Capitolo XIX - parte I
Täuschung
Ein Licht tanzt freundlich vor mir her,
ich folg' ihm nach die Kreuz und Quer;
ich folg' ihm gern und seh's ihm an,
dass es verlockt den Wandersmann.
Una luce danza lietamente davanti a me;
la seguo su e giù;
volentieri le tengo dietro, e capisco
come attiri il viandante.[1]
Londra, 8-9 febbraio 2002
La notte era calata su Londra quel giorno di febbraio e la tempesta che aveva imperversato nella mattina e durante il primo pomeriggio si era placata.
Eppure, a Ygraine sembrava di sentirla ancora.
O, forse, le sembrava piuttosto di sentire ancora la voce di Severus.
Ogni volta che chiudeva gli occhi, riviveva quel che era accaduto quella mattina. Era come se ogni singola parola pronunciata dall’uomo le fosse rimasta impressa nella mente e nell'anima.
Aveva creduto che, con il passare delle ore, potesse diventare più distaccata, che potesse, quasi, analizzare con calma quelle parole. Invece, riusciva unicamente a pensare alla solitudine in cui l’uomo aveva vissuto per quasi tutta la sua esistenza e all’odio che sembrava provare per sé stesso.
A volte, le pareva di sentire ancora le lacrime sulla sua spalla, quelle lacrime silenziose, che sperava che gli avessero, almeno, offerto un po’ di conforto, quel conforto che avrebbe voluto donargli.
Sapeva che avrebbe dovuto dormire, ma non ne era in grado.
In quel momento, avrebbe voluto unicamente poter parlare con Severus, per quanto non sapesse cosa avrebbe potuto dirgli. Riusciva unicamente a immaginarlo da solo, nella casa in quella cittadina che aveva visto giorni migliori, immerso nell’oscurità di quella notte illuminata da una sottilissima falce di luna.
Forse in quel momento era tormentato da un incubo, forse in quel momento si stava odiando. Avrebbe voluto farsi, in qualche modo, carico di quella solitudine e di quel dolore. Avrebbe voluto potergli offrire il perdono o, anche solo, un po’ di conforto.
L’avrebbe rivisto il giorno dopo, come si erano accordati quando erano andati fino alla scuola di Rebecca. Severus era rimasto in disparte, come aveva fatto la mattina, in modo che gli altri genitori non lo notassero. Poi le aveva riaccompagnate a casa e la nipote gli aveva preso la mano, come era solita fare con lei.
O con Gawain.
Quando erano arrivati allo stabile dove si trovava l’appartamento del fratello, le aveva salutate rapidamente, con quella calma che sembrava caratterizzarlo e che celava il suo profondo senso di colpa e che si era infranta alcune ore prima.
Si alzò in piedi e si avvicinò alla finestra. Fuori la notte era calma e la città appariva addormentata. La piccola falce luna illuminava dolcemente gli edifici di fronte all’appartamento di Gawain. Ygraine rimase a lungo immobile ad osservare la luna e le stelle così lucenti che nemmeno l’inquinamento luminoso della grande città riusciva ad oscurare.
E mentre osservava gli astri, si rese conto di amare Severus.
Non sapeva nemmeno da quanto tempo nutrisse quel sentimento, ma ricordava come avesse negato con Jane di essere innamorata. Eppure, mentre aveva cantato il ruolo di Desdemona, durante il primo atto, le era sembrato di comprendere meglio il personaggio, per quanto, allora, non ne avesse compreso il motivo.
Rimase immobile ad osservare la luna e le stelle di quella notte di febbraio, cercando di analizzare quel sentimento, ma non ne fu in grado. O forse, era semplicemente inutile farlo. Non aveva nemmeno importanza chiedersi quando si fosse sviluppato. Era unicamente certa di non aver mai provato nulla del genere. Era un sentimento profondo, nato senza che lei se ne accorgesse e, mentre rifletteva, si rese conto di amare Severus per quello che era, con le sue colpe passate e con la continua volontà di espiarle. Ma non si era innamorata di lui quel giorno, di questo era certa. Lo amava da ben prima e quell’amore che lei non aveva nemmeno notato nascere si era unicamente radicato maggiormente nel suo cuore durante quella mattina tempestosa.
In quel momento, mentre una nuvola copriva la luna rivide Severus fermo immobile davanti al quadro di Rossetti. Lo aveva notato anche prima di parlargli per la prima volta, anche prima di invitarlo a prendere un tè ed era sempre lì davanti a Sancta Lilias.
E fu certa di non aver alcuna speranza.
Per quanto non avesse mai detto quali fossero i suoi sentimenti per Lily Potter, le appariva chiaro che Severus doveva aver provato per lei un sentimento più profondo della semplice amicizia e che quel sentimento doveva essere in qualche modo ancora vivo. Altrimenti non avrebbe trascorso le sue giornate proprio davanti a quel quadro. Se a muoverlo fosse stato unicamente il senso di colpa, avrebbe potuto scegliere ogni giorno un dipinto diverso, avrebbe potuto ascoltare ogni giorno un Lied diverso. Invece, tutte le volte che lo aveva visto al museo, era seduto davanti a Sancta Lilias.
Ygraine tornò verso il letto, mentre si faceva strada in lei la consapevolezza che non sarebbe mai riuscita a tenere testa ad una donna morta e, per questo, priva dei difetti dei vivi e di quelli che lei stessa doveva aver avuto in vita.
Strinse con forza le coperte. Per un breve istante avrebbe voluto andare alla Tate e bruciare quel quadro, ma sapeva che era assolutamente inutile e assurdo essere gelosa di una donna morta per salvare la vita del figlio.
Lasciò andare le coperte, mentre si rannicchiava sotto di esse.
Quando fu più tranquilla, si rese conto che quell’inutile gelosia se ne stava andando, lasciandola con la sola consapevolezza dell’amore che provava.
E non le importava nemmeno non avere alcuna speranza.
Non avrebbe rinnegato quell’amore.
E per quanto non si facesse illusioni, si rese conto che le sarebbe bastato essergli amica, rimanergli accanto, anche quando non fosse più stata in Inghilterra, e continuare ad avere fiducia in lui.
