato il momento in cui più aveva temuto di morire prima di portare a termine il suo compito, ma il suo antico padrone aveva visto unicamente ciò che lui aveva voluto mostrargli: le umiliazioni che aveva fatto subire ai suoi allievi, i favori che aveva accordato a ragazzi che non lo avevano meritato o che, se avesse fatto scelte diverse, avrebbe potuto aiutare a non cadere nel baratro in cui lui stesso era caduto. Non era uscito indenne quel giorno, ma aveva potuto continuare a lottare per veder sparire l’Oscuro Signore, per porre rimedio alle sue innumerevoli colpe, per ottenere la stima e l’affetto di Silente.
Aveva dovuto essere crudele con i ragazzi, ma aveva anche voluto esserlo, per poter leggere sui loro volti l’odio e il disprezzo che nutriva nel suo cuore. Aveva desiderato essere detestato come lui aveva detestato sé stesso.
Ma, ora che era tutto finito, si era prefissato di compiere ciò che non aveva potuto, né voluto fare. Non era facile e sapeva che aveva fallito miseramente nei due anni precedenti, se non per rare eccezioni, ma aveva Minerva al suo fianco che lo stava aiutando, in qualità di Vicepreside.
E sapeva che Pomona stava facendo la sua parte. Avrebbe anche potuto richiedere i servigi della piccola elfa domestica che gli era stata assegnata durante il suo anno da Preside e che, al pari di Minerva, continuava a considerarlo tale e che si ostinava a portargli i pasti e a guardarlo male quei giorni in cui non riusciva ad inghiottire più di qualche boccone. Se non avesse saputo che la Capocasa di Grifondoro non sapeva nulla di Ory, sarebbe stato certo che le due si fossero messe d’accordo per chiedergli a turno di prendersi maggior cura di sé.
Mentre si preparava per andare a letto, si chiese se sarebbe riuscito ad aiutare i bambini che sapeva feriti dalla guerra.
Sapeva di non essere realmente responsabile per loro, ma aveva avuto un ruolo troppo importante nella Guerra Magica per non sentirsi tale e, forse, si disse mentre si coricava, quei bambini erano l’unico modo in cui avrebbe realmente posto rimedio al male fatto. Non era stato proteggere il figlio di Lily, né essere la spia di Albus. Lo era forse stato, in parte, l’aver contribuito alla fine dell’Oscuro, ma salvare quei ragazzini dal dolore, proteggerli e aiutarli a non compiere scelte sciagurate dettate dalla paura, dalla solitudine e dalla rabbia sarebbe stato l’unico modo con cui sarebbe forse riuscito a perdonare sé stesso per tutto il male che aveva portato nel mondo.


Soren aveva dormito male quella notte.
Nella sua mente avevano rimbombato le parole di Medea e la sua solitudine forzata.
E quella solitudine aveva risvegliato in lui ricordi che aveva creduto persi in un passato che preferiva non rammentare.
Si recò presto in Sala Grande per la colazione, che non riuscì a gustare e seguì distrattamente la lezione di Incantesimi. Notò che Medea era entrata per ultima e si era seduta da sola, come sempre. Isabel, che si trovava accanto ad una sua compagna di Casa gli aveva lanciato più di uno sguardo preoccupato, ma il ragazzo non era rimasto ad aspettarla quando era finita l’ora, come faceva di solito, quando seguivano una lezione insieme.
La sua meta era un’altra.
C’era un’unica persona con cui potesse parlare di quello che gli aveva detto Medea ed impiegò il minor tempo possibile per raggiungere la porta dell’ufficio del professor Piton. Bussò subito e trattenne a stento un sospiro di sollievo quando gli fu detto di entrare.
«Siediti.»
Severus notò immediatamente le occhiaie del piccolo Hardwick e l’espressione preoccupata. Sembrava più teso del giorno precedente.
«Ho seguito il suo consiglio e ho provato ad essere più diretto con Medea», disse il ragazzo, non appena si fu sistemato davanti a lui. «Mi sono seduto accanto a lei a Trasfigurazione e dopo, quando siamo usciti, mi ha chiesto di non farlo più. Le ho chiesto per quale motivo e poi le ho detto che voglio essere suo amico e Medea ha detto che non può essere amica di nessuno. O meglio, ha detto che non vuole, ma perché si è corretta e quando le ho chiesto la motivazione ha detto che lei è cattiva e che non vuole farmi del male, ma io non credo che… voglio dire, Medea ha solo undici anni, come me… non può essere cattiva.»
Soren Hardwick aveva parlato rapidamente, senza quasi fare pause. Severus prese mentalmente nota di indagare a fondo con Minerva a proposito della piccola Koesel. Qualcuno doveva esercitare un’influenza nefanda su di lei, se si credeva malvagia. Nemmeno lui si era ritenuto tale a undici anni. Anzi, all’epoca aveva nutrito sogni illusori e fittizi, di eterna amicizia e di un altrettanto eterno e sterile amore.
Quella mattina, dopo una notte popolata dagli abituali incubi, aveva cercato di ricordare se avesse già sentito nominare il nome Koesel, ma era certo che non ci fosse nessun Mangiamorte con quel cognome. Aveva consultato qualche libro e aveva scoperto che si trattava di una famiglia Purosangue tedesca che aveva, però, sempre mantenuto un atteggiamento neutro, se non progressista nelle questioni riguardanti la purezza di sangue.
«Oggi cos’hai fatto?»
«Credo di aver sbagliato tutto», il ragazzo si era rabbuiato. «Avrei dovuto aspettarla in sala comune, invece sono andato subito a fare colazione e, poi… avrei potuto accompagnarla a Incantesimi… e non l’ho fatto. Ieri le ho…»
«Quando è arrivata la signorina Koesel a lezione?»
«Per ultima, ma non importa. Io avrei…»
«Non sarebbe cambiato nulla, signor Hardwick», affermò Severus, interrompendo le parole quasi sussurrate del ragazzo. «La signorina Koesel ha fatto in modo di evitarti e lo avrebbe fatto anche se tu la avessi aspettata.»
«Cosa posso fare?»
«Attendi il momento opportuno, come hai fatto ieri quando ti sei seduto accanto a lei a Trasfigurazione, ma non essere pressante.»
Non era il migliore dei consigli, ma senza sapere con precisione per quale motivo la signorina Koesel si comportasse in quel modo non aveva molto altro da offrire.
«Lo farò, professor Piton, davvero.»
Soren si chiese se non avesse deluso terribilmente l’uomo, per quanto questi non desse alcun segno in proposito, ma l’espressione del mago era sempre difficile da leggere, per quanto gli trasmettesse una calma che il professor Cropper non gli aveva dato.
«Quello che dovresti chiederti è per quale motivo tu voglia diventare amico della signorina Koesel», Soren non seppe come interpretare quelle parole, ma annuì. «Devi essere certo di non essere guidato dalla pietà. Non sto parlando di compassione, signor Hardwick, ma del sentirsi semplicemente dispiaciuto per la signorina Koesel. Sarebbe un’amicizia fragile.»
Forse era su quello che si era basata la sua amicizia con Lily. Doveva averle fatto pietà. Il figlio dei Piton, la disgraziata famiglia di cui tutti parlavano in quella stramaledetta cittadina. Forse, per lei non era stato altro che un caso di carità, diventato con il tempo troppo ingombrante.
«Non voglio che sia impaurita e sola, professor Piton. È brutto esserlo.»
«E come fai a dirlo?»
«Un tempo lo sono stato, ma ora…» Soren si interruppe, osservando con attenzione l’uomo, ma il professore aveva la stessa espressione tranquilla di prima, per quanto gli sembrasse che i suoi occhi mostrassero qualcosa di diverso, che però il ragazzo non seppe interpretare. «Sono stato solo per molti anni, professor Piton, e per alcuni anni ho avuto paura. Forse avevo la stessa espressione di Medea e non voglio che lei si senta così. Non è pietà vero?»
«No, signor Hardwick, non la è», era unicamente l’empatia di un bambino che doveva aver subito le avversità della vita, un tempo, si disse Severus. «Ed ora non sei più solo e impaurito?»
«No, da qualche anno non lo sono più.»
«Da quando è morto tuo padre?»
Non era nemmeno una vera domanda, notò Soren, chiedendosi come avesse fatto a capire. Era certo di essere stato vago o, forse, gli aveva dato tutti gli indizi per arrivare all’unica soluzione possibile? Non aveva mai tentato di parlare con un adulto della vita precedente. Soltanto la mamma sapeva quello che era accaduto, ma il ragazzo era certo che lei avesse sofferto più di lui.
«Sì… tutti dicono che è un eroe, ma… non so nemmeno se ha fatto veramente quello che raccontano.»
Severus osservò con attenzione il ragazzo e, per un breve istante, rivide in lui sé stesso. Non sapeva se Simon Hardwick avesse picchiato il figlio, ma doveva averlo spaventato e fatto sentire solo, ma il piccolo Soren non era trascurato com’era stato lui e non era arrabbiato con il mondo. Aveva sofferto, ma doveva avere accanto qualcuno che lo aveva aiutato dopo la morte del padre e quel qualcuno doveva essere la madre.
«Non è detto che un uomo che compie gesti eroici sia una brava persona.»
