Il Calderone di Severus

Alaide - Winterreise, Genere: Introspettivo, Drammatico- Tipologia: Long - Rating: per tutti - Avvertimenti: AU - Epoca: Post 7 anno - Personaggi: Severus, Personaggio Originale, Harry- Pairing: Severus/Pers. Originale

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view post Posted on 6/11/2022, 22:50
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CITAZIONE (Ida59 @ 6/11/2022, 21:38) 
Alla fine ti conviene forse linkare la discussione originale della sfida, dove ci sono anche tutti i nostri commenti.

Grazie, lo farò sicuramente.
 
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view post Posted on 7/11/2022, 09:34
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Capitolo XIII - parte II
Die Post


Il cielo grigio, gelido e freddo sovrastava Londra. E quel freddo e quel gelo sembravano addensarsi in particolare davanti alle finestre dell’appartamento degli Ainsworth. Ygraine era quasi dispiaciuta che gli Auror se ne fossero andati, quando vide il volto del fratello e della cognata.
«Perché non hai detto nulla di quello che è successo ieri?»
Gawain aveva parlato con voce tesa e irritata e la stava osservando con il volto altrettanto teso e irritato.
«Non credevo… ero certa che la questione si fosse conclusa…»
«Hai lasciato che mia figlia rimanesse da sola…»
«Non ero da sola. C’era il signor Piton con me.»
La voce di Rebecca era poco più di un mormorio, proveniente dal divano su cui si era seduta subito dopo che gli Auror se n’erano andati.
«Un’altra cosa di cui dobbiamo parlare, Ygraine. Hai permesso a mia figlia di parlare con qualcuno che noi non abbiamo mai conosciuto.»
«Mi dispiace, Gawain», riuscì a dire la giovane donna, chiedendosi se non fosse il caso di allontanare Rebecca dal salotto. «Ci sono state molte volte in cui avrei voluto dirti di quello che…»
«Della magia», a parlare era stata Margaret, con voce piatta. «Quelle persone sono entrate in casa nostra e ci hanno detto che dovevano interrogare la nostra bambina perché è una testimone per un omicidio fatto con la magia… come se questa esistesse.»
«Margaret, ascolta…»
«No, Ygraine», la interruppe la cognata. «Non è la prima volta che non ci dici immediatamente qualcosa riguardo a Rebecca. Prima c’è stato quell’incidente a scuola ed invece di telefonarci subito, hai portato nostra figlia in un museo. Ora pare che siate rimaste coinvolte in questo presunto caso d’omicidio. Forse sarebbe meglio se te ne andassi… i tuoi genitori non hanno voluto vendere l’appartamento di Tristan. Puoi andare là e non mettere più piede in casa nostra.»
«Margaret…», la voce le morì in gola.
Ygraine cercò lo sguardo del fratello, ma Gawain stava osservando la moglie e lei non riusciva a leggere la sua espressione, né a capire cosa pensasse. Sperava che il fratello capisse che l’idea di Margaret era assurda. Non sarebbe mai riuscita a vivere in casa di Tristan, a vedere ogni volta il luogo in cui egli si era ucciso. Non sapeva nemmeno che l’appartamento non era stato venduto, altrimenti avrebbe tentato di convincere i genitori a farlo.
«Ygraine resterà con noi, come eravamo d’accordo», intervenne seccamente Gawain. «Il che non vuol dire che ci faccia piacere che tu ci abbia tenuto nascosto qualcosa che riguarda nostra figlia. Non so se questa cosa della magia sia vera o meno, ma so per certo che non avresti dovuto nasconderci l’esistenza di quest’uomo.»
«Lo so, Gawain, e me ne dolgo, ma non sono mai riuscita a parlarvene. Temevo che mi prendeste per matta», Ygraine si voltò verso Rebecca che era rannicchiata sul divano, senza guardarli. Eppure, era certa che la bambina stesse ascoltando ogni singola parola di quello che si stavano dicendo.
«Una delle persone che è venuta oggi, ha parlato con noi e ci ha chiesto cosa sapessimo di questo Severus Piton», riprese l’uomo. «Ovviamente non ho potuto rispondere, perché non avevo nemmeno idea che qualcuno con quel nome esistesse. Mi hai fatto fare la figura del cretino, Ygraine, ancor più quando ci ha lasciato intendere che non è una brava persona. E tu gli hai permesso di parlare con la nostra bambina… nostra, Ygraine, non tua.»
«Io non…»
«Non tentare di giustificarti… abbiamo sbagliato ad affidarti Rebecca e di certo non le permetteremo di avere ancora a che fare con quel Piton.»
«Non puoi, papà!»
Rebecca sentì lo sguardo dei tre adulti su di lei. Nessuno, se non la zia, aveva guardato verso di lei da quando era iniziata la lite, nessuno l’aveva nemmeno vista alzarsi, perché tutti parevano stupiti di vederla poco distante da zia Ygraine.
«Non puoi rivedere quell’uomo, Rebecca. Forse non te ne rendi conto, ma non…»
«Severus è una brava persona… è coraggioso e mi ha protetta ieri. Perché non volete che lo riveda?»
La bambina si rese conto di aver urlato ed era una cosa che non aveva mai fatto con i genitori prima di allora e non si era nemmeno mai sentita così arrabbiata.
«Rebecca ha ragione, Gawain. Ieri il signor Piton le ha impedito di vedere quelle due povere persone… di…»
«Taci, Ygraine», papà aveva interrotto la zia con rabbia. «Non posso nemmeno credere che tu abbia agito in maniera così illogica, quando ti vanti sempre di essere razionale. Fidarti così di uno sconosciuto… Non so se questa cosa della magia sia vera o meno, ma di una cosa sono sicuro: d’ora in poi qualsiasi contatto con questo Piton deve terminare.»
«Non puoi… papà… non puoi…»
Rebecca non si rese nemmeno conto che stava piangendo. Era unicamente arrabbiata. E spaventata. Non potevano impedirle di vedere Severus. Non potevano. Non si accorse nemmeno che la mamma aveva gridato, se non quando la zia la afferrò, abbracciandola.
«Come…»
La voce di papà sembrava arrivare da molto lontano e non sentì nemmeno cosa stesse dicendo la zia, ma si sentiva in parte più calma. Si staccò appena dall’abbraccio di zia Ygraine e notò che intorno a loro c’erano dei vetri e che le foto di famiglia erano cadute per terra.
«Non volevo… papà, mamma…»
Ma i suoi genitori sembravano non riuscire a rispondere, non di fronte a quello che lei aveva appena fatto.
«Credo che sarete d’accordo anche voi, Gawain, Margaret, nel capire quanto sia necessario che Rebecca continui a rimanere in contatto con un mago.»
Ygraine si sentì incredibilmente in colpa non appena pronunciò quelle parole, ma si rendeva conto di dover, in qualche modo, approfittare della situazione. Non sapeva nemmeno cosa pensare realmente del signor Piton, come conciliare l’uomo che lei conosceva con quello di cui aveva parlato l’Auror, ma era cosciente che Rebecca era affezionata a lui ed era altrettanto certa che Severus non avrebbe mai fatto alcun male alla bambina.
«Dobbiamo pensarci, Ygraine.»
La voce di Gawain era ancora scossa. La giovane donna si accorse che evitava di guardare Rebecca, ma lei notò che il suo volto era colmo di paura. E così quello di Margaret.
Ygraine sperò che la bambina non se ne accorgesse. Forse anche lei, se non avesse mai parlato con il signor Piton, se non avesse saputo che esisteva la magia accidentale, avrebbe avuto paura di Rebecca. Voleva credere che non sarebbe stata così cieca, ma la nipote aveva mandato in frantumi i vetri che custodivano le foto di famiglia ed era stata una fortuna che nessuno di loro si fosse fatto male.
«Gawain, Margaret, mi dispiace veramente di non avervi parlato della magia, ma temevo che non mi avreste creduto, quando non sapevo nemmeno per quale motivo fossi riuscita a credere a quanto mi veniva detto dal signor Piton. So che avrei dovuto parlarvi di quello che era accaduto ieri, ma non avevo idea… non sapevo come introdurre l’argomento. Non vi chiedo di perdonarmi quanto piuttosto di permettere a Rebecca di rimanere in contatto con un componente della comunità magica, con qualcuno di cui lei si fida.»
Non disse loro che aveva deciso di parlarne quella sera, dopo cena, perché sapeva che sarebbe stato inutile. Rebecca si era rannicchiata contro di lei e Ygraine poteva sentire che la nipote stava tremando. Doveva aver visto lo sguardo colmo di paura dei suoi genitori.
In quel momento avrebbe voluto che Tristan non si fosse mai ucciso, perché era certa che sarebbe stato entusiasta del dono di Rebecca.
Ma soprattutto avrebbe voluto che Severus fosse lì con loro, perché era certa che lui sarebbe riuscito a spiegare tutto a Gawain, così come aveva fatto con la bambina e, indirettamente, con lei.
«Credo che tu abbia ragione, Ygraine, su quest’ultimo punto», a parlare era stata Margaret. «Però avrei veramente preferito saperlo prima di vedere quelle tre persone entrare in casa nostra.»
Gawain non disse nulla, limitandosi ad annuire.
Ygraine si voltò verso Rebecca e notò che la bambina stava osservando i genitori, come se si aspettasse che le dicessero qualcosa, ma né il fratello, né la cognata sembravano riuscire a fissare la figlia.
Fuori il cielo era grigio e un tiglio gemeva poco distante dall’appartamento degli Ainsworth, mentre le nubi sembravano addensarsi ancora di più su tutta l’Inghilterra. Il mattino si dissolse in un pomeriggio in cui il cielo parve ingrigirsi ancora di più.
Dalle abitazioni baluginavano delle luci, durante le ore pomeridiane di quella fredda domenica di gennaio.
Anche la casa di Spinner’s End aveva una luce accesa. Fu questa la prima cosa che notò Harry, quando la raggiunse. Eppure, questo lo agitò ancor più delle altre volte in cui era arrivato fino alla porta della casa di Piton.
Trasse un sospiro e cercò di raggranellare tutto il suo coraggio da Grifondoro, prima di avvicinarsi all’uscio. Sapeva che doveva fare quella visita.
Era necessario che parlasse con l’uomo di quello che era successo il giorno prima e quella mattina nella dimora degli Ainsworth. Inoltre, Rebecca gli aveva affidato una lettera per Piton e l’ultima cosa che voleva fare era deludere quella bambina.
Bussò.
Attese quello che gli parve un tempo lunghissimo, prima che l’uscio di aprisse.
«Potter.»
«Sono qui ufficialmente.»
Harry non ebbe bisogno di guardare l’uomo in volto per sapere che non credeva ad una sola delle tre parole che aveva pronunciato.
«Quindi hanno mandato un Apprendista Auror?»
Harry notò il sarcasmo nella voce. Non sapeva nemmeno cosa ribattere. Le altre volte si era preparato un discorso, per quanto non avesse avuto occasione di comprendere se Piton glielo avrebbe fatto pronunciare tutto; quella volta era andato spinto da un impulso e dalla promessa fatta ad una bambina.
«No… ecco… ho una lettera da parte di Rebecca Ainsworth.»
«Avresti potuto farmela avere ieri, Potter.»
Severus osservò con attenzione quel che riusciva a vedere del volto del ragazzo, che sembrava voler evitare con accuratezza di guardarlo. Potter era insicuro e incerto o, forse, si era già pentito di essersi recato a casa sua, nonostante i suoi inutili inviti al pranzo di Natale.
«Ho rivisto la bambina stamattina. Micheal… voglio dire l’Auror Green ha deciso di interrogare di nuovo Ygraine e Rebecca Ainsworth.»
Il che voleva unicamente dire che al Ministero continuavano ad essere degli idioti. D’altronde si trattava pur sembra di coloro che avevano assolto lui e che adesso sembravano voler tormentare una bambina innocente.
«Entra.»
Severus osservò Potter sobbalzare e subito dopo precipitarsi dentro, quasi fosse inseguito da un branco di lupi affamati. Ma la via era deserta e il cielo grigio.
«La lettera, Potter.»
Harry si affrettò a consegnare la lettera a Piton, che però non la aprì subito, com’era logico, dato che non aveva alcuna ragione di leggerla davanti a lui. Mentre l’uomo posava la lettera su un tavolo di cui non si era nemmeno accorto, si disse che quello poteva essere il momento buono per dire quello che si era preparato da tre anni. Era davanti a lui e, nonostante tutto, non riuscì a dire una sola parola.
«Immagino che tu non sia venuto unicamente per farmi avere una lettera.»
«No, io… credo che gli altri Auror sospettino di lei. Non stanno nemmeno indagando in nessun’altra direzione. E questo nonostante le testimonianze di Rebecca e Ygraine Ainsworth.»
«E te ne stupisci, Potter?»
Harry cercò di comprendere cosa passasse per la mente di Piton in quei momenti, ma gli occhi neri dell’uomo erano imperscrutabili.
«Naturalmente… dovrebbe essere l’ultima persona di cui sospettare, considerando che è un eroe, che senza di lei non saremmo mai riusciti a trionfare. Invece, hanno chiesto più volte alla bambina se, ecco… se avesse paura di lei.»
Severus rimase in silenzio dopo che Potter ebbe finito di parlare, con un discorso a tratti sconnesso, a tratti pronunciato rapidamente, come se temesse di essere interrotto da un momento all’altro. Quando l’aveva definito un eroe, si era chiesto come avesse fatto il ragazzo a fraintendere in quel modo le sue azioni. Non c’era nulla di eroico nel modo in cui aveva perso l’amicizia di Lily, né men che meno nel modo in cui aveva supplicato di salvare soltanto lei, senza quasi interessarsi al figlio della donna che aveva sempre amato. Non c’era nulla di eroico nel vano tentativo di rimediare alle sue azioni.
I colleghi di Potter dovevano averlo capito.
Per quanto questo non li autorizzasse a tormentare Rebecca. Avrebbero potuto prendersela con lui, senza rendere più difficile quella giornata ad una bambina che doveva essere giunta in contatto per la prima volta nella sua vita con i mali del mondo.
Eppure, qualcosa nel modo di condurre l’indagine non aveva senso. Poteva capire che sospettassero di lui, dal momento che aveva ucciso in precedenza, ma avrebbero dovuto vagliare tutti i possibili scenari e, a quanto aveva detto Potter, non stavano facendo altro se non tormentare Rebecca e la signorina Ainsworth.
«Quindi avete convocato la bambina e sua zia in un luogo in cui anche una Babbana potesse entrare?»
Era una domanda neutra.
Non aveva di certo alcuna intenzione di commentare le parole che Potter aveva farfugliato sul suo conto.
«No. L’Auror Green ha deciso di andare a casa di Rebecca Ainsworth, dove risiede momentaneamente anche la zia», Severus ricordava a mala pena Micheal Green dai giorni in cui gli aveva insegnato, ma non lo avrebbe creduto così stupido. Era stato un Corvonero diligente e tranquillo, di cui ci si scordava facilmente, ma in quel momento avrebbe voluto chiedergli che cosa gli fosse passato per la mente quando aveva deciso di portare più di un Auror in una casa Babbana. «Il padre e la madre della bambina non sembravano molto soddisfatti di vederci lì. Io ho assistito, come ieri, all’interrogatorio di Rebecca e la bambina ha ribadito la sua versione dei fatti, ma Michael ha insistito molto. L’ha quasi fatta piangere… poi è andato a parlare con i suoi genitori, lasciandomi con lei. Ed è stato allora che Rebecca mi ha dato la lettera per lei.»
Harry non fece parola di quel che aveva detto alla bambina. Aveva notato che Piton aveva totalmente ignorato le parole che aveva detto su di lui ed aveva la sensazione che non avrebbe gradito sapere quel che aveva spiegato malamente a Rebecca.
«In definitiva non avete alcuna prova.»
«Esatto, nulla di nulla. Non abbiamo, ovviamente, nemmeno la bacchetta con cui sono stati lanciati i due Avada Kedavra. Non si stanno nemmeno facendo altre ipotesi, se non quella… insomma se non quella in cui… Ho provato a dire al mio supervisore e agli altri Auror che dovrebbero cercare di capire se qualcuno sia passato dalla cucina o uscito prima che noi arrivassimo. Magari qualcuno ha visto qualcosa o forse ci sono delle telecamere Babbane nel Museo… Cristopher Taylor, il mio supervisore, è convinto che dobbiamo utilizzare tutti i mezzi che abbiamo a disposizione durante le indagini, ma in questo caso non abbiamo fatto nulla di tutto questo. Sono convinti che Rebecca e sua zia siano… ecco… influenzate negativamente da lei e che, per questo, non la stiano accusando. Emily ha persino avanzato l’ipotesi che ad un certo punto siano state sotto Imperius… che è una sciocchezza, ovviamente… e non stanno facendo nulla per seguire altre piste e altre ipotesi.»
Harry si rendeva conto di aver parlato in maniera sconnessa e di aver infranto diverse regole quel pomeriggio. Come futuro Auror non avrebbe mai dovuto parlare di un caso in corso con qualcuno implicato nel caso stesso. Invece era stato un fiume in piena e si stupiva che Piton non lo avesse messo a tacere. D’altronde, l’uomo che si trovava di fronte non era lo stesso che aveva conosciuto a scuola, né quello che aveva lasciato per morto nella Stamberga Strillante.
O forse era esattamente lo stesso uomo, ma lui non era mai stato in grado di vederlo.
«I tuoi colleghi non sembrano particolarmente acuti», Harry si ritrovò ad annuire alle parole di Piton. Se l’era detto anche lui quella mattina quando erano andati nell’appartamento degli Ainsworth. «Se non hai altro da aggiungere, Potter, puoi anche andartene.»
«Io…», poteva parlargli dei ricordi che gli aveva affidato, ma non era quello il momento, si disse il ragazzo. Gli occhi neri di Piton erano ancora imperscrutabili e lui non era affatto certo che parlare del passato fosse una buona idea. Eppure, non voleva ancora uscire da quella casa. «Non so cosa fare con i miei colleghi. Non sono nemmeno un Auror a pieno titolo.»
«Non fare nulla.»
«Ma non posso… voglio dire, stanno tralasciando tutto. Prima di andare dagli Ainsworth ho letto tutti i verbali di ieri e ho parlato con l’Auror Thomson e l’Auror Green…»
«E cosa pensi di fare, Potter?» Harry sentì gli occhi di Piton su di lui e gli sembrò improvvisamente di essere tornato a scuola. «Metterti ad indagare da solo?»
Il ragazzo annuì soltanto. Era un’idea che gli era venuta in mente dopo che aveva salutato Hermione e non doveva essere stato difficile per Piton capire a cosa stesse pensando. In fin dei conti aveva sempre fatto così a scuola.
«E pensi veramente che sia una buona idea?»
«Devo fare qualcosa… l’assassino è libero e se nessuno indaga realmente…» biascicò Harry, cercando di chiarire le idee. «Però… è vero, non è una buona idea. Sono un apprendista e qualsiasi cosa facessi non avrebbe valore. Eppure, qualcosa devo fare.»
«Osserva tutto quello che viene fatto, Potter. Osserva quello che viene detto e come viene detto. E cerca di essere sottile con gli Auror che seguono il caso.»
Harry si sistemò appena gli occhiali, per prendere tempo, mentre valutava il consiglio che gli aveva appena dato Piton. E non era la prima volta che accadeva. Era sempre stato così, anche a scuola, si rendeva conto in quel momento. L’uomo gli aveva sempre insegnato qualcosa, indirettamente, ma lui non se n’era mai reso conto.
«Cercherò di farlo.»
«Se non hai altro da chiedere, Potter, è meglio che tu vada.»
Severus notò che il ragazzo sembrava incerto sul da farsi, come se volesse chiedergli qualcos’altro, ma invece lo salutò con un mezzo sorriso incerto ed uscì, lasciandolo solo con la lettera di Rebecca, senza che lui riuscisse a prenderla ancora in mano.
Fuori il cielo era incredibilmente oscuro e buio, senza che nessuna stella spuntasse tra le nubi. Un clima adatto a quello che era accaduto e che aveva portato l’inaspettata visita di Potter. Quando se l’era visto davanti, aveva temuto che volesse chiedergli dei ricordi che gli aveva dato, che volesse analizzarli uno ad uno.
Invece, il ragazzo, dopo quelle assurde frasi in cui era giunto a definirlo un eroe, aveva iniziato a spiegargli i suoi dubbi sull’indagine in corso. Potter l’aveva guardato con gli occhi di Lily, mentre gli chiedeva consiglio.
E solo in quel momento, Severus si rese conto che il vedere il verde di quelle iridi, lo stesso verde degli occhi della donna che avrebbe amato per sempre, non era stato fonte del dolore inestinguibile che gli avevano sempre provocato.
Gli occhi del ragazzo non lo avevano osservato con sospetto, né con odio. Non lo avevano punito, come lui aveva sempre desiderato che facessero, per quello che aveva fatto Lily, per come l’aveva persa, per come ne aveva provocato la morte. Potter lo aveva osservato – quando lo aveva fatto – con incertezza, ma anche con qualcosa di simile alla fiducia.
E Severus sapeva di non essere degno della fiducia di nessuno.
O, forse, temeva unicamente di perdere la fiducia di Rebecca.
Prese in mano la lettera della bambina.
La carta sembrava quasi bruciare, mentre la stringeva, senza osare aprirla. Severus sapeva che sarebbe stata di certo molto diversa dalle altre che gli erano state recapitate dall’efficiente posta Babbana e che aveva riletto quella mattina stessa. In quelle la bambina gli poneva domande sulla magia, in questa non aveva idea di cosa avrebbe potuto leggere.
Rebecca l’aveva affidata a Potter, perché la potesse avere più rapidamente.
Temeva quello che vi avrebbe trovato.
Temeva di leggervi l’odio.
E di leggervi la fiducia.
Chiunque avesse ucciso quei due Babbani doveva avere un piano ben preciso, che lo coinvolgesse in un qualche modo e che coinvolgesse anche quella bambina a cui era giunto ad affezionarsi.
Aprì la busta e ne estrasse il foglio a righe, ma non osò ancora leggerlo.
Temeva di leggere di aver perso per sempre la fiducia di Rebecca e, per quanto sapesse di non meritare una tale fiducia, sapeva di non volerla perdere.
Temeva di leggere l’affetto della bambina perché questo avrebbe resa più difficile l’unica scelta logica che potesse fare in quel momento.
Deglutì a vuoto, poi spiegò con cura il foglio e iniziò a leggerlo.
Caro Severus,
spero non le dia fastidio se la chiamo per nome. Mi dispiace se ieri mia zia ed io non siamo rimaste ad aspettarla, ma uno degli Auror ci ha detto che dovevamo andare.
Forse però avremmo dovuto rimanere fuori dall’ingresso del museo.
Quindi mi dispiace veramente tanto di non averti aspettato. Voglio ringraziarti tantissimo perché ieri non mi hai fatto vedere.
La nonna ha visto lo zio quando è morto e so che è stato orribile. Quindi ti sono veramente grata e anche quando hai tentato di farmi uscire dalla caffetteria… la prossima volta dovremo scegliere un altro posto per prendere il tè.
Gli Auror non mi sono piaciuti, se non quello con gli occhiali. Almeno lui non sembra credere… voglio dire la signora Auror mi ha chiesto se avevo avuto paura di te, ma non ha proprio senso questa domanda. L’interrogatorio è stato veramente brutto. Però ho detto tutto quello che è accaduto, meglio che potevo, anche perché la signora Auror continuava a interrompermi.
Però non ti ho scritto per lamentarmi.
Ti ho scritto perché voglio ringraziarti e voglio farlo anche di persona. Quando possiamo vederci di nuovo?
Ti voglio bene,
Rebecca
P.S.: dato che ho dato questa lettera ad Harry che ha promesso di portartela subito… il 30 la zia canta e so che ha due biglietti. Ecco, uno potrebbe essere per te. Mi farebbe piacere se tu venissi. Anche alla zia farebbe piacere.

Severus notò che alcune parole erano state cancellate, ma non riuscì a leggerle.
E non era nemmeno importante farlo.
Rebecca, per qualche strana ragione, si fidava ancora di lui, ma era suo dovere fare in modo di allontanarla da sé. Se, come credeva, quegli omicidi potevano in qualche modo essere legati al suo passato, la bambina e sua zia sarebbero state ben più al sicuro lontane da lui.
Sapeva che un mago avrebbe potuto uccidere quei due Babbani per un movente ben preciso legato a dei loro trascorsi, ma aveva la netta sensazione che così non fosse. Se l’omicidio fosse stato spinto da ragioni personali, l’assassino non avrebbe avuto alcuna motivazione per ucciderli nella caffetteria del museo.
Invece – ed era l’unica soluzione logica a cui riuscisse a pensare – se qualcuno lo avesse visto al museo un giorno, avrebbe potuto seguire i suoi movimenti. In fondo, non era per nulla difficile dato che si trovava a Spinner’s End o alla Tate Britain.
Poteva essere chiunque: un simpatizzante dell’Oscuro Signore che voleva vendicarsi di un traditore o qualcuno a cui aveva tolto una persona amata.
E quel qualcuno avrebbe potuto colpire Rebecca o sua zia.
E lo spiraglio di presente che si era affacciato nella sua vita, doveva sparire per sempre, risucchiato da quello che era stato, dalle colpe che aveva commesso.
Era inevitabile scrivere poche scarne parole ed era inevitabile inviarle subito, per quanto dovesse utilizzare un gufo del servizio pubblico e andare a Diagon Alley.
Ma gli fu straordinariamente difficile trovare le parole adatte a tracciare sulla pergamena quei pochi tratti di penna.
Mentre usciva dalla casa di Spinner’s End il cielo era cupo e l’aria fredda. Ed il cielo era cupo e l’aria fredda anche a Londra, anche nella semideserta Diagon Alley, anche nella via su cui si affacciavano le finestre dell’appartamento di Gawain Ainsworth.
L’uomo non riusciva a prendere sonno. Non sapeva nemmeno come Margaret fosse riuscita ad addormentarsi. Appena chiudeva gli occhi, rivedeva la figlia arrabbiata come non l’aveva mai vista e poi i vetri spaccarsi e le foto cadere. Era come se, in quel momento, fosse crollata tutta la famiglia che aveva costruito.
Rebecca possedeva un potere spaventoso, di cui gli era impossibile ormai dubitare. Quando quei tre individui ne avevano parlato non aveva saputo cosa credere. Quando ne aveva parlato Ygraine era troppo arrabbiato con lei per prestare attenzione a tutte le parole che la sorella stava dicendo.
Poi la figlia aveva distrutto quei vetri e fatto cadere quelle foto.
Avrebbe potuto ferirli.
Ygraine era parsa più a suo agio con Rebecca, come se sapesse perfettamente cosa fare.
Lui, invece, non era nemmeno riuscito a guardare la figlia in faccia.
Non avrebbe dovuto, ma ne era terrorizzato.
E sapeva che anche Margaret condivideva i suoi sentimenti.
Eppure, doveva esserci una soluzione. Forse, quel potere poteva essere messo a tacere. Se Rebecca lo aveva scatenato quando si era arrabbiata, la soluzione si trovava forse in un ambiente stabile e pacifico. Con ogni probabilità sarebbe stato sufficiente ristabilire la routine e permettere, per quanto non fosse certo che fosse una buona idea, alla figlia di avere a che fare con qualcuno come lei, fino a quando Rebecca non fosse tornata normale.
Forse, già quella sera a cena era accaduto.
Magari, in breve tempo, sarebbe riuscito a non avere più paura di sua figlia.
Gawain si alzò in piedi e si avvicinò alla finestra della stanza, scostando appena la tenda. Tutto era buio e immobile al di fuori. Quella notte invernale era quasi banale. E questo gli diede un po’ di sollievo.
Poco oltre la sua finestra, una luce era ancora accesa, ad illuminare tre lettere anonime e la treccia bionda di Ygraine Ainsworth. La giovane donna rilesse per l’ultima volta i tre testi, prima di riporli in una delle carpette con le note di regia.
Forse avrebbe dovuto iniziare a leggere quel che il regista aveva scritto e cercare di non pensare a quello che era accaduto, ma le era stato impossibile.
Quel pomeriggio era rimasta con Rebecca nel tentativo di confortarla, dopo che Gawain e Margaret non erano riusciti a guardarla negli occhi né a chiedere una minima spiegazione circa quello scoppio di magia accidentale. Aveva parlato a lungo con lei, dicendole che suo fratello e la cognata dovevano unicamente abituarsi all’idea di avere una figlia strega e che tutto sarebbe tornato come prima. Ma non era certa che così sarebbe stato. Temeva che Gawain e Margaret non sarebbero mai riusciti ad accettare Rebecca per quello che era e ne aveva avuto una prova quella sera a cena, quando il fratello e la cognata le erano sembrati innaturalmente tranquilli. Avrebbe preferito che facessero domande, che strepitassero finanche, ma non avevano fatto altro che commentare il notiziario e poi ritirarsi presto.
Le avevano anche chiesto di portare Rebecca a scuola, il giorno dopo, come se quel giorno non fosse accaduto nulla di strano.
E questo la preoccupava.
Chiuse la partitura e la sistemò in una borsetta abbastanza grande per accoglierla, poi si sedette sul letto, cercando di trovare la calma necessaria per addormentarsi.
Ma i suoi pensieri andavano a Severus Piton.
Le allusioni, per niente velate, dell’Auror Thomson le frullavano per la testa e la portavano a dubitare del suo giudizio. Anche l’ultima lettera anonima sembrava metterla di fronte alla sua incapacità di comprendere le persone.
Eppure, quando pensava all’uomo non riusciva a togliersi dalla mente quella figura solitaria, ferma e immobile davanti al quadro di Sancta Lilias, né il lungo silenzio che era trascorso prima che il signor Piton accettasse il suo invito a bere un tè.
Lo rivedeva chiaramente mentre parlava con Rebecca e lo rivedeva mentre la proteggeva il giorno precedente.
Forse avrebbe dovuto porre delle domande all’Auror Thomson che sembrava non veder l’ora che lei lo facesse, ma non le era sembrato giusto. Le era parso per un attimo che la donna fosse una sorta di Ortrud che voleva tentarla affinché dubitasse di Lohengrin. Non riusciva ad immaginare Severus come il cavaliere del cigno, per quanto, al pari dell’eroe wagneriano, quel pomeriggio avesse protetto un’innocente [1] .
Era veramente importante il fatto che l’Auror Thomson aveva fatto riferimento a delle macchie nel passato dell’uomo?
Era veramente importante sapere se l’uomo aveva realmente commesso un omicidio come la donna aveva lasciato intendere e che fosse stato un Mangiamorte, qualsiasi cosa quella parola volesse dire nel Mondo Magico?
Ygraine chiuse per pochi istanti gli occhi, cercando di raccogliere le idee.
Quel pomeriggio aveva ripetuto più volte alla donna di fidarsi di Severus, di non aver mai avuto alcun motivo per non fidarsi di lui.
Non sapeva nemmeno da dove nascesse quella fiducia.
L’uomo aveva dato il fazzoletto a Rebecca e quel gesto di gentilezza – non importava di quante poche parole fosse stato – per lei era stato importante, soprattutto dopo l’atteggiamento della donna che aveva aggredito verbalmente la nipote.
Aveva assistito al suo concerto, accettando l’invito della nipote. Anche il quell’occasione era stato di poche parole, ma la bambina era a suo agio con lui e Rebecca era stata molto inquieta in quel periodo. Forse si era fidata così rapidamente di lui perché sembrava dare stabilità alla nipote.
O forse era perché, quando le spiegava del Mondo Magico, non aveva mai trattato Rebecca come una bambina, a cui bisognava spiegare ogni cosa in termini semplici come se fosse una sciocca, ma parlandole come avrebbe fatto con un adulto, con un suo pari.
Si fidava già totalmente di lui quando il giorno precedente aveva impedito alla nipote di vedere quei cadaveri, preservandone l’innocenza.
Riflettendo con attenzione, si rendeva perfettamente conto che nulla di ciò che l’uomo aveva detto o fatto le dava motivo di diffidare di lui.
Eppure, nonostante tutto, le parole dell’Auror le riecheggiavano nella mente. Avrebbe voluto metterle a tacere, dimenticarle e seppellirle da qualche parte, ma non ne era in grado.
«Zia», la voce di Rebecca la colse di sorpresa. La bambina era entrata silenziosamente in camera sua e teneva in mano un foglio. «Mi ha già risposto.»
«Rebecca…»
«Oh… non sono riuscita a dirtelo prima, ma ho dato la mia lettera per Severus a Harry, voglio dire all’Auror Potter, perché poteva fargliela avere subito. E lui mi ha risposto subito. Me l’ha mandata con un gufo.»
«E cosa ti ha scritto?»
Rebecca si avvicinò a lei e le si sedette di fianco, prima di passarle il foglio di quella che sapeva ormai essere pergamena. La prima volta che era arrivata una risposta da Piton era rimasta stupita dalla qualità del materiale scrittorio. In quel momento, prima di leggere quello che aveva scritto, si chiese come suo fratello fosse riuscito a non accorgersi della corrispondenza che arrivava a Rebecca. Ma forse, aveva pensato che fosse un qualche progetto della scuola.
Stese con calma il foglio di pergamena e la prima cosa che notò furono le poche parole che sembravano quasi perdervisi. Erano poche scarne parole, così diverse da quelle delle lettere che l’uomo spediva a Rebecca in cui rispondeva in maniera accurata alle innumerevoli domande della bambina.
Non ci sarà nessun’altra volta, né verrò a teatro.
«Non ti sembra triste, zia?»
Ygraine si voltò verso la nipote, che stava osservando con cura la lettera. A lei erano sembrate parole incredibilmente fredde.
Era come se l’uomo avesse improvvisamente deciso di escludere Rebecca dalla sua vita.
«Sai, zia, subito ho pensato che Severus… insomma che…»
«Hai pensato che ti stesse respingendo.»
Era quello che stava pensando anche lei, in quel momento, mentre osservava quelle poche parole perse nella pergamena.
Rileggendole, una seconda volta, le parvero unicamente desolate.
«Sì, ma non ha per niente senso. Le ho rilette tante e tante volte, dopo che mi è arrivata la lettera. E adesso mi sembrano soltanto tristi, zia. Ho analizzato la lettera come il nonno analizza i suoi manoscritti, perché voglio bene a Severus e ieri mi ha protetta, quindi, deve volermene un po’ anche lui. E ho notato una macchia d’inchiostro, qui, vicino al punto e nelle lettere di Severus non ci sono mai macchie d’inchiostro.»
Ygraine osservò meglio il foglio e notò la netta sbavatura alla fine della frase, poco dopo il punto. Sembrava quasi che l’uomo avesse pensato di aggiungere qualcos’altro per poi ripensarci oppure che gli fosse scivolata appena la penna. Forse non c’era nulla di strano, ma aveva letto anche lei le altre lettere e, quando aveva scoperto che i maghi scrivevano con penna e calamaio, era rimasta colpita dalla precisione dell’uomo. Non c’erano mai sbavature, né cancellature, né incertezze nel tratto.
«Sono preoccupata per lui, zia.»
Ygraine rilesse un’altra volta le parole dell’uomo e le parvero colme di solitudine.
E le parve di trovare in loro la risposta alle domande che la tormentavano da quando era stata interrogata quella mattina.
«Forse potresti scrivergli una nuova lettera.»
Rebecca le sorrise appena, prima di avvicinarsi allo scrittoio, che quella mattina era stato occupato dall’Auror Thomson.
«Mi potresti aiutare?»
Ygraine annuì e si avvicinò alla nipote.
Rilesse un’ultima volta le parole di Severus e parvero anche a lei incredibilmente tristi.
E desolate.
---
[1] Ricordo rapidamente che Lohengrin ha come missione affidatagli dal Graal quella di difendere gli innocenti ingiustamente accusati. Nella vicenda, inoltre, di fronte al divieto imposto dal cavaliere all’amata Elsa di chiedergli chi sia, da dove venga e quale sia la sua stirpe, la malvagia Ortrud instilla il dubbio nella fanciulla. Questa cede e pone le domande al cavaliere che, sconfitto, deve abbandonarla.

