Il Calderone di Severus

Ania_DarkRed86 - I know how I feel when I'm around you, Genere: generale, introspettivo - Epoca: post 7° anno - Pairing: Snarry - Personaggi: Severus, Harry, Ginny, Minerva - Avvertimenti: AU

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view post Posted on 17/5/2021, 18:44
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Dalle nebbie della Valacchia

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Titolo: I know how I feel when I’m around you
Autore: Ania_DarkRed
Data: 9/10 febbraio 2021
Tipologia: one shot
Rating: per tutti
Genere: generale, introspettivo
Personaggi: Harry Potter, Severus Snape, Ginny Weasley, Minerva McGonagall
Pairing: Severus/Harry
Epoca: post 7° anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: La lontananza non serve a nulla se ti regalo la mia mente e tu mi regali la tua.

Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. La trama di questa storia è invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.

La poesia iniziale (e relative citazioni nella storia), invece, è di mia esclusiva proprietà, pertanto è vietata ogni riproduzione completa o parziale e se dovete proprio prendere qualcosa, chiedete! :woot:

Nota: il titolo della storia è un verso della canzone Roulette dei System of a Down <3

Nota 2: storia scritta per Sfida n. 5 FA+FF : San Valentino!



Ti regalerò la lontananza.
Il silenzio contro inutili parole urlate sulla pelle nuda.
Una stanza vuota e un letto altrettanto desolato.
Un tavolo deserto macchiato di vino
mentre la notte comincia a perdere il buio,
scacciato da una mano dorata che lo inghiotte.
Sogni fuori dai pensieri.

Ti regalerò occhi che guardano altrove.
Voltarsi per percorrere un altro sentiero,
uno di quelli che non è per te.
Mura che tremano di amplessi diversi.
Un discorso a metà lasciato oltre una finestra,
là dove scompaio bramando ossigeno come un fuoco
e acqua che spenga ogni desiderio impuro.
Una voce annichilita.

Ti regalerò un addio.
Una musica con cui ballare tutta la notte sotto la pioggia.
Qualcuno che ti aspetti a casa per asciugarti.
Vestiti che possono rimanere a terra
mentre fuori il sole si nasconde per poi mostrarsi di nuovo,
nulla che debba rimanere segreto.
Un tempo di cui non vergognarsi.


- Ti regalerò, Anastasia Salvatori -





I know how I feel when I’m around you



14 febbraio 2003: ciò che detesto



Harry prese la mano di sua moglie, la strinse alla sua come se avesse paura potesse sfuggirgli, che potesse lasciarlo da un momento all’altro. La osservò per qualche istante, rosata, morbida, sapeva di dolci appena fatti. Quell’odore le era rimasto addosso, sugli abiti, sulla pelle; persino il suo sorriso sapeva di biscotti.
Lo detestava.
Lo detestava così come ormai detestava la sua stessa persona.
Lo detestava come i giorni di pioggia.
Fuori pioveva e il suo stomaco riprese ad aggrovigliarsi, inspiegabilmente, senza che potesse in alcun modo fare qualcosa, succedeva e basta, e allora strinse ancora di più la mano della donna che aveva accanto.
Perdona le mie labbra. Perdona la mia bocca.
Perdona il mio cuore spezzato.

Che cosa aveva la pioggia di così tanto deprecabile?
Si era sposato giovane, gli era sembrata la cosa giusta da fare appena terminato di contare i morti, costruire dopo aver guardato così tanta distruzione.
Aveva chiesto e basta, con lo stesso trasporto con cui avrebbe chiesto gli ingredienti di una pozione, e a sua moglie era andata bene lo stesso, non era tipo da romanticherie neppure lei.
Era stato tutto piuttosto veloce, senza tante complicazioni. Poche parole e tutto era finito.
Lui non era venuto, ed era da lì che erano cominciati tutti i loro problemi.
Pioveva e odiava tutte le sue dannate gocce, ogni singolo sorso trasparente che gli ricordava che lui non c’era più, e che si era preso e tenuto per sé il suo odore e il suo sapore, la sua voce e il suo maledettissimo mezzo sorriso, mentre a lui era rimasta soltanto una borsa.
Perdona i miei peccati. Perdona i miei sospiri oltre.
Perdona la mia carne.