Lui non lo era, si disse Severus.
Ma, d’altronde, non era nemmeno un eroe.
«Ci ha abbandonati. Quando… quando tutto è andato per il peggio, mamma gli ha chiesto di portarci al sicuro, perché lei era in pericolo, essendo una Nata Babbana, ma lui non ha fatto nulla. Non ci ha nemmeno... è andato via…»
«Per questo dubiti che possa aver distrutto quei documenti?»
Soren annuì soltanto.
Quei suoi dubbi non li aveva mai espressi nemmeno con la mamma e a lei diceva sempre tutto, ma era certo che il professor Piton avrebbe capito. Aveva già intuito tantissimo senza che lui dicesse molto.
«Non avrebbe dovuto essere certo che io e mamma fossimo lontani dall’Inghilterra prima di andarsene? Sapeva che il nonno si trovava in Svezia in quel periodo.»
«Non posso dare una risposta, signor Hardwick, alla tua domanda, ma posso quietare i tuoi dubbi. Se tuo padre non fosse stato intento a distruggere quei documenti, non lo avrebbero ucciso. La maggior parte dei funzionari del Ministero è rimasto ai loro posti e non è stato toccato perché hanno preferito adeguarsi al nuovo corso.»
Non ebbe però cuore di rivelare al ragazzino che, pur avendone avuto il tempo, Simon Hardwick non aveva distrutto l’indirizzo della sua famiglia. Non ci aveva nemmeno fatto caso fino a quel momento, ma ricordava di essere stato parte del gruppo di Mangiamorte che era andato fino alla casa dell’uomo e di averla trovata vuota.
«Grazie, professor Piton», il ragazzino sembrava incerto, ma il volto era più tranquillo rispetto a pochi istanti prima. «Potrò tornare a parlarle? Anche se tutto dovesse risolversi con Medea?»
«Se lo desideri.»
Severus notò il sorriso sulle labbra del ragazzo, quando si congedò. Forse sarebbe riuscito ad aiutare Soren a superare del tutto il peso di quel passato che doveva essere diventato improvvisamente fin troppo tangibile a scuola. Immaginava che gli altri ragazzi potessero avergli nominato il padre morto eroicamente, mentre per lui quell’uomo era stato unicamente un aguzzino.
Si alzò in piedi, con l’intento di tornare nella parte privata dei suoi alloggi, ma qualcuno bussò nuovamente alla porta. Questa volta, però, ad entrare fu Minerva.
«Severus», lo salutò, avvicinandosi a lui, che la guidò nelle sue stanze. «Ho incrociato il signor Hardwick davanti alla porta del tuo ufficio.»
«Non mi sorprende.»
La donna, mentre seguiva il mago oltre la porta che immetteva nei suoi alloggi, si disse lieta che un ragazzo di una casa diversa da Serpeverde fosse andato a parlare con Severus già a inizio anno.
«Hai notato qualcosa di strano in Medea Koesel?»
Minerva non si era aspettata quella domanda, troppo intenta a pensare al volto sorridente del piccolo Corvonero che aveva incrociato davanti alla porta dell'ufficio del collega più giovane.
«Mi sembra una ragazza timida, credo anche con i suoi compagni, considerando che siede sempre da sola, anche se ieri il signor Hardwick si è sistemato al suo fianco. È studiosa e, se chiamata, risponde bene alle domande.»
«C’è qualcosa di più della timidezza. Osservala meglio, mentre interagisce con gli altri studenti.»
«Credi che abbia gli stessi problemi del signor Fairchild?»
«Non ne ho idea. Da quel che mi è stato riferito, la signorina Koesel ha paura di fare del male agli altri ragazzi. Sai chi è la madre?»
Minerva scosse il capo.
«Sui registri accanto al nome degli orfani che vivono in orfanotrofio campeggia la scritta nessun parente prossimo in vita.», affermò la strega, promettendogli di provare a cercare altre informazioni, ma dovettero rimandare il discorso a quella sera e non ne ricavarono altro, nemmeno da Pomona, che si era unita a loro.
«La signorina Honeychurch», disse, mentre parlavano in maniera più approfondita dei piccoli orfani di quell'anno. «Proviene dallo stesso orfanotrofio della signorina Koesel ed è stata smistata a Grifondoro, non è vero Minerva?»
La strega annuì, mentre osservava il volto di Severus farsi pensoso. Era felice che quella sera, con loro, ci fosse anche Pomona, che aveva aggiunto le sue osservazioni sulla signorina Koesel, e la donna dovette ammettere che più particolari emergevano più diventava evidente che quella ragazzina avesse bisogno d’aiuto.
«Credo che possa stare spiando la signorina Koesel per conto di qualcuno nell’orfanotrofio di York.»
«Non le ho mai viste interagire.»
«Di questo sono certo, ma il signor Hardwick ha notato che la sua compagna di Casa osserva spesso il tavolo di Grifondoro ed io credo che stia fissando Rachel Honeychurch», Severus fece una pausa, riordinando le idee. «Osservatele durante i pasti. Pomona credo che dovresti parlare con Isabel Millward, che mi è stato riferito essere preoccupata per la signorina Koesel. Provate anche a parlare con la Wilkins.»
Minerva lasciò che fosse Pomona a intervenire e a chiedere informazioni sull’insegnante di Pozioni. Non avrebbe detto nulla, perché sapeva che Severus avrebbe negato, ma, in quel momento, mentre dava indicazioni affinché aiutassero la signorina Koesel, alla strega parve che l’uomo stesse agendo come il Preside che era e che non poteva essere, perché era certa che Severus avesse perfettamente ragione su come avrebbe reagito il Mondo Magico se avesse ricoperto il ruolo che gli spettava.
«Artemisia Wilkins era una Corvonero, ma non la ricordo bene. Era piuttosto anonima», disse, intervenendo nella conversazione. «Non sono nemmeno certa che abbia proseguito con Trasfigurazione dopo i suoi G.U.F.O.»
Severus annuì, prima di congedare le due streghe.
Dopo aver cambiato la fasciatura e assunto la pozione, tornò a sedersi su una delle poltrone. C’era qualcosa di grave che stava accadendo a quei bambini, soprattutto se i suoi sospetti erano giusti e Rachel Honeychurch stava effettivamente spiando Medea Koesel, che doveva aver vissuto degli eventi traumatici – forse più di altri – se poteva essere manovrata e indotta a credere di essere malvagia.
Doveva trovare un modo per aiutare quella bambina. Soren Hardwick aveva scelto di confidarsi con lui, quando il suo Capocasa si era rivelato sordo. Non era andato da Pomona o da Minerva, ma da lui, perché, anche se non lo aveva detto ad alta voce, appariva certo che potesse ricevere un aiuto.
Anche per sé stesso, considerando che gli aveva esplicitamente chiesto se poteva tornare a parlare con lui, anche se fosse riuscito a risalire all’origine delle paure di Medea.
Quando si coricò agli abituali incubi si aggiunsero i volti di quei bambini che lo rimproveravano perché non era riuscito a fare ciò che si era ripromesso e quando si svegliò sperò di trovare una soluzione che non si palesò né il soleggiato giovedì, né la mattina piovosa del venerdì.
La pioggia scendeva torrenziale sul castello, al punto da far temere agli studenti il tragitto fino alle Serre. Soren non si era mai sentito così bagnato, come quando rientrò gocciolante insieme ai suoi compagni di corso.
«Ti ho visto parlare con Medea martedì», disse improvvisamente una ragazzina di Grifondoro. «Non dovresti farlo.»
«Perché?», domandò, notando che non era rimasto nessun altro nei pressi dell’ingresso.
«Non è una buona compagnia. Tu non lo noti adesso, ma è pericolosa.»
Soren scosse soltanto il capo, prima di allontanarsi a grandi passi da lei, ripromettendosi di tornare a parlare con il professor Piton dopo Pozioni, l’ultima lezione del giorno. Durante il pranzo immaginò quello che avrebbe potuto dirgli e si chiese se non dovesse parlare più a lungo con lui di suo padre o se non potesse nominare quell’unica volta in cui l’aveva incontrato quando era stato ancora un bambino. E quando andò in biblioteca per studiare, non riuscì a leggere nemmeno una riga, mentre cercava di raccogliere le idee.
Era ancora immerso nei suoi pensieri, quando raggiunse l’aula di Pozioni. Si sedette alla postazione che divideva con John Hackett, quando notò che era diventata per tre. Sentì lo sguardo della professoressa Wilkins su di sé e si accorse che la donna appariva contrariata, anche se non credeva che ce l’avesse con lui, perché scrutò tutti allo stesso modo, in particolare i Serpeverde. Quando Medea, poco prima dell’inizio della lezione, si sedette alla sua sinistra, Soren ebbe la certezza che quella fosse opera del professor Piton. Non sapeva quali parole avesse usato, ma era felice che l’avesse convinta a non isolare in quel modo la sua compagna di Casa.
«Oggi inizieremo a mettere in pratica la teoria imparata finora», annunciò la donna, ma Soren si chiese come intendesse farlo, dato che non c’era un solo calderone in aula. «Davanti ad ognuno di voi troverete un foglio con sopra indicati due ingredienti e quello che dovrete fare con loro.»