 
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view post Posted on 7/11/2022, 09:59
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Capitolo XIV

Der greise Kopft



Der Reif hart' einen weissen Schein
mir übers Haar gestreuet;
da glaubt' ich schon ein Greis zu sein
und hab' mich sehr gefreuet.

Doch bald ist er hinweggetaut,
hab' wieder schwarze Haare,
dass mir's vor meiner Jugend graut -

La brina m'ha steso
un velo bianco sul capo;
e già mi credevo un vecchio
e me ne rallegravo.

Ma presto essa s'è sciolta;
ora ho di nuovo i capelli neri,
e detesto la mia giovinezza.
[1]

Gran Bretagna, 28 gennaio 2002



La brina, che ricopriva Londra, sembrava creare strani ghirigori sugli alberi. In un’altra occasione Ygraine li avrebbe trovati incantevoli, anche al di là delle finestre della stanza dove lei e Jane stavano provando.
O meglio, dove la sua pianista stava suonando, mentre lei non riusciva a concentrarsi.
Pensava a Rebecca che si era intrufolata in camera sua la notte precedente, alla lettera che Severus le aveva inviato e a quella che la bambina aveva scritto con il suo aiuto.
E pensava a come fosse riuscita a trovare nella lettera dell’uomo la risposta ai suoi dubbi, l’unica risposta possibile.
«Ygraine, potresti ripetere quel passaggio?»
La voce di Jane era calma e tranquilla e riscosse per un attimo il soprano. Eppure, quando riprese a cantare non riuscì ad ottenere l’effetto voluto.
«Credo di non avere la tranquillità per lavorare come vorrei, oggi», ammise, chiudendo lo spartito di Otello.
«Spero non sia accaduto nulla di grave, Ygraine. L’ultima volta che sei stata così poco in sintonia con la musica è stato dopo la morte di Tristan», la voce di Jane era gentile come al solito, ma a Ygraine sembrò strano che facesse riferimento a suo fratello.
Forse, però, quel giorno appariva sconvolta come il giorno in cui, tornata da Parigi, una volta concluse le recite di Trittico, qualche settimana dopo la morte del fratello, aveva provato alcune arie da camera con Jane. Era rimasta in Inghilterra per due settimane che aveva trascorso soprattutto con i genitori, nella casa nel Kent, ma aveva passato due giorni a Londra con il fratello e Rebecca. Ed allora aveva tentato di provare con Jane alcune arie da camera che avrebbe cantato pochi giorni dopo in un recital a Lione.
«Tra due giorni hai l’ultima rappresentazione dei Contes, quindi è fuori questione riprendere la parte domani. Potresti venire il primo febbraio», aggiunse la pianista, osservandola con attenzione.
«Sarebbe perfetto, considerando che la prima di Otello è il 7 febbraio e ho ante-generale e generale il 3 e il 5», Ygraine si affrettò a prendere il cappotto.
«Non mi piace che tu esca in questo stato», la bloccò Jane, con fare quasi materno, per quanto avesse soltanto quattro anni più di lei. «Sei molto pallida… sai che puoi parlarmi di quello che ti impensierisce.»
Ygraine osservò per qualche istante Jane. Era dai tempi del conservatorio che si conoscevano e che erano amiche. Eppure, anche se avesse avuto la possibilità di parlarle di qualcosa in cui era coinvolta la magia, non le sarebbe sembrato giusto farlo.
Né nei riguardi di Rebecca, né nei riguardi del signor Piton.
«Credo di essere unicamente stanca.»
«Ne sei sicura?»
«Sì, davvero, non devi preoccuparti. Non so cosa mi sia preso, Jane, ma credo che un giorno di riposo non potrà che farmi bene.»
E invece sapeva perfettamente che cosa le fosse preso, si disse, mentre si infilava il cappotto e usciva dall’appartamento della pianista.
Era da sabato che non riusciva a concentrarsi su nulla, se non su quanto era accaduto. Se soltanto il giorno precedente i poliziotti magici non si fossero presentati a casa, forse avrebbero almeno potuto risparmiare della sofferenza a Rebecca.
Gawain aveva reagito nel peggiore dei modi e lei non sapeva cosa dirgli per fargli comprendere che doveva accettare la verità. Forse era la maniera in cui era avvenuto tutto, senza che lei fosse riuscita a preparare il fratello, ad averlo fatto reagire in quel modo.
Quando si ritrovò in strada, sentì il gelo tagliente contro le guance. Le strade erano quasi deserte a quell’ora: tutti dovevano essere rintanati in ufficio o a scuola e chi aveva deciso d’uscire si affrettava velocemente.
Ygraine rimase, invece, totalmente immobile, osservando la brina che copriva una panchina alla fermata di un autobus. Le sembrò quasi che il bianco avesse congelato non solo quella panca, ma anche l’intera città.
O forse era lei a sentirsi gelare, da sabato.
Si premette meglio la cuffia sui capelli che aveva raccolto in una crocchia quella mattina, poco prima di fare colazione ad un tavolo che pareva ben più freddo dell’aria di quel giorno di gennaio. Gawain e Margaret non le avevano quasi rivolto la parola, mentre Rebecca si era seduta molto vicina a lei, stanca dopo la nottata passata quasi insonne. La bambina non era riuscita a prendere sonno, nemmeno dopo aver scritto la lettera per Piton, che Ygraine aveva imbucato mentre andava da Jane, poco dopo aver lasciato la bambina a scuola. La nipote aveva provato a chiedere ai genitori di stare a casa quel giorno perché non si sentiva bene, ma loro erano stati irremovibili.
Ygraine si chiese, dopo aver distolto lo sguardo dalla panca ed aver iniziato ad avanzare lungo la strada, se il fratello e la cognata credessero che ripristinare il regolare corso delle cose potesse eliminare la magia da Rebecca.
Sapeva che Gawain e Margaret amavano la figlia e voleva credere che, con il tempo, sarebbero riusciti a comprendere che dovevano appoggiarla nel suo percorso presente e futuro. Tuttavia, temeva che le parole dette il giorno prima e la loro reazione quella mattina potessero lasciare dei segni indelebili nell’animo della nipote.
Il suono di un organetto scordato la fece fermare di colpo. Al di là della strada un uomo stava azionando lo strumento, riempiendo l’aria gelata di note inquietanti. Ricordava di aver incontrato in altre occasioni un suonatore di organetti, ma non sapeva se fosse sempre lo stesso. La nenia era sicuramente diversa. Quel giorno sembrava quasi una sorta di canto funebre, una specie di requiem, ma ben più agghiacciante di quelli di Verdi e di Mozart. E più luttuoso del War Requiem di Britten.
Ygraine rabbrividì, prima di riprendere a camminare rapida, accompagnata per diversi metri da quella musica che parlava di morte e di lutto. Anche quando fu sulla banchina della metropolitana le sembrò di sentire le note scordate dell’organetto, ma intorno a lei c’erano unicamente alcuni uomini d’affari che stavano parlando delle variazioni di un titolo in Borsa.
Soltanto quando salì sul vagone, si sentì leggermente più tranquilla, per quanto si chiedesse se la decisione che aveva maturato, all’improvviso, uscendo da casa di Jane, fosse la migliore. Non ne era affatto certa, nemmeno quando uscì dalla metropolitana per ritornare nel modo brinato da cui si era allontanata per pochi minuti.
La brina accompagnò la donna fino all’edificio a cui era diretta, luccicante sui tetti tutt’intorno. E la brina sembrava ricoprire ogni singolo angolo della Gran Bretagna, ogni campo, ogni città, ogni abitazione.
E la brina ricopriva Spinner’s End, creando delle specie di ragnatele sulla strada.
O almeno, così sembrò a Severus, mentre stava in piedi accanto ad una delle finestre della casa. Dietro di lui, sul tavolo, giaceva ancora la lettera che Rebecca aveva affidato a Potter.
Sapeva che la sua risposta era stata brusca e sgradevole, ma era la cosa migliore da fare. In fin dei conti, aveva sempre avuto coscienza che la parvenza di presente e di normalità che viveva con la bambina e sua zia non sarebbe durata per sempre.
Aveva voluto assaporare alcuni momenti di pace, dei brevi attimi fugaci, immediatamente sommersi dalle colpe e dall’assordante certezza che per lui non ci sarebbe stato alcun perdono.
Aveva, forse, financo voluto assaporare l’affetto che la bambina sembrava provare per lui.
Ed ora aveva allontanato quella parvenza di normalità, aveva allontanato da sé quell’affetto perché non c’era altro che potesse fare. La signorina Ainsworth e Rebecca sarebbero state, di certo, più al sicuro senza di lui, considerando ciò che sospettava circa i due omicidi. E sarebbero di certo state meglio senza la compagnia di un assassino. Anzi, forse, se n’erano già rese conto entrambe. Gli Auror erano stati a casa della bambina e forse lei si era già pentita di avergli scritto quella lettera. Potter non era sceso nei particolari, il giorno prima, ma Severus era certo che gli Auror avessero detto loro ogni cosa.
Quel giorno al museo non avrebbe dovuto cedere, non avrebbe dovuto accettare l’invito a bere un tè fattogli dalla signorina Ainsworth, ma era stato tentato da quella strana parvenza di normalità, dal desiderio di vivere, per una volta, una giornata simile a quella delle persone innocenti, come quella bambina e sua zia.
Ed ora, a causa sua, soprattutto se l’idea che aveva formulato il giorno precedente si fosse rivelata vera, Rebecca era rimasta coinvolta nella morte di due innocenti Babbani.
Severus si allontanò dalla finestra e si avvicinò al tavolo. Piegò con cura la lettera della bambina e la inserì nel libro che stava leggendo. Quello sarebbe stato l’ultimo contatto con lei. Forse l’avrebbe vista ancora se gli Auror li avessero convocati, ma Rebecca e sua zia sarebbero rimaste lontane.
Se anche non lo avessero odiato per il male che aveva fatto, lo avrebbero detestato per la lettera che aveva scritto.
Distolse lo sguardo dal volume e riportò l’attenzione sul mondo esterno e sulla brina.
Si immaginò per qualche istante con i capelli coperti da quella stessa brina, simile ad un vecchio ad un passo dalla morte, da quella stessa morte che non l’aveva voluto quando Nagini l’aveva morso, mancando – nessuno aveva capito come – di poco le vene principali.
Avesse avuto i capelli ricoperti di brina, avrebbe potuto vedersi ormai giunto alla fine del suo cammino, alla fine del suo inverno solitario.
Invece, e lo vedeva bene nel lieve riflesso prodotto dai vetri della finestra, i suoi capelli erano ancora neri e lui era ancora troppo giovane per ritenersi prossimo alla morte.
Un bussare rapido alla porta lo distolse improvvisamente dai suoi pensieri. Forse ad aspettarlo oltre l’uscio c’era Potter che aveva deciso di condividere nuovamente con lui i suoi dubbi sugli avvenimenti di sabato o gli Auror che avevano altre domande inutili da porgli.
Invece, al di là della porta, stava Ygraine Ainsworth. Nessuno dei due disse una parola, mentre la faceva entrare in casa.
Avrebbe potuto dirle di andarsene, ma la giovane donna sembrava esausta, a giudicare dalle occhiaie.
O forse, sperava quasi che il soprano avesse deciso di andare fin lì per gridargli in faccia il suo odio.
«Mi spiace di essere arrivata senza preavviso, ma…»
«Venga al punto, signorina Ainsworth.»
«Rebecca ha ricevuto la sua lettera e mia nipote…», Ygraine si bloccò per un istante. Gli occhi neri dell’uomo le parvero quasi rassegnati. «…e anch’io… siamo entrambe preoccupate per lei, signor Piton.»
Severus osservò per qualche istante la donna, che aveva abbozzato un sorriso triste, seminascosto dalla sciarpa di lana.
«E per quale motivo siete preoccupate per me?»
Forse avrebbe dovuto essere più categorico nella sua lettera. Aveva mantenuto un tono freddo, ma non era stato abbastanza duro, abbastanza spietato da usare parole peggiori, parole offensive che potessero ferire Rebecca.
Sapeva che sarebbe stato tranquillamente in grado di farlo, ma non aveva voluto colpire troppo duramente la bambina.
«Quei poliziotti magici hanno detto delle cose orribili su di lei e…»
«Hanno unicamente detto la verità, signorina Ainsworth», la interruppe bruscamente Severus.
Ygraine fece uno sforzo su sé stessa per non abbassare lo sguardo. Gli occhi dell’uomo non avevano più quella calma che trasmettevano i giorni in cui si erano incontrati alla caffetteria del museo. C’era qualcosa di diverso e lo sguardo appariva duro e severo, per quanto non riuscisse a capire se quella durezza fosse rivolta a lei o, piuttosto, a sé stesso, anche se credeva che potesse essere più realistica la seconda ipotesi. Non aveva nemmeno negato le cose orribili a cui lei aveva fatto cenno.
E, come la lettera che aveva inviato a Rebecca, quelle poche brusche parole le diedero ulteriore conferma che aveva fatto bene a fidarsi istintivamente di lui. Si sentì unicamente in colpa per aver anche solo minimamente dubitato il giorno precedente.
«Hanno lasciato intendere che la sospettano per l’omicidio di quelle due persone ed io so, come lo sa Rebecca, che lei non l’ha fatto. Mia nipote mi ha raccontato che le ha impedito di guardare i cadaveri e che la stava allontanando dalla caffetteria, quando sono arrivati gli Auri… Auror.»
Ygraine sapeva di aver parlato tutto d’un fiato, senza quasi prendere pause, se non quando aveva incespicato sul nome dei poliziotti magici, ma non voleva che l’uomo la interrompesse ancora.
«E cosa le fa credere che non possa aver fatto distogliere lo sguardo a sua nipote perché potessi uccidere quei Babbani?»
«Rebecca mi ha detto che ha fatto il possibile per tranquillizzarla, che l’ha portata contro il muro e da dove mi trovavo io, bloccata da uno degli Auror, ho visto perfettamente che le stava facendo scudo con il suo corpo. Se avesse ucciso quelle persone, non avrebbe avuto alcun motivo per preoccuparsi che qualcuno facesse del male a Rebecca.»
Severus osservò con attenzione il volto della signorina Ainsworth, ancora incorniciato dalla sciarpa e dalla cuffia di lana. Gli occhi noccioli del giovane soprano esprimevano la totale convinzione di quello che diceva e doveva darle atto che aveva fatto un discorso logico.
Eppure, sapeva di non meritare la fiducia che ancora vedeva trapelare sul volto della donna.
E non importava che non fosse responsabile di quelle morti, né che non desiderasse perdere quella fiducia, né quella della bambina.
Doveva trovare il modo di allontanare da sé la donna. Se avesse respinto la zia, questa non avrebbe di certo permesso alla nipote di avere a che fare con lui.
«Queste sue convinzioni non spiegano perché si trovi qui, signorina Ainsworth.»
«Quando Rebecca ha ricevuto la sua lettera, non mi ha detto nulla. È stato solo più tardi che è venuta a parlarmene e me l’ha fatta leggere», Severus notò che la donna sembrava leggermente più nervosa di prima, ma decise di non interromperla. Forse, nonostante tutto quello che aveva detto e ciò che lui aveva visto sul suo volto, era venuta a dirgli che la bambina lo odiava. Il che avrebbe reso unicamente più semplice l’orribile compito che si era prefissato. «All’inizio… credo che, in un primo momento, Rebecca si sia sentita rifiutata da lei, poi, ed è quello che mi ha detto, ha iniziato a preoccuparsi per lei, perché non aveva nessuno con cui parlare, perché le sembrava che quelle parole fossero tristi. Così le ha scritto un’altra lettera che ho imbucato stamattina, prima di prendere la decisione di venire qui… non sono solita agire in maniera impulsiva, ma avevo bisogno di parlarle.»
«Per capire se ciò che gli Auror devono averle detto corrisponde a verità?» La signorina Ainsworth scosse il capo convinta, ancora fiduciosa, nonostante quello che dovevano averle detto su di lui. «Forse crede di essere qui perché si ritiene preoccupata per me, ma la verità è che lei non è altro che una sciocca Babbana spinta unicamente dalla morbosa curiosità di sapere, di apprendere ogni piccolo sordido particolare circa quello che gli Auror devono averle unicamente accennato.»
«Non mi interessa ciò che ha commesso nel suo passato, quanto, piuttosto, ciò che sta compiendo nel presente. E so con certezza che non ha ucciso quelle due persone e che ha protetto Rebecca.»
Il volto della signorina Ainsworth si era fatto incredulo e, forse, per qualche istante, ferito. Ed il suo sguardo si era fatto triste, mentre lui le sputava in faccia quelle parole.
E la giovane donna aveva parlato con voce ferma e salda, gli occhi, benché tristi, ancora colmi di fiducia, nonostante quello che lui aveva deliberatamente detto.
Severus continuò ad osservare in silenzio la signorina Ainsworth. Erano entrambi in piedi, poco distanti dalla porta. Avrebbe potuto scacciarla. Non gli sarebbe stato difficile farlo. Era quello che sapeva di dover fare.
Eppure, la fiducia che traspariva dallo sguardo della donna lo bloccò.
Non si trattava più della fiducia cieca e ignara dei giorni precedenti al delitto.
Lei stessa aveva accennato alle cose orribili che avevano detto su di lui ed egli non aveva di certo negato.
Eppure, la fiducia non era scomparsa.
Era salda nello sguardo della giovane donna, forse più salda di quanto non fosse stata prima.
«Si sieda», le disse e notò che la donna sembrò quasi sollevata dalle sue parole.
Solo poco prima di sedersi, la signorina Ainsworth si tolse il cappotto, la sciarpa e la cuffia. Severus prese posto a sua volta, scrutando il volto del soprano.
«Cosa le hanno chiesto di preciso gli Auror?»
«Il primo giorno l’uomo che mi ha interrogato, un certo Cristopher Taylor, se non ricordo male, ha fatto domande molto precise circa dove fossi e cosa stessi facendo mentre venivano commessi gli omicidi», Severus ricordava vagamente che un Cristopher Taylor era stato Prefetto di Tassorosso quando lui era stato uno studente. «Si è unicamente stupito che io non avessi avuto alcun dubbio ad affidarle Rebecca. Ieri sono stata interrogata da una donna, la signora Thomson… la stessa che ha parlato con mia nipote il giorno della tragedia. È stata sgradevole. Sembrava volere farmi ammettere a tutti i costi che avevo trovato qualcosa di sospetto nel suo comportamento, che mi aveva in un qualche modo minacciata, che avrei dovuto avere paura di lei, signor Piton, e non mi è sembrata particolarmente felice quando le ho detto che non avevo alcun motivo per non fidarmi di lei. È stato allora che ha affermato che lei dovrebbe essere in carcere, invece di essere libero e che nessun sistema giudiziario che si rispetti avrebbe dovuto permettere ad un assassino di aggirarsi libero per il Mondo Magico… o meglio ha utilizzato una parola, Mangiamorte, a cui aveva fatto cenno anche il signor Taylor il giorno prima.»
«E lei ha chiesto spiegazioni?»
Forse era quello il motivo per cui la donna negava di essere venuta lì per conoscere il suo passato, per capire a che razza di essere abbietto avesse affidato la nipote.
Aveva affermato di essere unicamente interessata al presente, certo, ed i suoi occhi erano fiduciosi, ma forse nemmeno lei sapeva che desiderava unicamente comprendere chi fosse e quale fosse la storia della sua vita.
O, forse, gli sarebbe stato più facile allontanare la donna e la nipote dalla sua vita se così fosse stato.
«No, anche se sono certa che l’Auror se l’aspettasse, che non vedesse l’ora che le facessi una qualche domanda in proposito. Forse credeva che così facendo mi sarei dimenticata quello che so di aver visto e quello che Rebecca mi ha raccontato sabato sera.»
Ygraine non riusciva a comprendere cosa stesse passando per la mente dell’uomo, ma era quanto meno lieta che le avesse detto di sedersi e che non l’avesse costretta ad andarsene, nonostante le parole brusche che le aveva rivolto, così simili, per certi versi, a quelle che aveva scritto a Rebecca.
Aveva riflettuto a lungo, durante il viaggio in treno fino alla cittadina, su quello che aveva detto l’Auror e sui pensieri che l’avevano tenuta sveglia per buona parte della notte precedente, fino a quando, grazie alle parole di Rebecca e alla lettera dell’uomo, aveva compreso che non aveva nessuna ragione per dubitare di lui. In un primo momento, si era detta che la cosa più logica da fare era comunque chiedere una spiegazione circa quello che la donna aveva lasciato intendere. Ma quell’idea non le era sembrata giusta. Si sarebbe trattata veramente di curiosità morbosa, della volontà di insinuarsi nella vita di un uomo di cui si era fidata e di cui si era resa conto di fidarsi ancora completamente.
Ed aveva compreso, mentre il treno si fermava sferragliando in una stazione, che l’unica cosa che voleva era accertarsi che l’uomo stesse bene e chiedergli consiglio sulle lettere anonime che non aveva mostrato agli Auror.
«C’è una cosa che, però, desidero chiederle», riprese Ygraine, quando l’uomo rimase in silenzio. «Ho bisogno di un consiglio… ho ricevuto alcune lettere anonime e…»
«Ne ha parlato agli Auror?»
La giovane donna scosse il capo. Severus notò che, in quel momento, sembrava più insicura e incerta, mentre frugava nella borsa capiente, da cui estrasse quello che si accorse essere uno spartito. Poi tirò fuori tre fogli stropicciati da uno dei trasparenti che sbucavano dalle pagine.
«Quando mi hanno interrogata sabato, l’Auror mi ha chiesto se avessi mai sentito la parola Mangiamorte ed io ho negato, anche se qualcuno l’aveva scritta su questo biglietto.»
La signorina Ainsworth gli passò uno dei fogli, che conteneva pochissime parole: Ti guarda dal Mangiamorte.
«Quando l’ha ricevuto?»
«L’8 gennaio. L’ho trovato tra la posta di mio fratello maggiore.»
Severus era certo che la signorina Ainsworth fosse giunta alle stesse sue conclusioni. Qualcuno doveva averli notati al museo e qualcuno doveva aver seguito la donna e la bambina dopo che erano uscite.
Aveva già intuito che l’assassino doveva averlo osservato alla Tate Britain, ma non aveva immaginato che potesse essersi spinto a seguire la signorina Ainsworth e Rebecca, che, a questo punto, erano ben più coinvolte nel delitto di quanto non avesse ipotizzato.
«Quando ho letto il messaggio mi è parso uno scherzo di cattivo gusto. Ho anche pensato che potesse essere stato un mio collega, con cui ho l’abitudine di scambiare degli indovinelli che facciano riferimento a dei libretti d’opera, ma Dominique si firma sempre e non avrebbe mai scritto nulla di così semplice… voglio dire, nel Don Carlo di Verdi c’è un verso che dice Ti guarda dal Grande Inquisitor…», Severus notò che la giovane donna si era fatta più nervosa, una reazione perfettamente comprensibile, considerando che qualcuno le aveva inviato quella che all’epoca doveva sembrarle una frase assurda. «… ho cercato qualsiasi spiegazione, ma non ne ho trovata alcuna e credo di aver preferito dimenticarne l’esistenza, almeno fino a quando non ho ricevuto quest’altro biglietto.»
La signorina Ainsworth gli passò un altro foglio, scritto a mano, di piccole dimensioni, adatto ad entrare in una busta contenente un biglietto d’auguri.
Ti guarda. Vi è chi è marcio come lo saranno questi fiori tra pochi giorni.
«L’ho ricevuto il 13.»
«Il riferimento ai fiori?»
Osservando la donna, Severus si rese conto che questo secondo biglietto doveva averla spaventata ben più di quello precedente, per quanto l’altro sarebbe stato ben più sconvolgente per un membro del Mondo Magico.
«Avevo appena finito di cantare quella sera, quando mi è stato recapitato un mazzo di fiori in camerino. Ammetto di esserne stata lusingata, fino a quando non ho letto il messaggio… non sapevo nemmeno io cosa pensarne… mi sono detta che forse avrei dovuto denunciare il fatto alla polizia, ma… non so nemmeno io perché non l’abbia fatto. Forse non volevo allarmare nessuno…»
«E non le è nemmeno venuto in mente, signorina Ainsworth, che in quei giorni si era messa a parlare con un perfetto sconosciuto?»
«Sì, ci ho pensato per un attimo, ma non riuscivo nemmeno ad immaginare per quale motivo qualcuno potesse mettermi in guardia contro di lei e perché lo facesse in maniera…», la donna si interruppe improvvisamente e Severus vide la realizzazione farsi strada nel suo sguardo e, forse, poco dopo, se ne sarebbe andata anche la fiducia che aveva mostrato fino a quel momento. «… era tutto programmato, non è vero? Le lettere avrebbero potuto acquisire senso unicamente…»
«Unicamente se lei, signorina Ainsworth, avesse saputo che aveva permesso a sua nipote di avere a che fare con un assassino.»
Ygraine osservò per qualche istante gli occhi neri dell’uomo, che le sembrarono, dopo quelle parole così dure, simili alla desolazione della solitudine più cupa.
Eppure, nonostante quello che quelle parole lasciavano intendere, si sentiva sempre più certa di aver fatto bene a fidarsi di Severus e sempre più in colpa per aver nutrito quei dubbi il giorno precedente.
Un altro uomo non avrebbe detto nulla del genere, non avrebbe ammesso alcuna colpa, avrebbe fatto l’esatto opposto, avrebbe tentato di rassicurarla, avrebbe protestato dicendo che gli Auror avevano unicamente detto delle menzogne. E di una persona del genere lei non si sarebbe fidata, come si stava fidando dell’uomo che le stava davanti in quel momento, con gli occhi neri colmi di quella stessa desolazione che aveva letto nella sua lettera.
«L’ultima lettera acquisisce maggior senso se… con l’idea che qualcuno possa aver ideato… quelle due povere persone…»
La giovane sapeva che il suo discorso era sconnesso, ma non riusciva a pensare lucidamente in quel momento. Aveva già compreso che qualcuno doveva aver seguito lei o il signor Piton quel giorno al museo, ma non aveva riflettuto abbastanza o, forse, non aveva voluto farlo. Aveva dovuto rincuorare Rebecca e non poteva di certo parlare di quel che era accaduto con il fratello, che, in quel momento, le rivolgeva a stento la parola.
E che osservava la figlia con qualcosa di molto simile alla paura.
Deglutì a vuoto, cercando di calmarsi, prima di riprendere a parlare.
«Ieri mattina Jane, la pianista con cui provo, mi ha portato una lettera che è stata consegnata in portineria a teatro.»
Severus notò che la mano della giovane tremava appena, mentre gli passava l’ultimo foglio. C’erano molte più parole scritte con la stessa grafia del secondo biglietto.
Il marcio è finalmente emerso. Forse ora starai realmente in guardia contro chi ha il cuore macchiato e l’anima lorda.
Dovresti essertene accorta nel tempo trascorso in mezzo al marciume, ma non sei mai stata attenta agli altri come credi di essere. Tre persone sono morte per questa tua scarsa perspicacia.