Si sistemò meglio sotto le coperte e trovò finalmente il sonno, mentre le stelle luccicavano nel cielo, prima di lasciar spazio alla rosea luce dell’aurora e, poco più tardi, ad un sole luminoso che sembrava ricoprire l’intera città e che illuminava brillante un piccolo parco, seminascosto nel cuore della capitale britannica.
Nessuno, però, sembrava voler passeggiare tra i corti vialetti e, questo, a Severus andava più che bene. La signorina Ainsworth sarebbe arrivata di lì a poco, secondo quanto avevano discusso il giorno prima, dopo essere usciti dall’appartamento di Gawain Ainsworth, dopo che lui le aveva narrato ogni cosa.
Ygraine non lo aveva giudicato, allora, ma, nonostante fosse certo della sincerità delle parole che la giovane donna aveva pronunciato in quei frangenti, non riusciva a togliersi dalla mente il dubbio che, una volta che fosse rimasta sola, una volta che avesse riflettuto con attenzione su quanto era stato detto, avrebbe deciso di non presentarsi quella mattina.
Sarebbe stata la scelta più logica e giusta.
Nel corso della notte poteva aver riflettuto più a lungo e aver compreso che aveva a che fare con un mostro che era stato tanto patetico da non saper controllare le sue emozioni come aveva sempre fatto. Eppure, era cosciente di aver perso così il controllo unicamente perché aveva imparato a fidarsi della signorina Ainsworth, di un tipo di fiducia che non credeva di aver mai provato prima. Non era la fede in Albus, la fede che il proprio generale li guidasse verso la vittoria. Non era nemmeno la fede infantile che aveva nutrito nei confronti di Lily e della loro imperitura amicizia, la fede ingenua di un bambino che era scivolata nel ragazzo che era diventato e che si era infranta davanti alla porta della sala comune di Grifondoro, quando Lily lo aveva giudicato e condannato senza mai porgli una sola domanda che gli permettesse di spiegarsi.
La fiducia che riponeva in Ygraine non era la fede in un generale, né quella in un’amicizia forse destinata fin da subito a morire. Si trattava di una fiducia sorta senza nemmeno che lui se ne accorgesse, che poggiava le sue radici sul fatto che la giovane donna non avesse mai nutrito alcun pregiudizio nei suoi confronti e che avesse continuato a non nutrirne, nemmeno quando gli Auror le avevano lasciato intendere che razza d’uomo fosse, nemmeno quando lui stesso le aveva svelato tutto.
Si rendeva conto, in quel momento, mentre il sole giocava sul ghiaino del sentiero deserto, che quei suoi dubbi, nati nella solitudine di una notte tormentata da incubi orrendi, erano ingiusti nei confronti della giovane donna. D’altronde, però, non era in grado di impedirsi di temere che la fiducia di Ygraine si fosse infranta nel cuore della notte e con essa la promessa di perdono espressa dai suoi occhi nocciola. Non riusciva ad impedirsi di aver paura di perdere l'unica persona che non l’aveva mai minimamente giudicato, nemmeno sapendo tutto quello che lui aveva compiuto, e quella paura lo portava a dubitare, a far aumentare la consapevolezza della sua inadeguatezza di fronte all’innocenza della giovane donna.
Quando sentì un rumore di passi sul ghiaino del sentiero, alzò lo sguardo e notò Ygraine rivolgergli un lieve sorriso, lo sguardo ancora colmo di una fiducia che sembrava, se possibile, più profonda del solito. Gli si sedette accanto. Appariva tranquilla, anche se aveva gli occhi cerchiati da occhiaie.
Nessuno dei due parlò per diverso tempo, lasciando che il quieto silenzio di quell’angolo appartato di Londra calasse su di loro, così diverso dalla tempesta che aveva squassato la città il giorno precedente.
«Rebecca ha fatto ancora cenno al padre delle lezioni di disegno?»
«Sì, ieri sera. Gawain ne sembra particolarmente soddisfatto», rispose Ygraine, voltandosi verso l’uomo. «Credo che mio fratello e mia cognata siano convinti che il disegno possa far dimenticare la magia a Rebecca.»
Severus notò che la giovane donna era preoccupata e ne aveva tutte le ragioni. Il comportamento dei genitori di Rebecca non lasciava spazio alla speranza che potessero presto o tardi accettare la magia.
«Hai pensato a cosa dire a tuo fratello?»
«Soltanto che conosco un amico che offre lezioni di disegno.»
Ygraine avrebbe voluto poter dire di più, ma la sua mente non era stata realmente concentrata sulla questione, anche se sapeva che avrebbe dovuto. E, mentre creavano una storia credibile per Gawain, ne fu quasi felice. Tutto, in quel giorno di sole, sembrava incredibilmente semplice. Era quasi come se il giorno precedente non fosse mai esistito o, forse, il giorno precedente aveva modificato qualcosa nel loro rapporto.
Chiunque fosse passato avrebbe potuto prenderli per due amici di lunga data che stavano parlando tranquilli insieme. Invece conosceva Severus da poco tempo e, al di là di qualche breve frase, gli aveva realmente parlato per la prima volta un mese prima.
Eppure, le sembrava di conoscerlo da un tempo ben più lungo.
«Che nome devo dire a Gawain e Margaret?»
Severus si voltò verso Ygraine che stava osservando il ghiaino nel sentiero di fronte a loro. Una donna passò con un cagnolino al guinzaglio, ma non li degnò di uno sguardo. Da qualche parte una campana suonò le dieci.
Aveva riflettuto sulla questione ed era giunto all’unica conclusione possibile, per quanto l’ultima cosa che volesse fare era usare, sebbene solo con due persone e solo nel caso in cui avessero voluto incontrarlo, quel nome, che portava con sé ricordi dolorosi. D’altronde anche la casa in cui viveva era colma di quelle memorie e non erano nemmeno le peggiori che avesse.
«Ho pensato ad un nome che possa sembrare incredibilmente normale. Tobias Prince.»
Non aggiunse altro e Ygraine non fece domande. Forse aveva intuito dove avesse preso il nome proprio, perché già sapeva del cognome da nubile di sua madre, dato che vi aveva fatto rapidamente cenno il giorno prima. La sua infanzia era l’unica cosa di cui non le avesse realmente parlato.
E sapeva perfettamente il motivo.
Era la parte della sua vita che più poteva suscitare pietà, per quanto fosse ormai certo che Ygraine non lo avrebbe commiserato per quello.