Soren lesse il piccolo rettangolo di pergamena che prevedeva che dovesse sminuzzare dei petali di belladonna e sezionare degli scarafaggi. Non c’era scritto nient’altro e si sentì deluso. Mamma gli aveva spiegato che durante le ore di Pozioni era necessario prestare la massima attenzione a ogni particolare, per poter riuscire bene. Gli aveva anche detto di quanto duro potesse essere il professor Piton, ma che non aveva mai visto verificarsi un solo incidente veramente grave in aula. Aveva sperato di poter iniziare a lavorare fin da subito, ma avevano trascorso la prima settimana e mezzo a trascrivere alcune definizioni e ad ascoltare una lunghissima introduzione alla materia.
Cercando di non mostrare la propria delusione di fronte a quel primo esercizio pratico, iniziò a lavorare sui petali di belladonna. Lanciò un’occhiata alla postazione di Medea, che si era posizionata il più lontano possibile da lui e la vide alle prese con dei gambi di margherita.
Mentre lavorava al suo primo scarabeo, si chiese se non dovesse provare a parlare nuovamente con Medea quel pomeriggio. Credeva che non facendolo, avrebbe deluso il professor Piton che gliene aveva dato l’opportunità e che gli aveva consigliato di sfruttare le occasioni più propizie. Era certo di non risultare nemmeno troppo pressante, dato che non aveva più insistito a parlare con lei da martedì. Si voltò verso la compagna, dopo aver sistemato le zampette in un barattolo e le ali in un altro.
Medea era immobile, pallidissima, mentre osservava il pipistrello che doveva, con ogni probabilità, sezionare. Non aveva il volto schifato dall’ingrediente, ma appariva terrorizzata, più di quanto non l’avesse mai vista.
«Ti serve una mano?», sussurrò, ma la ragazza parve non averla nemmeno sentito. «Se vuoi posso chiedere alla professore Wilkins se possiamo scambiare gli ingredienti.»
A Medea parve di sentire una voce ovattata da qualche parte, ma non sapeva nemmeno chi le stesse parlando. Riusciva unicamente a vedere il pipistrello davanti a sé. Quando aveva letto il foglio, aveva saputo che sarebbe stato difficile, ma era stata certa di riuscirci.
Invece, non era in grado nemmeno di muovere un dito.
Le sembrava di vivere in un incubo.
Da qualche parte, una voce femminile tranquilla stava dicendo delle parole, delle parole crudeli.
Medea non riusciva nemmeno a capire dove fosse.
Si sentiva soffocare.
Riusciva unicamente a vedere il pipistrello davanti a lei.
Le sembrò che la stesse osservando, quasi supplicandola.
La Direttrice era stata chiara, però. Tentò di ignorare tutti gli altri rumori presenti intorno a lei. Sapeva che gli altri bambini la stava fissando. Prese in mano il coltello, chiuse gli occhi e colpì il pipistrello che si stava dibatteva sul tavolo.
Sentì qualcuno afferrarle il polso quando alzò nuovamente il coltello per dare un nuovo colpo. Si svincolò e le parve di sentire una voce. Aprì gli occhi e vide del sangue colare sul pipistrello morto.
«Medea…»
La ragazzina si voltò di scatto e vide il volto preoccupato di Soren.
E dolorante.
Solo in quel momento si rese conto di essere in classe. La mano l’aveva lasciata andare e stava sanguinando.
«Io…»
«Non è niente, Medea», affermò Soren, cercando di ignorare il dolore della ferita. Aveva notato che la compagna di Casa sembrava essere totalmente persa. Aveva tentato di richiamarla, poi l’aveva afferrata e non era stata la migliore delle idee.
«Professoressa Wilkins», disse John che li stava fissando con attenzione. «Medea ha ferito Soren.»
Il ragazzo avrebbe voluto rimbrottare il compagno di postazione, ma non sarebbe stata una buona mossa. Accanto a lui, Medea era diventata, se possibile, ancora più pallida e più terrorizzata. La professoressa, che aveva passato l’intera lezione dietro la cattedra, si alzò in piedi e Soren sapeva che doveva agire rapidamente.
Non voleva che la donna se la prendesse con Medea.
Spostò rapidamente la mano, sperando di coprire di sangue il suo piano di lavoro e lo scarafaggio su cui aveva iniziato a lavorare.
«Cos’è accaduto, signor Hackett?»
«Ho visto Medea ferire la mano di Soren con il suo coltello da lavoro, dopo aver colpito con violenza il pipistrello.»
A Soren sembrò che John avesse pronunciato il nome della compagna di Casa quasi con odio, ma sperò di essersi sbagliato.
«Non è vero, professoressa», decise di dire. «Stavo sezionando l’ultimo scarafaggio, quando mi sono tagliato e Medea stava cercando di aiutarmi.»
La menzogna non era credibile, se ne accorse, quando osservò la punta del suo coltello che era immacolata. Però, forse, la professoressa Wilkins non aveva un grande spirito di osservazione e non se ne sarebbe accorta. Sicuramente non aveva visto quello che era accaduto, si rincuorò, quando la donna iniziò ad ispezionare i loro tavoli.
«Professoressa», Soren si voltò verso Edward che si trovava nella postazione alla loro destra. «Ho visto, per caso, quello che è accaduto ed è andata esattamente come dice Soren.»
Il ragazzo non era certo di aver fatto bene a parlare, ma non voleva che l’amico andasse nei guai. Non aveva idea di cosa fosse accaduto, ma non gli era piaciuto il modo in cui il Corvonero di fianco a Soren aveva parlato. Avrebbe dovuto chiedere di poter accompagnare il compagno di Casa in Infermeria, invece di accusare la Koesel di averlo ferito.
«Eppure, signor Fairchild, sei troppo lontano per aver visto tutto e il signor Hackett è più vicino», commentò la professoressa, il cui sguardo si era fissato su Medea. Edward notò che la ragazzina, per cui Soren sembrava essere tanto preoccupato, stava tremando. «Siete fortunati, signor Hardwick, signor Fairchild, che sono dotata di buon cuore. Mi vedo costretta a togliervi cinque punti a testa per la vostra palese menzogna, così come la signorina Koesel ne perderà venti, ma nessuno di voi verrà messo in punizione per questo.»
Medea non ascoltò quasi le parole della donna. Riusciva soltanto a vedere il sangue di Soren davanti a sé. Avrebbe voluto piangere, ma nessuna lacrima corse lungo le sue guance. Aveva cercato di metterlo in guardia, gli aveva detto che avrebbe finito col fargli del male, perché era cattiva e quel giorno l’aveva dimostrato davanti a tutti.
Quando la professoressa, pochi minuti dopo, li congedò, Medea si affrettò a uscire dalla stanza.
«Aspetta», si bloccò non appena udì la voce di Soren. Non avrebbe dovuto fermarsi, lo sapeva, ma voleva capire quanto male gli avesse fatto. «Mi dispiace di averti spaventata prima, ma…»
«È colpa mia… io…»
«Non è vero… non avrei dovuto afferrarti in quel modo.»
Medea sentì le lacrime pungerle gli occhi e scorrerle lungo le guance. Non sapeva nemmeno perché stesse piangendo, in quel momento.
Forse era solo perché Soren era sempre così gentile.
«Dovremmo andare in Infermeria», la ragazza alzò il capo verso un Serpeverde che si era avvicinato al compagno di Casa.
«Vuoi venire anche tu, Medea?»
«Proprio non ti capisco, Soren», Edward si voltò verso il nuovo venuto. Era quell’Hackett che aveva richiamato l’attenzione della professoressa Wilkins, che pareva essersi rintanata dietro la porta chiusa dell’aula. «Avresti dovuto essere felice di veder arrivare la professoressa, in modo da poterle spiegare tutto, invece ti ostini a prendere in considerazione quella piccola Mangiamorte.»
Edward quasi sobbalzò alle parole di Hackett e si voltò ad osservare Medea che stava piangendo e che sembrava essere sconvolta per il taglio che forse aveva procurato a Soren. Non sapeva nemmeno come fosse andata, ma era certo che l’amico non si sarebbe mai preoccupato così tanto per la ragazza se questa lo avesse ferito volutamente.
«Non avresti dovuto nemmeno parlare. Medea è una nostra compagna di Casa e…»
«E, cosa?», disse un altro Corvonero, di cui Edward non ricordava il nome. Medea pareva voler scomparire nel muro. A lei si era avvicinata Rosalinde che stava tentando di consolarla. «Non dovrebbe nemmeno essere a Hogwarts, esattamente come voi due Serpeverde. Spero che i vostri genitori stiano marcendo in una fossa comune.»
A Edward sembrò di aver appena ricevuto una pugnalata, ma non riuscì a dire una parola, mentre alcuni dei ragazzi che si erano fermati intorno a loro si dicevano d’accordo con quello che aveva parlato.
«Stai parlando di cose che non conosci, Jeremy», ribatté Soren con voce tesa.
«Invece le capisco bene. Sei tu che sembri non capire nulla. Eppure, tuo padre era un eroe.»
Edward sobbalzò quando Soren tentò di colpire quel Jeremy con un pugno, ma questi fu rapido a schivarlo. Il giovane Fairchild si lanciò in avanti e afferrò l’amico prima che, sbilanciato, cadesse a terra. La mano destra di Soren, stretta a pugno, era ricoperta del sangue del taglio di cui tutti, lui incluso, parevano essersi scordati.