Era più inquietante delle altre due lettere, si disse l’uomo. Non era tanto il modo in cui l’anonimo scrittore parlava di lui – sapeva perfettamente da solo di avere l’anima lorda e il cuore macchiato – quanto piuttosto il fatto che sembrava voler far sentire la signorina Ainsworth responsabile di quanto era avvenuto.
«Signor Piton…»
«Ha idea di perché parli di tre persone?»
Non era la prima cosa che aveva notato, né le prime parole che avrebbe potuto porre al soprano, ma quella frase non aveva alcun senso. Nel museo erano morte due persone e non riteneva nemmeno lontanamente plausibile che la donna di fronte a lui avesse causato la morte di qualcuno.
Lei era unicamente un’innocente che qualcuno stava caricando del peso di quegli omicidi unicamente a causa sua. Il mittente avrebbe anche potuto scrivere: “hai deciso di parlare con un assassino, per questo ho ammazzato due ignari Babbani”.
«Ieri non mi sono nemmeno accorta di questo particolare, ma… stamane, mentre ero in treno…», la voce della donna si spense per un attimo. Si era fatta incredibilmente pallida e, quando riprese a parlare, la voce era simile ad un sussurro. «L’unica risposta che sono riuscita a darmi è che faccia riferimento a mio fratello. Quando si è ucciso, sul finire del 2000… io ero a Parigi. Stavo cantando all’Opéra. Il direttore del teatro mi ha informato alla fine della recita. Sono tornata a casa il giorno dei funerali e… mi sono sempre chiesta…»
La signorina Ainsworth non aggiunse altro, ma Severus non riteneva opportuno che lo facesse. Non lo stava guardando, in quel momento, ma non stava nemmeno piangendo. Le mani, ancora posate sul tavolo, le tremavano leggermente, com’era logico che fosse dopo che aveva lasciato intendere il dolore ed il senso di colpa che provava per quel che suo fratello aveva scelto di fare.
Sapeva già che Tristan Ainsworth si era suicidato. Zia e nipote ne avevano parlato tra loro quello stesso giorno in cui la donna lo aveva invitato a bere un tè, lo stesso giorno in cui lui aveva rivelato la magia a Rebecca.
«Non è colpa sua, signorina Ainsworth», decise di dirle. Non era stato particolarmente confortante e lo sapeva perfettamente, eppure, la donna alzò il capo e gli sorrise riconoscente.
«Razionalmente ne sono consapevole. So che è difficile comprendere se una persona ha deciso di togliersi la vita. Nessuno di noi ha mai pensato che Tristan potesse giungere al suicidio, né i miei genitori, né Gawain. Tristan era una persona sensibile ed empatica. Era dotato di grande fantasia, forse perché siamo cresciuti immersi negli studi di mio padre, che è un filologo specializzato sulle leggende arturiane. Tristan sarebbe potuto diventare un romanziere di successo, se avesse voluto, ma era interessato alla speculazione. Si è laureato in metafisica ed insegnava da due anni filosofia alle scuole superiori e so che i suoi allievi lo apprezzavano. Tutte le classi erano al suo funerale. Eppure, qualcosa deve essersi rotto in lui. Non so per quale motivo si sia ucciso, perché non ha lasciato nulla. So solo che il giorno prima di andarsene, mi ha telefonato e sembrava così tranquillo. Abbiamo parlato a lungo, della nostra infanzia e della nostra adolescenza. Della filosofia che tanto amava e della musica che era diventata la mia vita. Abbiamo scherzato e gli ho detto che sarebbe potuto venire a Parigi durante le vacanze di Natale. Credo che stesse congedandosi, che volesse lasciare un buon ricordo di sé, che volesse forse dirmi che non dovevo sentirmi responsabile della sua scelta…»
Ygraine non aveva mai parlato in maniera così aperta della morte di Tristan, nemmeno con i suoi genitori, che ne parlavano volentieri. Con Gawain affrontare il discorso era sempre stato quasi impossibile. Ne aveva parlato con Rebecca dopo che la nipote aveva scoperto la verità sulla morte dello zio, ma non le aveva mai detto nulla di quello che stava confidando all’uomo.
Non sapeva nemmeno perché avesse iniziato a dirgli tutto.
Forse era unicamente la fiducia che nutriva nei suoi confronti ad averla portata a parlare.
«Chiunque abbia scritto l’ultimo messaggio vuole che lei dimentichi questa sua ultima intuizione, signorina Ainsworth.»
«E questo mi spaventa, signor Piton», mormorò Ygraine, guardando fuori dalla finestra, il mondo brinato. E si sentì improvvisamente molto più vecchia dei suoi ventotto anni. E si sentì troppo giovane per affrontare tutto quello che stava avvenendo. «Non ho nemmeno idea di chi possa sapere di Tristan e far parte anche della comunità magica…»
Severus non commentò le parole della giovane donna. Era probabile che molte persone fossero a conoscenza del destino di Tristan Ainsworth e che, tra queste, molte conoscessero anche la sorella.
Gli era però chiaro che l’assassino avrebbe continuato a includere la signorina Ainsworth e Rebecca, altrimenti quell’ultima lettera non avrebbe avuto alcun senso. Poteva comprendere e accettare che vi fosse chi voleva vendicarsi del ruolo che lui aveva avuto durante la guerra, ma non che l’omicida coinvolgesse un’innocente, a causa della scelta di un altro uomo.
D’altronde, non se ne stupiva nemmeno.
Quante volte aveva ucciso degli innocenti?
Quante volte non era riuscito a salvarli?
«Cosa devo fare con le lettere?»
«Non le mostri a nessuno», rispose l’uomo osservando fuori dalla finestra, la brina che continuava a coprire ogni cosa.
Il gelo dell’inverno sembrava avvolgere la casa di Spinner’s End.
Anche la donna sembrava essere vittima di quel gelo, si disse Severus, mentre rifletteva rapidamente sul da farsi.
«Venga, la riaccompagno a Londra.»
Ygraine fece per rifiutare, ma qualcosa nello sguardo dell’uomo la bloccò. O forse, più semplicemente, le faceva piacere che l’uomo avesse deciso di riaccompagnarla in città.
Mentre camminavano verso la stazione, si rese conto che parlare di quei tre messaggi l’aveva scossa, soprattutto perché si era resa conto che, in qualche modo, quegli omicidi erano stati programmati.
L’assassino le aveva scritto per metterla in guardia e poi per farle sapere che, poiché non l’aveva ascoltato, aveva deciso di passare all’azione.
E nello scriverle aveva fatto implicitamente cenno anche il fratello.
Chiunque fosse doveva odiare Severus, che aveva ammesso di essere stato un assassino, e doveva odiare anche lei, perché Tristan si era suicidato.
E voleva farla sentire in colpa per la morte di quelle due povere persone, per quanto le sembrasse che il suo scopo fosse ucciderle fin da subito, altrimenti sarebbe stato molto più chiaro e preciso nei suoi messaggi.
Rabbrividì, mentre entravano nella stazione, lasciando la gelida brina al di fuori.
«Il prossimo treno per Londra parte tra dieci minuti», disse l’uomo, che stava osservando il tabellone luminoso.
Era una frase così banale che per qualche istante la rincuorò.
Così come le diede un attimo di requie andare a fare i biglietti e raggiungere il binario.
Quando salirono sul regionale, Ygraine fu felice di trovarlo quasi vuoto, ma quella non era certo un’ora di punta.
«So che nella sua lettera ha scritto che non sarebbe venuto a teatro, ma vorrei invitarla nuovamente», decise di dire all’uomo una volta che si furono seduti in un vagone quasi del tutto vuoto.
«E ritiene veramente che sia una cosa saggia?»
«Sì… ho riflettuto a lungo ieri e ammetto di aver dubitato di lei per qualche tempo o, meglio, di non essere riuscita a riconciliare ciò che avevo visto con ciò che aveva detto quell’Auror e mi sento in colpa per questo», Severus osservò il volto della giovane donna e notò l’assoluta sincerità nel suo sguardo. Il dubbio avrebbe dovuto portare alla condanna e non al senso di colpa, che era comparso sul volto della signorina Ainsworth. Quella della giovane donna non era la reazione più logica, era una reazione così diversa da quella che Lily aveva giustamente avuto quando l’aveva insultata. Era, d’altronde, certo che nessuno avrebbe dovuto sentirsi in colpa nei suoi confronti. «La prima cosa che mi ha detto Rebecca ieri è stata quella di essersi scordata di invitarla a teatro, quando eravamo alla caffetteria… e mi farebbe veramente piacere se volesse venire all’ultima recita dei Contes d’Hoffmann e so che anche mia nipote ne sarebbe felice.»
Severus osservò per qualche istante la brina che ricopriva il paesaggio visibile al di fuori del treno e la cittadina nella cui stazione il convoglio si fermò sferragliando. La banchina sulla quale scesero le altre tre persone presenti nel vagone era ricoperta dai ghirigori bianchi lasciati dal gelo invernale.
Se la signorina Ainsworth non gli avesse mostrato quelle lettere anonime, avrebbe rifiutato quell’invito e non l’avrebbe nemmeno riaccompagnata a Londra. Ma gli era ormai chiaro che l’assassino aveva preso di mira la donna a causa del suicidio del fratello, che l’avrebbe, con ogni probabilità, continuata a tormentare anche se fosse riuscito ad allontanare zia e nipote a male parole.
«Verrò», disse soltanto.
Forse avrebbe dovuto aggiungere altro, ma non sapeva cosa rispondere al sorriso grato della donna, un sorriso che sapeva perfettamente di non meritare.
Forse avrebbe dovuto renderla partecipe di tutto il male che aveva fatto ed allora, ne era certo, nonostante tutto, nonostante le parole di quel giorno, nonostante la fiducia che traspariva dagli occhi nocciola della giovane donna, lei l’avrebbe odiato.
E poco dopo anche Rebecca l’avrebbe fatto.
Mentre osservava la brina che ricopriva ogni campo, ogni casa, ogni strada, simile all’inverno che attanagliava la sua anima, si disse che l’unico modo che aveva, in quel momento, per proteggere la bambina e sua zia era riuscire a tenerle vicine.
O forse non voleva perdere ancora quel lieve presente in cui riusciva parzialmente a vivere, quando era in loro compagnia.
O, più semplicemente, non voleva perdere la fiducia che vedeva ancora dipinta nello sguardo di Ygraine Ainsworth, mentre le spiegava che sarebbe stato necessario porre degli incantesimi protettivi intorno all’appartamento di suo fratello, nulla di troppo invasivo, in modo da non allertare il Ministero, ma abbastanza potenti da tenerle il più possibile al sicuro.
Forse non sarebbe stato sufficiente, ma, almeno, l’assassino non poteva Smaterializzarsi all’interno dell’appartamento, né apparirvi con una Passaporta.
Quando si ritrovò in strada, dopo aver congedato la donna e aver preso accordi per il 30, gli parve di sentire il suono di un organetto. Si guardò intorno, ma la via era deserta e imbiancata dalla brina.
Eppure, anche quando si Smaterializzò a Spinner’s End, gli parve di sentire le note scordate di un organetto.
Delle note che parlavano di morte.

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[1] Wilhelm Müller, Der greise Kopft (La testa canuta), vv. 1-7. La traduzione è presa dal programma di sala dell’Accademia di Santa Cecilia.

 
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view post Posted on 7/11/2022, 10:30
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Capitolo XV

Die Krähe



Krähe, wunderliches Tier,
willst mich nicht verlassen?

Oh cornacchia, bizzarro animale,
non mi vuoi dunque abbandonare?
[1]

Gran Bretagna, 30 gennaio 2002


«Ho parlato con Piton.»
Harry si rese conto di aver detto quelle parole, prima ancora che Hermione si sedesse di fronte a lui, ma aveva bisogno di parlare con qualcuno di quello che era accaduto due giorni prima.
«Ne sono felice, Harry. Quindi questa volta si trovava in casa?»
«Sì. Come ti ho detto domenica, gli ho portato la lettera di Rebecca e poi… non gli ho detto quello che avrei voluto, ma gli ho parlato dell’indagine e sai, Hermione, mi è piaciuto parlare della questione con lui. Credo che mi abbia dato un buon consiglio che ho cercato di mettere in pratica ieri.»
Harry non trovò necessario rivelare all’amica di aver detto a Piton che lo considerava un eroe, né del fatto che l’uomo non aveva fatto alcun cenno alla questione.
Un giorno avrebbe voluto riuscire a ringraziarlo e a chiedergli perdono per come lo avesse sempre mal giudicato, ma era cosciente che quel giorno era ancora lontano.
«Ed hai ottenuto qualcosa seguendo il suo consiglio?»
«Non molto, a dire il vero, però credo di essere sulla buona strada», Harry si rese conto che stava seguendo perfettamente il protocollo con Hermione, mentre domenica con Piton aveva fatto esattamente il contrario.
«Ed è quello che conta, Harry», il ragazzo notò il sorriso comprensivo sulle labbra dell’amica. Era certo che Hermione avesse capito tutto, che sapesse perfettamente che lui aveva spiegato l’indagine per filo e per segno a Piton e che non stava dicendo nulla a lei. «Così come ritengo che sia importante che tu sia riuscito a parlare con lui, dopo tanti tentativi.»
«Sai, Hermione, ieri, mentre ho fatto del mio meglio per seguire il consiglio che mi ha dato, mi sono reso conto che Piton è stato una costante nella mia vita a partire dal momento in cui sono arrivato a Hogwarts, forse più di qualsiasi altro adulto», Harry si interruppe, mentre cercava di raccogliere le idee. «Per molto tempo ho pensato che fossero altri gli adulti che sarebbero stati sempre presenti, che mi avrebbero, in un qualche modo, guidato. Invece, ieri, mentre ero al lavoro, mentre ascoltavo i miei colleghi parlare dell’indagine che stiamo seguendo, mi sono reso conto che Piton è sempre stato presente, anche se non me ne sono mai accorto veramente, nemmeno quando ho testimoniato al suo processo, quando ho parlato in suo favore.»
Harry ricordava perfettamente quei giorni. Erano trascorse poche settimane dalla battaglia di Hogwarts, quando erano cominciati i processi. Piton era ancora in coma, quando era iniziato il suo e lui aveva creduto che fosse incredibilmente ingiusto processare qualcuno che non era nemmeno presente, qualcuno che si trovava tra la vita e la morte. Rammentava ancora con chiarezza che, dopo la prima udienza, dal San Mungo gli avevano comunicato che quel giorno Piton era quasi morto per una complicazione dovuta alla ferita inferta da Nagini.
All’epoca si era chiesto a lungo se utilizzare i ricordi che l’uomo gli aveva dato per provare la sua innocenza, per poi comprendere che non era quello il modo migliore d’agire, che sarebbe stato ingiusto nei confronti dell’uomo esporre davanti al Wizengamot e alla stampa quei ricordi. Era stato il giorno prima del processo che si era reso conto di vergognarsi perché aveva rivelato a Voldemort e a tutti quelli che lo stavano ascoltando dell’amore di Piton per sua madre. Si era, però, accorto che, nell’entusiasmo generale, nessuno gli aveva chiesto nulla in proposito. Forse, già allora, nessuno voleva veramente sapere nulla dell’uomo, forse già allora tutti volevano evitare di pensare ad un eroe scomodo come Piton.
O forse tutti avevano unicamente registrato il momento in cui Voldemort era morto, senza pensare più di tanto a quello che lui aveva detto.
«Nessuno di noi se n’è mai reso conto, Harry», affermò Hermione, che, si accorse il ragazzo, lo stava osservando con attenzione.
«Eravamo troppo impegnati a pensare il peggio di lui… e, sai, domenica sera mi sono chiesto come sarebbero stati quegli anni se gli avessi mai parlato come ho fatto ieri. So che non sarebbe mai potuto accadere; non con il suo ruolo di spia, ma, non so nemmeno come spiegarlo, Hermione, domenica mi è sembrato quasi di avere una sorta di mentore. E non è che sia stato amichevole o accogliente, però mi ha dato dei buoni consigli.»
Harry non andò nei dettagli, forse perché non riusciva nemmeno lui a capire cosa gli passasse per la testa in quel momento.
O forse lo sapeva perfettamente.
Con ogni probabilità era soltanto uno sciocco che stava continuando a cercare quella figura paterna che non era veramente mai riuscito a trovare.
Ed ora, unicamente perché un uomo che era arrivato ad ammirare gli aveva dato un buon consiglio aveva iniziato a vedere in lui qualcosa che probabilmente non era.
Però, nonostante tutto, Piton aveva sempre fatto di tutto per proteggerlo e lo aveva sempre, in qualche modo, guidato.
E lui non era nemmeno riuscito ancora a ringraziarlo, per quanto non fosse certo che l’uomo avrebbe mai accettato i suoi ringraziamenti.
O forse non avrebbe mai avuto il coraggio di ringraziarlo, si disse, perché farlo voleva dire parlare del passato, dei ricordi e di sua madre. Quel pensiero lo sconfortò. Si sentiva un vigliacco anche solo a pensarlo. Si voltò verso la finestra e notò una cornacchia che sembrava quasi osservarlo, prima di volare via nel cielo gelido di quel giorno di gennaio.
E la cornacchia continuò a svolazzare senza meta per le vie di Londra, avvolta dal freddo intenso di quell’inverno particolarmente freddo. Sembrava quasi che il nero volatile stesse cercando qualcuno da seguire, mentre il vento sferzava la capitale inglese. Si poggiò infine sul davanzale di una finestra di uno dei tanti appartamenti del centro di Londra.
Ygraine Ainsworth osservò per qualche istante la cornacchia, prima di voltarsi verso il fratello che, quella mattina, era a casa da lavoro. Dopo quello che era accaduto la domenica precedente, sentiva la necessità di parlare con Gawain, di cercare di comprendere se l’uomo fosse ancora spaventato dalla figlia. Inoltre, avrebbe dovuto anche ricordargli che aveva promesso tempo prima a Rebecca che quella sera poteva recarsi all’opera.
«Gawain, possiamo parlare?»
Il fratello alzò gli occhi dalle carte che stava esaminando e la guardò, senza proferire alcuna parola. A Ygraine sembrò che l’uomo fosse incredibilmente perso in quel momento. Non l’aveva mai visto così, nemmeno al funerale di Tristan. All’epoca era apparso sicuro di sé, per quanto la giovane fosse certa che Gawain fosse rimasto scosso dal suicidio del fratello.
«Sto lavorando, Ygraine.»
La giovane donna trattenne a stento uno sbuffo. Il fratello aveva la strana abitudine di guardarla come se lui fosse l’unico della famiglia a lavorare veramente. Non aveva mai apprezzato del tutto che lei avesse intrapreso la carriera artistica.
«Si tratta di Rebecca.»
Ygraine notò che il fratello si era fatto improvvisamente più attento e che aveva messo da parte le carte. Cercò di osservarlo con più attenzione, ma stava evitando di guardarla.
«Ti ha detto qualcosa?»
«No. Forse dovresti parlarle, Gawain.»
«Mi chiedo come tu faccia, Ygraine, ad essere così tranquilla. Hai visto quello che ha fatto… Margaret è ancora terrorizzata ed io odio ammetterlo, ma ho paura che Rebecca possa distruggere degli altri vetri, che possa fare del male a qualcuno.»
Gawain sembrava vulnerabile, in quel momento, notò la giovane donna, e non l’aveva mai visto così turbato.
«Forse sono così calma perché il signor Piton ha avuto modo di spiegare tutto a Rebecca ed io ho potuto ascoltarlo… o forse è perché la prima magia che le ho visto fare è stato cambiare il colore dei fiori di un abito», Ygraine si interruppe, decidendo di non rivelare a Gawain che l’episodio accaduto a scuola a inizio mese aveva a che fare con la magia. «Rebecca mi ha detto di aver anche tentato di liberare una coccinella dal ghiaccio un giorno. Come vedi, non c’è nulla di violento in questi episodi.»
«Di cui ha fatto cenno solo con te e con quell’uomo di cui non ci hai mai parlato», disse il fratello, che la stava fissando con attenzione, in quel momento. «So che domenica io e Margaret ti abbiamo detto che Rebecca poteva vederlo nuovamente, ma non sono certo che sia realmente una buona idea.»
«Gawain, avete promesso a Rebecca che poteva incontrare nuovamente il signor Piton e, credimi, è la cosa giusta da fare.»
«So cosa è stato detto domenica, Ygraine, ma ho avuto modo di riflettere in questi giorni e voglio che mia figlia abbia una vita normale, come quella di tutti gli altri bambini e, di certo, parlare con un uomo del genere non l’aiuterà in tal senso.»
Ygraine portò lo sguardo verso la finestra, dove stava posata la cornacchia spelacchiata che aveva notato poco prima. Le parve per un istante che quell’animale volesse rimanere lì, come per vedere cosa sarebbe accaduto, per comprendere se sarebbe riuscita a trovare una risposta diplomatica da dare a suo fratello. Di certo, non gli avrebbe mai detto delle protezioni magiche che Severus aveva posto intorno al suo appartamento e non avrebbe nemmeno dovuto mostrarsi aggressiva.
«So che non è facile accettare che Rebecca sia una strega, Gawain, ma non c’è nulla che tu possa fare per evitare che lo sia.»
«Invece, deve esserci qualcosa per bloccare tutto, per farla tornare normale.»
«Non c’è nulla da bloccare, Gawain. Il signor Piton ha detto…»
«Smettila di nominare quell’uomo, Ygraine», Gawain sembrava improvvisamente irritato. E impaurito. «Domenica mi è stato fatto presente da uno di quei poliziotti che l’uomo con cui hai fatto parlare mia figlia è stato processato per dei crimini orrendi.»
«Ed è stato assolto, Gawain. Spero che ti sia stato detto anche questo», affermò Ygraine, sperando di chiudere l’argomento con quelle parole.
«Sai perfettamente anche tu che la giustizia può commettere degli errori e, se lo può fare nel nostro mondo, lo può fare tranquillamente anche in quell’altro.»
«Ti fidi così poco di me da credere che possa mettere a repentaglio la vita di Rebecca? Sai perfettamente che non lo farei mai. Non ti chiedo nemmeno di accettare subito la magia, ma, ti prometto che non esiste persona maggiormente degna di fiducia del signor Piton.»
«So che non metteresti mai volutamente in pericolo Rebecca, ma, per quanto tu creda di essere razionale, a volte sei di un’ingenuità sconcertante. Ricordo perfettamente quel che è successo con Bernard. Credevi di aver incontrato l’uomo della tua vita e, invece, è tutto andato a rotoli e sai perfettamente che a me non piaceva.»
«Solo perché è un controtenore, Gawain. Era quello che non ti piaceva di lui», Ygraine non si era aspettata che il fratello avrebbe utilizzato il fallimentare fidanzamento con un collega per cercare di farle capire che si stava sbagliando a fidarsi di Severus. «Avevo ventuno anni all’epoca, Gawain, e, comunque, non puoi paragonare le due situazioni. Allora, avevo creduto di essere innamorata per poi rendermi conto che Bernard ed io non avevamo nulla in comune, nemmeno in ambito musicale. Passavamo le giornate a litigare su Haendel e Wagner. E sai perfettamente che siamo ancora in contatto. Bernard sta facendo un’ottima carriera e ne sono felice. Ma quello che è accaduto allora non ha nulla a che fare con quello che sta accadendo adesso. Forse all’epoca sono stata un’ingenua, ma sono passati anni e so di non sbagliarmi sul signor Piton. E non si tratta nemmeno della stessa situazione. È unicamente una questione di fiducia, Gawain. Ho visto Rebecca con Severus e so che lui la può guidare e consigliare nel suo nuovo percorso. Forse dovresti provare a parlare con lui. O, se non lo vuoi fare, aver fede nelle mie parole. Te l’ho già detto, Gawain, non ho mai conosciuto nessuno di cui mi fidi come mi fido del signor Piton.»
«Continui a ripeterlo, Ygraine, ma non capisco come tu possa farlo… da quanto lo conosci? Qualche settimana? Non ha senso.»
«Invece lo ha. A volte non servono anni per capire dove puoi riporre la tua fiducia. E non scordarti che ha protetto Rebecca sabato. Non credo servano altri motivi.»
Non disse al fratello che si fidava di Severus per molte altre ragioni, non da ultimo per il fatto che, quando era andata a casa sua, non aveva negato, in alcun modo, di essere stato un assassino in passato. Sperava sinceramente che a Gawain bastasse quello che gli aveva detto, che si accontentasse di quelle parole e che non la interrogasse ulteriormente circa i suoi sentimenti.
«Non so cosa pensare, Ygraine. Tu sembri così tranquilla, così sicura di te… invece io sono terrorizzato. Credo che il problema non sia nemmeno quell’uomo, ma quello che è diventata Rebecca», la voce del fratello era piena del terrore di cui aveva parlato poco prima.
«Rebecca è nata con la magia, Gawain. Forse dovresti prenderti del tempo e parlare da solo con lei, con calma e senza mostrarti impaurito… o prova a chiedere consiglio ai nostri genitori…»
«Non dirò a mamma e papà che la loro unica nipote è... che non è una bambina normale.»
«Parla con Rebecca, Gawain, e vedrai che è ancora la bambina che era prima di scoprire di essere una strega», Ygraine sperò che la voce non le fosse uscita troppo supplichevole, ma non sapeva come convincere il fratello ad accettare quello che stava accadendo.
«E qui ti sbagli. Rebecca non ha mai urlato in quel modo contro di noi, non l’ho mai vista così arrabbiata.»
«Era spaventata. Noi stavamo litigando e tu hai detto che volevi impedirle di rivedere il signor Piton…»
«Forse è colpa sua se…»
«Non andare oltre, Gawain. Non osare nemmeno pensare un’assurdità del genere.», lo interruppe bruscamente Ygraine, mentre rivedeva gli occhi neri dell’uomo così colmi di solitudine e di disprezzo e mentre le sembrava di udire la sua voce mentre le diceva che lui era un assassino. E non poteva sopportare che suo fratello lo accusasse così ingiustamente. «Il signor Piton ha unicamente aiutato Rebecca dopo una magia accidentale, l’ha tranquillizzata e ha ascoltato e risposto ai suoi dubbi sul Mondo Magico.»
Gawain osservò con attenzione la sorella. Non riusciva a capirla, così come non riusciva più a capire sua figlia. E sapeva che Margaret condivideva la sua stessa opinione. Eppure, sapeva che Ygraine non avrebbe mai lasciato cadere l’argomento. Forse poteva darle ragione, includere per qualche altro tempo nella vita di sua figlia l’uomo che aveva detto a Rebecca di essere una strega, che aveva reso diversa la sua bambina. Poi, non appena la sorella sarebbe stata su un volo per Bologna, avrebbe rotto ogni legame. Forse, era quella la soluzione migliore. Se quell’uomo fosse uscito dalla vita di Rebecca, allora la bambina sarebbe tornata quella di prima. E allora se ne sarebbe andata anche la magia.
«Sono solo preoccupato, Ygraine», disse, infine. «Non sto ragionando lucidamente come vorrei. Faccio affidamento su di te in questo frangente.»
Ygraine annuì soltanto, ma non le era sfuggito il tono di voce di Gawain, che non sembrava affatto convinto di quello che stava dicendo.
E temeva tremendamente il momento in cui sarebbe dovuta partire per l’Italia.
Avrebbe dovuto parlarne con Severus, appena ne avesse l’occasione e sapeva che quella sera non sarebbe stato possibile, non con Rebecca con loro. Per quanto al momento le sembrasse improbabile, voleva ancora salvare il rapporto della nipote con i suoi genitori.
«Gawain, ti ricordi che stasera Rebecca verrà ad ascoltarmi al Covent Garden?»
«Sì, certo», Gawain le parve sollevato, quando cambiò argomento. «Chi ci sarà stasera con lei in sala? Jane forse?»
«No, Jane è impegnata. Ci sarà un amico.»
«Qualcuno che conosco?», Ygraine scosse il capo, sperando di riuscire a rimanere sul vago. Non voleva mentire apertamente al fratello, ma lo avrebbe fatto, se fosse stato necessario, perché si rendeva conto che Gawain continuava a non fidarsi del suo giudizio su Severus e lei non voleva privare Rebecca della possibilità di rivederlo. «Qualcuno del tuo mondo, immagino.»
«Esattamente.»
Gawain sembrò soddisfatto della risposta, anche se Ygraine si chiese come avesse fatto a non capire che stava facendo riferimento a Severus. O, forse, gli era semplicemente più facile pensare che Rebecca sarebbe andata a teatro con un altro cantante o con un maestro preparatore, con qualcuno che non aveva a che fare con la magia.
Al di fuori della finestra la cornacchia si alzò in volo.
E sembrava che, quel giorno, il cielo invernale fosse solcato da cornacchie. Alcune stavano appollaiate sui rami di alberi spogli, altre volavano senza una meta, attraverso tutta l’isola.
E una cornacchia sembrava osservare la casa di Spinner’s End. Severus era certo di averla vista quella mattina, quando aveva cercato alcune informazioni su uno degli innumerevoli libri della sua biblioteca e l’aveva ritrovata ancora lì nel pomeriggio, dopo che si era dedicato alla ricerca che stava portando avanti con una lentezza che un tempo non gli era appartenuta.
Da che era stato dimesso dal San Mungo, aveva iniziato a collaborare con un centro di ricerca in campo pozionistico. Eppure, intrappolato com’era nell’inverno della sua anima, era certo di non aver dato alcun contributo significativo. Certo, veniva pagato per le migliorie che aveva apportato ad alcune pozioni già esistenti, ma la sua vita, nei tre anni precedenti, si era ridotta ad una serie di giornate sempre uguali a loro stesse e trascorse, per lo più, alla Tate Britain davanti al quadro di quella Lily che non era Lily, nella vana ricerca di un perdono che – lo sapeva perfettamente – lui stesso non sapeva darsi. E la ricerca si era ridotta ad un mero dovere, al semplice mezzo che gli consentiva di vivere in maniera più dignitosa di quanto non glielo permettesse la misera pensione di guerra che gli versava il Ministero.
Eppure, quel giorno, gli era sembrato di aver ritrovato il piacere della sperimentazione che gli era parso svanire durante gli anni precedenti. Non sapeva nemmeno quale fosse il motivo. O, forse, non voleva ammettere che non aver ancora perso la fiducia di Rebecca e della signorina Ainsworth sembrava aver scalfito, in minima parte, l’inverno a cui si era condannato.
Quel giorno gli era arrivata la lettera della bambina di cui la donna gli aveva parlato lunedì, una lettera colma di un affetto e di una gratitudine che era certo di non meritare.
E per quanto la signorina Ainsworth si fosse dimostrata completamente fiduciosa nei suoi confronti, per quanto Rebecca sembrasse essergli affezionata, non riusciva ad allontanare il timore che presto o tardi tutta quella fiducia e tutto quell’affetto sarebbero andati distrutti.
Non riusciva a non pensare al modo in cui lui aveva mandato in frantumi l’amicizia di Lily. Quando erano bambini Lily doveva averlo guardato con lo stesso affetto che Rebecca aveva espresso nella sua ultima lettera e con la fiducia che la signorina Ainsworth gli aveva dimostrato due giorni prima.
Aprì il cassetto dove teneva le lettere di Rebecca, le tirò fuori ed estrasse la foto di Lily che aveva sottratto a Grimmauld Place.
Rimase immobile ad osservarla per diverso tempo, scrutando il volto di Lily, ma si trattava unicamente di un’immagine priva di vita, che non avrebbe mai potuto contenere l’amicizia che un tempo avevano condiviso.
Rimise la foto al suo posto e riposizionò con cura le lettere di Rebecca, poi chiuse per un istante gli occhi, cercando di ritornare alla sua infanzia e agli occhi verdi di Lily, ma non gli riuscì mai di vederli colmi dello stesso affetto disinteressato della bambina, né della fiducia che aveva letto negli occhi nocciola della signorina Ainsworth.
Eppure, era certo che Lily un tempo lo avesse guardato in quel modo e che quei sentimenti fossero scomparsi gradualmente dal suo sguardo man mano che lui sprofondava sempre di più nell’oscurità, fino a quando non aveva distrutto tutto e negli occhi di Lily non erano rimasti che la rabbia e il disprezzo.
Chiuse il cassetto e, mentre afferrava il cappotto che utilizzava quando si recava in un luogo frequentato da Babbani, notò che la cornacchia sembrava osservarlo al di là della finestra. Era come se quell’animale avesse voluto fargli compagnia per tutto il giorno il che era assurdo.
E un vento gelido soffiava su Spinner’s End e un vento altrettanto gelido soffiava su Londra e nella via che si trovava sul lato destro della Royal Opera House.
Rebecca teneva stretta la mano della zia, mentre si guardava intorno. Le luci stradali erano accese e lei stava cercando la sagoma di Severus. Era da sabato che non lo vedeva e si sentiva entusiasta all’idea di poterlo incontrare tra poco. Ed era anche un po’ gelosa della zia che lunedì lo era andata a trovare. D’altronde era già una fortuna che papà e mamma si fossero ricordati che quella sera le avevano promesso che poteva andare a teatro.
Però loro credevano che lei sarebbe stata seduta accanto a un non meglio specificato amico della zia – un cantante o qualcuno che lavorava nel teatro – e non a Severus. Zia Ygraine le aveva solo chiesto di non dire a mamma e papà che quella sera il signor Piton sarebbe stato con loro. Le aveva detto che i suoi genitori dovevano ancora abituarsi alla magia e che, di conseguenza, dovevano ancora abituarsi alla presenza di un mago nella sua vita. Ma Rebecca aveva capito che la zia non le aveva detto tutta la verità. Si era accorta che mamma e papà sembravano aver paura di lei e che non volevano mai anche solo nominare il signor Piton, né la magia.
La zia le aveva detto che doveva avere pazienza, che mamma e papà erano solo rimasti molto stupiti, ma a lei non piaceva come si stavano comportando i suoi genitori.
Avrebbe voluto che fossero felici per lei e non che la guardassero sempre in maniera così strana, come se temessero che succedesse qualcosa di terribile da un momento all’altro. Forse avrebbe potuto invitare a cena Severus una sera, così mamma e papà potevano conoscerlo e capire che la magia non era una brutta cosa.
La bambina strinse maggiormente la mano della donna, mentre continuava a guardarsi intorno. Fu allora che lo vide.
«Eccolo, zia!»
Lasciò andare improvvisamente la mano della donna e gli corse incontro. Era da sabato che non lo vedeva e voleva ringraziarlo di persona e dirgli che non le importava della lettera che le aveva scritto. Glielo aveva già detto nella lettera che gli aveva mandato, ma non era certa che gli fosse già arrivata.
Rallentò solo quando lo raggiunse.
«Sono felice di vederti», gli disse tutto d’un fiato.
«Rebecca, signorina Ainsworth.»
Severus notò il sorriso felice sul volto della bambina, illuminato dalla luce di un lampione. Da qualche parte una cornacchia sembrava osservarlo, come aveva fatto quella che aveva notato a Spinner’s End. Pareva quasi che questa l’avesse seguito, per quanto sapesse che quel pensiero non aveva alcun senso.
«Signor Piton», Severus osservò il volto del soprano e notò che gli aveva rivolto un sorriso quieto e fiducioso. «Devo andare all’entrata degli artisti. Quando l’opera sarà finita, mi potreste aspettare da quella porta? Vi farei passare da dietro le quinte, ma ci hanno fatto sapere che ci sono già troppe persone che passeranno direttamente da lì.»
Severus annuì soltanto, mentre la donna gli passava i biglietti per la sera, per poi salutare Rebecca con un abbraccio, prima di affrettarsi trafelata verso l’uscita artisti.
«La zia detesta arrivare in teatro troppo in anticipo e lei canta solo nel secondo atto», gli confidò la bambina, prendendogli la mano.
Severus rimase per un breve istante immobile, prima di iniziare a camminare, la mano di Rebecca stretta saldamente nella sua.
C’era fiducia in quel gesto così semplice.
E affetto.
Mentre esibiva i biglietti alla maschera, si chiese quanto tempo fosse passato da quando qualcuno lo aveva toccato con affetto.
E si rese conto di non sapersi veramente rispondere.
Sicuramente non erano stati i suoi genitori. Non ricordava nemmeno se ci fosse stato un giorno nella sua infanzia in cui lo avessero veramente amato. Forse quando era nato. O, forse, nemmeno allora.
Forse la vecchia zia di suo padre che gli aveva regalato, poco prima di morire, la sua collezione di libri Babbani, lo aveva abbracciato, ma era morta quando lui aveva cinque anni e la ricordava a malapena.
Rebecca lo guidò con sicurezza verso il loro posto a sedere, mentre gli confidava che zio Tristan l’aveva portata diverse volte a teatro negli anni precedenti.
«Non ho ascoltato tante volte la zia dal vivo», gli disse una volta che si furono seduti. «Dopo aver debuttato, ha cantato soprattutto in Francia e in Germania. Tre anni fa sono andata ad ascoltarla a Digione con zio Tristan e ho potuto vedere la casa della zia.»
Severus rimase per lo più in silenzio, preferendo ascoltare la bambina che, dopo avergli descritto l’appartamento della signorina Ainsworth a Digione, si lanciò a raccontargli la trama dell’opera, confidandogli che aveva tormentato sua zia perché gliela spiegasse nel migliore dei modi. Era una storia piuttosto intricata, si rese conto Severus, fatta di figure demoniache, di donne amate e perse e di un giovane poeta che sembrava incapace di trovare la felicità.
Poi le luci si abbassarono e il direttore d’orchestra fu accolto da un applauso.
Rebecca seguiva con attenzione quanto avveniva in scena – quella era stata l’opera preferita di zio Tristan, che le aveva fatto ascoltare più volte l’aria di Olympia [2] – anche se non riusciva ad impedirsi di lanciare di tanto in tanto un’occhiata a Severus. Era così felice che avesse cambiato idea e avesse deciso di venire ad ascoltare la zia ed era grata alla zia perché era andata a parlare con lui lunedì.
«Sono veramente contenta che tu sia potuto venire stasera», gli disse durante l’intervallo tra il primo e il secondo atto. «E volevo dirti che non ci sono rimasta male per la lettera che mi hai scritto. E, sai, ti sono veramente grata per sabato, anche se quegli…», la bambina incespicò un attimo sulle parole. Erano nel foyer completamente circondati da persone e voleva fare una buona impressione su Severus e non sbagliare e dire qualcosa a proposito della magia in mezzo a dei Babbani. «Quei poliziotti non sembrano volerlo capire. Tranne Harry. È solo per questo che gli dato la lettera per te.»
«Rebecca, ci sono dei motivi per cui quelle persone dubitano di me», Severus condusse la bambina verso un angolo del foyer meno frequentato, dove aveva notato un divanetto addossato al muro. Vi si sedette, con accanto la bambina, che lo stava osservando con attenzione. «Ho commesso un errore terribile, che mi ha portato a commettere atti orribili di cui tutti sono a conoscenza nel nostro mondo. Non devi stupirti se sospettano di me, né devi dispiacerti per me. E mi duole che, a causa mia, ti abbiano interrogata due volte.»
Severus osservò la bambina, chiedendosi se avesse fatto bene ad affrontare l’argomento in quel momento, ma non voleva che Rebecca rimanesse nell’illusione che lui fosse una persona da ammirare. Sperava unicamente che la bambina non giungesse a odiarlo.
«Ma non è colpa tua se quelle persone antipatiche mi hanno interrogata», ribatté Rebecca con un sorriso. «E poi tu sei stato molto coraggioso sabato. Anche Harry ha detto che sei coraggioso.»
«Cosa ti ha detto di preciso, Potter?»
«Non molto… che sei stato un suo professore e che non ha sempre avuto un’idea positiva di te, ma che poi si è accorto di essersi sbagliato e che sei un eroe.»
Se avesse potuto avrebbe strangolato il ragazzo che aveva penato tanto a proteggere e gli avrebbe chiesto da dove gli fosse venuta l’insensata idea di ritenerlo qualcosa che non era mai stato. Il ragazzo non avrebbe dovuto mettere in testa alla bambina quell’idea, perché, quando – e sperava che questo avvenisse il più tardi possibile – si fosse resa conto che lui era l’esatto opposto di un eroe coraggioso, la delusione negli occhi di Rebecca sarebbe stata insostenibile.
«Non sono un eroe, Rebecca.»
«Non è che sia importante se sei un eroe o no. E nemmeno che tu abbia fatto degli errori. Ti voglio bene comunque.»
Severus non sapeva come reagire alle parole sincere della bambina, né cosa risponderle. E quando Rebecca lo abbracciò rimase per qualche istante immobile prima di ricambiare incerto l’abbraccio.
E quando lo fece gli parve che la bambina sorridesse contro di lui e si sentì incapace di fare altro, di dire alcunché. Si concesse di assaporare l’affetto della bambina e di non lasciare indugiare il pensiero sul momento in cui avrebbe ineluttabilmente perso quell’affetto.
Non seppe nemmeno quanto tempo passò, prima di sentire il suono che annunciava la fine dell’intervallo.
Senza dire una parola, si l’uomo si alzò dal divanetto e Rebecca gli afferrò subito la mano, mentre ritornavano al posto. La bambina si sentiva felice, anche se le sembrava sempre che l’uomo fosse molto triste.
E non capiva nemmeno perché fosse così convinto di non essere un eroe. Per lei lo era e lo sarebbe stato anche se Harry non glielo avesse detto. Sapeva che l’aveva protetta al museo e le aveva anche impedito di vedere le due persone morte. E soltanto un eroe poteva fare una cosa del genere.
Era soddisfatta però di avergli detto che non era così importante se aveva fatto degli errori. Con la maestra avevano parlato della cosa, dopo che lei aveva ferito Matthew, il giorno in cui Severus le aveva spiegato della magia. E la maestra aveva detto che era sempre importante concedere agli altri una seconda possibilità.
Ed era certa che anche la zia la pensasse così.
Non era però molto sicura di cosa pensassero mamma e papà.
Le sarebbe piaciuto che, in quei giorni, papà e mamma l’abbracciassero come aveva fatto Severus quella sera, anche se le era sembrato che l’uomo non fosse abituato ad essere abbracciato.
E quello le sembrava molto triste.
Si voltò un istante verso di lui, quando furono seduti ai loro posti e gli sorrise, mentre due dei loro vicini passavano davanti a loro per raggiungere le loro poltrone.
Severus notò il sorriso della bambina. Forse avrebbe dovuto ricambiare quel sorriso, ma si rese conto di non aver mai saputo sorridere in quella maniera. Sapeva atteggiare le labbra in una posa sarcastica, ma non era mai stato capace di mostrare apertamente il suo affetto. Ma a quanto pareva alla bambina non importava perché gli si sistemò più vicina di prima. Mentre aspettavano silenziosi che le luci in sala si spegnessero ripercorse quello che era accaduto durante l’intervallo, le parole della bambina e il suo affetto così malriposto. Sapeva di non meritare quell’affetto, quei sorrisi e quell’abbraccio.
Non avrebbe nemmeno dovuto trovarsi lì accanto ad un’innocente.
Sapeva che avrebbe potuto respingerla, ma era cosciente che non l’avrebbe fatto, nemmeno se non ci fossero state quelle lettere anonime che gli aveva mostrato la signorina Ainsworth. Si rendeva conto, in quel momento, di non voler ferire Rebecca, di non voler perdere quell’affetto e quei sorrisi.
Mentre le luci si spegnevano in sala, sentì la bambina muoversi appena nella poltrona accanto alla sua e farsi più attenta, mentre il sipario si alzava lentamente. La signorina Ainsworth era già in scena, vestita di bianco e con i lunghi capelli biondi sciolti e, quando iniziò a cantare, Severus si rese conto che, al contrario degli altri interpreti, la signorina Ainsworth sembrava essersi immedesimata completamente nel ruolo. Appariva fragile e indifesa, una vittima perfetta per il personaggio demoniaco dell’atto. Sembrava effettivamente afflitta da un male misterioso che le impediva di cantare e totalmente schiava del desiderio di potersi esprimere tramite il canto.
Mentre ascoltava la signorina Ainsworth si disse che il soprano sapeva indossare delle maschere, quando cantava. In quel momento non era la giovane donna dal volto anonimo e dai modi pacati che aveva imparato a conoscere, ma una persona febbrile e disperata. La signorina Ainsworth diventava il personaggio che interpretava sul palcoscenico, mentre era sé stessa nella vita di tutti i giorni. D’altronde, non aveva mai avuto bisogno di celarsi a tal punto dietro innumerevoli maschere da non sapersi quasi più riconoscere, com’era accaduto a lui. La giovane donna era un’artista che indossava una maschera perché amava quel lavoro, perché l’aveva scelto liberamente. Non vi era costretta da innumerevoli errori, dal sangue versato e da un ravvedimento giunto troppo tardivamente.
Mentre il ritratto della madre morta di Antonia prendeva vita – era straordinario come a volte i Babbani sembravano intuire alcuni aspetti del Mondo Magico – invitandola a cantare e, quindi, a morire, Rebecca gli afferrò la mano, in cerca di conforto. La signorina Ainsworth sembrava spossata, mentre, cantando le ultime parole, si accasciava tra le braccia di Hoffmann.
Le ultime note dell’orchestra si spensero in un silenzio rispettoso, prima che il pubblico iniziasse ad applaudire.
Rebecca tirò appena su col naso, mentre applaudiva la zia. Avrebbe unicamente voluto che la donna non interpretasse sempre eroine che morivano. Si voltò verso Severus e notò che anche lui stava applaudendo e ne era felice.
Durante l’intervallo prima del terzo atto rimasero seduti in sala. Parlarono della rappresentazione, dei costumi senza tempo indossati dai cantanti e delle scene sontuose. L’ultima parte dell’opera era anche la più breve e quella meno intensa. A Rebecca erano sempre più interessate la bambola meccanica di cui si innamora Hoffmann, credendola una fanciulla bellissima, e la dolce Antonia innamorata del canto, piuttosto che la perfida Giulietta. Però, quando lei e Severus andarono a recuperare i cappotti al guardaroba, le dispiacque che la serata fosse già finita perché avrebbe dovuto salutare l’uomo.
E non le importava nemmeno che iniziasse ad avere un po’ sonno.
Avrebbe voluto rimanere ancora con lui, perché, quella sera, le aveva dato quel senso di sicurezza che mamma e papà non sembravano più riuscirle a dare.
Quando furono all’esterno del teatro, dal cielo cadeva un’acqua gelata, che sembrava volersi trasformare da un momento all’altro in neve. Rebecca rabbrividì, chiedendosi come avrebbero fatto a non bagnarsi, dato che, nella fretta di uscire, aveva dimenticato l’ombrello e non ne aveva visto uno di mano a Severus quando gli era andata incontro.
«Vieni», le disse l’uomo, mentre apriva un ombrello scuro abbastanza ampio da coprire entrambi.
Rebecca gli sorrise, tenendogli sempre la mano. Quando giunsero davanti all’uscita artisti, la zia non era ancora arrivata, ma alcuni cantanti, interpreti di parti minori, stavano già uscendo.
«Non avevi un ombrello quando sei arrivato», disse all’uomo, mentre si posizionavano un po’ appartati, distanti da alcune persone che, incuranti del tempo, si erano radunate per chiedere gli autografi, sperando, probabilmente, che le maschere li facessero entrare in portineria.
«Non l’hai visto, Rebecca, il che è diverso.»
«Non è che ne hai portato uno anche per la zia?» gli chiese con un sorriso, senza commentare come avrebbe voluto quello che aveva detto. Una volta le aveva spiegato che esistevano incantesimi che rimpicciolivano le cose. Quindi doveva aver usato qualcosa del genere. «Non deve assolutamente bagnarsi, perché la sua voce potrebbe risentirne.»
«A quanto pare tua zia ha con sé un ombrello.»
Severus osservò la donna riuscire a svicolare dalle persone in attesa che, per quanto poche, si erano accalcate intorno al cantante che aveva interpretato il protagonista.
«Spero non abbiate dovuto attendere a lungo.»
«Soltanto pochi minuti, zia.»
La donna sorrise alla nipote, notando che stava tenendo per mano il signor Piton e che sembrava essere completamente a suo agio con lui.
E non poté che esserne felice.
L’uomo si offrì di accompagnarle a casa ed Ygraine non ebbe neanche il tempo di accettare, perché Rebecca lo fece al suo posto. Per un istante, mentre camminava al loro fianco, le parve quasi che la nipote stesse in un qualche modo sostituendo Gawain con Severus. Chi non avesse saputo che l’uomo e la bambina erano stati due estranei fino a poche settimane prima li avrebbe scambiati per padre e figlia.
Mentre si allontanavano dal teatro, nessuno dei tre notò una figura scrutarli dall’ombra di un edificio. L’uomo osservò l’affetto con cui la bambina teneva la mano di Piton e il modo cordiale con cui il soprano si rivolgeva a lui. Doveva dire ai suoi complici che nulla era servito per allontanare la signorina Ainsworth e la piccola Rebecca da quel maledetto assassino. Sapeva che quel problema era stato messo in contro, ma, d’altronde, da quel che gli era stato detto il giovane soprano non era una persona particolarmente ragionevole, né sapeva fare delle scelte logiche e razionali. Aveva portato il fratello al suicidio, gli era stato detto ed ammetteva di non avervi creduto subito, ma dopo aver visto come si comportava con Piton era certo che le cose erano andate proprio come gli era stato detto. Anche se non li scorgeva più, riuscì quasi ad immaginarseli, mentre raggiungevano l’edificio dove abitava il padre della piccola Rebecca. Poteva immaginare l’affetto della bambina e la cordialità della donna.
Lo avrebbe riferito ai suoi complici ed era certo che avrebbero trovato il modo per colpire Piton, nel caso quello già messo in opera non funzionasse, e, con ogni probabilità, avrebbero colpito anche Ygraine Ainsworth. Sperava solo che non includessero la bambina nella loro vendetta. Per come la vedeva lui, la piccola Rebecca era unicamente una vittima della crudeltà di Piton.
Rimase immobile, per pochi istanti, osservando distrattamente una cornacchia che si era posata su un lampione. Poi, dopo esseri guardato intorno, si smaterializzò.