«C’è un’altra cosa di cui dobbiamo parlare», aggiunse, mentre una lieve brezza scuoteva appena i rami di un tiglio. «L’ultima volta che gli Auror ci hanno interrogato, è emerso il nome di Hugh Berenger e di Mathilde Waley. Conosci qualcuno che abbia questi cognomi o che abbia citato questi nomi?»
«No, ma non conosco molte persone in Inghilterra. Soltanto qualche amico di famiglia, dei vecchi compagni di conservatorio di cui ho perso le tracce e la mia pianista, Jane, ma di cognome fa Stanton e non ha mai nominato qualcuno con quei nomi.»
Il che non lo portava da nessuna parte. In qualche modo qualcuno che era a conoscenza della morte di Tristan Ainsworth doveva aver conosciuto i Berenger, altrimenti non si spiegava il modo in cui l’assassino e il suo complice tormentavano Ygraine, né la ragione per cui avessero utilizzato proprio la bacchetta di Hugh Berenger.
«Hugh Berenger, Mathilde Waley e i loro due figli più piccoli sono tra le persone che non sono riuscito a salvare», forse avrebbe potuto tacere, ma riteneva che la giovane donna meritasse una spiegazione, considerando che era fin troppo coinvolta in quella triste faccenda. «I due Babbani al museo sono stati uccisi usando la bacchetta di Hugh Berenger, che io avevo fatto recapitare anonimamente ai genitori dell’uomo. Chiunque abbia colpito quelle due persone è stato mosso dalla vendetta e chi ha commesso quel crimine, come abbiamo già stabilito, doveva conoscere anche tuo fratello.»
«Per quanto mi sforzi, non ricordo nessuno che si chiami Berenger o Waley e non credo di aver mai sentito prima questi nomi. Posso però provare a chiedere a mia madre. Domani andrò a casa sua per il compleanno di papà. Ha una memoria infallibile e credo ricordi ancora tutti i cognomi dei compagni di classe di Tristan dalle elementari in poi.»
Severus annuì. Poteva fare in modo di procurarsi l’elenco di chi aveva frequentato Hogwarts con Hugh Berenger e di Mathilde Waley e poi compararli con i nomi che gli avrebbe portato Ygraine.
«Chiedi a tua madre se ha mai sentito nominare qualcuno chiamato William Berenger. È l’unico sopravvissuto quella notte.»
«Per merito tuo?»
Severus osservò con attenzione Ygraine, che aveva parlato con voce quieta, quasi stesse facendo una constatazione più che una domanda. Era una frase semplice, quasi banale nella sua brevità, ma nessuno gli aveva mai detto nulla del genere. Non erano le frasi su un suo presunto eroismo balbettate da Potter quando era andato a casa sua. E Albus, per quanto gli avesse ripetuto fino allo spasimo di fidarsi di lui, non gli aveva mai realmente attribuito alcun merito. O, forse, il vecchio Preside non sarebbe nemmeno stato soddisfatto di sapere che era riuscito a salvare almeno William Berenger perché se fosse stato scoperto tutto il piano, accuratamente studiato e al contempo pieno di falle, fatto com’era di segreti e di cose non dette, sarebbe in parte crollato.
«Era l’unico a non essere in casa, l’unico per cui ho potuto fare qualcosa, ma i suoi fratelli minori sono stati uccisi sotto i miei occhi e non ho potuto far nulla per fermare chi era con me, per alleviare la loro sofferenza. Li ho lasciati morire e…»
«Severus…», lo interruppe quietamente Ygraine posando una mano sulla sua. Era un tocco lieve e rassicurante e colmo del perdono che sapeva di non meritare e che desidera disperatamente. «Immagino che il ragazzo non sappia che ti deve la vita.»
«No, e ritengo che non lo crederebbe. Avevo sperato di non rivederlo dopo quella sera, ma era a Hogwarts l’anno dopo, durante la mia presidenza. Non so cosa ne sia stato di lui, quando tutto è finito. Ho unicamente la certezza che non era tra le vittime della battaglia.»
Quando il primo settembre l’aveva visto seduto tra i Tassorosso aveva creduto in un abbaglio. Aveva sperato che il giovane Berenger avesse deciso di darsi alla fuga. Ricordava di aver sentito, l’anno precedente, prima che tutti i suoi vecchi colleghi lo odiassero, Pomona dire che una parte della famiglia viveva in Spagna. Era stato certo che dopo la morte dei genitori e dei fratelli fosse andato nella penisola iberica; invece, era entrato in Sala Grande ed aveva dovuto sopportare i suoi continui fallimenti nei confronti degli studenti che avrebbe voluto e dovuto proteggere.
«Quando parlerai con tua madre, ricordati di nominare anche i cognomi Green, Taylor e Thomson.»
«Credi che gli Auror siano coinvolti?»
«È l’unica conclusione logica e uno dei tre deve essere legato ai Berenger e, in qualche modo, a tuo fratello. Per questo occorre prendere delle precauzioni anche per il tuo lavoro. Sei già stata attaccata una volta a teatro», sentì la mano di Ygraine tremare sulla sua, che non aveva nemmeno pensato di spostare, forse perché gli stava dando la pace che tanto aveva cercato, forse perché gli faceva credere che il perdono potesse essere possibile. La giovane donna si era fatta pallida e poteva immaginarne il motivo: chiunque avesse ucciso quei due Babbani, chiunque l’avesse aggredita aveva reso improvvisamente pericoloso il lavoro che amava. «Hai altre recite di Otello?»
«Soltanto una, lunedì. Da giovedì inizierò le prove per Lohengrin.»
«Un estraneo può assistere alle prove?»
«Devo chiedere al direttore d’orchestra, ma non credo che abbia problemi in tal senso. Ho già lavorato con lui e un mio collega era sempre accompagnato da qualcuno. Ogni tanto ci sono anche degli altri lavoratori del teatro che si fermano alle prove.»
Ygraine si sentì improvvisamente più tranquilla, mentre prendevano accordi su cosa dire di preciso alla direzione del teatro e, subito dopo, al direttore d’orchestra. E provò lo stesso senso di sicurezza che aveva sentito la sera della prima di Otello quando si era aggrappata a Severus.
E continuò a sentirlo anche quando gli chiese in che modo Rebecca potesse mettersi velocemente in contatto con lui.