«Cosa sta succedendo?»
Intorno a lui risuonò un’improvvisa cacofonia di suoni e parole, prima che la professoressa McGranitt imponesse a tutti il silenzio. Edward notò che la donna li stava scrutando con attenzione.
«Soren ha tentato di colpire Jeremy con un pugno», disse uno dei Corvonero che si erano fermati ad osservare.
«Stavano litigando», intervenne un altro.
«John aveva appena detto delle parole orribili, professoressa», mormorò Rosalinde che si trovava ancora accanto a Medea.
Minerva osservò con attenzione gli studenti al centro del semicerchio che aveva trovato nel corridoio davanti all’aula di Pozioni. Una Corvonero era arrivata di corsa nel suo ufficio, probabilmente non pensando che avrebbe potuto rivolgersi alla professoressa Wilkins o a Severus. La signorina Koesel stava singhiozzando sconvolta accanto alla signorina Collins, mentre il signor Hardwick era quasi sostenuto – o trattenuto – dal signor Fairchild. Il signor Hackett e il signor Adair erano di fronte al piccolo gruppetto di Serpeverde e Corvonero.
E l’atmosfera era terribilmente tesa, notò la donna.
«Andate via tutti, tranne le signorine Koesel e Collins e i signori Hardwick, Fairchild, Hackett e Adair», disse, infine, prendendo una decisione forse azzardata, che però credeva la migliore da percorrere. «Voi cinque seguitemi.»
«Professoressa», Minerva si voltò verso il signor Fairchild. «Soren si è ferito durante la lezione.»
«Un motivo in più per seguirmi. Appena saremo arrivati ci occuperemo di lui.»
Soren sorrise grato a Edward prima di iniziare a muoversi, ma quando la professoressa McGranitt si fermò davanti alla porta dell’ufficio del professor Piton si sentì sprofondare. Era certo che avrebbe letto la delusione sul volto dell’uomo perché si era comportato in un modo che non sarebbe piaciuto né a lui né, men che meno, alla mamma.
Sperò quasi che il mago non aprisse la porta, ma invano. Entrò a capo chino, seguendo la Capocasa di Grifondoro e, non appena l’uscio si chiuse alle loro spalle si sentì quasi soffocare ed era certo che non fosse dovuto alla piccolezza della stanza.
«Minerva, che cosa posso fare per te?»
Severus non si era aspettato di vedere entrare la donna, che gli aveva detto, quella mattina, che avrebbe cenato con lui per poter parlare con calma dei ragazzi, insieme a sei studenti. Il suo sguardo cadde subito su Soren Hardwick che teneva il capo chino, quasi si vergognasse di trovarsi lì, in quel momento.
«Questi ragazzi stavano quasi venendo alla mani fuori dall’aula di Pozioni e tu sei il Capocasa di alcuni di loro, ma prima dobbiamo occuparci della mano del signori Hardwick.»
Severus fece cenno al ragazzo di avvicinarsi e notò che Soren evitava accuratamente di incontrare il suo sguardo, come aveva invece sempre fatto quando si era confidato con lui le due volte precedenti.
«Come ti sei tagliato?», chiese, mentre gli esaminava la mano.
«È stato durante l’ora di Pozioni, professore», mormorò il ragazzo. «Dovevamo preparare alcuni ingredienti.»
Severus decise di non commentare quell’informazione, né di dire alcunché sull’incompetenza della Wilkins che non aveva mandato immediatamente il giovane Soren in Infermeria. Si limitò a curare la ferita, fortunatamente superficiale, certo che le parole del ragazzo nascondessero altro, soprattutto considerando che la Corvonero del gruppo aveva il viso terrorizzato e colpevole.
«Signor Hardwick come ti sei ferito? Mi sembra improbabile che tu l’abbia fatto da solo.»
«È stata Medea», interloquì uno dei ragazzi di Corvonero.
«L’ho forse chiesto a te?»
Edward non sapeva cosa pensare. Avrebbe voluto trovarsi in qualsiasi altro posto. O, forse, non voleva riflettere realmente su quello che stava accadendo. Gli era stato detto che Piton era un uomo crudele, ma aveva curato la ferita di Soren con attenzione e aveva messo a tacere rapidamente Hackett.
«Si è tratta di un incidente. Medea stava avendo difficoltà a sezionare un pipistrello e io l’ho aiutata, ma, senza volere, Medea, che teneva il coltello, mi ha ferito.»
Severus osservò per qualche istante il volto di Soren Hardwick. Gli era chiaro che le cose non fossero andate esattamente in quel modo. Il ragazzino aveva parlato in maniera fin troppo misurata, quasi avesse ripetuto più volte quelle frasi nella sua mente e la signorina Koesel aveva lo sguardo colmo di un senso di colpa che riconobbe come fin troppo simile al suo.
«Cosa ha fatto la professoressa Wilkins, signorina Collins?»
«John ha richiamato la sua attenzione dicendo che Medea aveva ferito Soren», iniziò a spiegare Rosalinde timidamente. «La professoressa ha chiesto cosa fosse accaduto e Soren ha detto di essersi ferito da solo e Edward ha confermato, ma la professoressa non ci ha creduto e ha sottratto dei punti a Soren, Edward e Medea.»
«La professoressa Wilkins era forse intenta ad osservare una delle vostre preparazioni, quando il signor Hardwick è stato ferito?»
«No, professore», mormorò la ragazza. «Era seduta dietro la cattedra.»
Soren lanciò un’occhiata verso il professor Piton che gli era parso quanto meno sarcastico nella sua ultima domanda, ma riabbassò subito lo sguardo. Era ancora vicino all’uomo e non voleva osservarlo in volto quando avrebbe dovuto rivelargli come si era comportato.
«Quando siete usciti cosa è accaduto, signor Hardwick?»
«Medea sembrava essere molto preoccupata e mi sono avvicinato a lei per dirle di non farlo perché sapevo che era stato soltanto un incidente. Edward mi ha ricordato che sarei dovuto andare in Infermeria e dato che Medea mi sembrava molto scossa, le ho chiesto se volesse venire con noi. A quel punto, John è intervenuto.»
«E per quale motivo, hai ritenuto opportuno intervenire in una semplice conversazione?», chiese Severus, focalizzando lo sguardo sul ragazzo di Corvonero che Rosalinde Collins aveva chiamato John.
«Ero preoccupato per Soren perché si stava comportando in maniera strana con la Koesel», rispose il ragazzo, lanciando un’occhiata alla compagna di Casa con malcelato sospetto. «Le posso assicurare che Soren è diventato aggressivo e si è lanciato contro Jeremy per dargli un pugno, senza riuscirci.»
Severus notò che il giovane Hardwick teneva, se possibile, lo sguardo ancora più verso il suolo. Non ci voleva un genio per capire che si vergognava per le sue azioni. Nell’angolo in cui si era rifugiata, Medea Koesel appariva ancora più logorata dalla colpa e Edward Fairchild stava osservando il Corvonero chiamato Jeremy con qualcosa di molto simile al dolore.
«E volete veramente farmi credermi che il signor Hardwick ha tentato di darvi un pugno, con la mano ferita, senza nessun motivo?»
«Immagino che non gli sia piaciuto sentirsi dire la verità», affermò Jeremy con sicurezza.
«E quale verità vi siete sentiti in dovere di svelargli?»
«Professoressa McGranitt», disse il ragazzo, voltandosi verso Minerva che aveva assistito in silenzio a tutta la scena, ma che si era posizionata dal lato della stanza dove si trovava la signorina Koesel. «Non credo che dovremmo rispondere a lui. Non è nemmeno un insegnante.»
«Ti sbagli, signor Adair», affermò la donna con voce tagliente. «Un Capocasa vi ha appena posto una domanda ed è vostro dovere rispondere.»
«Io non parlo con un Mangiamorte.»
Minerva invidiò la calma con cui Severus incassò quell’insulto, ma il signor Hardwick apparì incredibilmente irritato, mentre il signor Fairchild lanciava occhiate incerte ora a Piton ora agli altri ragazzi.
«Se non vuoi parlare, signor Adair, qualcun altro lo farà. Magari il tuo compagno.», la strega non si stupì nemmeno quando il signor Hackett non disse una parola. «O, forse, il signor Fairchild?»
Edward deglutì a vuoto, non appena sentì gli occhi neri e impenetrabili di Piton su di lui. L’uomo continuava a comportarsi in maniera totalmente diversa da quella che si era aspettato. Era stato certo che avrebbe agito con crudeltà, che avrebbe mostrato che razza di mostro fosse; invece, stava unicamente ricostruendo la verità e il ragazzo si sentì in colpa per averlo ammirato per come aveva gestito le parole dei due Corvonero.
«Hackett era arrabbiato con Soren. Non so per quale motivo, ma ha chiamato Medea piccola Mangiamorte», disse, cercando di attenersi unicamente ai fatti. «Voleva che Soren lo ingraziasse per aver richiamato l’attenzione della professoressa Wilkins e non era soddisfatto quando Soren gli ha fatto presente che Medea è una loro compagna di Casa. Poi Adair è intervenuto e… ha detto a Soren che Medea non dovrebbe essere a scuola, né… noi Serpeverde e ha detto che… si è augurato che i nostri genitori si…»
Edward si interruppe ricacciando indietro un singulto. Le parole Jeremy facevano quasi più male in quel momento.