---
[1] Wilhelm Müller, Die Krähe (La cornacchia), vv. 5-6. La traduzione è presa dal programma di sala dell’Accademia di Santa Cecilia.
[2] Olympia è una delle tre donne amate e perse da Hoffmann nell’opera. Il protagonista perde sempre di fronte a quattro figure demoniache che, in un modo o nell’altro, distruggono la donna amata. In particolare, Olympia è una bambola meccanica, che Hoffmann scambia per una persona reale. Antonia, il ruolo cantato da Ygraine, è una fanciulla affetta da una malattia che le impedisce di cantare e che muore perché canta. Giulietta è una prostituta che inganna Hoffmann in modo tale da rubargli l’ombra e donarla al personaggio demoniaco dell’atto.

 
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view post Posted on 7/11/2022, 10:48
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Capitolo XVI

Letzte Hoffnung



Schaue nach dem einen Blatte,
hänge meine Hoffnung dran;
spielt der Wind mit meinem Blatte,

Vedo una foglia,
vi appunto la mia speranza;
il vento gioca con la mia foglia,[1]


Gran Bretagna 1 – 5 febbraio 2002



Ygraine chiuse lo spartito, mentre Jane faceva risuonare per la stanza le ultima note dell’Ave Maria dell’Otello. Avevano rivisto quel brano in particolare e alcuni passaggi del duetto del primo atto, ma le sembrava di trovare delle difficoltà nella chiusura della preghiera che Desdemona rivolgeva alla Vergine poco prima di essere uccisa.
«Hai interpretato alcune parti in maniera diversa» commentò Jane, mentre si alzava dallo sgabello. «Rispetto alla prima volta che hai cantato la parte, sei stata molto più appassionata nel duetto e hai pronunciato alcune frasi dell’Ave Maria in modo che non saprei definire. Era quasi come se stessi veramente pregando, come dice Desdemona, pel peccator, per l’innocente [2] .»
«Non me ne sono accorta, Jane», le disse, mentre cercava di ricordare a cosa stesse pensando quando stava cantando l’Ave Maria, ma non riuscì a dare una motivazione alle parole della pianista. «Forse sono state le indicazioni di regia che mi hai dato ad influenzarmi. Il modo in cui Desdemona si muove nell’atto quarto è molto interessante da questo punto di vista.»
«E l’atto primo? La tua Desdemona è stata lodata per il suo pudore. Ricordo che tuo fratello aveva detto che gli eri sembrata fin troppo casta. Per me eri stata perfetta.»
«Eppure, Jane, il duetto del primo atto mostra una Desdemona diversa e la musica è più sensuale.»
«Oppure ti sei innamorata e ti stai identificando nella Desdemona del primo atto, anche se spero che tu non sia attratta da un Otello.»
Ygraine si voltò verso l’amica che la stava osservando curiosa. Scosse il capo. Era sempre stata molto attenta a non far entrare la sua vita privata nelle sue interpretazioni. Soltanto quando Tristan era morto, aveva trovato quasi impossibile separare le due cose.
E non pensava nemmeno di essere innamorata.
Credeva, semplicemente, di aver afferrato meglio il carattere di Desdemona.
«No, è solo un’idea interpretativa, che probabilmente non piacerà al direttore.»
«Ne sei sicura, Ygraine? Sei arrossita poco fa.»
Ygraine sistemò la partitura in borsetta, cercando di riordinare le idee.
O forse di non pensare realmente a quello che aveva appena detto Jane.
«Come ti ho detto è un’idea interpretativa che ho maturato rileggendo il libretto e analizzando con maggiore attenzione la musica», mentre parlava Ygraine sapeva di star mentendo. Nei giorni scorsi aveva avuto la mente occupata da altre preoccupazioni, ma non poteva di certo dirlo a Jane che non avrebbe capito. «D’altronde sarebbe strano rimanere sempre costanti nella propria interpretazione di un personaggio.»
«Su questo non posso che darti ragione, Ygraine. Ti ho sempre detto che sei una cantante molto sensibile. Anche tuo fratello era della mia stessa opinione. Ricordo che abbiamo ascoltato insieme alla radio il tuo recital di Rennes e sei stata decisamente commovente in Mahler.»
Ygraine sorrise appena a Jane, mentre iniziava ad infilarsi il cappotto. Non aveva alcuna intenzione di disquisire con la pianista delle sue vecchie interpretazioni. Rispetto ad altri suoi colleghi si riascoltava il meno possibile perché da una parte temeva di trovare degli errori di cui non si era resa conto, dall’altra non voleva fossilizzarsi su un’unica idea interpretativa.
«Sembri avere fretta», notò Jane, osservandola.
«Ho un impegno e non vorrei essere in ritardo.»
Mentre si infilava la cuffia si disse fiera del modo in cui aveva pronunciato le ultime parole, con calma e tranquillità. Jane non le fece altre domande, limitandosi a salutarla e di quello le fu grata. Quando si ritrovò in strada sentì il freddo sulla pelle, e alcuni rari fiocchi di neve cadevano dal cielo biancastro di quel primo giorno di febbraio. Guardò l’orologio, mentre si affrettava verso la fermata della metropolitana.
L’ultima cosa che desiderava era arrivare in ritardo, non dopo che il 30 aveva chiesto al signor Piton di incontrarla. Aveva sperato di notare, nel frattempo, un cambiamento in Gawain, ma il fratello sembrava non voler mai affrontare il discorso con Rebecca. Al contrario, sia lui che Margaret si erano fatti più distaccati con la bambina. Forse non se ne accorgevano nemmeno, ma era certa che la nipote avesse percepito chiaramente il cambiamento nei genitori.
La sera prima si era intrufolata nella sua stanza e le aveva chiesto se avrebbe potuto dormire con lei, perché si sentiva insicura. Rebecca le aveva confidato che temeva che i suoi genitori non le volessero più bene. Ygraine era certa che Gawain e Margaret amassero la figlia, ma che non sapessero come reagire a quel cambiamento.
O almeno era quello che sperava.
Voleva credere con tutta sé stessa che suo fratello trovasse nell’amore per Rebecca la forza di accettare la magia e che lo stesso facesse la cognata.
Eppure, temeva che quella speranza potesse non realizzarsi e non riusciva a fare a meno di sentirsi in colpa perché ad aprile sarebbe partita alla volta di Bologna e, facendolo, avrebbe lasciato sola la nipote e sarebbero passati mesi prima di poterla rivedere.
Quando entrò in metropolitana, la neve si era intensificata ed i fiocchi si posavano sulla capitale inglese.
Severus li stava osservando dal tavolo a cui si era seduto. Pochi avventori erano presenti nella sala da tè che la donna aveva suggerito e lui aveva scelto di sedersi isolato dagli altri.
La signorina Ainsworth non era ancora arrivata, ma il 30 gli aveva detto che doveva revisionare una parte quello stesso giorno e gli era abbastanza facile intuire che quelle prove dovevano essere andate per le lunghe.
Fuori la neve cadeva ormai fitta, come altre volte era accaduto in quell’inverno particolarmente rigido che aveva imbiancato insolitamente la capitale.
Severus rimase ad osservare quei fiocchi così candidi, così dissimili dalla sua anima. Una volta a terra si sarebbero sciolti col tempo, mentre lui avrebbe continuato a vivere in un inverno, interrotto unicamente dalla lieve luce della bambina che lo aveva abbracciato con affetto durante l’intervallo dell’opera e dal lucore della fiducia che la signorina Ainsworth gli riservava.
Quando sentì aprirsi la porta della sala da tè, scostò lo sguardo dalla finestra.
«Mi scuso per il ritardo, signor Piton», gli disse la giovane donna, non appena lo ebbe raggiunto, dopo essersi liberata di cappotto, sciarpa e cuffia di lana.
Severus annuì soltanto, mentre la signorina Ainsworth si sedeva di fronte a lui. La osservò con attenzione e notò che sembrava esausta, come quando era andata a casa sua. Per un istante credette che gli avesse chiesto di incontrarlo perché si era finalmente resa conto che lui era un mostro da evitare ad ogni costo, ma gli occhi nocciola del soprano erano calmi e fiduciosi.
«Signorina Ainsworth, perché ha voluto vedermi?»
«Si tratta di Rebecca», la donna iniziò a parlare solo dopo che venne loro servito il tè che avevano ordinato. «Quando quei poliziotti sono venuti a casa di mio fratello, Gawain ha scoperto che la bambina è una strega ed ha paura di lei.»
Severus non commentò le parole della donna, aspettando che proseguisse e spiegasse meglio la situazione.
«Dopo che gli Auror se ne sono andati, io, Gawain e Margaret abbiamo iniziato a litigare. So che avrei dovuto parlargli prima, ma non sapevo come spiegargli tutto senza che mi prendesse per pazza. O forse, temevo la sua reazione. Mio fratello ha sempre amato una calma routine e non è mai stato entusiasta delle storie che Tristan inventava quando eravamo piccoli, né della mia scelta di diventare una cantante», Severus notò che la signorina Ainsworth era diventata più nervosa, mentre parlava del fratello. «Mentre litigavamo, Rebecca è rimasta nella stanza. Forse avrei dovuta mandarla in camera sua, ma non volevo minare l’autorità di Gawain e di Margaret. Gli Auror devono aver spiegato a mio fratello e a mia cognata quello che è avvenuto quel sabato e temo che abbiano riferito anche a loro quello che hanno accennato a me sul suo conto, signor Piton. Mio fratello è giunto alla conclusione che Rebecca non dovesse avere più nulla a che fare con lei e mia nipote ha iniziato ad essere spaventata e arrabbiata. Credo che fosse spaventata dalla reazione dei suoi genitori e arrabbiata perché non volevano più che la vedesse. A quel punto si sono frantumati dei vetri e delle foto sono cadute. E da allora mio fratello e mia cognata sembrano temere Rebecca e sono certa che lei se n’è accorta. E quando non la temono, fingono che nulla sia accaduto. Ho parlato con Gawain il 30 e credo che sia convinto che la magia possa andarsene da Rebecca.»
Severus riusciva quasi a vedere la bambina terrorizzata dalla reazione dei suoi genitori. E riusciva perfettamente ad immaginarne la rabbia che doveva averla invasa. Forse, prima di andare a teatro non ne sarebbe stato in grado. Forse non avrebbe nemmeno compreso perché Rebecca dovesse arrabbiarsi per lui, ma ormai sapeva che la bambina gli riservava un affetto totalmente gratuito.
Eppure, riusciva anche a comprendere la reazione dei genitori di Rebecca di fronte alla possibilità che la figlia avesse a che fare con un assassino. Forse, da quel punto di vista, ragionavano più lucidamente della signorina Ainsworth con quella sua inspiegabile fiducia.
Ma sapeva, altresì, dove potesse portare la paura.
«Ha detto a suo fratello che è impossibile che la magia scompaia?»
«Sì, ma non credo che mi abbia voluto ascoltare. Gli ho suggerito di parlare con Rebecca o con i nostri genitori, ma temo che non lo farà. Ha escluso fin da subito di confidarsi con mamma e papà. Ha ripetuto più volte che Rebecca non è più normale ed io non so più cosa dirgli per fargli cambiare idea. Quello che mi preoccupa ancor più, signor Piton, è ciò che potrebbe accadere quando non sarò più in Inghilterra. Ad aprile mi traferirò a Bologna e dopo ritornerò a casa mia, a Digione», la giovane si interruppe, per bere un sorso di tè, prima di proseguire. «Temo che Gawain possa interrompere qualsiasi contatto tra lei e Rebecca.»
«E lei, signorina Ainsworth, vorrebbe escogitare un modo perché ciò non avvenga.»
Severus osservò per qualche istante la giovane donna, che stava stringendo la tazza tra le mani. Quei giorni, nella casa del fratello, non dovevano essere stati facili per lei, né per Rebecca. Si chiese se anche la signorina Ainsworth si stesse domandando quanto tempo sarebbe trascorso prima che il fratello o la cognata nuocessero realmente alla figlia.
In quel momento la temevano e la paura poteva portare un uomo normalmente ragionevole a compiere atti orribili.
«Ho cercato di trovare una soluzione plausibile al problema. Ho anche ipotizzato di annullare il mio impegno a Bologna, ma so che sarebbe inutile. Allontanerei unicamente di poco meno di due mesi il problema, perché dovrei comunque cantare al Festival di Aix-en-Provence durante l’estate. Non risolverei nulla e forse potrei anche irritare Gawain.»
La signorina Ainsworth si sentiva in colpa, notò Severus, per quanto non ne avesse motivo. La giovane donna non aveva fatto nulla di sbagliato né con la nipote, né con il fratello. Eppure, l’espressione del suo volto era molto simile a quella che aveva avuto a Spinner’s End quando gli aveva parlato del fratello suicida.
«Ha ragione, signorina Ainsworth. Ritardando la sua partenza non risolverebbe la questione. Immagino, d’altronde, che si renda conto che lei non è minimamente responsabile del comportamento di suo fratello», un lieve sorriso si fece strada sulle labbra della donna, un sorriso riconoscente. Severus si disse che c’era qualcosa di ironico in quello che stava avvenendo, nel modo in cui lui, che aveva l’anima dilaniata da colpe orrende, stesse rincuorando una persona dall’animo innocente. «Rebecca, ha mai dimostrato l’intenzione di imparare a disegnare?»
L’idea gli era venuta all’improvviso e, prima di parlare, si era reso conto che stava per rivelare alla signorina Ainsworth qualcosa di cui nemmeno Lily era stata a conoscenza. Eppure, sapeva di voler trovare il modo per dare quel poco di sostegno che poteva a Rebecca. Se i suoi genitori non avessero accettato la magia, i mesi e gli anni successivi si sarebbero rilevati terribili per la bambina.
Un giorno sua madre, in uno dei rari momenti in cui era apparsa curarsi di lui, gli aveva detto che suo padre non era sempre stato così ostile alla magia, ma lui non ne aveva memoria. A quanto pareva Tobias aveva creduto che il potere magico della moglie potesse risolvere qualsiasi cosa quando la fabbrica era fallita e la disillusione aveva portato all’odio.
Ma lui era appena nato quando il padre aveva perso il lavoro e non ricordava altro che la sua cattiveria e l’indifferenza di Eileen.
«No, ma è sempre stata affascinata dall’arte e questo Gawain e Margaret lo sanno. Quindi non dovrebbero rimanere troppo stupiti se Rebecca dovesse chieder loro di voler prendere lezioni di disegno.»
Severus osservò il volto fiducioso della giovane donna ed apprezzò il fatto che non gli avesse posto domande. Era stata la maestra degli ultimi due anni delle elementari ad insegnargli a disegnare e, dopo, aveva continuato ad esercitarsi in solitudine. Alcune volte aveva pensato di mostrare qualcosa a Lily, ma aveva avuto paura di non essere all’altezza. Poi, quando aveva deciso di accettare il Marchio Nero, aveva abbandonato il disegno. L’aveva ripreso alcuni anni dopo la morte di Lily, con costanza, fino a quando l’Oscuro Signore non era tornato.
«Immagino si renda conto, signorina Ainsworth, che questa soluzione porterà Rebecca a mentire ai suoi genitori», commentò, quando la giovane donna non aggiunse altro.
«Sì e non vorrei mai arrivare ad un passo del genere, ma, per quanto speri il contrario, temo che Gawain non possa cambiare idea», la voce della giovane donna si era fatta incredibilmente flebile. «Mi dico spesso che mio fratello e mia cognata riusciranno ad accettare la magia, perché so che amano Rebecca. Eppure, più ci rifletto, più temo che questa speranza sia destinata a scontrarsi con il modo in cui mio fratello e Margaret guarda alla vita.»
«Se i suoi timori dovessero dimostrarsi veri, signorina Ainsworth, Rebecca chiederà ai suoi genitori se potrà prendere delle lezioni di disegno. Soltanto a quel punto costruiremo una versione credibile di chi io sia e come lei mi abbia conosciuto.»
Ygraine annuì soltanto. Per un istante si chiese come l’uomo fosse riuscito a pensare a tutti quei particolari in così poco tempo. Forse aveva a che fare con quel passato che Severus sembrava odiare.
Rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre finivano di bere il tè. Al di fuori la neve cadeva molto più rada rispetto a quando la giovane donna era entrata e quando, poco dopo, uscirono dalla sala da tè, aveva smesso di nevicare. I marciapiedi si erano fatti scivolosi e, da qualche parte, si sentiva il rumore dei rami ondeggiare al vento. A Ygraine parvero simili alla flebile speranza che nutriva su Gawain, che si muoveva spinta dal vento per poi spezzarsi come poteva probabilmente accadere alla sua speranza.
Da qualche parte echeggiò la melodia di un organetto, le cui note scordate e disarmoniche parevano amplificare il rumore del vento e dei rami dei tigli.
«Non le sembra strano che, ovunque andiamo, si odano sempre le note di un organetto?» Ygraine si voltò verso Severus che le camminava accanto, mentre la musica dissonante continuava ad avvolgerli. Era una melodia che metteva i brividi come le altre volte che l’aveva ascoltata. «Ricordo di averlo sentito a dicembre, il giorno in cui Rebecca le ha parlato per la prima volta. Ed era davanti alla scuola di Rebecca il giorno in cui ha scoperto di essere una strega e quel giorno stesso l’ho rivisto davanti al museo. Ed era ancora lì quando quelle due povere persone sono morte e non era molto lontano da una fermata della metropolitana quando ho deciso di venire a casa sua.»
«Continui a camminare e non si volti verso il suonatore di organetti.»
Severus osservò per qualche breve istante la giovane donna e notò che si era fatta pallida, ma che continuava a camminare, per quanto un osservatore attento avrebbe potuto notare che era tesa. Non aveva notato la presenza costante di quel suonatore, ma lui non aveva l’orecchio per la musica della signorina Ainsworth. Si era reso conto della presenza di qualche suonatore di strada, ma non vi aveva prestato così tanta attenzione.
Non era stato abbastanza vigile, di questo si rendeva perfettamente conto.
Aveva abbassato la guardia.
O, forse, più semplicemente, era troppo immerso nell’inverno della sua colpa, troppo perso in quei pensieri che sembravano rincorrersi in cerchio per avere un reale contatto con il mondo che lo circondava.
Si rendeva conto, in quel momento, mentre svoltava in un vicolo insieme alla signorina Ainsworth, che aveva gettato al vento tre anni di vita. Aveva lasciato che i suoi pensieri si riducessero ad un unico continuo ripetersi della colpa e dell’impossibilità di ottenere un perdono. Non che pensasse, in quel momento, di meritare il perdono o che non sentisse le proprie colpe assalirlo, ma avrebbe potuto vivere quei tre anni in maniera diversa.
Invece si era lasciato sopraffare dal pensiero di essere in vita.
«Signor Piton…»
«Credo che quell’uomo l’abbia seguita, signorina Ainsworth», le disse, dopo aver svoltato in una via più affollata.
«E ritiene anche che sia stato lui ad uccidere quel giorno al museo?»
«Questo non lo so con certezza. Potrebbe essere stato lui, come potrebbe essere un complice. Sicuramente ha qualcosa a che fare con le lettere che ha ricevuto.»
Ygraine rabbrividì, mentre continuava a camminare accanto all’uomo. Aveva notato che l’aveva guidata attraverso un percorso contorto e che da tempo le note dell’organetto non si udivano più.
«Cosa devo fare se dovessi notarlo di nuovo?»
«Continui a camminare, deviando il percorso appena possibile e solo se questo non possa risultare insolito», Severus osservò la giovane donna annuire.
Si rendeva conto che la giovane donna e Rebecca erano vulnerabili e che doveva trovare un modo efficace per proteggerle. Ma sapeva perfettamente da solo che non esisteva nessuna protezione realmente infallibile. Doveva fare affidamento sul fatto che il suonatore di organetti non aveva mai fatto nulla per nuocere Ygraine e Rebecca, il che lo rendeva un probabile complice dell’assassino.
Quando si salutarono, appena giunsero al portone dell’edificio dove abitava la bambina, la signorina Ainsworth lo invitò nuovamente a teatro e lui si ritrovò ad accettare come aveva fatto l’altra volta.
Mentre si allontanava gli alberi di un tiglio sbattevano l’uno contro l’altro mossi dal vento. La neve riprese a cadere lieve in quel momento, mentre l’uomo camminava.
Avrebbe potuto ritornare immediatamente a Spinner’s End, ma non era ancora pronto per rientrare in quella casa colma di terribili ricordi. Per un istante si chiese per quale motivo non l’avesse venduta non appena lo avevano dimesso dall’ospedale, ma, conosceva perfettamente la risposta. Non gli era importato. Aveva unicamente modificato l’arredo, per renderlo quanto di più lontano possibile a quello dei giorni in cui aveva dovuto ospitare Minus e del giorno in cui aveva stretto il Voto Infrangibile. Ma non aveva nemmeno lontanamente pensato a vendere quel vecchio rudere, così simile alla sua vita. Ed aveva trovato, all’epoca, delle ragioni razionali per quella scelta, quando in realtà avrebbe voluto unicamente essere morto. Al San Mungo gli avevano detto di aver rischiato di perderlo più di una volta, ma a quanto pareva il veleno non aveva lavorato abbastanza velocemente nella Stamberga Strillante, il sangue che aveva perso non l’aveva ucciso o lui era stato ironicamente fortunato quel giorno di maggio e nei mesi successivi.
Sapeva di non aver realmente vissuto da allora e non era certo di riuscire realmente a ritornare ad assaporare la vita, ammesso che la avesse mai realmente assaporata. Aveva vissuto quarantadue anni ormai e la maggior parte di essi era stata attraversata dal senso di colpo e dal disgusto e dall’odio che provava per sé stesso.
E dalla solitudine.
Eppure, da quel giorno in cui aveva accettato di bere un tè con zia e nipote, gli pareva che nella sua vita si facessero strada dei rari momenti in cui effettivamente viveva. E forse, avrebbe dovuto attaccarsi a quell’idea e da lì tentare di non gettare totalmente al vento gli anni che gli restavano da vivere.
Poteva farlo per Rebecca e per la signorina Ainsworth che gli aveva confidato le preoccupazioni circa la nipote e che lo fissava con incrollabile fiducia.
E, anche se la bambina o la donna fossero un giorno giunte a odiarlo, avrebbe dovuto trovare un modo per non precipitare nell’inverno di quelle colpe che anche in quel momento gli tormentavano l’animo e la mente.
Mentre girava in un vicolo deserto per Smaterializzarsi, la neve cadeva fitta e i rami di un tiglio si muovevano scricchiolando al vento.
E la neve continuò a cadere fino a sera, quando le nuvole si diradarono e il sole tornò a splendere su Londra per quello e per i giorni a venire. Un lieve vento aveva continuato a far fremere i rami degli alberi il sabato e la domenica successivi, per poi quietarsi improvvisamente il lunedì, portando con sé un cielo plumbeo e temperature appena più miti.
Quel giorno il sole non fece capolino nell’aula di scuola, dove Rebecca stava cercando di prestare attenzione alla spiegazione della maestra, ma la sua mente sembrava non volersi concentrare sulle divisioni quella mattina, né sulla struttura delle foglie quel pomeriggio. Quella sera avrebbe chiesto ai genitori se avrebbe potuto andare a sentire la zia il 7. Sapeva che Severus sarebbe stato presente quella sera e che il teatro aveva dato alla zia, come agli altri componenti del cast, due biglietti. Sperava che papà e mamma accettassero.
Ne avrebbe parlato quella sera ed era certa che la zia sarebbe stata dalla sua parte, ma quello che veramente desiderava era che il papà e la mamma smettessero di comportarsi come se non avesse mai fatto quella magia di fronte a loro.
E sperava anche che non fossero più impauriti da lei e che non si arrabbiassero.
Severus le aveva spiegato come funzionava la magia accidentale e temeva di litigare nuovamente con mamma e papà perché avrebbe potuto fare qualcosa che non voleva veramente.
Quando arrivò a casa, si rintanò in camera dove scrisse una lunga lettera per Severus, che la zia avrebbe potuto imbucare il giorno dopo. Avrebbe voluto avere un gufo a disposizione così da comunicare più rapidamente oppure avrebbe potuto chiedergli se esistesse qualche altra soluzione. Forse potevano anche usare dei metodi Babbani, ma non aveva idea se la casa di Severus avesse la luce elettrica.
Quando si sedette per la cena, quel pensiero le frullava ancora nella testa e mangiò distrattamente, mentre mamma e papà commentavano le notizie del telegiornale.
«Com’è andata oggi a scuola, Rebecca?»
La bambina alzò gli occhi verso la mamma, che aveva posato la forchetta sul piatto e la stava osservando. Avrebbe voluto che le chiedesse qualsiasi altra cosa, ma non quella. Le faceva sempre quella domanda, ogni singolo giorno, e poi non le chiedeva più niente. Invece lei avrebbe voluto che le chiedesse della magia.
Rispose cercando di essere il più precisa possibile e di non dire che mentre la maestra spiegava loro com’era fatta una foglia lei aveva pensato a come sarebbero state le lezioni di Erbologia a Hogwarts. Era certa che mamma non volesse sentirsi dire una cosa del genere.
E a lei spiaceva.
«Quand’è che hai…», la voce della mamma venne interrotta di colpo dal rumore di un becchettio sul vetro. «Cosa…»
«Devo andare ad aprirgli», decise di dire, prima di alzarsi in piedi e raggiungere la finestra e aprirla.
Il gufo – o forse era un barbagianni – entrò nell’appartamento e si posò su una sedia vuota, prima di tenderle la zampa. Rebecca afferrò la lettera e notò subito che non era di Severus. Sembrava qualcosa di ufficiale, il che non le piaceva per niente. Offrì al gufo qualcosa da mangiare, ma l’uccello volò fuori tanto rapidamente quanto era entrato.
«C’è anche il tuo nome sulla busta, zia.»
«Cos’è appena accaduto, Rebecca?»
Papà non sembrava affatto contento. Forse avrebbe dovuto spiegargli della posta magica prima di aprire la finestra al gufo, ma l’animale sembrava molto impaziente.
«I maghi mandano la posta in questo modo, papà.»