E si sentì al sicuro anche quando propose di chiedere le chiavi dell’appartamento di Tristan alla madre il giorno dopo e di far vivere lì il gufo che Severus avrebbe procurato affinché lei o la bambina potessero contattarlo rapidamente. E l’appartamento sarebbe stato anche un ottimo rifugio per le lezioni di disegno di cui avrebbe parlato con Gawain il giorno dopo.
Gran Bretagna, 10-11 febbraio 2002
Il paesaggio scorreva veloce intorno all’automobile, mentre Gawain guidava verso la casa dei loro genitori. Ygraine sperava che mamma e papà non si accorgessero delle tensioni tra Rebecca e i suoi genitori e tra lei e il fratello. Avrebbe già dovuto chiedere la chiave dell'appartamento di Tristan e non voleva aggiungere ulteriori preoccupazioni il giorno del compleanno di papà.
«Conosci un insegnante di disegno?»
Ygraine quasi sobbalzò alle parole del fratello. Si era aspettata di dover essere lei a introdurre l’argomento ed aveva pensato di farlo a casa dei genitori. Trattenne un sorriso, mentre si diceva che Gawain stava rendendo tutto più semplice.
«C’è un uomo che conosco. Fa bozzetti teatrali e illustra libri, ma, nel tempo libero, offre lezioni di disegno.»
«Rebecca vuole imparare a disegnare e io e Margaret pensiamo che sia un’ottima idea.»
«Posso contattarlo e chiedergli se vuole dare lezioni di disegno a Rebecca, ma sono quasi del tutto certa che accetterà. Ultimamente si è lamentato del fatto che nessuno sembra più interessarsi a quest’arte.»
Ygraine evitò di lanciare un’occhiata alla bambina che era seduta silenziosa accanto a lei. Il giorno precedente era riuscita a spiegare tutto a Rebecca, dopo che Gawain e Margaret si erano già ritirati per andare a dormire e l’aveva rassicurata. O aveva tentato di farlo. In quel momento, aveva paura di tradirsi, di fare un passo falso. Era sembrato tutto così semplice quando aveva parlato con Severus, ma non era del tutto certa di essere una brava bugiarda.
«Puoi parlargli domani?»
«Sì, certo. Eravamo già d’accordo di vederci per un tè, come ci eravamo accordati nell’ultima lettera. Non ama la tecnologia e rifiuta tassativamente di avere un cellulare.»
«Un artista.»
La voce di Margaret era colma di riprovazione e Ygraine era certa che lo sarebbe stata ancora di più se avesse soltanto immaginato che il misterioso bozzettista e illustratore era proprio quel mago che aveva svelato a Rebecca l’esistenza della magia.
«L’importante è che accetti di incontrarci.»
«Sono sicura che non avrà alcun problema in proposito.»
Quelle parole parvero porre termine a qualsiasi conversazione. Gawain sembrava soddisfatto e anche Margaret appariva più serena, per quanto, a volte, pareva fissare lo specchietto retrovisore con qualcosa di molto simile alla paura.
Ygraine notò che sul volto di Rebecca era comparso un sorriso, il primo di quella giornata. E quello la preoccupava. Temeva che, presto o tardi, Gawain dicesse qualcosa di irreparabile che potesse ferire ancora di più la bambina.
Mentre l’auto svoltava nella strada dove si trovava la casa dei loro genitori, la giovane donna si chiese se quello sarebbe stato uno degli ultimi giorni in cui avrebbe visto mamma e papà, prima di partire per l'Italia e, subito dopo, tentò di reprimere il senso di colpa. Sapeva che era insensato rimproverarsi perché sarebbe andata a Bologna a cantare e di lì nella sua casa in Francia, ma, più i giorni scivolavano l’uno nell’altro, più le sembrava di star abbandonando la nipote.
E di star abbandonando Severus.
Mentre abbracciava mamma e papà, si chiese cosa avrebbero pensato loro di quello che stava accadendo, ma era cosciente di non potersi confidare. Se lo avesse fatto, avrebbe tradito quel poco di fiducia che Gawain ancora riponeva in lei e, con ogni probabilità, avrebbe unicamente peggiorato la situazione.
Il pranzo fu tranquillo e suo padre apprezzò i loro regali e mamma sembrava calma mentre chiacchierava dei vicini e della vecchia maestra di Gawain che si era trasferita dopo essere andata in pensione.
Forse non si era accorta di nulla.
Forse non aveva notato la tensione tra lei e il fratello o tra Rebecca e i genitori.
E fu quello che si disse, mentre la seguiva in cucina per aiutarla a riordinare.
«Cosa sta accadendo, Ygraine?»
Era stata una sciocca a pensare che mamma non si accorgesse di nulla, lo sapeva perfettamente da sola. Si era soltanto illusa di poterle chiedere le chiavi dell’appartamento di Tristan e i nomi dei compagni di scuola del fratello.
«Nulla, mamma.»
«Ti conosco, Ygraine, e conosco Gawain. I vostri rapporti sono tesi e Rebecca sembra nervosa con i suoi genitori.»
La giovane donna osservò la madre, chiedendosi cosa potesse fare. Avrebbe voluto confidarsi con la donna, ma sapeva di non poterlo fare, non senza creare una frattura ancora più profonda con il fratello. Per quanto sapesse che si illudeva nel credere che Gawain sarebbe riuscito ad accettare il dono di Rebecca, voleva, almeno per il momento, rispettare il suo desiderio di mantenere ignari i genitori.
«Gawain ed io abbiamo avuto dei dissapori, ma, davvero, mamma, non è nulla di cui devi preoccuparti.»
Sua madre non sembrava per nulla convinta dalle sue parole, ma decise di non commentare. O, forse, sarebbe tornata all’assalto in un’altra occasione.
«E Rebecca?»
«Hanno litigato. Credo che Gawain non riesca ad accettare che Rebecca stia crescendo.»
«Non sono convinta che tu sia totalmente sincera con me, Ygraine.»
La donna la stava osservando interrogativa, ma lei sapeva di non poterle dire nulla e non importava se lei non desiderava altro che chiedere consiglio a sua madre.
«Non sta a me parlare di quel che accade tra mio fratello e sua figlia, però, mamma, vorrei che tu e papà appoggiaste più che potete Rebecca.»