«Signorina Collins…»
«Jeremy Adair ha detto che sperava che i nostri genitori stessero marcendo in una fossa comune», rispose la ragazzina con voce tremante. «Poi, Soren ha chiesto loro di non parlare di cose che non capivano e Adair ha detto che era Soren a non capire e ha nominato il padre di Soren chiamandolo eroe. È stato allora che Soren ha tentato di dare un pugno a Adair e, subito dopo, è arrivata la professoressa McGranitt.»
Severus osservò con attenzione il signor Hardwick e poté caprie perfettamente cosa lo avesse fatto scattare. Il ragazzo sapeva che Medea era un’orfana e doveva essere anche a conoscenza della sorte dei genitori di Fairchild. Era quasi del tutto certo che si fosse trattenuto, in un primo momento, ma quando era stato nominato suo padre, l’uomo di cui aveva avuto paura, era scattato.
Ed in quel momento, aveva paura del suo giudizio.
«Signor Hardwick», Soren alzò lentamente il capo, dicendosi che avrebbe tentato di sopportare con coraggio la delusione nel volto del professor Piton, ma gli occhi neri dell’uomo non mostravano quel sentimento. Il viso del mago era impenetrabile, ma quell’espressione gli trasmise uno strano senso di calma. «Immagino che tu sappia che è proibito assalire un altro studente. Servirai una punizione, stasera, alle 19 con me. Mentre non sono per niente certo che il signor Adair e il signor Hackett siano consapevoli che anche provocare una rissa è proibito in questa scuola, così come insultare gli altri studenti e i loro genitori, ma credo che potrebbero acquisire questa consapevolezza. Ognuno di voi perderà trenta punti e servirete tre sere di punizione con me a partire da domani. Mi aspetto di vedere Adair alle 17 e Hackett alle 19.»
«Non può farlo.»
«Posso benissimo o non avete ascoltato le parole della professoressa McGranitt?», i due Corvonero si guardarono l’un l’altro, ma non aprirono bocca. «Potete andare ora, tutti, tranne la signorina Koesel e il signor Fairchild. Sono certo che la professoressa McGranitt vi scorterà più che volentieri in Sala Grande.»
Severus sentì su di sé lo sguardo di Soren, quando il ragazzo raggiunse la porta, e fu stupito di leggervi l’accenno di un sorriso.



Edited by Alaide - 26/9/2023, 22:52
 
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Ecco un nuovo capitolo.
Lascio il link all'elenco dei personaggi e al primo capitolo


Capitolo V



Hogwarts, 15 settembre 2000


Edward rimase immobile, mentre Soren e gli altri uscivano dalla stanza che improvvisamente gli parve grande e terribile. Non sapeva di cosa volesse parlare Piton e non era certo di essere in grado di rispondere come si era sempre aspettato di fare.
«Signorina Koesel», il ragazzo notò che il tono di voce dell’uomo era quasi gentile e che i suoi occhi neri apparivano colmi di desolazione, anche se il volto era incredibilmente controllato. «Ti pregherei di aspettarmi nella stanza che troverai oltre quella porta, mentre parlo con il signor Fairchild.»
Edward avrebbe preferito che Medea rimanesse con lui o che protestasse, ma la ragazzina obbedì senza dire una sola parola. Almeno non stava più piangendo, ma era ancora pallida e sembrava spaventata anche se non come pochi minuti prima.
«Le parole di Jeremy Adair sono quelle di un ignorante, signor Fairchild», affermò Piton, quasi bruscamente, ma a Edward piacque che andasse subito al punto.
E poco dopo si sentì in colpa per quell’apprezzamento.
«Lo so, ma…», si interruppe di colpo. Il professore lo osservò, senza dire nulla, in attesa che lui continuasse ed Edward si disse che non poteva tacere oltre, a meno che non volesse passare per uno stupido. «Non fanno meno male.»
«Com’è naturale che sia, signor Fairchild», commentò Piton.
«I miei genitori sono veramente in una fossa comune, dato che i suoi sim… dato che i loro assassini non… non ho nemmeno un posto dove andarli a piangere. E quello che ha detto Jeremy è stato orribile e mamma e papà non erano cattivi…»
Edward non sapeva per quale motivo avesse pronunciato quelle parole sconnesse. Aveva anche quasi incolpato Piton della morte di mamma e papà, quando sapeva che non avrebbe mai dovuto commettere un errore del genere.
D’altronde, dopo quel pomeriggio, non era nemmeno certo che l’uomo fosse l’essere crudele che si era immaginato.
«Lo so, signor Fairchild, ma ti accorgerai che esistono persone che sanno riempirsi la bocca di parole crudeli», commentò Piton, senza dire nulla in proposito alla frase che si era quasi lasciato sfuggire. E quell’affermazione lo rese ancora più confuso nei confronti di un mago che gli era stato dipinto come un mostro. «Hai agito adeguatamente oggi. Per questo ti assegno quindici punti e altrettanti alla signorina Collins.»
Severus notò che il ragazzo non riuscì a nascondere il suo stupore. L’uomo era convinto che il signor Fairchild avesse temuto che lo punisse per le parole che aveva appena accennato.
Era, d’altronde, più che naturale che non potesse fare a meno di vederlo in tutto e per tutto uguale ai Mangiamorte che gli avevano portato via i genitori.
E, in fondo, lo era.
«La ringrazio, professore.»
«Puoi andare ora, signor Fairchild.»
Forse avrebbe potuto tentare di sondare meglio i sentimenti del ragazzo per capire quanto in profondità fosse stato ferito dalle parole terribili pronunciate da un bambino che doveva aver sentito dire regolarmente frasi del genere nella sua casa. Ma doveva parlare prima con Medea Koesel, con quella ragazzina dall’espressione terrorizzata, di un terrore che aveva visto unicamente nelle vittime delle peggiori torture.
Quando entrò nella stanza dei suoi appartamenti contigua all’ufficio, dove troneggiava l’affollata libreria, notò che la piccola Corvonero si era rannicchiata su una delle poltrone, nella postura di chi desiderava scomparire. Severus andò a sedersi di fronte a lei.
«Avrebbe dovuto mettere in punizione me e non Soren», mormorò la ragazza, senza osare fissarlo in volto.
«Non mi risulta che tu abbia tentato di fare a botte con un tuo compagno di Casa.»
«Ma io… sono stata io a ferire Soren.»
Medea alzò gli occhi verso di lui e Severus trovò di nuovo espresso il senso di colpa ed era terribile vedere quel sentimento riflesso nelle iridi di un’innocente, di una bambina ferita dalla vita.
«Per un semplice incidente, signorina Koesel, come ha spiegato egregiamente il signor Hardwick.»
«Non… non è stato un incidente.»
Medea si chiese se dovesse parlare con l’uomo, spiegargli tutto. Aveva sentito la Direttrice parlare di lui e ricordava che lo aveva definito con parole molto simili a quelle che usava con lei. Forse, lui avrebbe capito.
Oppure, avrebbe scritto immediatamente all’orfanotrofio.
«Quindi hai preso in mano il coltello e invece di tagliare gli ingredienti, hai deciso di ferire il signor Hardwick?»
Medea non sapeva come rispondere a quella domanda. Era apparentemente semplice, ma a lei appariva simile ad una montagna da scalare, forse, perché nessuno l’aveva mai interrogata in quel modo.
«Non è importante», mormorò debolmente.
«Invece, signorina Koesel, la tua intenzionalità o meno a ferire il signor Hardwick è la chiave di tutto.»
Severus notò la bambina diventare nervosa e incerta. E gli occhi, cerchiati di rosso, tornarono a riempirsi di lacrime, che però non caddero lungo le guance smunte di Medea. Sembrava quasi un animale braccato e l’uomo sperò di star agendo nel miglior modo possibile, per quanto ne dubitasse.
Forse, aveva semplicemente scelto uno scopo impossibile per la sua vita.
Forse, aveva toccato troppe volte l’oscurità per poter essere un sostegno per quei bambini innocenti.
«Non volevo… ma, non importa, alla fine provoco sempre del male… è che sono cattiva, professor Piton.»
«Eppure, il signor Hardwick non sembra crederlo, e nemmeno la signorina Collins e il signor Fairchild.»
«Perché non capiscono, loro…», la voce della bambina si spezzò. Tirò su con il naso e si passò una mano sugli occhi, come se volesse impedirsi di piangere ancora. «Loro sono buoni e io… non voglio fare loro del male.»
«Un’idea più che ragionevole, signorina Koesel, e che non fa certo di te una persona cattiva.»
«Ma io lo sono. Finisco sempre con il fare del male agli altri… ho fatto molte cose malvage…»
Severus osservò il volto dilaniato dal dolore, dalla paura e dalla colpa di quella bambina e si chiese cosa le fosse accaduto, cosa la facesse credere così fermamente di essere cattiva, di non poter fare amicizia con gli altri ragazzi per quello.