Ygraine notò che la voce di Rebecca si era fatta esitante. Gawain stava evitando di guardare la figlia e forse era meglio così. Temeva quello che avrebbe potuto leggere sul suo volto.
Si aspettò che il fratello dicesse qualcosa, ma rimase in silenzio. Margaret si alzò dal tavolo ed iniziò a sparecchiare come se nulla fosse accaduto. La cognata lanciò un’occhiata al marito, prima di iniziare a sistemare i piatti in lavastoviglie.
«Quand’è che canti di nuovo?»
«Giovedì. Domani sera c’è la generale.»
Ygraine avrebbe quasi preferito una sfuriata a quell’indifferenza, che stava facendo del male a Rebecca.
«Posso andare a sentire la zia?»
«Ci sei andata il mese scorso, Rebecca. Non credo che sia una buona idea. Che ne dici Margaret?»
«Rimarrai a casa, Rebecca. È un altro giorno infrasettimanale e non voglio che tu sia poco attenta a scuola il giorno dopo. È importante per il tuo futuro essere brava a scuola, soprattutto quando sceglierai che mestiere fare da grande.»
«Ma io so già cosa fare da grande.»
Ygraine sperò che la nipote non aggiungesse altro o che suo fratello non facesse ulteriori domande, ma sapeva già che sarebbe stata una speranza vana.
«Davvero, Rebecca?»
«Sì, papà. Ecco… io vorrei diventare una pozionista quando sarò grande.»
Ygraine notò che Rebecca si era fatta incredibilmente insicura, mentre stava in piedi, ancora con la lettera arrivata via gufo in mano. Gawain distolse lo sguardo dalla figlia, ma la donna notò che il fratello appariva irritato. O forse deluso.
«Se non ricordo male hai sempre detto di voler diventare un medico.»
«Quello…», la bambina si interruppe per qualche istante. La zia le tolse la lettera dalle mani che le tremavano appena. «Esistono molte pozioni curative. È un mestiere molto utile tra i maghi.»
Rebecca sperava che quella risposta piacesse ai suoi genitori. Quando aveva detto loro che avrebbe voluto fare il medico da grande, erano stati molto felici. A dire il vero, avrebbe voluto diventare anche una scrittrice famosa, ma zio Tristan le aveva detto che quello sarebbe stato il loro piccolo segreto. Era certa che allo zio avrebbe fatto piacere sapere che voleva diventare una pozionista quando avrebbe finito Hogwarts.
«C’è molto tempo prima che tu faccia veramente una scelta per il tuo futuro, Rebecca.»
La mamma aveva parlato con quello che zio Tristan aveva definitivo il suo tono ragionevole. Voleva dire che la questione era per il momento chiusa. Avrebbe quasi voluto che mamma e papà si mostrassero contrari alla cosa, in modo tale da poter lottare e magari far capire loro quanto credesse veramente in quello che diceva.
Forse avrebbe dovuto chiedere a Severus di farle avere un libro sulle pozioni, qualcosa di semplice e che potesse piacere anche a mamma e papà. Così forse avrebbero capito che sarebbe stato qualcosa di veramente utile. E a loro piacevano le cose utili.
«Vieni, Rebecca, andiamo a leggere questa lettera.»
La bambina le sorrise appena prima di uscire dalla cucina. Gawain non fece nulla per trattenere la figlia. Ygraine avrebbe quasi preferito una sfuriata a quella indifferenza. Le appariva chiaro, in quel momento, che qualsiasi speranza di un’accettazione della magia da parte del fratello era quanto mai vana. Forse avrebbe dovuto parlarne con Severus giovedì sera dopo l’opera. Forse sarebbe stato necessario mettere subito in pratica quanto avevano progettato qualche giorno prima e, quindi, sarebbe stato necessario che Rebecca iniziasse a mostrare un interesse per il disegno, in modo da iniziare a parlarne a Gawain. Odiava l’idea di ingannare in quel modo il fratello, ma temeva quello che sarebbe potuto accadere se la nipote non avesse più avuto qualcuno con cui confidarsi.
Forse fino a qualche tempo fa il fratello avrebbe storto il naso di fronte all’idea che la figlia potesse prendere lezioni di disegno, ma Ygraine era certa che lo avrebbe preferito alla magia, per quanto sperasse che alla fine, nonostante le sue più pessimistiche previsioni, Gawain arrivasse ad accettare ciò che Rebecca era.
«Sembra ufficiale, zia.»
Ygraine esaminò con attenzione la busta che teneva in mano e dovette concordare con la nipote. La aprì e ne estrasse un foglio di pergamena che le parve simile ad un documento medievale che le era stato fatto vedere dal padre.
Lo lesse rapidamente e, man mano che avanzava nella lettura, si sentiva diventare più incerta. Era una convocazione ufficiale da parte degli Auror per un nuovo interrogatorio. Aveva creduto, scioccamente a quanto pareva, che la questione fosse conclusa, che si fossero finalmente convinti che non c’era nulla di strano nel loro rapporto con il signor Piton.
Invece anche quella speranza era andata delusa.
Mentre iniziava a spiegare la situazione a Rebecca guardò fuori dalla finestra la notte illuminata dai lampioni e dalle luci delle abitazioni.
E quella notte priva di luna e di stelle avvolse Londra, fino a che, il giorno dopo, non arrivò un altro giorno senza sole, in cui un vento leggero muoveva le fronde dei tigli. Harry lo aveva notato quella mattina mentre si recava al Ministero. Si era quasi immaginato una foglia rimanere per qualche istante immobile su un ramo e poi cadere, come cadono le speranze.
Aveva sinceramente sperato di riuscire a capire qualcosa in più dei suoi colleghi, ma era solo riuscito a farsi l’idea che Micheal si lasciasse influenzare da Emily e che Cristopher sembrasse nemmeno troppo interessato all’indagine.
Ed aveva anche sperato che non chiamassero più Piton, Rebecca e la signorina Ainsworth perché venissero interrogati.
Invece il giorno prima avevano mandato i gufi con le convocazioni in un edificio del Ministero che veniva utilizzato quando c’erano dei Babbani coinvolti, quello che avrebbero potuto usare la domenica in cui erano andati nell’appartamento degli Ainsworth.
«Fra quaranta minuti saranno qui», disse Micheal, osservandoli uno ad uno. «Harry, Emily voglio che andiate a perquisire l’abitazione di Piton, mentre lo interroghiamo.»
«Ma non è contro le regole?»
Forse non era la domanda migliore da fare, ma era certo che nel regolamento riveduto l’anno scorso vi fosse scritto qualcosa in proposito.
«Unicamente se non esiste un chiaro sospetto circa il proprietario dell’edificio», a rispondere era stata Emily che sembrava incredibilmente soddisfatta. «E sono state trovate nuove prove.»
Harry si sentì raggelare. Aveva messo a posto lui i documenti sul caso ieri pomeriggio ed era certo di non aver visto emergere nulla di nuovo. Osservò i suoi colleghi, impedendosi di parlare impulsivamente.
«Esattamente. Ieri sera, dopo che te n’eri già andato, è emersa una prova fondamentale di cui ti ragguaglierà Emily non appena arriverete alla casa di Piton.»
Harry quasi non ascoltò i ragguagli ulteriori che Micheal stava dando sul loro compito, sul fatto che qualcuno li avrebbe preceduti per rimuovere qualsiasi incantesimo di protezione ci fosse fuori e dentro la casa dell’uomo. Il ragazzo sperò che mandassero un completo incompetente e che questi non riuscisse a entrare, ma non riteneva che l’abitazione forse incredibilmente protetta, considerando che era riuscito ad avvicinarsi e a bussare. Inoltre, un postino Babbano aveva recapitato le lettere di Rebecca. All’interno era tutto un altro discorso, ovviamente, ma comunque fosse gli sembrava profondamente ingiusto quello che stavano facendo.
Poteva avvertire Piton, si disse.
Mancava una quarantina di minuti all’arrivo dell’uomo e probabilmente si sarebbe smaterializzato all’ultimo da Spinner’s End per giungere alla casa dove erano stati convocati.
Doveva solo trovare un modo per uscire di soppiatto, smaterializzarsi, avvertirlo e tornare a Londra, ma non appena formulò quel piano gli parve di sentire la voce di Piton che gli diceva che era un’emerita sciocchezza.
«Vieni, Harry», a parlare era stata Emily.
Il ragazzo annuì a malincuore. Sperava unicamente che la collega lavorasse con dedizione e di riuscire a preservare, per quanto possibile, la casa dell’uomo dal suo sguardo malevolo.
Quando uscirono dal Ministero, insieme agli altri Auror, il vento sembrava essersi calmato. Lui e la collega si allontanarono dagli altri che si sarebbero recati in un appartamento di Londra non molto lontano da lì.
Sulla capitale il cielo era ancora grigio e freddo, mentre Rebecca teneva ben stretta la mano della zia. L’indirizzo scritto sulla lettera degli Auror non doveva essere lontano.
Non voleva andarci.
Avrebbe preferito essere a scuola in quel momento.
Non sapeva nemmeno come papà e mamma avessero preso la notizia perché era stata la zia a parlare con loro. Lei non ne sarebbe stata capace perché non voleva rivedere quegli Auror.
Sapeva che le avrebbero fatto altre domande su Severus.
E lei aveva sperato che questo non accadesse più e per giorni era sembrato che tutto fosse finito.
«Siamo arrivate, Rebecca.»
La bambina si guardò intorno. L’edificio che avevano di fronte era molto poco magico, ma nella lettera che le convocava c’era scritto che lo avevano scelto perché potesse entrarci anche la zia. Un uomo che non aveva mai visto prima le aspettava davanti alla porta dell’anonimo edificio. Le squadrò e poi disse loro di salire al terzo piano.
Rebecca stringe maggiormente la mano alla zia, mentre salivano. Era certa che se l’avesse lasciata andare sarebbe corsa lontano, via da quel luogo.
Quando entrarono nell’appartamento notò subito che c’era anche Severus. Avrebbe voluto corrergli incontro e salutarlo, ma c’erano molte persone nella stanza dove si trovavano. Notò, però, che non c’era la donna che l’aveva interrogata al museo, né Harry che le aveva detto che Severus era un eroe.
«Signorina Ainsworth, Rebecca, vi prego di seguire l’Auror Taylor che vuole porvi qualche domanda.»
Severus notò il sorriso che la bambina gli rivolse, mentre, insieme alla zia, seguiva l’uomo. Si accorse che non avevano nemmeno dato il tempo a zia e a nipote di togliersi il cappotto o di fare una qualsiasi domanda sulla loro convocazione. Le avevano condotte vie in fretta.
«Mi segua, Piton», lo apostrofò Michael Green.
Lo guidò in una stanza di piccole dimensioni e lo invitò a sedere. L’uomo era da solo, ma Severus era certo che almeno uno degli altri fosse intento ad ascoltare l’interrogatorio. Quando aveva ricevuto la convocazione aveva sperato che a Rebecca venisse evitato un nuovo incontro con gli Auror, ma, non appena l’aveva vista entrare, si era reso conto che quella speranza sarebbe rimasta delusa.
«Abbiamo trovato la bacchetta con cui sono state uccise due persone una settimana fa nella caffetteria della Tate Britain.»
Severus non commentò la notizia, limitandosi a notare come l’Auror Green sembrasse particolarmente soddisfatto delle sue parole. Invece avrebbe dovuto chiedersi come mai l’assassino avesse deciso di disfarsi dell’arma del delitto, lasciandola in posto dove fosse possibile trovarla.
«Si trova in nostro possesso da lunedì, ma abbiamo dovuto esaminarla con attenzione. È sicuramente l’arma del delitto ed è una bacchetta che ha una storia particolare. È stata trovata non molto lontana dalla sua residenza, nei pressi di una fabbrica Babbana dismessa», l’Auror fece una pausa, lasciando che il silenzio circondasse la stanza. Severus si chiese se Michela Green credesse veramente che lui avrebbe commentato in qualche modo le sue parole. «Un altro punto interessante è stato comprendere la provenienza della bacchetta. Apparteneva a Hugh Berenger, un mago ucciso nell’estate del 1997 durante un attacco da parte di un gruppo di Mangiamorte. Abbiamo impiegato del tempo per controllare precisamente la provenienza della bacchetta. Mi dica, Piton, ha mai sentito parlare di quell’uomo?»
«Il nome Berenger non mi è nuovo. Forse ho avuto qualcuno con quel cognome come studente.»
L’Auror Green non sembrava particolarmente soddisfatto dalla sua risposta, ma l’uomo doveva essere incredibilmente ingenuo se credeva che avrebbe deciso di svelargli qualsiasi cosa dopo una semplice domanda.
«Per quattro anni, Piton. O forse si potrebbe dire per cinque se consideriamo anche la sua breve carriera da preside. William Berenger è l’unico sopravvissuto di quell’attacco, per un puro caso. A quanto sappiamo dalla sua testimonianza i Mangiamorte non hanno mandato nessuno a controllare in un piccolo annesso alla casa, dove il ragazzo si trovava. E mentre lui era in quel luogo i suoi genitori e i suoi fratelli minori venivano uccisi.»
Severus continuò a rimanere in silenzio, ma ricordava perfettamente la notte di cui stava parlando Green. La testimonianza del ragazzo era inesatta sotto un unico punto di vista, come aveva previsto che fosse quando lo aveva schiantato e rinchiuso in quello che doveva essere un capanno per gli attrezzi da giardinaggio. Gli altri Mangiamorte avevano creduto senza alcun problema che in quel piccolo edificio non ci fosse nessuno, ma, in quel momento, erano tutti convinti che lui fosse il più fidato di loro.
Silente era morto da poco meno di venti giorni quando i Berenger erano stati attaccati per il loro sangue impuro.
Aveva sperato, allora, di riuscire a trovare un modo sicuro per salvare anche i due bambini più piccoli. Aveva sperato che non si trovassero con i genitori, ma erano tutti intorno al tavolo della cucina e non c’era stato nulla che potesse fare, senza tradirsi e mandare in frantumi il piano che Albus aveva accuratamente messo in opera.
«Quello che mi chiedo, Piton, è se lei abbia mai preso in mano quella bacchetta.»
«Se la memoria non mi inganna, ho preso in mano una bacchetta che ho fatto in modo che tornasse nelle mani dei genitori Babbani di un Berenger.»
L’Auror Green aveva un’espressione stupita sul volto. E probabilmente sarebbe stato ancora più stupito se avesse saputo tutta la verità. Non era stato particolarmente difficile riuscire a prendere le bacchette di Hugh Berenger e della moglie, Mathilde Waley, considerando che gli altri Mangiamorte avevano lasciato la casa subito dopo aver compiuto la strage e non si erano peritati di vedere cosa avesse fatto lui. Una volta che era diventato preside non gli era risultato difficile trovare le tracce dei signori Berenger e della madre di Mathilde. Era stato molto più complesso riuscire a far giungere fino a loro quella reliquia dei figli.
«Quindi lei ha fatto in modo che la bacchetta di Hugh Berenger tornasse alla sua famiglia?»
«Si tratta di quello che le ho appena detto, Auror Green.»
L’uomo sembrava quanto mai incerto, quando invece non avrebbe dovuto esserlo. In linea teorica avrebbe già dovuto sapere che la bacchetta di Hugh Berenger era stata inviata alla famiglia. D’altronde qualcosa in quello che stava accadendo stava portando Severus ad ipotizzare che qualcuno all’interno della squadra di indagine stesse manovrando le fila dell’intera faccenda. Era quanto mai assurdo che la bacchetta sbucasse fuori in un luogo così prossimo a casa sua e che, una volta appurata l’origine, nessuno avesse pensato di sentire la famiglia Berenger.
«Verificherò le sue parole, Piton», disse alla fine l’Auror. «Può andare.»
Quando uscì dalla stanza il numero di Auror era diminuito e l’Auror Taylor si trovava nella stanza. Severus uscì dall’appartamento e scese le scale, mentre cercava di non figurarsi i volti senza vita dei membri della famiglia Berenger che non era riuscito a salvare.
Al di fuori dell’edificio il cielo era ancora bigio e il vento era tornato a scuotere i rami dei tigli di un giardino che si vedeva poco oltre, in fondo alla strada.
Non si accorse subito della presenza della signorina Ainsworth e di Rebecca che lo attendevano poco discoste dall’edificio. E quando le vide, la bambina gli corse incontro e l’abbracciò come aveva fatto a teatro. La giovane donna gli sorrise appena, ma il suo sguardo era preoccupato. L’uomo si chiese cosa avessero chiesto loro gli Auror e se quelle parole avessero minato in un qualche modo la fiducia della donna, ma oltre la preoccupazione notò la fede che la signorina Ainsworth sembrava nutrire nei suoi confronti.
Sopra le loro teste il cielo era bigio e poco lontano i rami dei tigli scricchiolavano.
E il cielo era bigio su tutta l’Inghilterra. Sembrava quasi che il sole avesse abbandonato l’isola quel giorno di febbraio.
E il cielo grigio circondava la casa di Spinner’s End, da cui una donna uscì rompendo la quiete mossa unicamente da un lieve vento.
Harry non seguì Emily quando se ne andò irritata dall’abitazione di Piton. Non avevano trovato nulla, ovviamente, ma la donna appariva chiaramente scontenta della cosa. Per tutto il tempo aveva borbottato che doveva esserci qualcosa di nascosto e, per provarlo aveva deciso di frugare con cura tutta la libreria.
Ed ora i volumi giacevano disordinatamente in terra. Harry aveva cercato di dire ad Emily che avrebbero dovuto rimetterli a posto, ma la donna aveva detto che non era necessario scomodarsi per un criminale.
Dopo quella frase aveva iniziato un lungo e appassionato monologo su come un Mangiamorte sarebbe sempre rimasto un Mangiamorte, su come non era nemmeno lontanamente contemplabile che un criminale – la parola doveva piacerle molto, si disse Harry, mentre ripensava alle parole della collega – potesse realmente pentirsi di quello che aveva fatto.
Lui non aveva commentato, anche se avrebbe dovuto, ma aveva cercato di fare tesoro del consiglio che gli aveva dato Piton circa il modo con cui dovesse comportarsi con i suoi colleghi. Era persino riuscito a trovare una buona scusa per non andare con lei al Ministero. O almeno, credeva che fosse una buona scusa, ma Emily era talmente irritata che era già un bene che fosse riuscita a Smaterializzarsi senza alcun danno e senza che nessuno la vedesse.
Il ragazzo rimase per qualche istante immobile, prima di avvicinarsi ai libri e cercare di capire come rimetterli a posto. Forse Piton li aveva ordinati per argomento oppure per autore o per data di pubblicazione. Lui era stato mandato al piano superiore e, poi, nella stanza che l’uomo usava come laboratorio di pozioni, mentre Emily frugava nella cucina e nel soggiorno. Non che avesse portato avanti una perquisizione particolarmente accurata. Aveva osservato alcuni degli ingredienti che Piton aveva in casa ed aveva notato che su un tavolo era posti alcuni fogli, probabilmente inerenti alle ricerche di cui aveva parlato Hermione una volta. E quando era stato nelle due camere da letto, una palesemente non abitata, aveva aperto e chiuso le ante di un armadio e qualche cassetto, ma nulla di più. Aveva anche notato che nella stanza dell’uomo c’erano altri libri e aveva letto qualche titolo, giusto per poter rispondere a qualche domanda, nel caso Emily gliene avesse poste, ma si trattava di volumi decisamente antichi dal titolo in latino, in inglese antico o in francese. Quando era stato uno studente si sarebbe comportato forse peggio di Emily, soprattutto durante il quinto anno, quando era stato così pieno di rabbia.
In quel momento, invece, guardava i libri gettati per terra alla rinfusa, senza sapere da dove cominciare a rimetterli a posto. La rabbia di Emily era stata diretta soprattutto in quel punto della stanza, convinta che la biblioteca celasse un nascondiglio I cassetti di una piccola credenza erano chiusi e nulla giaceva ai piedi del mobile. Si inginocchiò per terra e prese in mano il primo volume che si trovò davanti, notando che era un libro Babbano.
«Cosa stai facendo, Potter?»
Harry si levò di scatto in piedi, sentendosi più colpevole di tutte le volte in cui aveva sospettato Piton di star facendo qualcosa di losco.
«Non sono stato io», mormorò, certo di apparire come un ragazzino del primo anno e non come un Apprendista Auror.
«Non ti ho chiesto che cosa hai fatto, ma cosa stai facendo.»
«Rimettere in ordine.»
Piton non commentò le sue parole, mentre si toglieva un cappotto Babbano che doveva aver usato per andare a Londra.
«Ho pensato di venire ad avvisarla», iniziò a dire Harry, riempiendo il silenzio. «Micheal ci ha avvisati una quarantina di minuti prima dell’interrogatorio, ma, alla fine, non mi è parso prudente», l’uomo aveva iniziato a raccogliere con cura alcuni libri che sembravano più antichi di altri – anche se non antichi come quelli che aveva visto nella stanza al piano di sopra – riparando con alcuni precisi colpi di bacchetta quelli che avevano subito danni. «E non ho nemmeno interrotto Emily.»
«Potter, non hai detto di voler rimettere in ordine?» Severus osservò il ragazzo annuire con foga. Da quel che aveva farfugliato sembrava che, per una volta nella sua vita, si fosse fermato a riflettere prima di agire. «Prendi tutti i libri Babbani che trovi e fai una pila su quel tavolo.»
«Emily mi ha detto della bacchetta che hanno trovato. Ed è strano perché nei verbali non ce n’era traccia.»
Il che avvalorava ancora di più l’idea che qualcuno tra gli Auror stesse tirando le fila di tutto, si disse Severus. Poteva essere lo stesso Green che l’aveva lasciato andare, ma che avrebbe potuto colpirlo in maniera più decisa in seguito. Oppure la donna che aveva perquisito casa sua con Potter e che aveva pensato di gettare in terra tutti i volumi presenti in soggiorno, non i più rari e preziosi, ma comunque parte dell’unica cosa di quella casa di cui andasse realmente orgoglioso. O Taylor che aveva sottoposto Rebecca e la signorina Ainsworth ad un altro inutile e spossante interrogatorio.
«Non tutti indagano seguendo perfettamente le regole.»
«Secondo me anche questa perquisizione non è del tutto legale. Sono certo che il nuovo regolamento lasci intendere che la persona a cui viene perquisita la casa deve essere presente», Severus non commentò le parole di Potter, che, a quanto pareva, non conosceva tutte le clausole della sua assoluzione. Una di queste prevedeva che gli Auror potessero entrare in ogni momento se avessero avuto il semplice sospetto di un suo coinvolgimento in un crimine in cui erano coinvolte le arti oscure. A dire il vero, si era aspettato che arrivassero prima. «Comunque, Emily mi ha mandato di sopra, ma non ho veramente cercato.»
«Ed hai commesso una sciocchezza, Potter.»
Harry si voltò verso l’uomo che aveva già risistemato la metà dei libri, mentre lui stava raccogliendo i volumi Babbani.
«Perché avrei dovuto farlo se sono già sicuro della sua innocenza?»
«Non puoi lasciare che i tuoi sentimenti influenzino un’indagine. Sei ancora un Apprendista Auror, ma, se le cose non sono cambiate, dovresti diventare presto un Auror a tutti gli effetti. Cosa accadrebbe se un tuo amico, Weasley, per esempio, fosse coinvolto in un delitto e tu, perché lo ritieni innocente, non indagassi con cura e così facendo tralasciassi un elemento importante che ti potrebbe far risolvere un’indagine?»
Harry posò un nuovo libro sul tavolo. Avrebbe voluto ribattere immediatamente e dire all’uomo che si sbagliava, ma non lo fece. Sapeva che Piton aveva ragione. Eppure, non riusciva a sentirsi dispiaciuto per non essere stato coscienzioso.
«Ma questa perquisizione non aveva alcun senso», decise di dire.
«Non importa, Potter. Avresti dovuto frugare in ogni singolo angolo della parte di casa che ti è stata affidata. Cosa sarebbe accaduto se la tua collega fosse salita e ti avesse visto intento ad osservare il vuoto, invece che a cercare prove?»
Harry si tenne occupato a raccogliere altri volumi, mentre cercava di non lasciarsi abbattere dalle parole dell’uomo. Erano fin troppo logiche e lui non ci aveva pensato.
«Mi dispiace», mormorò, evitando di osservare Piton e quello che stava facendo.
Un tempo non gli sarebbe importato nulla di quello che l’uomo gli aveva appena detto. Anzi, con ogni probabilità, non lo sarebbe nemmeno stato ad ascoltare. Ma, in quel momento, si sentiva mortificato. Non sapeva nemmeno se a Piton importasse effettivamente qualcosa, ma a lui sembrava di averlo deluso. Era stato così orgoglioso di essere riuscito a vincere l’impulso di andare ad informarlo della perquisizione e a non interrompere la tirata di Emily.
«Vedi di far tesoro di questo errore, Potter», Severus aveva osservato il ragazzo, mentre sistemava alcune pagine che si erano rovinate nella caduta. Sembrava realmente dispiaciuto per essersi lasciato guidare dalla convinzione che lui fosse innocente e, quindi, di essere venuto meno al suo dovere. «Hai finito con quei libri?»
«Credo di sì», la voce di Potter sembrava più franca.
«Allora è meglio che tu vada. Immagino tu abbia dato una spiegazione alla tua collega.»
Severus si pentì immediatamente di aver pronunciato quell’ultima frase, perché il ragazzo si sentì in dovere di spiegargli per filo e per segno che cosa avesse detto alla donna. Sembrava quasi che Potter fosse in cerca della sua approvazione, il che era assurdo, come era assurdo che il ragazzo fosse convinto che lui fosse un eroe.
Dopo che Potter se ne fu andato, sistemò gli ultimi libri negli scaffali, poi si avvicinò alla credenza e ne aprì un cassetto. Analizzò con cura il meccanismo Babbano che permetteva di scoprirne il doppio fondo, ma non gli sembrò che fosse stato toccato. Lo azionò e notò che le lettere di Rebecca e la foto di Lily erano come le aveva lasciate. Quando aveva comprato quel mobile, in un mercatino di roba vecchia, era stato quel semplice meccanismo ad attrarlo. Era stato un ottimo nascondiglio negli anni di guerra, perché nessun Mangiamorte avrebbe pensato di nascondere qualcosa di importante con un marchingegno Babbano, privo di qualsiasi protezione magica. E a quanto pare gli Auror, da quel punto di vista, non erano molto diversi.