Lasciò per un attimo la mano di Ginny per poi riprenderla e guardarsi intorno.


14 febbraio 2002: ciò che prometto



Cosa aveva da perdere?, si chiese di nuovo, giocherellando con la bacchetta tra le dita.
Nulla, fu la risposta che continuava a darsi, tanto aveva già deciso di andarsene, quindi non c’era proprio nulla che avrebbe potuto turbare ulteriormente quei giorni.
Capitava che Minerva, quando s’incontravano nei corridoi o in Sala Grande, lo fissasse in un modo che lo metteva a disagio, socchiudeva gli occhi e glieli puntava addosso, senza dire una parola, senza quasi respirare: aveva forse capito le sue intenzioni?
Impossibile, non aveva fatto trapelare nulla, non lo aveva raccontato a nessuno, era stato meticoloso, calcolatore e freddo, anzi, freddissimo. Avrebbe lasciato una lettera sulla scrivania della preside e si sarebbe dileguato. Poche righe e addio Severus Snape.
Quindi, che cosa poteva andare storto?
Nulla.
Lo avrebbero preso per folle? Già fatto.
Gli avrebbero urlato in faccia del “bastardo”? Già visto.
Aveva fatto di peggio nella sua vita, per cui…
Visto. Visto. Visto.
Continuò a passarsi la bacchetta da una mano all’altra, fissando gli occhi ovunque nella stanza senza realmente guardare niente.
Si grattò il naso, deciso a concentrarsi sui compiti che aveva sulla scrivania, ma un errore talmente grossolano che nemmeno certi Grifondoro avrebbero commesso, lo fece desistere del tutto. Abbandonò le armi e uscì dal buio dei suoi adorati sotterranei per andare non lo sapeva neppure lui dove, ma non appena aprì la porta delle sue stanze, si ritrovò a sbattere contro qualcuno che, forse sovrappensiero, cadde immediatamente a terra.
Severus lo aiutò ad alzarsi: «Che ci fai qui?»
«È vero?» il ragazzo afferrò la mano del professore e si rimise in piedi, con le mani cercò di togliersi la polvere di dosso e infine lo fissò, spavaldo, sembrava quasi arrabbiato.
«Cosa dovrebbe essere vero?»
«Che te ne vai.» Categorico. Duro.
Ah.
«No.»
«No?» un guizzo di speranza?
«Sì.»
«Sì o no?» un guizzo di pazzia.
Snape gli diede le spalle e tornò dentro le proprie stanze, davanti al fuoco che si stava spegnendo e cercò di ravvivarlo: aveva scoperto che fissare le fiamme gli dava un certo conforto, una specie di compagnia. Si riscopriva un po’ bambino ad osservare le ombre che proiettava sulle pareti, giocando con le loro crepe e con le proprie. Soprattutto con le proprie.
«Non mi avresti detto niente. Te ne saresti andato e basta.» Le sue non erano delle domande, non aveva bisogno di chiedere nulla perché, in qualche modo, già sapeva.
«Come lo sai?» Harry non rispose. Entrò e si chiuse la porta dietro. «Lascia stare, non importa, e se sei venuto qua per farmi cambiare idea, puoi benissimo tornare a ciò che stavi facendo.»
«Quando mai qualcuno è riuscito a farti cambiare idea su qualcosa?»
Ti regalerò la lontananza.
Ti regalerò occhi che guardano altrove.
Ti regalerò un addio.

«Qualcosa hai cambiato,» ma lo sussurrò al fuoco, alle fiamme che giocavano senza ombre, con i colori che rimanevano dentro il camino e si accarezzavano lì, soltanto tocchi in mezzo alla legna, baci tra il nero del carbone e la cenere che man mano si accumulava come tante labbra morte e calde prima di finire nell’inevitabile oblio del freddo.
Harry non aveva sentito nulla, per lui Snape era rimasto in silenzio, piegato sulle ginocchia a contemplare ciocchi che se ne andavano piano piano come lo aveva spesso visto fare, rintanarsi lì, fissare quelle inutili e ristrette tinte senza accorgersi di null’altro nella stanza.
Senza rendersi conto che ogni volta che lo allontanava era perché lo voleva ancora più vicino. Che le sue parole sbagliate non lo erano quanto loro.
«Io lo so in realtà come mi sento quando ti sono accanto. Spesso, però, non lo so come mi sento quando ti sono accanto. Tu te ne vai ed io non saprò mai niente.»
Ti regalerò la lontananza.
Ti regalerò occhi che guardano altrove.
Ti regalerò un addio.