«Credo che tu abbia sentito parlare di me», decise di dire. Non sapeva se quella fosse la scelta giusta, ma voleva far comprendere a quella bambina che era impossibile che lei fosse malvagia, che già il fatto che stava tenendo a distanza Soren per evitare di fargli del male la rendeva ben diversa. «E oggi hai sentito uno di quei Corvonero chiamarmi Mangiamorte.»
«La Direttrice dell’orfanotrofio era molto arrabbiata quando è stato assolto», mormorò la ragazza, scuotendo poco dopo il capo, come se si fosse appena pentita di aver pronunciato quelle parole.
«Ti posso assicurare, signorina Koesel, che ho compiuto e ho visto molte azioni malvage e nessuna di queste era un incidente come quello che è accaduto oggi.»
«Ma io ho fatto del male anche prima. Non volevo mai, ma l’ho fatto… loro…», la bambina si interruppe di colpo, reprimendo malamente un singhiozzo.
«Loro, signorina Koesel?»
«Mia madre e mio zio… io non volevo… e non volevo nemmeno uccidere Toby, ma la Direttrice…»
La voce della bambina si spense nei singhiozzi che iniziarono a scuoterne il corpo che a Severus parve troppo esile. L’uomo rimase per qualche lungo istante immobile, prima di inginocchiarsi davanti a Medea. Non aveva idea di come si potesse confortare un’innocente così ferita, che era stata circondata da adulti orribili, peggiori dei suoi genitori. Non credeva che la ragazza fosse mai stata picchiata, ma nemmeno suo padre l’aveva mai indotto a uccidere. Il sangue che gli macchiava le mani era unicamente frutto delle sue scelte atroci.
«Medea», disse, sperando di star compiendo la scelta giusta a chiamarla per nome. «Chi era Toby?»
La bambina alzò il capo e incontrò lo sguardo dell’uomo. Il professor Piton si era inginocchiato davanti a lei e le stava parlando con una voce calma che le comunicò una tranquillità che non provava da quando suo padre era morto.
«Un pipistrello», disse, decidendo di rivelargli tutto. Era certa che lui l’avrebbe capita. Aveva detto di aver fatto delle cose cattive, anche se Medea era sicura che non fosse mai stato malvagio come sua madre. «All’orfanotrofio, la Direttrice è molto attenta a separare i bambini cattivi da quelli buoni. Dormiamo da soli e… non possiamo parlare con gli altri, nemmeno durante le lezioni, per non contaminarli con il nostro sangue marcio. Io… una notte un piccolo pipistrello è entrato nella mia stanza. Era estate e c’era caldo. Aveva un’ala ferita, così ho provato a fasciarla e è diventato mio amico. L’ho chiamato Toby… ma… non avrei dovuto parlare con nessuno.»
La voce di Medea si spense in un singulto angosciato e Severus non le disse nulla, non la forzò a continuare il discorso, perché poteva immaginare fin troppo bene in che direzione andasse. La bambina era stata scoperta e i mostri che gestivano quell’orfanotrofio l’avevano costretta a ucciderlo, come suprema forma di punizione.
«Non è stata colpa tua se Toby è morto», disse, cercando di usare un tono confortante, ma non credeva nemmeno di esserne in grado. Pomona sarebbe stata ben più adatta a quel compito.
«Io non volevo… non volevo…»
«Quando ti hanno ordinato di colpirlo, ti sei sentita strana?»
«No… la Direttrice mi ha detto che ero cattiva e che avrei dovuto dimostrare la mia malvagità e… io le ho detto di no, ma lei… io non volevo…»
«Lo so», rispose soltanto, mentre nuove lacrime colavano lungo le gote della bambina. «Così come oggi non volevi ferire il signor Hardwick.»
Medea voleva disperatamente credere alle parole del professor Piton, ma sarebbe stato troppo bello scoprire di non essere così sbagliata, come aveva sempre creduto e come le era stato ripetuto tante volte nell’orfanotrofio.
L’uomo era ancora inginocchiato davanti a lei e quel gesto la fece piangere ancora di più. Erano anni che non si comportava così di fronte a un adulto. Ricordava ancora che papà la abbracciava e le diceva che tutto sarebbe andato bene, ma papà era morto e lei era rimasta da sola con la madre e da allora tutto era peggiorato.
«Soren… mi odierà?»
«Puoi chiederglielo tu stessa.»
«Non posso… Rachel lo dirà alla Direttrice e…»
Severus notò l’angoscia negli occhi della bambina. Almeno sembrava essere scomparso quel doloroso senso di colpa e il terrore che aveva notato non appena era entrata con gli altri ragazzi. Non osò chiederle che cosa avesse dovuto fare quando sua madre era ancora viva, ma, avendo intuito di chi fosse figlia, poteva immaginare che Medea ne fosse uscita devastata. Poi, all’orfanotrofio, l’avevano plagiata a tal punto che era giunta a credere di essere cattiva.
E Severus era certo che quella breve conversazione non sarebbe bastata per disfare quello che era stato fatto e quel giorno i ricordi della morte del pipistrello che aveva adottato dovevano essere risorti e, immersa in quelle memorie dolorose, non si era resa veramente conto di quello che stava facendo.
«La signorina Honeychurch non si trova ovunque, signorina Koesel», decise di dire.
«Ma non è la sola e ricordo che Antigone è stata punita quando è tornata all’orfanotrofio dopo il suo primo anno.»
«E credi veramente che possano entrare in queste stanze senza il mio permesso?»
Non sarebbe stato facile, ma avrebbe potuto offrire un rifugio a quella bambina ferita e, nel frattempo, avrebbe lavorato per capire come sottrarla a quel maledetto orfanotrofio. Gli sarebbe servita la collaborazione di Minerva, a cui non avrebbe detto nulla di quanto Medea gli aveva confidato, a meno che la bambina non fosse stata d’accordo.
Forse, era per aiutare quella bambina che era sopravvissuto.
«Potrò… potrò tornare?»
C’era una strana luce di speranza negli occhi della ragazza, una speranza adombrata dall’angoscia, ma che riuscì a renderlo più fermo nel suo proposito.
«Evidentemente, signorina Koesel», affermò. «Devi andare però, ora. L’inizio della cena è già passato da un pezzo.»
La bambina annuì, accettando poco dopo il fazzoletto che le porse affinché si asciugasse le lacrime. Severus si alzò in piedi, imitato da Medea che sembrava più tranquilla, mentre usciva dalla stanza e, subito dopo, dall’ufficio.
L’uomo rimase a lungo fermo davanti alla porta, chiedendosi se fosse veramente lui la persona più adatta per aiutare quella ragazza, se quell’idea impulsiva di invitarla nelle sue stanze, per trovarvi un rifugio, le avrebbe veramente fatto del bene.
Eppure, voleva permettersi di sperare di poterla realmente aiutare, di poterla proteggere. Quando tornò nella parte privata dei suoi alloggi, chiamò immediatamente Ory per poter mangiare un boccone prima di supervisionare la punizione di Soren, ma non riuscì a gustare il poco cibo che consumò, cosa che gli costò un’occhiata tutt’altro che lieta dell’elfa, che borbottò qualcosa di molto simile a “Il signor Preside dovrebbe prendersi maggior cura di sé”, in un inglese sorprendentemente corretto.
Ma non importava quello che diceva Ory.
L’orrore di quello che aveva subito Medea gli aveva fatto montare in gola il sapore amaro della bile. Per quanto avesse tentato in quegli anni di fare i conti con il proprio passato, di analizzare tutto con occhio distaccato, in quel momento, non riusciva a evitarsi di provare un sordo senso di colpa di fronte al fatto che quella bambina stesse soffrendo così tanto, che vivesse in una sorta di prigione, quando lui, che aveva commesso realmente delle azioni orribili, era libero. Minerva non l’avrebbe definita una vera libertà, perché la sua vita era comunque sottomessa al controllo aleatorio di Auror zelanti, ma non stava languendo in una cella di Azkaban, dove sarebbe probabilmente già morto, considerando che il carcere era popolato da Mangiamorte e da simpatizzanti dell’Oscuro che avrebbero punito più che volentieri il traditore.
Si sentì quasi schiacciare dal peso della responsabilità nei confronti di quei bambini.
Anche i due Corvonero che avevano dato il via a quanto accaduto quel giorno non erano altro che vittime degli adulti che avevano inculcato in loro un odio che non avrebbe dovuto esistere. La stessa signorina Honeychurch era una vittima di quella stessa Direttrice che aveva torturato Medea, nella forma più subdola di tortura.
E il Ministero pareva cieco di fronte a tutto quello.
L’intero Mondo Magico era ottenebrato al punto da ignorare le conseguenze che la Guerra Magica stava avendo sui più innocenti.
Quando sentì bussare alla porta, nascose il senso di colpa e il peso della responsabilità in un recesso nascosto della sua mente. Soren Hardwick entrò con un’espressione abbattuta.
«Mi dispiace veramente, professor Piton, per come mi sono comportato oggi», esordì il ragazzo. «Non avrei dovuto perdere la pazienza a quel modo, ma Jeremy aveva insultato i genitori di Edward e di Medea e, poi, ha nominato mio padre e… non avrei dovuto reagire.»