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[1] Wilhelm Müller, Letzte Hoffnung (Ultima speranza), vv. 4-6. La traduzione è presa dal programma di sala dell’Accademia di Santa Cecilia.
[2] Arrigo Boito, Otello, Atto IV, scena I
 
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Capitolo XVII

Im Dorfe


es schlafen die Menschen in ihren Betten,
träumen sich manches, was sie nicht haben,
tun sich im Guten und Argen erlaben;

dormono gli uomini nei loro letti,
sognano ciò che non hanno,
nel bene e nel male si ristorano; [1]


Londra, 7 febbraio 2002


Il teatro era stracolmo, quella sera, notò Severus, mentre prendeva posto. Accanto a lui, a destra, parlavano una lingua che gli parve essere italiano, mentre dall’altra parte aveva una poltrona vuota. Sapeva che Ygraine aveva sperato che lì potesse sedere Rebecca, ma il padre della bambina non aveva voluto farla andare all’opera quella sera.
Era strano sedere in quel luogo, in cui a nessuno importava chi lui fosse o cosa avesse fatto nel passato. Era certo che i due uomini seduti accanto a lui non avessero mai nemmeno saputo che fosse esistito l’Oscuro Signore. Si trovavano lì unicamente perché volevano ascoltare la musica che sarebbe risuonata di lì a poco, accomunati da una passione che li legava alle altre persone presenti in quella sala.
Ognuno doveva avere i propri sogni. E i propri incubi.
Eppure, in quel momento, erano tutti in attesa della stessa identica cosa. Aspettavano che le luci si spegnessero e che le prime note risuonassero nella sala.
Poi sarebbero usciti e sarebbero tornati nei loro letti a sognare, come avrebbe fatto lui.
Avrebbero sognato ciò che non avevano.
Avrebbero visto nel sonno i loro timori ed i loro fallimenti.
O, forse, non avrebbero sognato affatto.
Quanto a lui, sapeva che cosa avrebbe visto in sogno, di cosa sarebbero stati popolati i suoi incubi. Il suo passato sembrava farsi più pressante di notte e, dal giorno in cui aveva rivisto lanciare un Avada Kedavra, i suoi sogni erano popolati dall’immagine di Rebecca esanime o della signorina Ainsworth che lo fissava con odio, perché non era riuscito a tenere al sicuro la bambina.
Quelle immagini non avevano sostituito le altre che popolavano le sue notti, per quanto, per una ragione che non riusciva a spiegarsi, Lily non appariva quasi più nei suoi incubi.
Quando le luci si abbassarono, si ritrovò immerso nella tempesta descritta dalla musica, mentre la scena, quasi del tutto spoglia, era illuminata cupamente. Sentì vagamente uno dei suoi vicini emettere una specie di brontolio quando Otello cantò le prime parole, ma non ci badò. Osservò le azioni di Jago e, sebbene conoscesse perfettamente l’opera di Shakespeare, gli parve che quello ritratto da Verdi fosse un personaggio più inquietante, più insinuante e sottile, come aveva saputo essere l’Oscuro Signore quando lui era un giovane pieno di sogni spezzati e rabbia malamente repressa.
La signorina Ainsworth entrò in scena con i capelli sciolti e notò, come già aveva fatto la volta precedente, il modo in cui riusciva ad essere il personaggio. In quel momento era una giovane donna innamorata, cieca di fronte alla violenza appena accennata nel canto di Otello. Riusciva ad essere pura e appassionata in ogni frase che diceva e a rendere comprensibile il testo italiano, senza che fosse necessario leggere i soprattitoli.
E, poco dopo, mentre Jago cantava il suo Credo, a Severus sembrò quasi di ritrovarsi davanti all’Oscuro Signore la notte in cui era stato marchiato, in cui aveva deciso di diventare un suo schiavo. Non esistevano scusanti per ciò che aveva fatto, per il male che aveva portato con quella decisione. Sapeva che avrebbe potuto far ricadere la colpa sulla violenza di Tobias e sull’indifferenza di Eileen o sui Malandrini, ma non era così vigliacco da non riconoscere che aveva scelto spontaneamente di diventare un Mangiamorte. Avrebbe potuto non farlo. Anche dopo che aveva distrutto l’amicizia che lo legava a Lily, avrebbe potuto non compiere quel passo, ma l’aveva fatto.
E la responsabilità ricadeva unicamente su di lui.
E in Otello, nelle sue insicurezze e nella sua rabbia, gli sembrava di riconoscere quel che era stato quando era precipitato nell’oscurità che aveva accolto, accettando che sul suo avambraccio venisse impresso il Marchio Nero. Si rivide nel Moro di Venezia, mentre giurava di portare morte, mentre maturava l’idea di uccidere l’innocente Desdemona, così come lui aveva ucciso degli innocenti negli anni precedenti la notte tempestosa in cui si era rivolto a Silente.
Per qualche istante, mentre nella sala iniziarono ad applaudire, rimase immobile. Assistere al secondo atto era stato quasi come vedere uno dei suoi incubi, era stato quasi come vedere una parte della sua vita.
Era come se la musica avesse scavato in profondità nelle sue colpe ed aveva visto sulle ultime note il volto della sua prima vittima.
Si unì agli applausi, per quanto la sua mente sembrasse vedere unicamente il sangue che aveva versato, per quanto sentisse ancora più pesanti le scelte sbagliate, le scelte che gli avevano impedito di vivere una vita diversa, dedita alla ricerca e allo studio.
Una vita che, forse, se fosse riuscito a tentare di vivere, come si era ripromesso qualche giorno prima, avrebbe potuto sfiorare. Avrebbe forse potuto cercare di mettersi in contatto con Centri di Ricerca magica più importanti di quello per cui aveva lavorato stancamente in quei tre anni. Forse Rebecca ne sarebbe stata felice, per quanto la bambina non immaginasse quanto tempo avesse gettato al vento.
Mentre nel teatro si spegnevano gli ultimi applausi prima dell’intervallo, il cielo di Londra era solcato di nubi scosse dal vento.
Un uomo si trovava in disparte, accanto a lui un organetto, davanti all’ingresso della Royal Opera House. Aveva visto entrare Piton a teatro e, se i piani non fossero stati diversi, avrebbe quasi desiderato affrontarlo. Nessuno di coloro che entravano in quel luogo d’arte aveva idea che forse accanto a lui si sarebbe seduto un Mangiamorte, un assassino che non aveva mai pagato per le sue colpe, ma che aveva, come gli era stato ripetuto più e più volte, ingannato anche Harry Potter.
Doveva esserci l’intervallo, in quel momento, si disse, mentre prendeva con sé l’organetto e si spostava lungo la via. La sua veglia era finita, per quella sera. Non era difficile credere che la signorina Ainsworth – quella che uno dei suoi complici aveva iniziato a definire la piccola sgualdrina Babbana – avrebbe camminato accanto a Piton, come aveva fatto l’altra volta, quando aveva permesso ancora una volta che quel maledetto assassino rimanesse accanto alla nipote, a quella povera bambina innocente.
Sarebbe rientrato ora ed avrebbe dormito.
Ed avrebbe sognato ciò che ancora non possedeva, ma che forse, un giorno, avrebbe posseduto.
La vendetta.
Ed il vento turbinava dove fino a pochi istanti prima si trovava un suonatore di organetto male in arnese.
Ed il vento turbinava su tutta Londra.
Rebecca stava guardando verso la finestra. Avrebbe voluto essere a teatro, in quel momento, con Severus, a sentire la zia, ma mamma e papà non avevano voluto.
Tra poco, sarebbero arrivati per dirle che era ora di andare a letto, ma lei sapeva che non sarebbe riuscita a dormire. Voleva aspettare alzata la zia, chiederle come era andata la recita e farsi dare il libro che Severus aveva promesso di farle avere, quando lo aveva visto il giorno in cui l’avevano nuovamente interrogata.
Riprese in mano il foglio e iniziò a disegnare. Quel giorno, Severus e la zia le avevano detto che avrebbe dovuto mostrare interesse per il disegno a papà e mamma. Era stato l’uomo a spiegargliene il motivo, perché la zia si era fatta silenziosa e triste.
«Cosa stai facendo, Rebecca?»
Era stata mamma a parlare. La bambina alzò il capo dal disegno. Notò che la mamma si teneva lontano da lei. Di solito la donna le stava sempre vicina e l’abbracciava mentre leggevano insieme dei racconti, ma da quando aveva scoperto che aveva la magia non lo faceva più.
«Sto disegnando.»
In quel momento avrebbe voluto essere con Severus e avrebbe voluto che mamma la guardasse come faceva un tempo. Mostrò incerta il disegno alla donna, sperando che le piacesse. Forse guardando quel disegno avrebbe capito che la magia non era brutta, né spaventosa.
«Che cos’hai disegnato?»
Anche papà si era avvicinato a loro e la stava osservando. A Rebecca non piaceva quello sguardo. E non le piaceva che mamma non si fosse seduta accanto a lei sul divano, ma stesse un po’ distante su una delle due poltrone.
«Un calderone, anche se non so se l’ho disegnato bene.»
«Perché non disegni dei fiori, Rebecca?»
La bambina sentì le lacrime pungerle gli occhi, ma le ricacciò indietro. Era certa che Severus avrebbe voluto che lei si comportasse come una bambina grande. O forse avrebbe unicamente voluto che l’uomo fosse lì con lei. Allora sarebbe corsa da lui e lui l’avrebbe abbracciata e l’avrebbe fatta sentire al sicuro.
«Non lo so, mamma. Però mentre stavo disegnando, mi è venuto in mente… ve l’ho già detto… delle pozioni.»
«Rebecca, noi capiamo che tu creda veramente di possedere la magia dalla nascita, ma io e tua madre pensiamo che qualcuno voglia fartelo credere, che forse quel qualcuno ti abbia fatto qualcosa di brutto, qualcosa che ti sta facendo cambiare.»
Gawain si era avvicinato alla figlia e si era inginocchiato davanti a lei. Sperava sinceramente che la bambina capisse la verità di quelle sue parole. Lui e Margaret aveva parlato a lungo in quei giorni ed erano giunti alla conclusione che la magia era come una specie di malattia, che Rebecca ne era stata in qualche modo infetta, ma che, come tutte le infezioni, potesse essere curata. Ritenevano entrambi che fosse doveroso trovare il modo per tenerla lontana da quell’uomo di cui Ygraine sembrava fidarsi tanto.
«Papà, mamma, perché non capite? Ci sono persone che hanno la magia e persone che non ce l’hanno. Severus mi ha detto che nel Mondo Magico io sono una strega nata da due persone non magiche e che, quando avrò undici anni, verrà qualcuno a parlare con voi da parte di una scuola di magia in Scozia. L’avete visto anche voi… quando ho fatto cadere quei vetri.»
Gawain lanciò un’occhiata alla moglie, ma notò che Margaret non sapeva come ribattere alle parole di Rebecca. Era terribile come la sua bambina fosse stata plagiata, come quell’uomo la stesse manovrando, dopo averla in qualche modo infettata. Era strano che Ygraine non ne fosse stata toccata, ma forse era qualcosa che si poteva propagare soltanto verso i bambini. Non metteva in dubbio che la magia esistesse. Aveva visto quel maledetto gufo e quel che aveva fatto la figlia, ma era convinto che ci fosse un modo razionale per estirparla. Il solo pensare che Rebecca avesse ragione, lo terrorizzava. Avrebbe voluto dire che sua figlia non sarebbe mai tornata normale.
«Quello che io e mamma vogliamo dire è che forse non dovresti fidarti così tanto di un uomo che conosci da così poco tempo.»
La bambina tirò su col naso, ma non disse niente. Sapeva che era per quello che Severus e la zia le avevano detto del disegno. Mamma e papà non volevano fidarsi dell’uomo e lei, in quel momento, avrebbe voluto correre fuori di casa e arrivare a teatro. Avrebbe anche aspettato la fine della recita fuori dal Covent Garden, pur di rivedere Severus.
Strinse contro di sé il disegno. E si rannicchiò sul divano.
«Posso prendere lezioni di disegno? Così imparerò a fare dei fiori.»
Gawain si sentì quasi sollevato da quella richiesta. La mente fantasiosa della figlia gli aveva sempre fatto temere che Rebecca fosse troppo simile a Tristan, ma, in quel momento, qualsiasi cosa era meglio della magia. Se avesse trovato un buon insegnante di disegno, era certo che le avrebbe fatto dimenticare l’uomo che l’aveva cambiata.
«Certo, Rebecca. Se vuoi ti troveremo un maestro di disegno.»
La bambina sorrise appena al padre. Quella sera avrebbe aspettato sveglia la zia e poi le avrebbe spiegato quello che era accaduto. Sapeva che zia Ygraine aveva intenzione di chiedere a Severus un modo per poter comunicare rapidamente. Rebecca sperava che esistesse qualcosa di diverso da un gufo nel Mondo Magico, perché era certa che mamma e papà non le avrebbero mai permesso di tenerne uno. Oppure che, in alternativa, decidessero di incontrarsi sempre ogni tre o quattro giorni.
O anche più spesso.
«Grazie», mormorò, mentre si alzava in piedi stringendo sempre a sé il disegno. «Buona notte, mamma, papà.»
Rebecca si avvicinò ai genitori, ma nessuno dei due si chinò per darle un bacio, com’erano soliti fare. Papà le scompigli appena i capelli, ma non era la stessa cosa.
Quando fu in camera, si rannicchiò sul letto, stringendo l’orsacchiotto che le aveva regalato zio Tristan quattro anni prima.
E pianse.
Al di fuori della finestra il vento continuava a sibilare, muovendo i rami spogli. Poche persone si trovavano per strada, mentre all’interno del teatro Otello gettava in terra Desdemona, intimandole di piangere.
La signorina Ainsworth appariva rassegnata e scossa, con i capelli raccolti e l’abito bianco che contrastava con il pavimento nero del palcoscenico.
Severus continuava a vedere in Otello la sua gioventù, gli imperdonabili errori che lo avevano portato a perdersi e ad uccidere.
Non riusciva quasi più a seguire il personaggio. Era come se avesse davanti a lui il sé stesso più giovane che insultava Lily, mentre Otello incombeva su Desdemona. Eppure, c’era una diversità sostanziale: la signorina Ainsworth stava esprimendo tutto il dolore e l’amore di Desdemona per il marito, ma Lily non l’aveva mai amato e, quando tutto era finito, la sua voce era stata carica di disprezzo.
Improvvisamente si chiese se non fosse stata sollevata all’idea di liberarsi di lui, dell’amico Serpeverde che non stava simpatico a nessuno.
Ma era un pensiero crudele.
Eppure, in quel momento, mentre Ygraine cantava le parole sconsolate di Desdemona, non riusciva a togliersi dalla mente quell’idea.
Doveva essere la musica, si disse. Aveva letto – non sapeva nemmeno quando né dove – che quella forma d’arte poteva coinvolgere a tal punto da intrecciare indissolubilmente la propria vita e quella espressa dalle note.
Ed era sbagliato paragonare Lily, una persona reale che aveva conosciuto e con cui aveva parlato, con Desdemona, che non era mai esistita, per quanto la signorina Ainsworth la stesse rendendo viva quella notte.
E poco dopo, all’inizio del quarto atto, Ygraine sembrava completamente rassegnata all’idea della morte. Desdemona sapeva che sarebbe morta quella notte e che ad ucciderla sarebbe stato l’uomo che amava. Non c’era in lei nessuna volontà di fuga, ma soltanto la desolata consapevolezza di quello che stava per accadere.
Anche la preghiera che seguiva aveva un che di desolato, ma, man mano che il canto avanzava, la voce della signorina Ainsworth si diventò più accorata. E gli sembrò che stesse pregando realmente, che stesse pregando anche per lui che aveva le mani sporche di sangue e l’anima spezzata dalle troppe colpe.
Il finale arrivò rapido, implacabile, come le parole di Otello.
E come il suo suicidio.
Il pubblico rimase in silenzio per qualche lungo istante prima di iniziare ad applaudire.
La signorina Ainsworth sembrava ancora provata dalla recita, mentre si avvicinava al proscenio da sola, quasi timidamente. Severus si chiese se non fosse ancora, in parte, immersa nel ruolo di Desdemona o se, piuttosto, non amasse troppo quella parte del suo mestiere. Rimase per poco tempo a ricevere gli applausi e i Brava che i suoi due vicini di posto stavano urlando a squarciagola.
Fuori dal teatro il vento accompagnò gli applausi, scuotendo tutto quello che incontrava. La gente si affrettava rapida verso casa, sospinta dalla forza dei turbinii che si formavano intorno a loro.
Ed il vento fischiava ancora quando i cantanti si ritirarono nei loro camerini.
Ygraine era esausta dopo che la sarta l’ebbe liberata dall’abito di scena e dopo che le ebbero sistemato i capelli. Quando aveva accettato di sostituire una collega malata, non avrebbe mai immaginato che cantare nuovamente il ruolo di Desdemona l’avrebbe provata così tanto a livello emotivo.
O, forse, era semplicemente maturata rispetto a quattro anni fa, quando appena ventiquattrenne aveva accettato, un po’ avventatamente, la proposta dell’Opéra di Digione di debuttare nel ruolo. All’epoca era stata unicamente elettrizzata dall’idea di poter mettersi alla prova in una parte importante. In quel momento, era più consapevole delle sfaccettature psicologiche del personaggio che aveva dovuto interpretare e del suo rapporto con Otello.
Guardò l’orologio, chiedendosi fra quanto sarebbe arrivato Severus. Sperava che la maschera, a cui aveva dato il nome dell’uomo come autorizzato ad andare nei camerini dal teatro, senza doverla aspettare all’esterno, lo facesse passare subito.
Sapeva che il mago avrebbe impiegato ancora diversi minuti, considerando anche che lei si era cambiata e pettinata rapidamente, dato che il costume non richiedeva molto tempo e che anche in scena portava i capelli stretti in una treccia che la parrucchiera del teatro le aveva unicamente sistemato.
Eppure, quando qualcuno bussò alla porta, Ygraine sperò che fosse già lui. Forse sarebbe riuscita ad allontanarsi prima che la gente arrivasse all’uscita artisti per chiederle un autografo.
Invece era il signor Smithson, uno dei responsabili dell’accademia di perfezionamento per giovani cantanti del teatro, che le aveva permesso di fare il suo debutto quando aveva ventitré anni. Non sapeva nemmeno che si trovasse in sala quella sera. Si alzò in piedi e gli sorrise. Era da tempo che non lo vedeva, per quanto lo avesse tenuto informato circa l’andamento della sua carriera.
«Hai cantato splendidamente, mia cara.»
«La ringrazio», rispose, chiedendosi per quale motivo l’uomo l’avesse improvvisamente apostrofata in quel modo. Da che lo conosceva l’aveva sempre chiamata signorina Ainsworth. «Anche se temo di non essere riuscita a chiudere l’Ave Maria come avrei voluto.»
Notò che l’uomo la osservava perplesso, il che le parve quanto mai strano, considerando che tutti gli addetti ai lavori e gli appassionati conoscevano della difficoltà di quel momento e lei era certa che la voce le fosse tremata appena.
«Sei stata molto sensibile nella tua interpretazione.»
«Può essere, ma credo di aver afferrato per un pelo l’acuto e di aver smorzato malamente l’ultima nota», provò a dire la giovane, sperando che l’uomo le desse qualche consiglio in proposito, come aveva fatto in occasione del suo debutto.
«Non credo che una cosa del genere possa aver reso meno entusiasmante la tua interpretazione», rispose l’uomo in maniera quanto mai insolita. Il signor Smithson era sempre stato pignolo su alcuni aspetti della vocalità. Ygraine lanciò un’occhiata verso la porta del camerino e, per qualche ragione, che non seppe spiegarsi, non le piacque affatto trovarla chiusa. «Hai dimostrato una sensibilità quanto meno straordinaria, che mi chiedo perché non si affacci in te al di fuori del palcoscenico.»
«Cosa…»
«Oh, andiamo, mia cara… mi sto chiedendo soltanto perché un’artista così sensibile, riesca a parlare con qualcuno che ha ammazzato dei bambini.»
Ygraine guardò la porta, ma l’uomo era proprio davanti all’uscio ed era certa che non sarebbe riuscita a passare, nemmeno se si fosse messa a correre.
«Non rispondi? Eppure, dovresti ben sapere di chi sto parlando.»
Quello non poteva essere il signor Smithson, si disse la giovane donna. Non sembrava saper nulla di musica ed era certa che quell’uomo mite non avrebbe mai potuto usare parole tanto crudeli. Ed era anche ragionevolmente sicura che il signor Smithson non sapesse alcunché del Mondo Magico. Eppure, chi le stava davanti aveva le sembianze del signor Smithson.
«Non mi interessa quello che ha da dire.»
«Davvero? Non ti interessa sapere che passi tanto tempo con un uomo del genere?» Ygraine indietreggiò appena, mentre l’uomo avanzava verso di lei. Avrebbe potuto urlare, ma era certa che, nel caos che seguiva ogni recita, nessuno l’avrebbe sentita. «Qualcuno che ha torturato, che ha ucciso e che è stato anche così astuto da rimanere fuori dal carcere e per farlo deve aver mentito e ingannato, così come ha ingannato anche te, una povera Babbana indifesa.»
Ygraine scosse unicamente il capo, mentre continuava ad indietreggiare fino a che non sbatté contro il tavolo su cui era posata la sua borsetta e un bicchiere d’acqua.
Era terrorizzata.
Quell’uomo, che aveva il volto del signor Smithson, ma che non poteva essere il signor Smithson, doveva essere un mago.
E lei era completamente impotente contro qualcuno come lui.
«Continui a negare, mia cara?» Ygraine non disse nulla. L’uomo era molto vicino a lei, ma aveva lasciata libera la porta. La giovane donna corse e tentò di aprirla, ma l’uscio non si mosse. «Pensavi davvero che ti avrei permesso di andartene così facilmente? Credi che i Mangiamorte, come Piton, lasciassero delle vie di fuga alle loro vittime?»
L’uomo la afferrò per le spalle. Ygraine si chiese perché non stesse ancora usando la magia contro di lei.
«Non riesci a rispondere?»
«Può dirmi quello che vuole, ma io mi fido di Severus.»
Sperò che la voce le fosse uscita ferma e salda, ma era certa di aver parlato in un sussurro tremante. L’uomo la strattonò, fin quando non si trovarono davanti allo specchio.
«Mi chiedo che cosa tu veda, quando ti osservi… la sgualdrina di un assassino? Oppure una donna che ama a tal punto la sua carriera da lasciare che il fratello si suicidi?»
Ygraine vide soltanto due figure appannate. Stava piangendo e, fino a quel momento, non se n’era nemmeno accorta.
«Sei partita per la Francia e poi sei rimasta lontana… potresti dire di essere tornata di tanto in tanto in Inghilterra, ma hai lasciato solo il tuo sensibile fratello. Hai lasciato che si suicidasse e poi, come se niente fosse, sei tornata a cantare.»
Razionalmente sapeva che tutto quello che l’uomo le stava dicendo era una menzogna, ma non riusciva a fare a meno di singhiozzare e di credere che, in fondo, avesse ragione.
Avrebbe dovuto accorgersi che Tristan era più fragile di quanto non desse a vedere. Avrebbe dovuto capire che era una brutta idea accettare il contratto con l’Opéra di Digione e un’idea ancora peggiore andare a vivere Oltremanica.
«Hai permesso che tuo fratello si uccidesse e poi stai così vicina, senza porti nessuna domanda, senza farti alcun problema, ad un assassino.»
Ygraine cercò di divincolarsi. Il riferimento a Severus l’aveva resa ben più lucida di quanto non fosse pochi istanti prima. Ricordava di quando era andata a casa dell’uomo e delle parole che le aveva detto sul fratello.
Si aggrappò a quella consapevolezza, mentre tentava di liberarsi dalla presa del suo assalitore, ma l’unica cosa che ottenne fu colpire il bicchiere d’acqua che si trovava sul tavolo, facendolo cadere a terra. Il rumore del vetro infranto dovette irritare l’uomo perché la gettò al suolo. Ygraine si frenò malamente con le mani e rimase a guardare il pavimento ed i frammenti di vetro intorno a lei. Ne prese in mano uno piuttosto appuntito. Forse con quello avrebbe potuto difendersi. Sentiva dei passi dietro di lei, ma non osò voltarsi.
L’uomo l’avrebbe afferrata nuovamente.
Oppure l’avrebbe uccisa come quelle due povere persone al museo.
Sentì una mano sulla spalla.
E le parve di sentire qualcuno parlare, ma non riusciva a distinguere alcuna parola o, forse, non voleva più ascoltare quello che il suo assalitore aveva da dire.
Tentò di muovere la mano che teneva il frammento di bicchiere, ma si sentì stringere il polso.
Ma era una stretta stranamente rassicurante.
«Signorina Ainsworth…»
Era la voce di Severus.
E si sentì immediatamente al sicuro, mentre l’uomo le toglieva il frammento di vetro dalla mano.
E lo abbracciò.
Mentre singhiozzava, si disse che voleva unicamente assaporare il senso di sicurezza che le aveva dato l’uomo.
Solo in quel momento, si rese pienamente conto di quello che era accaduto e di quello che sarebbe potuto accadere se Severus non fosse arrivato.
Fuori dal camerino, il vento sibilava e scuoteva lievemente i vetri.
La signorina Ainsworth si stava lentamente calmando, si rese conto Severus, mentre, sorreggendola con un braccio, l’aiutò ad alzarsi.
Ma anche quando fu in piedi, non lo lasciò andare.
E lui non sapeva come darle il conforto che stava cercando.
E mai come in quel momento sentì pesare su di lui il proprio passato, le proprie colpe.
E mai come in quel momento sentì il contrasto tra l’animo innocente di Ygraine e il suo animo lacerato dal sangue versato.
Poi, quando lo lasciò andare, la guidò fino alla sedia che si trovava in mezzo alla stanza. La giovane donna non disse nulla, affidandosi totalmente a lui, con quella fiducia che pareva non abbandonarla mai.
Il mago fece sparire con un rapido colpo di bacchetta i vetri che ancora stavano per terra, mentre osservava con attenzione Ygraine. Il soprano non stava più piangendo e il corpo non era più scosso dai singhiozzi. Notò il sangue che colava lento dal palmo della mano con cui aveva afferrato un frammento appuntito di vetro e le calze strappate sulle ginocchia.
La giovane donna appariva perfettamente fiduciosa, in quel momento, e stava iniziando a ritrovare la calma, notò Severus, quando si rese conto che stava osservando con attenzione i suoi movimenti. L’uomo, che aveva intravisto Smaterializzarsi mentre entrava dopo aver sbloccato la porta del camerino, doveva averla spinta sul bicchiere rotto, procurandole le ferite sulle ginocchia e sulla mano sinistra.
Quando ebbe finito di curare la mano destra, si dedicò alle ginocchia e all’altra mano. Ygraine non gli fece alcuna domanda, né si lamentò mai, nemmeno quando rimosse alcuni frammenti di vetro dal palmo della mano sinistra e dalle ginocchia. Ne osservò per qualche breve istante gli occhi ed era colmi della più totale fiducia. Distolse immediatamente lo sguardo, tornando a concentrarsi su quello che stava facendo. La fede che la giovane donna dimostrava nei suoi confronti era così intensa da risultargli in quel momento, mentre le aggiustava con alcuni precisi colpi di bacchetta le calze, difficile da sopportare.
«Grazie», mormorò Ygraine, quando ebbe finito. E gli sorrise appena, per quanto le labbra le tremassero ancora sul volto arrossato dalle lacrime. «Dov’è finito…»
«Si è Smaterializzato appena sono entrato e prima che potessi fermarlo», le spiegò rapidamente, mentre si rivedeva davanti alla porta del camerino chiusa. Aveva bussato, ma nessuno aveva risposto, nonostante una sarta gli avesse assicurato che la signorina Ainsworth non era ancora uscita dalla stanza. «Lo conosce?»
«Non lo so… quando è entrato, ho riconosciuto il signor Smithson, ma non si è mai comportato come lui… sembrava quasi che non sapesse nulla di musica e il signor Smithson è uno dei responsabili del programma di perfezionamento per giovani artisti lirici del teatro.»
La voce della signorina Ainsworth gli parve più tranquilla rispetto al momento in cui aveva parlato per la prima volta. Quando si era avvicinato a lei, dopo essersi richiuso la porta alle spalle, non l’aveva riconosciuto. Era terrorizzata, come lo erano state le persone che aveva torturato e ucciso nei mesi successivi al momento in cui il Marchio Nero era stato impresso sul suo avambraccio sinistro.
«Probabilmente non era il signor Smithson. Esiste una pozione che permette di assumere le sembianze di qualcun altro per un’ora.»
«Per quanto sia terribile che qualcuno possa… mi sento sollevata nel sapere che quell’uomo non era una persona che stimo», disse la donna, alzandosi in piedi. Prese in mano la borsetta e ne estrasse un fazzoletto con il quale iniziò ad asciugare le lacrime che avevano lasciato il volto inumidito. «Credo sia l’uomo che mi ha scritto quelle lettere anonime. Ha parlato di lei e di mio fratello.»
Severus osservò per qualche istante il volto pallido della cantante riflesso nello specchio del camerino. L’uomo che aveva aggredito Ygraine era stato troppo veloce nello Smaterializzarsi o, forse, si aspettava di vederlo arrivare da un momento all’altro. Avrebbe potuto essere chiunque tra gli spettatori o avrebbe potuto mescolarsi tra gli addetti del teatro.
E lui era stato uno stolto a non pensare che la donna avrebbe potuto essere colpita in quel luogo, praticamente impossibile da difendere. Aveva notato, quando aveva aspettato Ygraine con Rebecca, che dall’uscita artisti entravano e uscivano molte persone e quella sera, mentre si recava verso il camerino, aveva incrociato addetti del teatro, coristi, orchestrali e macchinisti, oltre ad altre persone che potevano passare dietro le quinte come aveva fatto lui. E, tra loro, potevano essere presenti sia maghi che Babbani, in un intreccio tale da rendere inutili delle protezioni troppo stringenti.
«Cos’ha detto di preciso?»
«Ha ribadito… ha detto che lei ha ucciso dei bambini, che ha torturato e… e poi ha parlato di Tristan e di come abbia preferito la mia carriera a mio fratello... gli ho detto che non mi importava di quello che mi stava dicendo, ma per un attimo ho creduto che avesse ragione su mio fratello… e… gli ho detto che mi fido di lei, Severus», Ygraine osservò la stanza attraverso lo specchio e sembrava un camerino come tutti gli altri del teatro. Tutto era al suo posto, tranne la sedia, accanto alla quale l’uomo stava in piedi. «Per un istante, dopo che mi aveva gettata a terra, mi sono chiesta se volesse uccidermi.»
«Forse voleva unicamente spaventarla, signorina Ainsworth, e farla sentire in colpa.»
«Crede che dovremmo…»
Un bussare improvviso alla porta la fece sobbalzare. Indietreggiò di qualche passo dal tavolo, avvicinandosi all’uomo, fino quasi a sfiorarlo.
«Ygraine, sei ancora in camerino?» la giovane donna riconobbe il marcato accento francese di Dominique, ma aveva ancora davanti agli occhi il volto amichevole del signor Smithson e quello che era accaduto dopo.
«Gli risponda.»
Ygraine riuscì a pronunciare una risposta affermativa, che le parve quanto mai debole.
«Allora, ci vediamo all’uscita artisti. Da quel che mi hanno detto, fuori ci aspetta più gente del solito.»
La giovane donna avrebbe voluto chiedere al signor Piton se fosse possibile fuggire in qualche modo dal teatro. Ricordava di averlo sentito parlare con Rebecca dei metodi di trasporto magici. Eppure, sapeva che non sarebbe stato sensato. Nessuno sapeva quello che era accaduto, se non Severus e l’uomo che aveva assunto le sembianze del signor Smithson.
Si osservò per qualche istante nello specchio, cercando di comprendere se si capisse che aveva pianto, ma il suo volto appariva unicamente pallido e stanco. Prese il cappotto dall’appendiabiti e se lo infilò.
«Ha con sé una penna?» Ygraine annuì soltanto. «Allora utilizzi unicamente la sua biro per firmare gli autografi. Non credo che l’uomo che l’ha aggredita qui, si rifaccia vivo all’uscita artisti, ma rimarrò in disparte e, se ci fosse anche il minimo segnale di pericolo, l’aiuterò ad allontanarsi.»
La giovane donna frugò per qualche istante in borsetta, prima di estrarre una biro e un pennarello indelebile e di metterseli in tasca. Si sentiva sollevata nel sapere che Severus avrebbe vegliato su di lei. Se si fosse ritrovata da sola o con chiunque altro, non avrebbe provato lo stesso senso di sicurezza.
Trasse un sospiro, come faceva prima di entrare in scena, ed aprì la porta. Dominique se n’era già andato e il corridoio era quasi deserto. Forse era l’ultima a uscire e sperò che molte persone si fossero stancate di aspettare.
Invece, ce n’erano fin troppe. Si voltò e notò Severus farsi discretamente da parte, in modo tale che nessuno avrebbe sospettato che fosse uscito dal teatro insieme a lei. Poi si ritrovò circondata da alcuni francesi, che sembravano possedere una pila interminabile di foto da farle firmare.
Il vento sibilava intorno a loro, ma questo non fece desistere le persone che, come in una sorta di processione disordinata, le si mettevano intorno.
Ygraine si sentì sollevata quando fu in grado di liberarsi dall’ultimo spettatore che voleva assolutamente sapere se avesse in programma di cantare a Madrid nei prossimi anni. Scambiò qualche parola con Dominique, prima di avvicinarsi a Severus, che l’attendeva discretamente nella penombra del teatro.
«Mi spiace che abbia dovuto aspettare così a lungo», l’uomo osservò la donna e notò che era completamente esausta, chiedendosi come nessuno sembrasse esserne accorto tra gli uomini e le donne che le si erano affollati intorno. Anche alla luce dei lampioni appariva terribilmente pallida e sul punto di crollare. «Prima che arrivasse Dominique, le avrei voluto chiedere se ritiene necessario informare gli Auror di quello che è accaduto stasera.»
La strada lungo la quale stavano camminando era quasi del tutto deserta, mentre un freddo vento invernale gli graffiava le guance.
«Considerando la cura delle indagini, ritengo totalmente inutile rivolgersi alle autorità.»
Non le disse che credeva che uno degli Auror fosse coinvolto in quei due omicidi e che, con ogni probabilità, aveva a che fare con quanto era accaduto quella sera. Ygraine era già abbastanza provata senza che lui aggiungesse altri motivi di inquietudine.
«Domani, però, signorina Ainsworth, dobbiamo parlare», aggiunse, quando il soprano non disse nulla, mentre voltavano in un’altra strada. «Dopo quello che è accaduto questa sera, ritengo che sia necessario che lei sappia con chi ha a che fare.»
«Severus, non credo che…»
«Invece, signorina Ainsworth, è più che mai logico che lei sappia ogni cosa e che si renda conto che non le hanno detto alcuna menzogna sul mio conto.»
Severus osservò per qualche istante la giovane donna, aspettandosi quasi di vederla rabbrividire, ma Ygraine appariva unicamente spossata. Era cosciente che, una volta confessati i propri delitti e le proprie colpe, la donna avrebbe provato disgusto nei suoi confronti, che avrebbe distrutto la fiducia che aveva visto ben presente nei suoi occhi anche quella sera nel camerino. Eppure, era ciò che doveva fare. Tenerla all’oscuro, avrebbe unicamente voluto dire continuare a mentirle, continuare a recitare un ruolo che non era il suo. E mentendo alla signorina Ainsworth, mentiva anche a Rebecca.
Sapeva di non voler perdere la fiducia della bambina e della donna.
Però non poteva fare diversamente, non quando il soprano avrebbe continuato ad essere oggetto di fin troppo vere insinuazioni.
«Domani mattina accompagnerò Rebecca a scuola. Sono certa che a mia nipote farebbe piacere vederla.»
Erano arrivati davanti allo stabile dove si trovava l’appartamento dei genitori di Rebecca. Il vento freddo sembrava essersi quietato, notò l’uomo, mentre osservava il volto della donna.
Era ancora fiducioso.
E il giorno dopo avrebbe rivisto per l’ultima volta il sorriso felice che Rebecca sembrava riservargli ogni volta che lo vedeva.
«Vi aspetterò qui sotto», poi prese un libro dalla tasca del cappotto e, con un colpo di bacchetta, lo riportò alle sue dimensioni normali. «Lo dia a Rebecca.»
«Sono certa che domani la ringrazierà di persona», disse la donna prendendo il libro dalle sue mani. «A domani, Severus», aggiunse quando l’uomo non rispose. «E vorrei ringraziarla nuovamente per stasera.»
La giovane donna gli rivolse un lieve sorriso, prima di aprire la porta dell’edifico e sparire oltre il portone.
Domani avrebbe perso quel sorriso e avrebbe perso quella fiducia.
E avrebbe perso il sorriso felice di Rebecca, perché sua zia non avrebbe trovato sensato permettere alla nipote di avere a che fare con lui.
Ed in quel caso avrebbe trovato il modo affinché la bambina trovasse qualcun altro con cui parlare della magia, fosse questo anche Potter.
Sapeva che decidendo di rivelare tutto il suo passato, correva il rischio più che probabile di perdere per sempre l’affetto di Rebecca e la fiducia di Ygraine, ma non poteva, in tutta coscienza, continuare a ritardare quel momento inevitabile. Avrebbe potuto farlo se zia e nipote fossero state soltanto un mezzo per vivere qualche rara ora di finta normalità, ma non era più quello il caso.
Poteva comportarsi come un vigliacco egoista e continuare a celare tutto, ma non l’avrebbe fatto. Era affezionato alla bambina e rispettava la signorina Ainsworth ed era disposto a perdere il sorriso di Rebecca e gli occhi fiduciosi di Ygraine per non tradire quell’affetto e quel rispetto.
Era certo, d’altronde che, anche se zia e nipote non avessero più voluto aver nulla a che fare con lui, avrebbe continuato a proteggerle da lontano. Il fatto che l’uomo che aveva aggredito Ygraine continuava a fare riferimento al fratello suicida della donna era un segnale che, chiunque fossero lui e il suo complice, volevano colpirla personalmente.
E, se ci fosse stata un’altra volta, era sicuro che non si sarebbero limitati a spaventarla.
Si allontanò dallo stabile, mentre il vento riprendeva a turbinare violento e a scuotere appena i vetri delle abitazioni.
Quando Ygraine entrò nell’appartamento del fratello questo era immerso nel silenzio e nell’oscurità. Rimase per qualche istante immobile, cercando di non pensare a quello che era accaduto nel camerino, all’uomo che l’aveva aggredita. Preferì ricordare il senso di sicurezza che aveva provato quando si era aggrappata a Severus. E quella sensazione non l’aveva abbandonata né quando stava facendo gli autografi, né mentre camminavano fino all’appartamento di Gawain, né in quel momento, in cui aveva iniziato a muoversi, cercando di fare poco rumore per non disturbare nessuno.
Non appena fu entrata in camera sua, sentì la porta aprirsi.
«Ho aspettato che tornassi, zia», Rebecca teneva in mano un orsacchiotto, mentre si avvicinava a lei. «Ho detto a papà e mamma del fatto che voglio imparare a disegnare e vogliono trovare un maestro. Hai chiesto a Severus un modo per poterlo contattare rapidamente?»
«Non ho avuto l’occasione, Rebecca, ma domani mattina sarà con noi quando ti accompagnerò a scuola. Gliene parlerò subito dopo», Ygraine vide la nipote sorriderle con gioia. Avrebbe voluto condividere quel sorriso, ma temeva quello che Severus avrebbe potuto dirle domani, non tanto perché credeva che potesse smettere di fidarsi di lui, ma perché non avrebbe voluto che lui ripercorresse un passato che doveva essere doloroso. «Mi ha dato questo libro per te.»
La bambina lasciò cadere per terra l’orsacchiotto e prese in mano il libro che le aveva dato la zia. Era un volume di piccole dimensioni che parlava di pozioni. Severus le aveva spiegato che era un libro rivolto ai bambini del Mondo Magico perché iniziassero a famigliarizzare con i vari ingredienti.
Lo strinse al petto e ne ricavò un po’ di conforto.
«Posso dormire qui, zia?»
Ygraine osservò Rebecca e si chiese che cosa le avessero detto Gawain e Margaret considerando il modo in cui stringeva il libro che le aveva dato Severus. Annuì soltanto e lasciò sola per qualche istante la bambina, mentre si preparava per la notte. Quando tornò, Rebecca dormiva, con il piccolo volume stretto al petto.