Snape si alzò, fissò il fuoco per altri cinque secondi, aveva deciso di contarli, uno ad uno, poi si voltò a guardare il ragazzo che aveva davanti, l’uomo che era diventato. I dolori che ancora si portava dietro.
«Non dovrai mai saperlo. Non dovrai mai sapere niente. Noi non siamo niente, non lo siamo mai stati, sono soltanto fantasie mie e tue, peccati che si sommano ad altri peccati.»
«Sì, ma…»
«Vai da tua moglie, Harry» lo interruppe. Avrebbe voluto farlo sfiorandogli la bocca con le dita, ma non si mosse, senza quasi prendere fiato. Avere qualcuno accanto senza poterlo toccare era morire, guardarne il sorriso senza poterlo respirare. Amare qualcuno che non poteva amarti era un violino che strideva, corde che si spezzavano e ti ferivano le mani lasciando cicatrici che avrebbero continuato a sanguinare ancora e ancora e ancora fino all’ultimo battito.
«Lascia perdere e vattene.»
«Perché?»
«Perché è giusto così.» Harry si mosse, era abbandonato, ferito. Stanco. «Prima, però, voglio darti qualcosa.»
Snape si era seduto alla propria scrivania dopo aver Appellato una borsa dalla stanza attigua, aveva atteso che Harry si sedesse a sua volta e poi gliel’aveva consegnata.
«Cos’è?» chiese curioso, dopo averla presa.
«È stupido, lo so, ma mentre facevo una ricerca in Russia, mi sono imbattuto in un incantesimo, più un’unione di varie magie e pozioni, ad essere precisi. Molto complicate, in realtà, ma le indicazioni dettagliate che ti ho lasciato, dovrebbero essere chiare persino a te.» Harry incassò l’insulto facendo una smorfia mentre Severus sorrideva, fissandolo.
Come avrebbe fatto a lasciarlo stare e ad andarsene semplicemente via?
«Non aprirlo ora!» Snape lo fulminò, puntandogli addosso la bacchetta con cui aveva chiuso repentinamente la sacca. «Dentro troverai tutto ciò che ti serve, ma non aprirlo ora. Soltanto quando me ne sarò andato.»
«Ma…»
«Promettimelo, Harry.»
Ti regalerò la lontananza.
Ti regalerò occhi che guardano altrove.
Ti regalerò un addio.



14 febbraio 2003: ciò che desidero



Harry teneva ancora la mano di sua moglie, ma continuava a guardarsi intorno alla ricerca di qualcuno, come se quel qualcuno potesse apparire da un momento all’altro, ma lo sapeva benissimo che non sarebbe mai successo.
Aveva sua moglie. I suoi amici. Il suo lavoro.
E una borsa.
Aveva aspettato che Snape fosse andato via per aprirla, come gli aveva promesso; per una volta aveva seguito le regole ed una notte era sparito a Grimmauld Place e aveva svuotato tutto il contenuto della sacca di cuoio, nera, logora. Di Severus.
Aveva trovato un libro, pieno di appunti, riflessioni, disegni annotati con maniacale precisione, alla fine del quale trovò, come gli aveva detto, istruzioni chiare per poter eseguire un incantesimo.
Aveva letto tutto con attenzione, divorato quelle parole con famelico interesse, poi, lacerato da un dolore che non sarebbe stato in grado di descrivere, afferrò ogni cosa e la buttò da una parte all’altra della stanza, urlando con tutto il fiato che aveva in gola e con tutta la disperazione che possedeva.
Gli aveva regalato sua madre.
Attraverso i suoi ricordi, la sua calligrafia, le foto che avevano, gli aveva regalato un incantesimo capace di rendere reale la donna che Severus stesso aveva amato e poi perduto, la donna che lo aveva messo al mondo.
Non era una resurrezione, questo lo sapeva, ma l’avrebbe avuta lì, per qualche attimo, le avrebbe parlato e lei avrebbe parlato a lui in un modo che non credeva possibile.
Eppure…
Si era sentito spregevole perché tutto ciò che avrebbe desiderato era Severus, ma questo non glielo aveva mai confessato davvero.
Aveva passato giorni a chiedergli di sua madre, gli aveva mostrato la sofferenza che ancora si portava dietro, quella che in qualche modo condividevano e Snape, alla fine, si era sentito in dovere di fargli quel dono.
Aveva continuato ad urlare, a gridare di quanto era stato stupido per non essere stato sincero.
Gli aveva regalato una mancanza con cui aveva imparato a convivere da tempo mentre quella del professore ancora non riusciva a sopportarla, ed era tutta colpa sua.
Perdona la mia paura. Perdona il mio abbandono.
Perdona le mie parole.