Soren aveva riflettuto a lungo su quello che aveva quasi fatto, durante tutta la cena. Isabel era andata a parlare con lui, chiedendogli se le voci che giravano per la scuola fossero vere, anche se quanto era accaduto era stato incredibilmente ingigantito. La ragazza lo aveva rincuorato per quanto non fosse certo che avesse realmente compreso per quale motivo era scattato proprio in quel preciso istante.
«No, non avresti dovuto», disse il professore. «Voglio sperare che ciò che è accaduto ti serva da lezione. Seguimi.»
Soren non disse nulla, ma si ripromise di non deludere più l’uomo che era stato così gentile da starlo ad ascoltare. Si limitò a procedere dietro al mago, fino a quando non arrivarono in quello che era palesemente un laboratorio di pozioni.
«Questa sera dovrai preparare alcuni ingredienti e mi aspetto un lavoro preciso, signor Hardwick.»
Il ragazzo annuì, mettendosi subito davanti alla postazione che gli indicò il professore, ripromettendosi di fare tutto nel migliore dei modi.
«Spiegami adesso perché hai mentito quando ti ho chiesto, oggi pomeriggio, cosa fosse accaduto in classe.»
Soren alzò lo sguardo dai fiori di lavanda su cui stava lavorando con attenzione. L’uomo si trovava davanti a lui e stava lavorando ad una pozione, che gli parve particolarmente complessa, considerando che nel tempo che si prese per rispondere, il professor Piton aveva già aggiunto due ingredienti e mescolato sia in senso orario che in senso antiorario.
«Temevo di mettere nei guai Medea.»
«Quindi non è stato un incidente, signor Hardwick?»
Il ragazzo si chiese per un attimo come facesse l’uomo a interrogarlo e nel frattempo a seguire tutti i passaggi di quella pozione. Non era per niente certo che la professoressa Wilkins ne sarebbe stata in grado.
«No, è stato un incidente», protestò, senza nemmeno rendersi conto di aver abbandonato il suo lavoro.
«Ho bisogno di quella lavanda tra cinque minuti, signor Hardwick.»
Severus notò l’espressione stupita del ragazzo, che si mise alacremente al lavoro. Aveva riflettuto a lungo sul tipo di punizione a cui sottoporre il piccolo Soren e, alla fine, aveva deciso di fargli preparare alcuni ingredienti, approfittando del momento per porgli le domande che riteneva opportune. Lasciò che il signor Hardwick continuasse a lavorare in silenzio, fino a quando non ebbe preparato tutti i fiori di lavanda, con una cura che lo sorprese.
«E questo incidente come è accaduto?»
Il ragazzo portò più vicino a sé gli occhi di scarafaggio da ridurre in poltiglia, prima di risponde:
«La professoressa Wilkins ci ha assegnato alcuni ingredienti da preparare.»
«Per quale pozione?»
«Non lo so. Ognuno di noi aveva delle cose diverse. La professoressa non ci ha detto a cosa sarebbero servite. Io avevo della belladonna e degli scarafaggi, mentre Medea aveva dei gambi di margherita e un pipistrello.»
Severus si chiese se la professoressa Wilkins fosse stata a conoscenza di quello che era accaduto a Medea nell’orfanotrofio oppure se si fosse trattato unicamente di una malaugurata coincidenza, ma non credeva realmente a quell’ultima ipotesi, considerando che c’era già stato il precedente dell’isolamento della ragazza nella classe.
«Cos’è accaduto?»
«Medea si è come… non so nemmeno come spiegarlo, ma mi è sembrato che non fosse più realmente lì, con noi. Ha lavorato ai gambi di margherita con cura, però, subito dopo, quando ha iniziato a occuparsi del pipistrello è diventata pallida e sembrava veramente in preda al terrore. Ho provato a chiamarla, ma non mi ha risposto e poco dopo ha preso in mano il coltello e ha colpito il pipistrello. Le ho afferrato il polso, ma devo averla spaventata. Per questo sono stato ferito.»
La narrazione di Hardwick non faceva altro che confermare quello che aveva già intuito durante il suo colloquio con la ragazza.
«Come sta Medea, professore?»
Soren si chiese se non fosse stato impertinente a porre quella domanda, quando avrebbe dovuto essere in punizione, ma sapeva che il professore aveva parlato con la compagna di Casa.
«Immagino tu sappia che non ti posso dire quello che la signorina Koesel mi ha detto», il ragazzo annuì immediatamente alle parole dell’uomo. «Ma dovrai essere cauto.»
«Ma potrò parlare con lei?»
«Lontano da occhi indiscreti, signor Hardwick.»
Soren alzò lo sguardo dal suo lavoro, dove stava facendo a pezzi regolari una strana sostanza gelatinosa di cui non voleva realmente conoscere l’origine.
«Potremmo incontrarci qui? Le prometto che non saremo d’intralcio e, se necessario, posso preparare tutti gli ingredienti che vuole.»
Severus osservò il volto del ragazzo, cercando di capire come fosse giunto a quell’idea, senza che lui dicesse nulla, né che lo spingesse in quella direzione.
«Se non trovi nessun altro luogo dove andare.»
«Lei è il professore di cui mi fidi di più», ammise il ragazzo con un sorriso. «E le sono grato per tutto quello che sta facendo per Medea o per me.»
Severus spense delicatamente il fuoco sotto il calderone che aveva utilizzato per creare una pomata che avrebbe potuto, se non si fosse rivelata un altro buco nell’acqua come tutti gli altri tentativi, cicatrizzare completamente la ferita al collo.
«Dovresti tornare nella tua sala comune, signor Hardwick», decise di dire, senza osare rispondere a quella gratitudine che, con ogni probabilità, era malriposta.
Soltanto quando il ragazzo uscì dalle stanze, Severus ricordò di aver già incontrato una volta Soren. Non aveva collegato fino a quel momento il bambino di allora e il Corvonero che era diventato.

 
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view post Posted on 8/10/2023, 14:16
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Di seguito troverete il primo interludio, ovvero un capitolo "flashback".
Lascio, come sempre, il link all'elenco dei personaggi e al primo capitolo


Interludio I



15 luglio 1995



Il bambino teneva stretta la mano della mamma.
Non riusciva nemmeno a guardarsi intorno e, forse, aveva anche un po’ paura. Non era abituato a vedere tanta gente e avrebbe voluto tornare subito nella casa dove papà diceva sempre che lui e la mamma sarebbero stati al sicuro.
Si sentiva anche felice di poter comprare dei libri.
Papà aveva detto che quella era una cosa da grandi e lui era ormai grande, dato che aveva compiuto sei anni a gennaio e mamma gli aveva insegnato a leggere e a scrivere. Ogni tanto dalle finestre di casa vedeva dei bambini che andavano nella piccola scuola di paese, ma papà aveva spiegato che sarebbe stato un problema se gli fosse capitata una magia accidentale in mezzo a quei piccoli Babbani.
E, il bambino credeva che papà avesse ragione.
Mentre avanzavano, gli parve che ci fosse sempre più gente e fu felice di ritrovarsi nella libreria.
«Quanti libri possiamo prendere, mamma?»
«Quelli che vuoi.»
Era quello che aveva ribadito anche Simon, prima che uscissero, si disse Madeleine Hardwick, tentando di non mostrare alcuna traccia di nervosismo, al trovarsi a Diagon Alley dopo tanti anni. Forse, avrebbe dovuto chiedere al marito se non fosse il caso che andasse lui a comprare dei libri per il figlio, ma uscivano così di rado e la sera precedente le era parsa una buona idea.
Era certa, inoltre, che Simon avesse ragione nel voler far scegliere i libri a Soren e Madeleine sapeva che suo marito era un uomo buono e generoso, che era stato in grado a darle un equilibrio dopo che si era incontrati fortuitamente quando lei aveva lasciato Hogwarts da un anno.
«Mamma…», il bambino le aveva lasciato andare la mano e si era avvicinato ad alcuni libri di piccole dimensioni dalle copertine variopinte. Madeleine si accucciò accanto a lui, osservando, su uno dei volumetti, un gufo che volteggiava lieve. «Che ne dici di questo?»
La donna osservò il libro che Soren stava indicando, che mostrava una grande lente d’ingrandimento che si muoveva intorno al titolo.
«Se ti sembra interessante possiamo prenderlo.»
«A papà piacerà?»
«Sono certa di sì.»
Scelsero altri tre libri. Erano racconti per bambini che sembravano ispirarsi ad alcuni dei generi più diffusi nel mondo Babbano. Era certa che Soren, che aveva imparato a leggere da qualche mese, si sarebbe divertito. Il figlio era un bambino intelligente e sensibile, che Madeleine riusciva ad immaginare come un futuro Corvonero, per quanto Simon ripetesse che aveva tutte le caratteristiche di un Tassorosso.
Quando uscirono dal Ghirigoro Magico la strada era più affollata di prima e Madeleine si bloccò poco distante dalla porta del negozio. Strinse con più forza la mano del bambino e la borsa con i libri.
«Dobbiamo passare in mezzo a tutta quella gente, mamma?»
Soren si voltò verso la donna.
La mamma era molto pallida, ma papà aveva detto molte volte che mamma era fragile.
Il bambino non sapeva cosa volesse dire di preciso.