--
[1] Wilhelm Mueller, Im Dorfe (in paese), vv. 2-5. La traduzioen è tratta da un programma di sala dell'Accademia di Santa Cecilia
 
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view post Posted on 7/11/2022, 11:22
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Capitolo XVIII
Der stürmische Morgen



Wie hat der Sturm zerrissen
des Himmels graues Kleid!
Die Wolkenfetzen flattern
umher im matten Streit.

Und rote Feuerflammen
zieh'n zwischen ihnen hin;
das nenn' ich einen Morgen
so recht nach meinem Sinn!

Mein Herz sieht an dem Himmel
gemalt sein eig'nes Bild -
es ist nichts als der Winter,
der Winter, kalt und wild!

Come ha lacerato la tempesta
il grigio velo celeste!
Svolazzano in debole lotta
i brandelli di nuvole.

E rossi bagliori di fuoco
s'accendono nel mezzo.
Ecco una mattina
davvero adatta a me!

Il mio cuore si riconosce
nel quadro celeste;
altro non è che inverno,
freddo e selvaggio inverno!
[1]

Londra, 8 febbraio 2002


Ygraine rimase ferma per qualche istante, mentre Rebecca oltrepassava il portone della scuola, insieme ad un’altra bambina con cui aveva cominciato a chiacchierare. Portò una mano alla cuffia di lana, perché il vento che, quella mattina imperversava per le vie di Londra non gliela portasse via, prima di voltarsi e di raggiungere Severus che era rimasto in disparte, lontano dai genitori che lasciavano i bambini a scuola.
«Ieri sera Rebecca mi ha detto di aver spiegato a Gawain che vuole prendere lezioni di disegno», gli disse, quando lo raggiunse.
Sperava quasi che quelle parole lo facessero desistere dall’idea di svelarle il suo passato, avrebbe voluto dirgli, come la sera precedente, che non era necessario, che si fidava completamente di lui nonostante ciò che poteva aver fatto un tempo.
«Dovrà modificare i suoi piani, signorina Ainsworth, e lo capirà perfettamente da sola dopo che avremo parlato.»
Ygraine si voltò un attimo verso di lui, mentre camminavano lungo il breve tratto di strada che dalla scuola portava all’appartamento di Gawain. Il volto dell’uomo le parve duro come il tono di voce con cui aveva pronunciato quelle poche parole.
«Allora, non mi dica nulla, Severus.»
«A che scopo, signorina Ainsworth?» Ygraine avrebbe voluto allungare una mano e toccargli un braccio, ma non lo fece. «Se è per Rebecca, può trovare qualcun altro che la tenga in contatto con il Mondo magico. Sono certo che Potter sarà più che felice di ricoprire questo ruolo.»
«Ma mia nipote è affezionata a lei, signor Piton, ed io credo che quello che abbiamo progettato pochi giorni fa sia la cosa migliore da fare. Mi fido completamente di lei.»
Severus si voltò verso la giovane donna che camminava al suo fianco scossa dal vento che imperversava quel giorno sulla capitale. Non riusciva a vederla in volto, ma poteva quasi immaginare i suoi occhi nocciola colmi di fiducia.
Sarebbe stato facile non dirle nulla e continuare a vivere quei rari momenti di luce nell’inverno della sua vita, ma non l’avrebbe fatto. Presto o tardi, zia e nipote avrebbero scoperto tutto. Bastava che ad un altro interrogatorio degli Auror questi iniziassero a elencare loro i capi di imputazione del suo primo processo, quello in cui Silente aveva parlato perché lo lasciassero andare. E allora lo avrebbero odiato più di quanto non avrebbe fatto quel giorno la signorina Ainsworth perché aveva taciuto per tutto quel tempo.
«Non sarà più così, Ygraine, quando si accorgerà con che razza d’uomo ha a che fare», le disse, mentre la giovane donna apriva il portone dello stabile dove si trovava l’appartamento di Gawain.
Il soprano non ribatté, ma scosse con fermezza il capo, come per negare le sue fin troppo realistiche parole.
Salirono in silenzio le scale fino alla porta dell’appartamento del fratello della donna, davanti alla quale la signorina Ainsworth armeggiò con le chiavi, poi entrarono.
Severus osservò distrattamente il salotto in cui si trovava, notando unicamente una foto di Rebecca che sorrideva sdentata davanti ad una casa di campagna.
«Vuole che prepari un tè?»
«Sì, grazie.»
La signorina Ainsworth sembrava nervosa, per quanto tentasse di mostrarsi calma, come aveva fatto con la nipote quella mattina, mentre l’accompagnavano a scuola.
«Si accomodi in salotto.»
Osservò per un istante la porta oltre la quale era sparita la donna, poi andò a sedersi su una delle poltrone, che si trovavano davanti ad un televisore. Se fosse stato un vigliacco, le avrebbe detto che aveva cambiato idea, che effettivamente non era necessario che lei sapesse alcunché della sua vita, che aveva avuto ragione pochi minuti prima, quando aveva tentato di dissuaderlo mentre camminavano verso l’appartamento.
Ma non era un codardo e sapeva che era suo dovere non tenere più all’oscuro la donna.
Forse avrebbe dovuto parlarle già quando gli aveva mostrato quelle lettere minatorie, ma non aveva voluto perdere la fiducia della donna e di Rebecca.
Aveva, con ogni probabilità, ritardato di qualche giorno l’inevitabile disgusto che si sarebbe irradiato dallo sguardo della signorina Ainsworth.
Ma, in quel momento, mentre ritornava con un vassoio con sopra un servizio da tè di porcellana, la donna gli sorrideva ancora e appariva ancora piena di fiducia nei suoi confronti.
Rimase in silenzio, mentre Ygraine gli versava il tè. Ne bevve un sorso, senza quasi sentirne il sapore. La donna era seduta sulla poltrona accanto alla sua, separata unicamente dal tavolino su cui aveva posato il vassoio.
«C’è una cosa di cui ho soltanto accennato a Rebecca», iniziò, posando la tazza. La signorina Ainsworth si era voltata verso di lui e lo stava osservando. «Come ho detto il giorno in cui ho spiegato a sua nipote della magia, Rebecca è una Nata Babbana, una strega figlia di due genitori non magici.»
«Sì, me lo ricordo. All’epoca avrei voluto chiederle qualche chiarimento, ma Rebecca sembrava interessata a tutt’altro… rammento però che l’Auror Thomson ha ribadito che mia nipote è una Nata Babbana. Immagino che esistano maghi e streghe figli di altri maghi e streghe.»
Ygraine bevve un sorso di tè, mentre osservava l’uomo. Quando era andata in cucina, aveva quasi sperato che Severus decidesse di non dirle nulla, ma aveva saputo che non l’avrebbe fatto. Lo aveva detto chiaramente pochi minuti prima. Aveva anche pensato di dirgli nuovamente che non riteneva necessario che lo facesse, ma lo aveva creduto inutile.
E in quel momento, lo stava ascoltando, mentre le spiegava dei maghi Purosangue e dei Mezzosangue e dei Nati Babbani e dei pregiudizi di alcuni membri della comunità magica. E lo ascoltò mentre le parlava di una guerra magica e di un mago oscuro che voleva prendere il sopravvento. E le disse di come avesse iniziato a sentire parlare dell’Oscuro Signore durante i suoi anni di scuola, di come si fosse avvicinato ad alcuni compagni di Casa che condividevano le idee di purezza del sangue di quel mago oscuro. E le disse dei Mangiamorte e di come lui avesse scelto di unirsi a loro.
Il silenzio calò improvviso su di loro. Da qualche parte, nell’appartamento di Gawain, un orologio ticchettava ed Ygraine osservò con attenzione l’uomo, che però stava guardando fisso davanti a sé, in quel momento.
«Severus», mormorò, credendo, per un attimo, che non l’avesse sentita, fino a quando non lo vide voltarsi verso di lei. «C’è una cosa che non capisco. Per quel che ho potuto vedere nel tempo in cui l’ho conosciuta, non ho mai visto nessuno dei pregiudizi di cui ha parlato. Rebecca è una Nata Babbana, io non posseggo un solo briciolo di magia e l’ho incontrata in un museo Babbano… perché ti sei unito alle forze di quel mago?»
Severus osservò attentamente la donna. Il volto era ancora tranquillo e lo sguardo mostrava unicamente perplessità. Le aveva appena detto di essere diventato il servo di un mostro che non avrebbe esitato un solo istante ad uccidere lei, Rebecca e tutta la sua famiglia.
E ancora non l’odiava.
La osservò per qualche altro istante, prima di rispondere e, mentre lo faceva, si rese conto che era la prima volta che qualcuno gli chiedeva le ragioni per le quali aveva distrutto irrimediabilmente la sua anima.
«Desideravo sentirmi potente e rispettato», la signorina Ainsworth si era raggomitolata nella poltrona e lo stava osservando. E presto sarebbe arrivato l’odio nei suoi occhi nocciola. Forse l’avrebbe guardato come aveva fatto Lily davanti all’ingresso della sala comune di Grifondoro. «Non ero mai stato nessuna delle due cose e credevo che unendomi all’Oscuro Signore e permettendogli di apporre il Marchio Nero sul mio avambraccio sinistro sarei diventato potente. Ero certo che sarei riuscito a vendicarmi della vita, di mio padre, di chi mi aveva disprezzato e di chi mi aveva umiliato. Già prima di compiere la mia scelta, ero affascinato dalle Arti Oscure; già prima di compiere la mia scelta, avevo iniziato ad ascoltare alcuni miei compagni di Casa che parlavano dell’Oscuro Signore. Già prima di compiere la mia scelta non ho voluto dare ascolto all’unica persona, l’unica amica che avessi, che ha tentato di mettermi in guardia e, ignorando le sue parole, l’ho persa. Fossi stato una brava persona avrei ascoltato Lily, fossi stato una brava persona non avrei mai preso in considerazione di unirmi a loro, ma non sono mai stato una brava persona, signorina Ainsworth.»
Ygraine avrebbe voluto interromperlo, dirgli che non credeva affatto che lui non fosse una brava persona, che, qualunque cosa avesse fatto, non le importava, perché le sue azioni presenti le dicevano qualcosa di diverso.
Ma tacque.
Era certa che se lo avesse contraddetto, avrebbe potuto ritrarsi in maniera ancora peggiore di quanto non stesse facendo.
«Volevo far sapere al mondo che ero un mago abile, che ero in grado di inventare incantesimi, che sapevo migliorare qualsiasi pozione e che sapevo crearne di nuove. Ero convinto che diventare Mangiamorte fosse l’unica strada possibile, l’unico modo per assaporare il potere, per raggiungere il rispetto e per ottenere nuovo sapere. E dopo aver preso il Marchio Nero mi sono effettivamente sentito potente, mentre uccidevo e torturavo. Appena ho lasciato la scuola, mi sono unito a loro. Appena ho lasciato la scuola, ho imparato ad uccidere. Ricordo ancora la mia prima vittima, una Babbana, come lei, signorina Ainsworth, rea di aver messo al mondo una Nata Babbana… una Sanguesporco, avrei detto all’epoca, per quanto non fosse stato quello il motivo per cui mi ero unito all’Oscuro Signore. Avevo diciott’anni quando l’ho uccisa e mi sono sentito quasi onnipotente, mentre decidevo della morte di un mio simile.»
Ygraine trattenne un brivido di fronte alla voce vuota dell’uomo e di fronte al suo sguardo, a quegli occhi neri che le parvero esprimere un odio profondo, l’odio che, temeva, Severus provava per sé stesso.
Era convinta che dovesse essere accaduto qualcosa da quei giorni lontani, perché l’uomo che aveva di fronte non era il ragazzo che si era sentito potente davanti alla morte di una donna. Quello che aveva di fronte era l’uomo che aveva protetto Rebecca, l’uomo che aveva svelato alla nipote il Mondo Magico, l’uomo che aveva visto solo davanti al quadro di Sancta Lilias, l’uomo che aveva curato le sue ferite la sera precedente.
«Ho ucciso altre persone e potrei enumerarle una per una. E per diverso tempo mi sono sentito colmo di quel potere a cui avevo agognato. Mi pareva che i miei compagni mi rispettassero e che l’Oscuro Signore stesso mi tenesse in grande considerazione. Ero il migliore pozionista che avesse e mi sembrava di aumentare la mia conoscenza, mentre ero al suo servizio.»
Severus si interruppe per qualche istante, mentre osservava la giovane donna. Il volto si era fatto pallido, ma gli occhi nocciola non mostravano alcun segno del disprezzo e del disgusto che provava per sé stesso. Fissandola con attenzione, alla ricerca della ben che minima crepa nel suo volto, le spiegò della profezia che aveva parzialmente ascoltato e di come l’avesse riferita al suo padrone. Ygraine si raggomitolò maggiormente sulla poltrona, ma i suoi occhi sembravano rifiutarsi di giudicarlo, nemmeno quando le disse di come aveva supplicato l’Oscuro di risparmiare Lily, nemmeno quando le disse di come avesse contattato Silente, in una notte tempestosa, com’era tempestosa quella giornata di febbraio.
Al di fuori delle finestre dell’appartamento, il vento sembrava ululare e giudicarlo e irriderlo e disprezzarlo. Invece negli occhi della signorina Ainsworth continuava a non esserci alcun segno di disprezzo.
«Se l’Oscuro Signore non avesse deciso di colpire i Potter, non sarei mai andato da Silente, sarei rimasto un suo fedele servitore.»
«Come può esserne certo? Poco fa ha detto che per diverso tempo si è sentito potente nel… nel togliere una vita, ma si sentiva ancora così quando…»
«No», Severus la interruppe bruscamente, mentre il vento al di fuori sembrava ululare ancora più violento.
Scostò lo sguardo dalla donna. Per qualche ragione, gli era insostenibile continuare a fissare quegli occhi e quel volto privi di disgusto e disprezzo e, allo stesso tempo, si trovava spiazzato dalle sue domande.
O, forse, più semplicemente, si rendeva conto che anche quella era una domanda che nessuno gli aveva mai posto.
Nemmeno Albus.
Lo aveva fissato con disgusto ed aveva accettato che promettesse di fare qualsiasi cosa per lui.
Ma non gli aveva mai chiesto, nemmeno anni dopo quando diceva di fidarsi di lui, perché si fosse unito ai Mangiamorte, né, men che meno, aveva posto in dubbio qualcosa di cui lui stesso era certo.
Si alzò dalla poltrona e si avvicinò alla finestra. Fuori, benché fosse mattina, sembrava quasi notte. Le nuvole invernali erano nere e cariche di vento.
«Provavo disgusto per quello che ero diventato», disse infine, mentre osservava il cielo burrascoso e in quel buio, in quei brandelli di nuvole, attraversati di tanto in tanto da lampi, riconosceva la sua anima lacerata. «Non è arrivato subito. Per diverso tempo mi sono sentito potente, fino a quando non mi sono trovato davanti il cadavere di un bambino. È come ti è stato detto, Ygraine. Sono un assassino della peggior specie», rimase a fissare il cielo al di là della finestra, anche quando sentì che la signorina Ainsworth si era avvicinata a lui. Non aveva mai confessato a nessuno prima di allora quel crimine. Per un momento, non ricordava più nemmeno quando, aveva pensato di dirlo a Silente, ma aveva avuto paura di leggere nuovamente il disgusto nello sguardo di quello che era diventato un mentore fidato, di quello che aveva creduto stoltamente essere il padre che non aveva mai avuto. «Eppure, nonostante il disgusto, nonostante le notti insonni non ho mai pensato di lasciare il servizio del mio padrone. Ho continuato ad uccidere e a torturare. Non mi sentivo rispettato, né potente e non avevo trovato la rivalsa che sognavo, ma, se non avessi scoperto che l’Oscuro Signore aveva preso di mira i Potter perché aveva prestato fede a quella profezia, non me ne sarei mai andato.»
Ygraine avrebbe voluto che Severus la guardasse, come aveva fatto quando erano seduti sulle due poltrone, ma l’uomo continuava a fissare il cielo tempestoso.
«Forse la profezia e quello che ne è seguito è stato unicamente ciò che ti ha dato la spinta per riuscire ad andartene… da quel che hai detto, andarsene era una sentenza di morte, passare dall’altra parte non era una cosa facile, eppure tu ci sei riuscito, Severus.»
«Solo dopo aver supplicato l’Oscuro Signore di salvare Lily», Ygraine rabbrividì al disgusto che sottolineava ogni singola parola dell’uomo.
Le sue mani stavano stringendo il davanzale interno su cui Margaret teneva un vaso di fiori finti, mentre il suo sguardo era ancora fisso sulle nuvole mosse dal vento.
«Eppure, sei andato comunque dal capo dell’altra parte. Avresti potuto non farlo, ma ci sei andato ugualmente.»
Severus si voltò di scatto verso la giovane donna. Lo stava fissando con il volto pallido, i lunghi capelli biondi le stavano sfuggendo dalla crocchia in cui li aveva raccolti e gli occhi nocciola non erano colmi d’odio e disgusto. Non erano nemmeno colmi di pietà. Erano semplicemente fiduciosi e non avrebbero dovuto.
Ma Ygraine non avrebbe nemmeno dovuto dire quelle frasi. Sembrava certa che lui avrebbe lasciato l’Oscuro anche se non ci fosse stata la profezia, anche se Lily non fosse stata in pericolo. E non sapeva nemmeno se la giovane donna avesse ragione. Aveva sempre creduto che Lily fosse stata la ragione del suo vano tentativo di rimediare al male che aveva fatto.
Ricordava perfettamente il baratro in cui stava cadendo. Il disgusto che aveva provato uccidendo, gli incubi e l’incapacità di allontanarsi. Tutto era crollato come un misero castello di carte e lui era caduto insieme al finto potere e al disgustoso rispetto che aveva ottenuto. Ed in quel momento, mentre fuori infuriava il temporale e dentro di lui tutto era ghiacciato dall’inverno delle sue colpe, voleva provare a credere che la signorina Ainsworth avesse ragione, che forse, effettivamente, se le circostanze fossero state diverse sarebbe comunque andato da Silente. Per i Paciock, forse. O per impedire un qualsiasi altro omicidio.
«Comunque sia ho deciso in quel momento. Avrei potuto farlo prima. Se lo avessi fatto avrei forse evitato dei morti nel Mondo Magico e tra i Babbani. Lo ricorderà anche lei, l’aumento di incidenti inspiegabili tra la fine degli anni Settanta e il 1981.»
«Sì, il telegiornale ne parlava di tanto in tanto. Ricordo che mamma era preoccupata e anche Gawain. Io ero una bambina e preferivo ascoltare, insieme a Tristan, papà che leggeva qualche antico poema medievale piuttosto che stare attenta alle notizie… però ricordo che ne parlavano spesso al telegiornale e in paese, soprattutto dopo…»
«Dove abitavate?»
«Nel Kent. I miei genitori abitano ancora là, nella casa di campagna.»
«Ho capito cos’ero diventato nel Kent, dopo…», la voce gli morì in gola per qualche istante, mentre osservava il volto di Ygraine farsi mortalmente pallido. Sarebbero arrivati il disgusto e l’odio, in quel momento, ne era certo. «Erano le vacanze di Natale e siamo andati in tre. Un ragazzino, Robert Hancock, si era scoperto mago quell’anno e l’ordine era di punire lui e la sua famiglia. E l’abbiamo fatto. Tre mostri che hanno distrutto degli innocenti.»
Il volto della giovane donna era ancora mortalmente pallido, ma non era ancora comparso l’odio, né il disprezzo.
«Ricordo che al telegiornale locale dissero che i cadaveri degli Hancock erano stati sistemati e lavati con rispetto e che qualcuno aveva telefonato alle autorità nel cuore della notte. Non so nemmeno perché ricordi tutti questi particolari. Avevo solo sei anni, ma ero rimasta colpita dalla notizia. Non li conoscevo particolarmente bene, per quanto non abitassero molto lontani da casa nostra, ma era il fatto che qualcuno aveva avuto rispetto per quelle povere persone che mi aveva impressionato. Severus…»
«Ho partecipato alla loro uccisione, prima. Non ho avuto né rispetto, né pietà. Sono un mostro, Ygraine. Ormai dovresti averlo capito.»
«Se tu fossi un mostro non avresti provato disgusto, non avresti dovuto avere degli incubi e non saresti mai andato dal preside. E non avresti mai chiamato le autorità perché potessero dare degna sepoltura agli Hancock. Ricordo che papà disse qualcosa del genere, che chiunque avesse chiamato, lo aveva fatto per quello.»
Severus osservò con attenzione Ygraine. Il volto non era più così pallido e la voce era tranquilla e cullante. Sentì la bile montargli in gola, come quella notte di dicembre, ma la cacciò indietro. Il padre della donna aveva intuito le ragioni che lo avevano spinto a telefonare. Era una casa isolata, in mezzo al nulla e quella notte i Mangiamorte avevano colpito in più punti dell’Inghilterra. Nessuno si sarebbe accorto di quelle ulteriori morti, nessuno avrebbe seppellito i cadaveri. Aveva partecipato, aveva ucciso il ragazzino che era tornato da Hogwarts per le vacanze e subito dopo, mentre i suoi due compagni si erano accaniti sugli altri lui aveva provato unicamente disgusto. Non era riuscito ad unirsi a loro, ma non li aveva nemmeno ostacolati. E loro non si erano nemmeno accorti del suo silenzio, né del fatto che non li aveva aiutati nel loro macabro compito. Aveva ricomposto i cadaveri, li aveva lavati e aveva chiamato le autorità Babbane, poi era andato a casa, nella solitudine di Spinner’s End ed aveva vomitato. E non aveva chiuso occhio tutta la notte.
Fu quando sentì la mano di Ygraine sulla sua, quando ne osservò il volto che capì di aver parlato ad alta voce, di averle raccontato ogni cosa di quella notte di Natale.
«Severus, non è necessario che…»
«No, devi sapere tutto.»
Scostò la mano da quella della giovane donna e si allontanò dalla finestra e dalla tempesta che imperversava al di fuori. Tornò a sedersi sulla poltrona e riprese a parlare. Le disse di come avesse accettato di diventare la spia di Silente, di quello che era accaduto la notte di Halloween del 1981, degli anni successivi e dell’attesa. La sentì tornare verso le poltrone e la vide raggomitolarsi dov’era seduta prima.
Le disse dell’arrivo di Potter a scuola e del ritorno dell’Oscuro Signore e di come fosse ritornato al suo servizio come spia. E le disse di come Silente si stesse spegnendo lentamente, dell’incarico che era stato affidato a Draco e di come Albus gli avesse chiesto di ucciderlo e di come lo avesse fatto, di come avesse alzato la bacchetta e avesse assassinato il suo mentore.
Non le diede il tempo di intervenire, di porgli delle domande, ma continuò a parlare. Non le nascose nulla, né la morte di Charity Burbage, né dell’anno in cui era stato preside e in cui non era riuscito a proteggere gli studenti come avrebbe voluto.
E le parlò della battaglia che si era svolta a Hogwarts e della Stamberga Strillante.
«Quando il serpente mi ha morso ero convinto di morire. Nagini aveva già ucciso in quel modo ed il suo veleno era potente, ma, forse per l’impazienza del suo padrone, non ha morso abbastanza a fondo. Eppure, credevo di essere prossimo alla morte. D’altronde, non mi ero mai aspettato di sopravvivere alla guerra e, invece, sono rimasto in vita.»
Ygraine sentì il silenzio cadere su di loro. Anche la tempesta che imperversava su Londra sembrava essersi fatta silenziosa. Severus non aggiunse altro, ma c’era amarezza nella sua voce e nell’aria sembravano essersi formate le parole che non aveva detto e che lei riusciva ad immaginare fin troppo bene.
Poteva quasi sentirlo mentre affermava che non sarebbe dovuto rimanere in vita, che il serpente avrebbe dovuto ferirlo con maggior vigore, che il veleno avrebbe dovuto agire con più velocità.
«Sono felice che tu sia sopravvissuto, Severus», disse in un mormorio, mentre la tempesta riprese a farsi sentire con rinnovato vigore.
L’uomo si voltò verso la giovane donna e la osservò, come aveva già fatto in altre occasioni quella mattina. Era pallida ed i suoi occhi erano tristi e fiduciosi e lucidi di lacrime non versate. Sapeva che era sincera quando aveva pronunciato quella frase.
Sentì la bile montargli in gola, come era già accaduto quando le aveva detto degli Hancock.
Non meritava quella fiducia, né quelle lacrime non versate.
Non meritava che Ygraine fosse felice perché lui era sopravvissuto alla guerra quando persone migliori di lui erano morte.
Ma sapeva che qualunque cosa avesse detto non avrebbe scalfito quella fiducia e quella convinzione profonda.
Ma sapeva anche che, per quanto gli sembrasse ingiusto nei confronti della donna, non voleva perdere quella fiducia e quella convinzione profonda.
«Come sai, Ygraine, sono stato processato poco dopo la battaglia e mi hanno assolto. Non so cosa sia stato detto, dato che all’epoca non avevo ancora riacquistato coscienza. Non so come Potter li abbia convinti a non gettarmi ad Azkaban, ma avrebbero dovuto condannarmi. Avrei dovuto pagare.»
«Perché, Severus, se avevi già pagato?»
Le parole di Ygraine gli fecero montare nuovamente la bile in gola. Distolse lo sguardo dalla giovane donna. Non voleva vedere quella fiducia inspiegabile, né la sincerità di quelle parole.
Una parte di lui avrebbe voluto credere alla forza assolutoria di quella domanda, ma sapeva perfettamente che nulla avrebbe potuto assolverlo.
Si alzò in piedi e tornò ad osservare la tempesta che stava imperversando su Londra, implacabile. E si sentì un vigliacco per averlo fatto. Per quanto avesse fatto pochi passi, gli sembrava di star fuggendo da Ygraine e dal perdono che tanto a lungo aveva desiderato.
«Ti sbagli. Non ho pagato il male che ho fatto. Un…»
«E invece hai pagato, Severus, in ogni modo possibile», Ygraine lo aveva raggiunto, come aveva fatto poco tempo prima. «Hai pagato dal momento in cui hai deciso di rivolgerti a Silente, quando hai accettato di diventare una spia. Hai pagato per anni e ancora più duramente quando l’Oscuro Signore è tornato e ancor più terribilmente quando Silente ti ha chiesto di ucciderlo e quando non sei riuscito a salvare qualcuno dalla morte e dalla tortura perché sapevi che farlo ti avrebbe esposto e che questo avrebbe compromesso tutto quanto era stato fatto fino ad allora. O forse hai iniziato a pagare ben prima di diventare una spia, quando hai lavato i corpi degli Hancock, quando hai permesso che i loro corpi ricevessero una degna sepoltura, quando hai capito quanto fosse stata sbagliata la scelta che avevi compiuto.»
Avrebbe voluto dirle che nulla di ciò che stava dicendo era vero, ma non lo fece. Le aveva detto ogni cosa quel giorno, non le aveva celato nulla. Aveva cercato il disgusto sul suo volto, ma non l’aveva trovato. Aveva cercato il disprezzo nei suoi occhi nocciola, ma non l’aveva trovato. Aveva cercato tracce di insopportabile pietà, ma non le aveva trovate.
C’era solo quell’incrollabile fiducia.
C’era solo la convinzione profonda in ogni parola che pronunciava.
Girò le spalle alla tempesta e porto lo sguardo sulla stanza così anonima dell’appartamento di Gawain Ainsworth.
Si sentiva spossato.
Gli era sembrato di rivivere ogni singolo momento che aveva raccontato alla giovane donna e, come non gli accadeva da anni, si sentì sopraffatto dalle emozioni, dal senso di colpa e dalla speranza di perdono che Ygraine gli aveva donato con quelle ultime parole e con il suo sguardo e con le sue lacrime non versate.
Si sentì schiacciare dal disgusto e dal disprezzo che provava per sé stesso e dal sollievo che dava alla sua anima lacerata la fiducia della giovane donna.
Gli sembrava che anche il suo corpo non riuscisse più a reggere il peso di quello che stava provando e delle emozioni che aveva represso per anni con il rigido autocontrollo della spia.
Si lasciò scivolare lentamente fino a che non si ritrovò seduto sul pavimento. Chiuse gli occhi e con metodo, come aveva fatto tante altre volte, iniziò faticosamente a occludere, nel tentativo di riprendere il controllo di sé stesso.
«Severus…»
La voce preoccupata di Ygraine rese vano ogni suo sforzo. Gli sembrò di essere tornato indietro di anni, quando aveva intrapreso la strada che l’aveva portato a padroneggiare l’Occlumanzia. O forse, nemmeno allora, era stato incapace di reggere all’urto di tutto quello che aveva tenuto forzatamente sotto controllo e con cui non aveva fatto i conti nemmeno quando era finita la guerra, nemmeno quando i suoi giorni di spia erano finiti.
«Ygraine», riaprì gli occhi e si voltò. La giovane donna si era seduta al suo fianco ed i suoi occhi erano colmi di preoccupazione. «Dovresti essere disgustata, dovresti odiarmi.»
«Sarei incredibilmente crudele se ti odiassi, Severus», la voce della giovane donna era calma, colma di fiducia e di perdono.
Quel perdono che desiderava e che fuggiva.
Quella fiducia che sapeva di non meritare e che non voleva perdere.
Ygraine gli posò una mano esitante su una spalla.
Era un gesto di conforto.
Tentò nuovamente di occludere, ma fallì miseramente.
E sentì le lacrime pungergli gli occhi e la bile montargli in gola.
E ricacciò le lacrime e la bile.
Osservò il volto di Ygraine che, al pari della sua voce era colmo di fiducia e del perdono che aveva tanto a lungo cercato nel volto di un quadro Babbano che gli ricordava una donna morta da anni.
Cercò di aggrapparsi agli occhi verdi di Lily, al disprezzo con cui lo avevano guardato davanti alla porta della sala comune di Grifondoro, ma nemmeno quello riuscì a trattenere le emozioni che lo stavano sopraffacendo.
Invece, riusciva unicamente a vedere gli occhi nocciola di Ygraine, privi di disprezzo e disgusto.
E quella volta, mentre il senso di colpa, la speranza di perdono, il disgusto, l’odio e il sollievo imperversavano dentro di lui al pari della tempesta che stava colpendo Londra, non riuscì a trattenere le lacrime.
Non erano le lacrime di dolore che aveva versato quando Silente gli aveva comunicato che Lily era morta.
Non erano le lacrime colme di rimpianto che aveva versato sulla foto di Lily che aveva trovato a Grimmauld Place.
Sentì Ygraine farsi più vicina a lui e abbracciarlo.
E le lacrime continuavano a bagnargli il viso e la spalla della giovane donna.
Stava piangendo tutte le persone che non era riuscito a salvare nei suoi anni di spia.
Stava piangendo tutte le persone che aveva ucciso colmo di disprezzo per sé stesso, dopo che aveva compreso l’errore commesso.
Stava piangendo tutte le persone a cui aveva tolto la vita sentendosi potente e inarrestabile.
E le lacrime cadevano sulle speranze che aveva scioccamente nutrito da bambino.
E le lacrime cadevano sull’amicizia che aveva spezzato e sull’amore che aveva basato sull’impossibile speranza che Lily potesse provare qualcosa di simile per lui.
E le lacrime cadevano sull’assurda illusione di aver trovato in Albus un padre, quando invece aveva unicamente trovato un generale che stava muovendo le sue pedine sul campo di battaglia.
Sentì una mano di Ygraine sui suoi capelli.
La donna lo stava abbracciando con la stessa fiducia con cui lo aveva sempre guardato.
La donna lo stava abbracciando con la stessa preoccupazione che aveva letto nel suo sguardo.
La donna lo stava abbracciando con la stessa promessa di perdono che aveva visto nei suoi occhi nocciola.
Le lacrime iniziarono a quietarsi leggermente, quelle lacrime versate per tutto quello che aveva fatto, per tutto quello che avrebbe potuto essere se non avesse compiuto quell’imperdonabile errore, per tutto quello che aveva perso.
Non seppe per quanto tempo rimasero immobili sul pavimento dell’abitazione di Gawain Ainsworth.
Ma, per un brevissimo momento, mentre le lacrime smettevano di scorrere sul suo volto, si sentì in pace.
Ma fu poco più di rapido istante.
Poi il senso di colpa tornò prepotente in lui e, con esso, la convinzione che non vi potesse essere pace.
Si sciolse dall’abbraccio di Ygraine e si alzò lentamente in piedi.
Fuori la tempesta sibilava furiosa e lui si sentiva di nuovo padrone di sé stesso.
Sentì che la giovane donna si alzava a sua volta in piedi e le fu grato quando non gli fece domande, quando non commentò quel raro momento di fragilità.
Non la guardò, quando le chiese dove fosse il bagno, ma sapeva che non lo stava giudicando. Non lo aveva mai fatto, nemmeno quando le aveva detto del ruolo che aveva avuto nella morte degli Hancock.
E fuori dalle finestre il vento continuava a sibilare e le nuvole grigie a squarciarsi e a correre veloci.
Ygraine rimase immobile accanto alla finestra.
Si asciugò rapidamente una lacrima e ricacciò a forza indietro le altre, come aveva fatto altre volte, mentre Severus le raccontava dei suoi anni di spia, delle persone che avrebbe voluto, ma che non aveva potuto salvare.
Avrebbe voluto piangere, ma aveva temuto che l’uomo potesse confondere le sue lacrime per pietà.
Ma lei provava unicamente ammirazione per lui, per come fosse riuscito a comprendere il proprio errore e per come avesse fatto di tutto per espiarlo.
E lo ammirava perché non aveva tentato di trovare scusanti, non aveva attribuito quella terribile scelta ad altri, ma aveva fatto ricadere tutto su sé stesso.
Avrebbe unicamente voluto che non fosse disgustato da sé stesso. Glielo aveva letto negli occhi e nella voce.
Insieme all’odio e alla mancanza di speranza e di pace.
Sperava che almeno le lacrime che aveva versato gli dessero un po’ di pace.
Non c’erano stati singhiozzi, quel giorno, ma solo lacrime silenziose e, per questo, ancor più dolorose.
Si chiese da quanto tempo non si concedesse di piangere.
Aveva sopportato così tanto nella solitudine più completa. Aveva avuto un’amica ed aveva perso quell’amicizia. Aveva avuto un mentore in Albus Silente e aveva dovuto ucciderlo.
Era stato solo tutta la vita.
Non le aveva detto quasi nulla sulla sua famiglia, ma si era fatta l’idea, da quelle poche parole sul padre, che non fosse vissuto in un ambiente felice.
Non aveva fatto cenno ad altri amici ed era certa che non ne avesse avuti.
E non sembrava che le cose fossero cambiate quando era sopravvissuto.
Lo aveva visto lei stessa, immerso nella solitudine, davanti al quadro di Sancta Lilias.
Quando rientrò nel salotto, non sembrava nemmeno che avesse pianto.
Gli sorrise appena.
«Potresti accompagnarmi quando andrò a prendere Rebecca a scuola.»
Severus si sentì sollevato quando Ygraine non fece cenno alle lacrime che aveva versato, né al modo in cui si era aggrappato a lei. Non se n’era nemmeno reso conto, se non quando si era ritrovato da solo in bagno, mentre si lavava il volto per cancellare i segni del pianto.
Aveva, invece, pronunciato una frase semplice, banale quasi.
In un altro momento e in un altro luogo avrebbe provato vergogna per come aveva perso il controllo, per come era crollato sotto il peso del suo passato e del suo presente.
Non credeva nemmeno che in un altro momento e in un altro luogo, che davanti ad un’altra persona avrebbe pianto in quel modo.
Non si era mai concesso di perdere il controllo nemmeno nella solitudine della casa di Spinner’s End, nemmeno in quei tre anni in cui aveva vissuto una non vita, tormentato dal senso di colpa. Era stato un vigliacco nel tempo che era trascorso da quando si era svegliato al San Mungo, un vigliacco che non aveva avuto il coraggio di affrontare veramente tutto quello che era stata la sua vita e tutto quello che avrebbe potuto essere.
Fino a quel giorno.
«Ti accompagnerò», disse, quando si rese conto di essere rimasto fin troppo in silenzio.
La signorina Ainsworth gli sorrise ed appariva sollevata. Era un sorriso tranquillo e discreto, in cui riusciva a leggere la stessa fiducia che tante volte aveva visto nel suo sguardo.
E, in quel momento, si rese conto che ricambiava quella fiducia.
Non esisteva nessun’altra ragione per cui avrebbe dovuto rivelarle ogni singolo particolare di quello che aveva fatto, per cui avrebbe dovuto dirle anche dell’unica volta in cui aveva ucciso un bambino, di quella colpa orribile di cui non aveva parlato nemmeno a Silente.
Non sapeva nemmeno quando avesse iniziato a fidarsi di lei.
Forse era stato quando era andata a casa sua, quando lui aveva tentato di allontanarla.
Forse era stato qualche giorno prima, quando avevano parlato del fratello di Ygraine e lei gli aveva chiesto consiglio.
O forse era semplicemente il fatto che la giovane donna aveva portato, insieme a Rebecca, nella sua vita una quotidianità tranquilla che non gli era mai appartenuta.
Come in quel momento, in cui, quando l’orologio presente nel salotto segnava già le due del pomeriggio, gli aveva chiesto se gli avrebbe fatto piacere pranzare con lei. Era qualcosa di banale, di semplice, qualcosa che gli era estraneo.
Era un momento tranquillo, anche se fuori dalla finestra la tempesta imperversava su Londra.
Era un momento in cui riusciva ad assaporare qualcosa di simile alla pace, nonostante sentisse dentro di sé l’onnipresente peso della colpa.