In una notte di pioggia non lo aveva neppure guardato andare via, starsene ad una finestra e vederlo scomparire tra gli alberi della Foresta Proibita per cercarsi un posto nel mondo lontano dal suo passato. Da lui.
«Harry.» Lui voleva una sua camicia sporca di sé, voleva graffi sulla carne, voleva che la pioggia gli restituisse quell’odore che stava ormai svanendo dal suo corpo e dai pensieri.
«Harry, ci sei?» Ginny lo richiamò al presente, gli aveva lasciato la mano e non se n’era neppure accorto, forse perché in realtà gli importava poco.
«Stupida festa.»
«Harry, stai bene?»
«Sì, ma odio questa festa, è… stupida!»
«Vuoi tornare a casa?»
Casa.
Gli sembrava una parola così vuota, inutile, inconsistente. Casa è dove c’è qualcuno che ami, gli aveva detto un giorno, mentre si rivelavano i rispettivi silenzi, e ripensando a quelle parole, come poteva considerare casa qualsiasi luogo dove non c’era Severus Snape?
«No, sto bene, vado a prendere qualcosa da bere, torno subito» e si allontanò da sua moglie, dalla donna che aveva sposato, che aveva giurato di amare.
Aveva bisogno di mandare giù qualcosa di forte, ma non era sicuro che l’avrebbe trovata tra le mura di Hogwarts, con la Sala Grande piena zeppa di studenti. Sospirò e si avvicinò ad un tavolo dove camerieri in livrea servivano cocktail e varie altre cose agli adulti che erano stati invitati alla festa, chiese il liquore più forte che avevano e si allontanò per cercare un posto lontano e indisturbato dove rintanarsi, ma fu fermato dopo pochi passi dalla preside McGonagall.
«Un gufo ha portato questa lettera per te.»
«Per me? E chi l’ha mandata?»
«Non ne ho idea, ragazzo mio» e alzò le spalle prima di tornare alla festa, lasciandolo da solo con una lettera in mano che non aveva né indirizzi né mittenti né altro.
«Come fa a dire che è per me?» domandò anche se Minerva era ormai lontana e non avrebbe potuto sentirlo in alcun modo.
Varcò il grande portone d’ingresso e uscì per prendere un po’ d’aria, un vento gelido lo colpì in pieno volto come uno schiaffo dandogli una sensazione di quiete che iniziava a sciogliergli il nodo allo stomaco.
Aprì la lettera e altrettanto famelico come quella notte a Grimmauld Place, divorò con gli occhi ogni singola parola, poche in realtà, ma quelle che bastavano a fargli amare di nuovo la pioggia che aveva ripreso a scendere sul suo viso e su ogni singola parte del suo corpo.
Bevve il liquore senza neppure assaporare che cos’era.

«Io lo so come mi sento quando ti sono accanto.
Io non lo so come mi sento quando ti sono accanto.
Io lo so che vorrei solo averti qui.»



14 febbraio 2021: ciò in cui credo



La lontananza non serve a nulla se ti regalo la mia mente e tu mi regali la tua.
 
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