Però, forse, era per quello che rimanevano quasi sempre in casa.
«Stringimi forte la mano. Non ci metteremo molto ad andarcene.»
Soren annuì.
Poi tutto divenne orribile.
Qualcuno li spintonò e perse la presa con la mano della mamma.
Si guardò intorno, ma non la vedeva più. C’erano troppe persone e lui era troppo piccolo. Un gruppo di maghi, poco distante da lui, stava discutendo a voce molto alta e Soren non riusciva a sentire altro.
Si spostò un poco, sperando di vedere meglio, ma c’erano solo tante persone che andavano e venivano e nessuna traccia della mamma.
Sentì alcune lacrime bagnargli le guance, ma le asciugò.
Papà gli aveva detto che era un bambino grande, ormai.
E che i bambini grandi non piangono.
Decise di rimanere dov’era, ma si ritrovò quasi trascinato dalla gente che camminava per la strada, riuscendo a fermarsi soltanto quando fu davanti a un negozio che non sembrava interessare a nessuno.
Guardò oltre la vetrina, alzandosi in punta di piedi.
Dentro c’era soltanto una persona. Forse, poteva chiedere se lo poteva aiutare a ritrovare la mamma.
Era un bambino grande, si ripeté, mentre apriva la porta.
Ma quando fu dentro il negozio non sapeva cosa fare.
Sentì l’uomo parlare con un altro signore che non aveva visto prima.
Facendosi coraggio, si fece avanti.
«Cosa ci fai qui?»
La voce del bottegaio si era fatta decisamente aspra, notò Severus, per quanto avrebbe dovuto essere felice di aver sentito aprirsi la porta di un negozio frequentato da una manciata di clienti fedeli.
Si voltò soltanto quando sentì tirar su col naso.
Ad entrare era stato un bambino di circa sei anni che aveva gli occhi terribilmente spaventati, come quelli che sapeva che avrebbe incominciato nuovamente a vedere ora che l’Oscuro Signore era tornato.
«Non trovo più la mamma», biascicò il bambino.
«Ti sei forse allontanato da dove ti aveva chiesto di aspettarla?»
Severus sapeva di aver parlato con voce aspra, anticipando il bottegaio che non sembrava affatto contento di quello che stava accadendo e che, forse, sarebbe stato ben più crudele di lui.
«No, signore», mormorò il bimbo, con voce timida. «Stavo tenendo per mano la mamma, ma c’era molta gente e ci siamo separati.»
Soren sperò di aver spiegato tutto per bene – a papà non piaceva quando parlava male – e che quel signore tutto vestito di nero lo aiutasse.
«E non hai pensato che sarebbe stato meglio aspettarla?»
«Ci ho provato, ma c’erano troppe persone. Si muovevano tutte.»
Severus osservò con attenzione il volto del bambino e tentò di immaginarsi la scena. Poteva quasi vedere il piccolo venir separato dalla madre e essere preso dal panico in mezzo a tanta gente indifferente.
Quello che non riusciva realmente a comprendere era perché la donna non avesse usato un incantesimo per rintracciare il figlio. Non poteva essere un Nato Babbano, considerando l’età e questo lasciava spazio unicamente ad una madre Magonò, ma era un caso estremamente raro vedere un mago o una strega sposarne uno. Anche tra le famiglie più favorevoli al Mondo Babbano, l’idea di avere un Magonò in famiglia risultava sgradita.
Quindi o la donna era una strega incompetente o era in preda al panico.
«Come si chiama tua madre?»
Non seppe nemmeno lui perché si stava interessando tanto alla questione. Avrebbe dovuto preoccuparsi di ben altro, prepararsi sempre più all’orrore che sarebbe inevitabilmente arrivato, dopo che era riuscito a convincere l’Oscuro di esser ancora un suo fedele servitore.
Invece, se ne stava lì, in quel negozio di ingredienti, a interessarsi ad un bambino che aveva perso la madre.
«Madeleine Hardwick», affermò il bambino con quella sua voce timida, che fece credere a Severus che il piccolo non fosse abituato a stare in mezzo alle persone.
«In che Casa era?»
Forse, sarebbe riuscito a risalire al volto della donna. Considerando l’età del bambino, doveva essere stata una sua alunna durante i suoi primi anni di insegnamento.
«Tassorosso, proprio come papà, che si chiama Simon Hardwick.»
Il bambino lo stava osservano con uno sguardo incredibilmente innocente, di un’innocenza che, quando sarebbe scoppiata una nuova guerra magica, si sarebbe spezzata in mille pezzi. Non aveva alcun obbligo nei confronti del piccolo, ma sentiva che era suo dovere fare qualcosa.
O, forse, più semplicemente, voleva tentare di compiere una buona azione, quando il suo futuro sarebbe stato inesorabilmente costellato di atti orribili, compiuti per mantenere la sua copertura.
«Adesso uscirò dal negozio e cercherò tua madre», annunciò, mantenendo un tono di voce impassibile, chiedendosi se la donna non fosse la signorina Seabrook, il che avrebbe spiegato per quale motivo non avesse già ritrovato il figlio. «Non allontanarti da dove ti trovi.»
Soren annuì all’uomo vestito di nero e, quando il mago chiuse la porta alle sue spalle, rimase perfettamente immobile.
Era contento di aver trovato quel signore dall’aspetto spaventoso, ma che era, in realtà, molto gentile. Era certo che avrebbe trovato subito la mamma.
Non sapeva nemmeno lui perché ne fosse così sicuro. Però lo era e mamma gli diceva sempre che aveva un buon intuito.
Eppure, il tempo passava e Soren si sentiva sempre più preoccupato.
Si alzò in punta di piedi per guardare al di là della vetrina, ma c’era solo una massa di persone che andava e veniva.
Tirò su col naso e, per evitarsi di piangere, decise di osservare meglio il negozio. C’erano molte cose strane, che si guardò bene dal toccare, ma alcune erbe avevano un buon odore.
Si stava avvicinando ad uno scaffale quando sentì la porta aprirsi e il bambino si sentì felice di aver avuto fiducia nell’uomo in nero.
«Soren», mormorò la donna, inginocchiandosi ed abbracciando il figlio.
Severus rimase immobile in un angolo nel negozio di ingredienti da cui si serviva. Non era quello utilizzato, di solito, dagli studenti di Hogwarts, ma un altro, più piccolo e meno frequentato, che forniva ingredienti e calderoni di migliore fattura. Da dietro il banco, sul fondo, il proprietario non sembrava affatto contento, ma Severus era certo che sarebbe stato soddisfatto non appena madre e figlio sarebbero usciti e lui avrebbe pagato il conto degli ingredienti di difficile reperibilità che aveva ordinato mesi prima.
«Professor Piton», disse improvvisamente la giovane donna, che si era rivelata essere effettivamente Madeleine Seabrook, una Tassorosso a cui aveva insegnato dal terzo al settimo anno. «Grazie.»
La giovane donna non disse altro, ma Severus l’aveva trovata prossima ad una crisi di panico, mentre cercava il figlio. Avendola avuta come allieva, non si stupiva nemmeno che non avesse utilizzato nessun incantesimo di quelli che ogni madre strega imparava non appena il figlio iniziava a camminare.
«Grazie», le fece eco il bambino con un sorriso.
Severus annuì soltanto a quei ringraziamenti, evitandosi l’imbarazzo di rispondere ad una parola che aveva sentito rivolta a lui estremamente di rado.
«Mamma, cosa sono quelle erbe profumate?»
La risposta della madre si perse nella bottega, mentre Severus si avvicinava al bancone e pagava.
«Se vuole, signora, esistono dei prodotti pensati per i bambini», disse il bottegaio, non appena gli ebbe dato il resto, avvicinandosi, improvvisamente ossequioso, a madre e figlio.
Severus osservò il piccolo che pareva decisamente interessato agli ingredienti che lo circondavo e si ricordò di aver desiderato, quando aveva avuto la stessa età del bambino, uno di quei piccoli kit per piccoli pozionisti, ma non aveva nemmeno osato parlarne con Tobias e Eileen, perché aveva saputo che il primo sarebbe andato in escandescenze e la seconda sarebbe rimasta passiva e indifferente di fronte a quel desiderio.
Notò che Madeleine Seabrook, ora Hardwick, appariva incerta, mentre il figlio sembrava entusiasta dell’idea, ma si accorse anche che il bottegaio stava tentando di imbrogliare una donna che appariva palesemente disorientata.
«Se mi posso permettere», disse, decidendo di intervenire, senza capirne veramente la ragione. «Esistono prodotti di certo più promettenti.»
Il bottegaio gli lanciò un’occhiataccia, ma Severus sapeva di essere uno dei suoi migliori clienti, prima di mostrare alla donna il suo prodotto migliore.
Sentì per qualche istante su di sé gli occhi grati del bambino, prima di aprire la porta della bottega e andarsene.
Quando si ritrovò nello squallore di Spinner’s End l’incontro di quel giorno gli parve già lontano, quasi perso nella nebbia dei ricordi.
D’altronde, si disse, non sarebbe sopravvissuto alla guerra incombente e, quando il piccolo Hardwick sarebbe giunto a Hogwarts, un altro gli avrebbe insegnato Pozioni.

 
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