«Sai che lo faremo volentieri, per quanto mi chieda, Ygraine, a che cosa serva il nostro appoggio.»
«Per le sue scelte future. Gawain non è felice perché Rebecca non desidera più diventare un medico.»
«Non ho mai creduto che quella fosse la strada giusta per mia nipote ed ho sempre pensato che lo abbia detto per compiacere Gawain. Conosciamo entrambe tuo fratello e quanto abbia sempre pensato che esistano lavori che lui definirebbe normali e lavori che non lo sono.»
Ygraine annuì soltanto. Sapeva che il fratello non aveva mai pienamente apprezzato che papà fosse un filologo che viveva immerso nel mondo arturiano. Credeva che fosse per quello che era diventato avvocato e che si era innamorato di Margaret, una donna tendenzialmente ragionevole e concreta.
Fuori dalla finestra il cielo si era incupito e sembrava che minacciasse temporale. Ygraine rimase ad osservare le nuvole grigie prima di tornare a fissare la madre. Sapeva che era stata lei a trovare Tristan morto e non avrebbe mai voluto chiederle le chiavi dell’appartamento del fratello. O forse, in quel momento, non si sentiva più tanto sicura che fosse una buona idea recarsi nel luogo in cui Tristan era morto, un luogo in cui non era ancora riuscita a mettere piede.
Un tuono ruppe il silenzio che si era creato in cucina.
E un tuono risuonò a chilometri di distanza, fuori dalla casa di Spinner’s End, mentre un gufo venne fatto entrare dalla finestra della cucina.
Severus prese la lettera dalla zampa del rapace, che se ne andò senza nemmeno aspettare una possibile risposta o un po’ di cibo. Aprì l’involto e lesse rapidamente la lettera che Minerva aveva allegato all’elenco di nomi che le aveva richiesto, senza nemmeno fornirle troppe spiegazioni. Non sapeva neanche se risponderle. Aveva parlato con lei al San Mungo, alcuni giorni dopo il suo risveglio e credeva che si fossero detti tutto quello che c’era da dire.
Mentre osservava i nomi di tutti gli iscritti a Hogwarts durante gli anni in cui Hugh Berenger e Mathilde Waley avevano frequentato la scuola, si rese conto di quanto gli fosse ben più facile avere a che fare con Ygraine o Rebecca che con persone che lo conoscevano da ben più tempo.
Minerva era stata una sua insegnante, prima, e una collega, poi, forse anche un’amica per qualche breve anno. Eppure, con lei non si era mai esposto come aveva fatto con Ygraine in quel giorno ventoso, come aveva già fatto in altre occasioni, perché, si rese improvvisamente conto, era da tempo che non indossava alcuna maschera con la giovane donna o con la bambina. All’inizio, quando aveva accettato di prendere un tè con loro, aveva deciso di voler apparire come una persona che viveva una vita tranquilla, simile in tutto alla maggior parte dei maghi e dei Babbani, ma ad un certo punto aveva smesso di nascondersi. Sapeva che il delitto al museo era stato fondamentale, perché, in qualche modo, gli Auror lo avevano in parte smascherato, accennando del suo passato a Ygraine, interrogando fino allo spasimo Rebecca, perché non riuscivano a concepire che una bambina potesse essersi affezionata a lui.
Era qualcosa che non comprendeva nemmeno lui, così come non poteva spiegare la fiducia profonda di Ygraine, ma era certo che fosse stata quella fiducia, più ancora dell’affetto della bambina, a far cadere la maschera che avrebbe voluto usare, così come era stata la sua comprensione, il suo conforto, il perdono offertogli in silenzio a farlo crollare davanti a lei e ad accettare, il giorno precedente, il conforto discreto di una mano posata sulla sua.
Fuori tuonava, mentre lui leggeva i nomi, trovandone di amaramente noti e leggendone altri che parevano avvalorare la sua tesi, per quanto nessuno potesse dargli veramente una risposta, almeno fino al giorno dopo, in cui Ygraine gli avrebbe riferito quanto le aveva detto sua madre.
Sistemò i fogli in un cassetto della credenza, prima di riprendere in mano la ricerca che stava seguendo in quel momento. Non era nulla di particolarmente difficile o complesso, ma quel piccolo centro di ricerche magiche non aveva particolari ambizioni. Forse avrebbe dovuto prendere contatto con centri più importanti. In Inghilterra ve n’era uno che, però, dipendeva dal Ministero, ma l’Europa magica ne disponeva di altri e, per quel tipo di ricerche, non avrebbe nemmeno dovuto abbandonare l’isola britannica.
Era qualcosa che doveva fare, si disse, non foss’altro per dimostrare a sé stesso di non buttare ulteriormente al vento quella possibilità che il destino gli aveva dato.
Era sopravvissuto quando si aspettava di morire e, per quanto non riuscisse a perdonarsi, per quanto non fosse in grado di afferrare il perdono che Ygraine gli offriva, doveva vivere.
Lo doveva a Rebecca che contava su di lui ora che i suoi genitori parevano rifiutarla.
Lo doveva a Ygraine che aveva fiducia in lui, nonostante tutto quello che le aveva raccontato.
Lo doveva a sé stesso se non voleva odiarsi ancora di più di quanto già non facesse.
Quando finì di lavorare, fuori tuonava ancora. Cenò rapidamente e ancora tuonava e lampeggiava, quasi che il temporale non volesse ancora abbattersi sulla cittadina.
E tuonava anche quando andò a letto, nella camera in cui, un tempo, avevano dormito i suoi genitori.
Il tuono accompagnò il suo sonno ed i suoi incubi, pieni di volti del suo passato e di volti del suo presente. Si svegliò più volte nel corso della notte, senza ricordare veramente cosa avesse sognato, tranne una volta, quando al posto di Charity Burbage gli era apparsa Ygraine e lui aveva dovuto vederla morire come aveva visto morire la collega.
Aveva sentito la bile in gola non appena si era destato di soprassalto, mentre fuori aveva iniziato a piovere.
Sapeva che la situazione attuale era totalmente diversa, che lui era libero di agire non appena avesse notato qualcosa di anomalo. Aveva preso tutte le precauzioni necessarie e Ygraine aveva accettato di buon grado che lui la accompagnasse a teatro ogni volta che ci andava per provare. L’unico luogo che non poteva controllare era il quello in cui si esercitava con Jane Stanton, a casa della pianista, ma la donna era una Babbana – aveva un anno o due in più di Ygraine ed era al conservatorio quando avrebbe dovuto essere a Hogwarts – e avrebbe posto sull’appartamento della donna le stesse protezioni che aveva posizionato su quello di Gawain Ainsworth.
Eppure, quell’incubo rivela i suoi timori più profondi.
Sapeva di fidarsi della giovane donna.
E poteva ammettere con sé stesso di considerarla un’amica.
E poteva ammettere con sé stesso di aver paura di perdere anche quell’amicizia, di distruggere, in qualche modo, ancora una volta quanto di positivo riusciva ad entrare nella sua vita.
E poteva ammettere con sé stesso di aver timore di fallire, di non riuscire a salvarla, nel caso in cui l'assassino e il suo complice avessero deciso di assalirla.
Non riusciva nemmeno a tranquillizzarsi, dicendosi che fino al giorno nel camerino non le avevano fatto nulla, che, anche quella sera, avevano voluto unicamente spaventarla. D'altronde, il loro piano di vendetta era complicato e mutevole. Era certo che l'uccisione dei due Babbani e il ritrovamento successivo della bacchetta di Berenger fossero un modo contorto per farlo accusare di quell'omicidio, con la speranza, forse, di trovare chissà quali prove incriminanti a casa sua. Avevano, d'altronde, coinvolto Ygraine fin da subito con quelle lettere anonime e facendola seguire dal suonatore di organetto.
Sapeva di aver preso tutte le precauzioni possibili, ma non riusciva a togliersi dalla mente l'idea di aver sottovalutato un particolare o di non averne considerato un altro.
La pioggia cessò, a un certo punto, nel cuore della notte, mentre era ancora desto, dopo quell'incubo vivido, e il giorno dopo l’intera isola era illuminata da un sole velato da qualche nube.
Ed il sole illuminava i passi di Ygraine mentre si avvicinava, con il cuore in gola, allo stabile dove un tempo aveva vissuto Tristan. Era stata una sua idea e ormai non poteva più tornare indietro. Sapeva che Severus l’avrebbe raggiunta con il gufo che aveva procurato a Rebecca e che sarebbe vissuto lì per gli anni che avrebbero separato la nipote da Hogwarts.
Sperava ancora che Gawain arrivasse ad accettare la magia, che si rendesse conto che non c’era nulla di male in quello che stava accadendo e che quel sotterfugio non dovesse durare a lungo, ma il più delle volte temeva che non ci fosse altra alternativa.
Quando raggiunse l'edificio, notò che Severus era già arrivato. Guardò l’orologio e si accorse di essere in ritardo, nonostante fosse uscita di casa per arrivare in anticipo. Forse, aveva inconsciamente rallentato il passo per arrivare il più tardi possibile o, forse, aveva voluto entrare insieme all’uomo.
«Mi scuso per il ritardo», gli disse trafelata, mentre apriva il portone d’ingresso.
L’uomo non commentò le sue parole, mentre la osservava con attenzione. Quando raggiunsero il secondo piano e la porta dell’appartamento che era appartenuto a Tristan Ainsworth, notò che le mani di Ygraine tremavano appena, mentre armeggiava con le chiavi, fino ad aprire la porta.
Si ritrovarono subito in un salotto di modeste dimensioni con i mobili ricoperti dalla polvere. Un libro giaceva aperto su un tavolino e alcuni quaderni erano appoggiati sullo scrittoio che si trovava accanto all’unica finestra, i cui tendoni erano aperti.
La signorina Ainsworth si trovava un passo davanti a lui, ma si era fermata e non sembrava riuscire ad avanzare. Posò per terra la gabbia coperta da un telo che conteneva il gufo per Rebecca, che la donna non sembrava nemmeno aver notato, come non sembravano, d’altronde, averlo fatto i pochi passanti che lo avevano visto, mentre l’aspettava.
«Credevo che… non hanno spostato nulla», non fosse stato per la polvere sarebbe sembrato che il padrone di casa fosse uscito da poco o che si trovasse in un’altra stanza. «Io…»
«Possiamo andarcene.»
«No. Credo che debba solo pulire e sistemare la casa», Severus rimase per qualche istante immobile, mentre la giovane donna avanzava verso il tavolino e prendeva in mano il libro aperto. La seguì, tenendosi discretamente a distanza. «Stava leggendo le Confessioni di Sant’Agostino. Diceva sempre che era stato questo testo a spingerlo a scegliere filosofia come facoltà.»
Ygraine chiuse il volume e tornò a posarlo sul tavolino, mentre si chiedeva se dovesse aggiungere qualcos’altro. Per qualche istante, dopo aver aperto la porta aveva immaginato che di lì a poco avrebbe visto il fratello uscire dalla porta dell’angusta cucina dell’appartamento, ma Tristan era morto da più di un anno ormai e lei lo sapeva perfettamente.
Avrebbe voluto voltarsi verso Severus ed aggrapparsi a lui, come aveva fatto nel camerino. Quel desiderio aveva poco a che fare con i sentimenti che provava per lui, quanto piuttosto con il modo in cui l’aveva fatta sentire al sicuro quella sera. O forse, voleva unicamente che le trasmettesse parte della forza d’animo che lei ammirava, quella forza d’animo che gli aveva permesso di essere una spia di fronte ad un mago che era ben felice di sapere morto.
«Vado a prendere le cose per pulire.»
Severus la seguì silenzioso verso una delle porte che si aprivano sulla stanza. Al di là poteva vedere una cucina lunga e stretta, probabilmente ricavata in maniera fortunosa quando l’edificio era stato diviso in appartamenti. Anche quell’ambiente era coperto di polvere, per quanto nulla sembrasse fuori posto. Ygraine si era bloccata sulla soglia. La sentì trarre un respiro come aveva fatto prima di uscire dal camerino la sera in cui era stata aggredita.
«Io…», la voce della giovane donna si spense in un singulto, ma non stava piangendo. Era immobile e Severus poteva immaginare che si fosse fatta mortalmente pallida. «Mamma l’ha trovato qui… ed io… ero a Parigi in quel momento e stavo cantando… e...»
«Anche se tu fossi stata a Londra, tuo fratello avrebbe agito nello stesso identico modo.»
Sapeva di aver parlato con tono brusco, ma riteneva che quello fosse l’unico modo affinché la giovane donna potesse riscuotersi, abbandonare la cucina e tornare nel piccolo salotto.
«Ma io…»
«Parlavi spesso con tuo fratello al telefono, l’hai detto tu stessa tempo fa. Ed immagino che i tuoi genitori non fossero assenti dalla vita di loro figlio.»
«Mamma ha… aveva un rapporto particolarmente stretto con Tristan. Ma… avrei dovuto accorgermi che c’era qualcosa che non andava. Era il mio migliore amico, oltre che mio fratello. Quando ho deciso di andare ad abitare in Francia, è stato con lui che mi sono confidata ed è stato il più entusiasta di tutta la famiglia… mi ha detto che aveva capito da tempo che avrei lasciato l’Inghilterra… perché io non ho capito che non riusciva più a vivere?»
La voce di Ygraine era sempre sul punto di rompersi, notò Severus, facendo un passo verso di lei. Si sentiva totalmente inadeguato di fronte alle sue confidenze. Avevano già parlato di Tristan Ainsworth e allora le aveva detto le poche frasi che gli sembravano opportune. Ma quel giorno, a casa sua, non aveva ancora rivelato il suo passato a Ygraine e non era giunto a comprendere di fidarsi profondamente della giovane donna.
«Credo che tuo fratello non abbia mai voluto far sapere né a te né ai tuoi genitori di star soffrendo.»
Ygraine si voltò verso di lui. Era pallida, come aveva immaginato, ma gli occhi non erano lucidi di lacrime pronte a scendere. Eppure, era sul punto di crollare, lo poteva vedere chiaramente dalla postura rigida e dal modo in cui stava stringendo la gonna con le mani strette a pugno.
«Ma avrei comunque…»
«No, non avresti potuto. Una persona può riuscire a far credere anche a chi gli sta più vicino di essere qualcuno di diverso da quello che è.»
Ygraine sembrò voler controbattere alle sue parole, ma dalle sue labbra non uscì altro che un singulto. Parve vacillare per un breve istante, prima di aggrapparsi improvvisamente a lui, sulla soglia della cucina impolverata dove si era suicidato suo fratello.
Stava singhiozzando, senza però versare ancora lacrime.
E stava cercando conforto in lui, a cui nessuno aveva mai chiesto prima conforto.
A teatro era stata una situazione più semplice da decifrare. La signorina Ainsworth era appena stata assalita e aveva bisogno di qualcuno per superare la paura. In quel momento, però, era unicamente il conforto che Ygraine cercava.
Le posò incerto le mani sulla schiena, quelle mani con cui aveva ucciso, quelle mani che gli parvero ancora più sporche di sangue in un terribile contrasto con l’innocenza della giovane donna.
Eppure, quella volta le sue mani non stavano portando dolore e morte, ma stavano tentando di offrire conforto.
Nessuno, prima di quel momento, si era affidato in quel modo a lui.
Nessuno, prima di quel momento, aveva cercato da lui una qualsiasi forma di consolazione. Gli era stato chiesto di uccidere, di spiare, di insegnare, di distillare pozioni e nuovamente di uccidere, ma mai di offrire conforto.
Mosse appena le mani sulla schiena del soprano, stringendola, senza quasi rendersene conto, maggiormente contro di sé.
Sentì le lacrime di Ygraine e si chiese se a lei queste potessero portare una pace più duratura, di quella che aveva portato a lui il pianto silenzioso di alcune mattine prima.
Ma la giovane aveva un animo innocente e puro, quando lui aveva commesso delle azioni orrende e terribili che avevano lacerato per sempre la sua anima.
E quel mattino tempestoso, aveva risentito farsi pressante il senso di colpa, ma Ygraine non aveva commesso alcuna colpa.
Tristan Ainsworth aveva scelto di togliersi la vita, senza che lei ne avesse alcuna responsabilità.
Lui aveva scelto di unirsi all’Oscuro Signore, aveva scelto di essere marchiato e, per quanto il Marchio Nero fosse diventata una cicatrice a malapena visibile, mai come in quel momento gli parve impresso a fuoco sulla sua pelle.
Non sapeva nemmeno se le stesse veramente donando conforto, lasciando che si stringesse a lui e tenendo le mani, nuovamente immobili, sulla schiena.
O se lo stesse, piuttosto ricevendo a sua volta.
Sentì uno strano senso di pace, mentre Ygraine piangeva aggrappandosi a lui, per quanto non sapesse spiegarsene il motivo.
E lo provò anche quando la giovane donna rimase immobile, anche dopo aver smesso di piangere.
In quel momento, nonostante tutto, nonostante il senso di colpa, nonostante le sue mani macchiate di sangue, gli pareva quasi di essersi avvicinato al perdono a cui anelava.
Era come se, cercando conforto in lui, Ygraine gli stesse donando nuovamente il perdono che gli aveva offerto quella mattina tempestosa.
Era come se parte del sangue che aveva sulle mani si stesse lentamente colando via, quasi che le lacrime della giovane donna lo avessero purificato.
Il sole giocava con la polvere che giaceva sul pavimento della cucina, con i capelli biondi di Ygraine, raccolti in una crocchia, sulle sue mani, ferme sulla schiena della giovane donna.
E Severus si permise di assaporare la pace.
E sentì il peso della colpa farsi meno gravoso.
E quella sensazione non si dissolse nemmeno quando Ygraine si allontanò da lui. Aveva gli occhi umidi di pianto, ma non fece nulla per nasconderlo. Gli sorrise grata, d’un sorriso che toccava gli occhi nocciola, che tante volte gli avevano mostrato fiducia e che non lo avevano mai giudicato.
Non dissero nulla per alcuni istanti, mentre il sole illuminava la cucina impolverata. La giovane donna era in piedi davanti a lui, gli occhi arrossati e il volto colmo di gratitudine.
«Devo pulire.»
Ygraine sapeva che avrebbe potuto dire dell’altro, ma non sapeva come ringraziare Severus per il modo in cui era riuscito a confortarla con la sua sola presenza, con le mani posate sulla sua schiena. Fino a che non era entrata nella casa del fratello, non si era resa conto di non averlo realmente pianto. Era arrivata a Londra il giorno del funerale e mamma era troppo sconvolta e papà si era rifugiato nel suo lavoro come se gli antichi poemi di cui si occupava potessero aiutarlo a superare la morte del figlio. Gawain non aveva nominato Tristan una sola volta nei giorni successivi al funerale. Lei aveva consolato Rebecca, ma non era riuscita a piangerlo realmente, fino a quel giorno.
«Torna nell’altra stanza. Ci penso io.»
«Grazie. Di tutto.»
La giovane donna notò che Severus aveva preso in mano la bacchetta, la stessa con cui le aveva curato le ferite a teatro. Non rimase ad osservarlo, ma andò nel salotto in cui tante volte aveva parlato con Tristan. In quel momento si sentiva più tranquilla. Iniziò a riordinare, sistemando i libri e i quaderni, chiedendosi se dovesse parlare con mamma di come aveva trovato l’appartamento, un tempo appartenuto ad un prozio scapolo, che l’aveva lasciato nel testamento a Tristan.
Si avvicinò ad una delle finestre e l’aprì, per far uscire l’odore di chiuso. E mentre lo faceva rifletté sulle ultime frasi che le aveva detto Severus prima di aggrapparsi a lui.
Sapeva che quelle parole dovevano essere state una realtà per lui perché era quello che doveva aver fatto quando era stato una spia, quando aveva rischiato ogni giorno la vita, senza che nessuno si rendesse veramente conto di quello che stava facendo, delle nuove ferite che si aggiungevano al suo animo.
E quelle parole dovevano essere state ancora più vere durante l’ultimo anno di guerra.
E riusciva ad immaginarlo, nella più assoluta solitudine delle stanze del preside, oppresso dall’impossibilità di salvare le vittime del mago oscuro, mentre l’odio per sé stesso aumentava costante.
Sperava che, con il tempo, almeno quell’odio iniziasse lentamente a diminuire, che, un giorno, potesse lasciarlo del tutto.
Si voltò verso la porta della cucina, quando lo vide uscire. Il sole che entrava dalla finestra spalancata illuminò i capelli neri e il volto pallido del mago.
E il sole spandeva i suoi raggi sulla capitale, insinuandosi oltre un tendone chiuso, illuminando un tavolo e i profili di due esseri umani, che stavano confabulando da tempo. Parlavano di piani carichi d’odio e di vendetta. Il momento opportuno si sarebbe palesato a tempo debito, disse uno dei due, e quando questo sarebbe accaduto coloro che avevano perso sarebbero stati vendicati.
E il sole spandeva i suoi raggi sull’ufficio di Gawain Ainsworth. Quella mattina era stata una giornata insolitamente tranquilla. Sembrava che nessuno avesse bisogno di un avvocato quel lunedì.
E questo gli lasciava fin troppo tempo per riflettere.
Il giorno precedente sua madre lo aveva fissato in modo strano, dopo che aveva parlato con Ygraine, ma non gli aveva fatto nessuna domanda. Era certo che avesse tentato di sapere qualcosa dalla sorella ed era altrettanto sicuro che questa avesse avuto il buon senso di non parlare della magia con mamma.
Sperava che le lezioni di disegno potessero distogliere Rebecca da quella sorta di malattia, che tutto potesse finire in pochi mesi, in modo da poter tornare a riavere in casa sua figlia, perché quella non era più la sua bambina.
Sperava che anche la sorella arrivasse a rendersi conto di come non vi fosse nulla di normale nel modo in cui improvvisamente la bambina aveva scoperto di possedere la magia.
Ma Ygraine era un’artista e, per quanto cercasse di essere razionale, probabilmente non ragionava con lucidità. Non era mai stato felice della decisione della sorella minore di frequentare il conservatorio e di studiare canto. Aveva quasi sperato che fallisse, che decidesse di intraprendere una carriera più normale. Sapeva che Ygraine aveva un dono e, l’unica volta in cui era andato ad ascoltarla, aveva notato la sua bravura. Era anche contento per il modo in cui stava andando la sua carriera, ma era convinto che fosse proprio il suo essere artista che l’aveva fatta cadere nella rete intessuta dall’uomo che doveva aver infettato Rebecca con la magia.
Eppure, quelle lezioni di disegno potevano essere una benedizione.
Un tempo, avrebbe rifiutato di mettere in contatto la figlia con l’arte, non perché odiasse l’arte, ma per il timore che Rebecca sviluppasse la stessa sensibilità malata di Tristan. In quel momento si disse che forse, proprio nell’arte era presente l’antidoto contro la magia, che proprio l’arte gli avrebbe ridato la figlia che stava perdendo.
Quando qualcuno bussò alla porta dello studio, Gawain lanciò un’occhiata oltre la finestra, verso il cielo terso e il sole che, ormai, non era più velato com’era stato nelle prime ore del mattino.
E il sole illuminò la porta del palazzo dove si trovava l’appartamento che un tempo era appartenuto a Tristan Ainsworth.
Ygraine chiuse il portone alle sue spalle, prima di incamminarsi, accanto a Severus, verso l’appartamento di Gawain.
Mentre avanzavano in silenzio, la giovane donna ripensò al gufo che stava dormendo nella gabbia lasciata aperta. Il mago aveva predisposto una finestra affinché il rapace potesse uscire a cacciare durante la notte.
Tutto sembrava più semplice, in quel momento in cui aveva realmente pianto il fratello, in cui si sentiva certa che non avrebbe più temuto di entrare in quello che era stato il suo appartamento. Forse, aveva finalmente accettato che Tristan non ci fosse più, che suo fratello avesse compiuto la sua scelta e che lei non sarebbe mai riuscita a impedirglielo, nemmeno se avesse completamente rinunciato alla sua carriera.
E sapeva che doveva quella consapevolezza a Severus, che le camminava silenzioso accanto. Avrebbe voluto ringraziarlo in qualche modo, ma temeva di dire delle frasi prive della gratitudine che provava. O forse non avrebbe dovuto dire nulla, se non tentare, per quel che poteva, di offrirgli una piccola parte della pace che l’uomo meritava di vivere.
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[1]Wilhelm Müller, Täuschung (Illusione), vv. 1-4. La traduzione è presa dal programma di sala dell’Accademia di Santa Cecilia.