---
[1] Wilhelm Müller, Der stürmische Morgen, La mattina tempestosa. Ho riportato l'intero testo. La traduzione è presa dal programma di Santa Cecilia

 
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view post Posted on 7/11/2022, 11:39
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Capitolo XIX - parte I
Täuschung


Ein Licht tanzt freundlich vor mir her,
ich folg' ihm nach die Kreuz und Quer;
ich folg' ihm gern und seh's ihm an,
dass es verlockt den Wandersmann.

Una luce danza lietamente davanti a me;
la seguo su e giù;
volentieri le tengo dietro, e capisco
come attiri il viandante.
[1]

Londra, 8-9 febbraio 2002


La notte era calata su Londra quel giorno di febbraio e la tempesta che aveva imperversato nella mattina e durante il primo pomeriggio si era placata.
Eppure, a Ygraine sembrava di sentirla ancora.
O, forse, le sembrava piuttosto di sentire ancora la voce di Severus.
Ogni volta che chiudeva gli occhi, riviveva quel che era accaduto quella mattina. Era come se ogni singola parola pronunciata dall’uomo le fosse rimasta impressa nella mente e nell'anima.
Aveva creduto che, con il passare delle ore, potesse diventare più distaccata, che potesse, quasi, analizzare con calma quelle parole. Invece, riusciva unicamente a pensare alla solitudine in cui l’uomo aveva vissuto per quasi tutta la sua esistenza e all’odio che sembrava provare per sé stesso.
A volte, le pareva di sentire ancora le lacrime sulla sua spalla, quelle lacrime silenziose, che sperava che gli avessero, almeno, offerto un po’ di conforto, quel conforto che avrebbe voluto donargli.
Sapeva che avrebbe dovuto dormire, ma non ne era in grado.
In quel momento, avrebbe voluto unicamente poter parlare con Severus, per quanto non sapesse cosa avrebbe potuto dirgli. Riusciva unicamente a immaginarlo da solo, nella casa in quella cittadina che aveva visto giorni migliori, immerso nell’oscurità di quella notte illuminata da una sottilissima falce di luna.
Forse in quel momento era tormentato da un incubo, forse in quel momento si stava odiando. Avrebbe voluto farsi, in qualche modo, carico di quella solitudine e di quel dolore. Avrebbe voluto potergli offrire il perdono o, anche solo, un po’ di conforto.
L’avrebbe rivisto il giorno dopo, come si erano accordati quando erano andati fino alla scuola di Rebecca. Severus era rimasto in disparte, come aveva fatto la mattina, in modo che gli altri genitori non lo notassero. Poi le aveva riaccompagnate a casa e la nipote gli aveva preso la mano, come era solita fare con lei.
O con Gawain.
Quando erano arrivati allo stabile dove si trovava l’appartamento del fratello, le aveva salutate rapidamente, con quella calma che sembrava caratterizzarlo e che celava il suo profondo senso di colpa e che si era infranta alcune ore prima.
Si alzò in piedi e si avvicinò alla finestra. Fuori la notte era calma e la città appariva addormentata. La piccola falce luna illuminava dolcemente gli edifici di fronte all’appartamento di Gawain. Ygraine rimase a lungo immobile ad osservare la luna e le stelle così lucenti che nemmeno l’inquinamento luminoso della grande città riusciva ad oscurare.
E mentre osservava gli astri, si rese conto di amare Severus.
Non sapeva nemmeno da quanto tempo nutrisse quel sentimento, ma ricordava come avesse negato con Jane di essere innamorata. Eppure, mentre aveva cantato il ruolo di Desdemona, durante il primo atto, le era sembrato di comprendere meglio il personaggio, per quanto, allora, non ne avesse compreso il motivo.
Rimase immobile ad osservare la luna e le stelle di quella notte di febbraio, cercando di analizzare quel sentimento, ma non ne fu in grado. O forse, era semplicemente inutile farlo. Non aveva nemmeno importanza chiedersi quando si fosse sviluppato. Era unicamente certa di non aver mai provato nulla del genere. Era un sentimento profondo, nato senza che lei se ne accorgesse e, mentre rifletteva, si rese conto di amare Severus per quello che era, con le sue colpe passate e con la continua volontà di espiarle. Ma non si era innamorata di lui quel giorno, di questo era certa. Lo amava da ben prima e quell’amore che lei non aveva nemmeno notato nascere si era unicamente radicato maggiormente nel suo cuore durante quella mattina tempestosa.
In quel momento, mentre una nuvola copriva la luna rivide Severus fermo immobile davanti al quadro di Rossetti. Lo aveva notato anche prima di parlargli per la prima volta, anche prima di invitarlo a prendere un tè ed era sempre lì davanti a Sancta Lilias.
E fu certa di non aver alcuna speranza.
Per quanto non avesse mai detto quali fossero i suoi sentimenti per Lily Potter, le appariva chiaro che Severus doveva aver provato per lei un sentimento più profondo della semplice amicizia e che quel sentimento doveva essere in qualche modo ancora vivo. Altrimenti non avrebbe trascorso le sue giornate proprio davanti a quel quadro. Se a muoverlo fosse stato unicamente il senso di colpa, avrebbe potuto scegliere ogni giorno un dipinto diverso, avrebbe potuto ascoltare ogni giorno un Lied diverso. Invece, tutte le volte che lo aveva visto al museo, era seduto davanti a Sancta Lilias.
Ygraine tornò verso il letto, mentre si faceva strada in lei la consapevolezza che non sarebbe mai riuscita a tenere testa ad una donna morta e, per questo, priva dei difetti dei vivi e di quelli che lei stessa doveva aver avuto in vita.
Strinse con forza le coperte. Per un breve istante avrebbe voluto andare alla Tate e bruciare quel quadro, ma sapeva che era assolutamente inutile e assurdo essere gelosa di una donna morta per salvare la vita del figlio.
Lasciò andare le coperte, mentre si rannicchiava sotto di esse.
Quando fu più tranquilla, si rese conto che quell’inutile gelosia se ne stava andando, lasciandola con la sola consapevolezza dell’amore che provava.
E non le importava nemmeno non avere alcuna speranza.
Non avrebbe rinnegato quell’amore.
E per quanto non si facesse illusioni, si rese conto che le sarebbe bastato essergli amica, rimanergli accanto, anche quando non fosse più stata in Inghilterra, e continuare ad avere fiducia in lui.
Si sistemò meglio sotto le coperte e trovò finalmente il sonno, mentre le stelle luccicavano nel cielo, prima di lasciar spazio alla rosea luce dell’aurora e, poco più tardi, ad un sole luminoso che sembrava ricoprire l’intera città e che illuminava brillante un piccolo parco, seminascosto nel cuore della capitale britannica.
Nessuno, però, sembrava voler passeggiare tra i corti vialetti e, questo, a Severus andava più che bene. La signorina Ainsworth sarebbe arrivata di lì a poco, secondo quanto avevano discusso il giorno prima, dopo essere usciti dall’appartamento di Gawain Ainsworth, dopo che lui le aveva narrato ogni cosa.
Ygraine non lo aveva giudicato, allora, ma, nonostante fosse certo della sincerità delle parole che la giovane donna aveva pronunciato in quei frangenti, non riusciva a togliersi dalla mente il dubbio che, una volta che fosse rimasta sola, una volta che avesse riflettuto con attenzione su quanto era stato detto, avrebbe deciso di non presentarsi quella mattina.
Sarebbe stata la scelta più logica e giusta.
Nel corso della notte poteva aver riflettuto più a lungo e aver compreso che aveva a che fare con un mostro che era stato tanto patetico da non saper controllare le sue emozioni come aveva sempre fatto. Eppure, era cosciente di aver perso così il controllo unicamente perché aveva imparato a fidarsi della signorina Ainsworth, di un tipo di fiducia che non credeva di aver mai provato prima. Non era la fede in Albus, la fede che il proprio generale li guidasse verso la vittoria. Non era nemmeno la fede infantile che aveva nutrito nei confronti di Lily e della loro imperitura amicizia, la fede ingenua di un bambino che era scivolata nel ragazzo che era diventato e che si era infranta davanti alla porta della sala comune di Grifondoro, quando Lily lo aveva giudicato e condannato senza mai porgli una sola domanda che gli permettesse di spiegarsi.
La fiducia che riponeva in Ygraine non era la fede in un generale, né quella in un’amicizia forse destinata fin da subito a morire. Si trattava di una fiducia sorta senza nemmeno che lui se ne accorgesse, che poggiava le sue radici sul fatto che la giovane donna non avesse mai nutrito alcun pregiudizio nei suoi confronti e che avesse continuato a non nutrirne, nemmeno quando gli Auror le avevano lasciato intendere che razza d’uomo fosse, nemmeno quando lui stesso le aveva svelato tutto.
Si rendeva conto, in quel momento, mentre il sole giocava sul ghiaino del sentiero deserto, che quei suoi dubbi, nati nella solitudine di una notte tormentata da incubi orrendi, erano ingiusti nei confronti della giovane donna. D’altronde, però, non era in grado di impedirsi di temere che la fiducia di Ygraine si fosse infranta nel cuore della notte e con essa la promessa di perdono espressa dai suoi occhi nocciola. Non riusciva ad impedirsi di aver paura di perdere l'unica persona che non l’aveva mai minimamente giudicato, nemmeno sapendo tutto quello che lui aveva compiuto, e quella paura lo portava a dubitare, a far aumentare la consapevolezza della sua inadeguatezza di fronte all’innocenza della giovane donna.
Quando sentì un rumore di passi sul ghiaino del sentiero, alzò lo sguardo e notò Ygraine rivolgergli un lieve sorriso, lo sguardo ancora colmo di una fiducia che sembrava, se possibile, più profonda del solito. Gli si sedette accanto. Appariva tranquilla, anche se aveva gli occhi cerchiati da occhiaie.
Nessuno dei due parlò per diverso tempo, lasciando che il quieto silenzio di quell’angolo appartato di Londra calasse su di loro, così diverso dalla tempesta che aveva squassato la città il giorno precedente.
«Rebecca ha fatto ancora cenno al padre delle lezioni di disegno?»
«Sì, ieri sera. Gawain ne sembra particolarmente soddisfatto», rispose Ygraine, voltandosi verso l’uomo. «Credo che mio fratello e mia cognata siano convinti che il disegno possa far dimenticare la magia a Rebecca.»
Severus notò che la giovane donna era preoccupata e ne aveva tutte le ragioni. Il comportamento dei genitori di Rebecca non lasciava spazio alla speranza che potessero presto o tardi accettare la magia.
«Hai pensato a cosa dire a tuo fratello?»
«Soltanto che conosco un amico che offre lezioni di disegno.»
Ygraine avrebbe voluto poter dire di più, ma la sua mente non era stata realmente concentrata sulla questione, anche se sapeva che avrebbe dovuto. E, mentre creavano una storia credibile per Gawain, ne fu quasi felice. Tutto, in quel giorno di sole, sembrava incredibilmente semplice. Era quasi come se il giorno precedente non fosse mai esistito o, forse, il giorno precedente aveva modificato qualcosa nel loro rapporto.
Chiunque fosse passato avrebbe potuto prenderli per due amici di lunga data che stavano parlando tranquilli insieme. Invece conosceva Severus da poco tempo e, al di là di qualche breve frase, gli aveva realmente parlato per la prima volta un mese prima.
Eppure, le sembrava di conoscerlo da un tempo ben più lungo.
«Che nome devo dire a Gawain e Margaret?»
Severus si voltò verso Ygraine che stava osservando il ghiaino nel sentiero di fronte a loro. Una donna passò con un cagnolino al guinzaglio, ma non li degnò di uno sguardo. Da qualche parte una campana suonò le dieci.
Aveva riflettuto sulla questione ed era giunto all’unica conclusione possibile, per quanto l’ultima cosa che volesse fare era usare, sebbene solo con due persone e solo nel caso in cui avessero voluto incontrarlo, quel nome, che portava con sé ricordi dolorosi. D’altronde anche la casa in cui viveva era colma di quelle memorie e non erano nemmeno le peggiori che avesse.
«Ho pensato ad un nome che possa sembrare incredibilmente normale. Tobias Prince.»
Non aggiunse altro e Ygraine non fece domande. Forse aveva intuito dove avesse preso il nome proprio, perché già sapeva del cognome da nubile di sua madre, dato che vi aveva fatto rapidamente cenno il giorno prima. La sua infanzia era l’unica cosa di cui non le avesse realmente parlato.
E sapeva perfettamente il motivo.
Era la parte della sua vita che più poteva suscitare pietà, per quanto fosse ormai certo che Ygraine non lo avrebbe commiserato per quello.
«C’è un’altra cosa di cui dobbiamo parlare», aggiunse, mentre una lieve brezza scuoteva appena i rami di un tiglio. «L’ultima volta che gli Auror ci hanno interrogato, è emerso il nome di Hugh Berenger e di Mathilde Waley. Conosci qualcuno che abbia questi cognomi o che abbia citato questi nomi?»
«No, ma non conosco molte persone in Inghilterra. Soltanto qualche amico di famiglia, dei vecchi compagni di conservatorio di cui ho perso le tracce e la mia pianista, Jane, ma di cognome fa Stanton e non ha mai nominato qualcuno con quei nomi.»
Il che non lo portava da nessuna parte. In qualche modo qualcuno che era a conoscenza della morte di Tristan Ainsworth doveva aver conosciuto i Berenger, altrimenti non si spiegava il modo in cui l’assassino e il suo complice tormentavano Ygraine, né la ragione per cui avessero utilizzato proprio la bacchetta di Hugh Berenger.
«Hugh Berenger, Mathilde Waley e i loro due figli più piccoli sono tra le persone che non sono riuscito a salvare», forse avrebbe potuto tacere, ma riteneva che la giovane donna meritasse una spiegazione, considerando che era fin troppo coinvolta in quella triste faccenda. «I due Babbani al museo sono stati uccisi usando la bacchetta di Hugh Berenger, che io avevo fatto recapitare anonimamente ai genitori dell’uomo. Chiunque abbia colpito quelle due persone è stato mosso dalla vendetta e chi ha commesso quel crimine, come abbiamo già stabilito, doveva conoscere anche tuo fratello.»
«Per quanto mi sforzi, non ricordo nessuno che si chiami Berenger o Waley e non credo di aver mai sentito prima questi nomi. Posso però provare a chiedere a mia madre. Domani andrò a casa sua per il compleanno di papà. Ha una memoria infallibile e credo ricordi ancora tutti i cognomi dei compagni di classe di Tristan dalle elementari in poi.»
Severus annuì. Poteva fare in modo di procurarsi l’elenco di chi aveva frequentato Hogwarts con Hugh Berenger e di Mathilde Waley e poi compararli con i nomi che gli avrebbe portato Ygraine.
«Chiedi a tua madre se ha mai sentito nominare qualcuno chiamato William Berenger. È l’unico sopravvissuto quella notte.»
«Per merito tuo?»
Severus osservò con attenzione Ygraine, che aveva parlato con voce quieta, quasi stesse facendo una constatazione più che una domanda. Era una frase semplice, quasi banale nella sua brevità, ma nessuno gli aveva mai detto nulla del genere. Non erano le frasi su un suo presunto eroismo balbettate da Potter quando era andato a casa sua. E Albus, per quanto gli avesse ripetuto fino allo spasimo di fidarsi di lui, non gli aveva mai realmente attribuito alcun merito. O, forse, il vecchio Preside non sarebbe nemmeno stato soddisfatto di sapere che era riuscito a salvare almeno William Berenger perché se fosse stato scoperto tutto il piano, accuratamente studiato e al contempo pieno di falle, fatto com’era di segreti e di cose non dette, sarebbe in parte crollato.
«Era l’unico a non essere in casa, l’unico per cui ho potuto fare qualcosa, ma i suoi fratelli minori sono stati uccisi sotto i miei occhi e non ho potuto far nulla per fermare chi era con me, per alleviare la loro sofferenza. Li ho lasciati morire e…»
«Severus…», lo interruppe quietamente Ygraine posando una mano sulla sua. Era un tocco lieve e rassicurante e colmo del perdono che sapeva di non meritare e che desidera disperatamente. «Immagino che il ragazzo non sappia che ti deve la vita.»
«No, e ritengo che non lo crederebbe. Avevo sperato di non rivederlo dopo quella sera, ma era a Hogwarts l’anno dopo, durante la mia presidenza. Non so cosa ne sia stato di lui, quando tutto è finito. Ho unicamente la certezza che non era tra le vittime della battaglia.»
Quando il primo settembre l’aveva visto seduto tra i Tassorosso aveva creduto in un abbaglio. Aveva sperato che il giovane Berenger avesse deciso di darsi alla fuga. Ricordava di aver sentito, l’anno precedente, prima che tutti i suoi vecchi colleghi lo odiassero, Pomona dire che una parte della famiglia viveva in Spagna. Era stato certo che dopo la morte dei genitori e dei fratelli fosse andato nella penisola iberica; invece, era entrato in Sala Grande ed aveva dovuto sopportare i suoi continui fallimenti nei confronti degli studenti che avrebbe voluto e dovuto proteggere.
«Quando parlerai con tua madre, ricordati di nominare anche i cognomi Green, Taylor e Thomson.»
«Credi che gli Auror siano coinvolti?»
«È l’unica conclusione logica e uno dei tre deve essere legato ai Berenger e, in qualche modo, a tuo fratello. Per questo occorre prendere delle precauzioni anche per il tuo lavoro. Sei già stata attaccata una volta a teatro», sentì la mano di Ygraine tremare sulla sua, che non aveva nemmeno pensato di spostare, forse perché gli stava dando la pace che tanto aveva cercato, forse perché gli faceva credere che il perdono potesse essere possibile. La giovane donna si era fatta pallida e poteva immaginarne il motivo: chiunque avesse ucciso quei due Babbani, chiunque l’avesse aggredita aveva reso improvvisamente pericoloso il lavoro che amava. «Hai altre recite di Otello
«Soltanto una, lunedì. Da giovedì inizierò le prove per Lohengrin
«Un estraneo può assistere alle prove?»
«Devo chiedere al direttore d’orchestra, ma non credo che abbia problemi in tal senso. Ho già lavorato con lui e un mio collega era sempre accompagnato da qualcuno. Ogni tanto ci sono anche degli altri lavoratori del teatro che si fermano alle prove.»
Ygraine si sentì improvvisamente più tranquilla, mentre prendevano accordi su cosa dire di preciso alla direzione del teatro e, subito dopo, al direttore d’orchestra. E provò lo stesso senso di sicurezza che aveva sentito la sera della prima di Otello quando si era aggrappata a Severus.
E continuò a sentirlo anche quando gli chiese in che modo Rebecca potesse mettersi velocemente in contatto con lui.
E si sentì al sicuro anche quando propose di chiedere le chiavi dell’appartamento di Tristan alla madre il giorno dopo e di far vivere lì il gufo che Severus avrebbe procurato affinché lei o la bambina potessero contattarlo rapidamente. E l’appartamento sarebbe stato anche un ottimo rifugio per le lezioni di disegno di cui avrebbe parlato con Gawain il giorno dopo.




Gran Bretagna, 10-11 febbraio 2002


Il paesaggio scorreva veloce intorno all’automobile, mentre Gawain guidava verso la casa dei loro genitori. Ygraine sperava che mamma e papà non si accorgessero delle tensioni tra Rebecca e i suoi genitori e tra lei e il fratello. Avrebbe già dovuto chiedere la chiave dell'appartamento di Tristan e non voleva aggiungere ulteriori preoccupazioni il giorno del compleanno di papà.
«Conosci un insegnante di disegno?»
Ygraine quasi sobbalzò alle parole del fratello. Si era aspettata di dover essere lei a introdurre l’argomento ed aveva pensato di farlo a casa dei genitori. Trattenne un sorriso, mentre si diceva che Gawain stava rendendo tutto più semplice.
«C’è un uomo che conosco. Fa bozzetti teatrali e illustra libri, ma, nel tempo libero, offre lezioni di disegno.»
«Rebecca vuole imparare a disegnare e io e Margaret pensiamo che sia un’ottima idea.»
«Posso contattarlo e chiedergli se vuole dare lezioni di disegno a Rebecca, ma sono quasi del tutto certa che accetterà. Ultimamente si è lamentato del fatto che nessuno sembra più interessarsi a quest’arte.»
Ygraine evitò di lanciare un’occhiata alla bambina che era seduta silenziosa accanto a lei. Il giorno precedente era riuscita a spiegare tutto a Rebecca, dopo che Gawain e Margaret si erano già ritirati per andare a dormire e l’aveva rassicurata. O aveva tentato di farlo. In quel momento, aveva paura di tradirsi, di fare un passo falso. Era sembrato tutto così semplice quando aveva parlato con Severus, ma non era del tutto certa di essere una brava bugiarda.
«Puoi parlargli domani?»
«Sì, certo. Eravamo già d’accordo di vederci per un tè, come ci eravamo accordati nell’ultima lettera. Non ama la tecnologia e rifiuta tassativamente di avere un cellulare.»
«Un artista.»
La voce di Margaret era colma di riprovazione e Ygraine era certa che lo sarebbe stata ancora di più se avesse soltanto immaginato che il misterioso bozzettista e illustratore era proprio quel mago che aveva svelato a Rebecca l’esistenza della magia.
«L’importante è che accetti di incontrarci.»
«Sono sicura che non avrà alcun problema in proposito.»
Quelle parole parvero porre termine a qualsiasi conversazione. Gawain sembrava soddisfatto e anche Margaret appariva più serena, per quanto, a volte, pareva fissare lo specchietto retrovisore con qualcosa di molto simile alla paura.
Ygraine notò che sul volto di Rebecca era comparso un sorriso, il primo di quella giornata. E quello la preoccupava. Temeva che, presto o tardi, Gawain dicesse qualcosa di irreparabile che potesse ferire ancora di più la bambina.
Mentre l’auto svoltava nella strada dove si trovava la casa dei loro genitori, la giovane donna si chiese se quello sarebbe stato uno degli ultimi giorni in cui avrebbe visto mamma e papà, prima di partire per l'Italia e, subito dopo, tentò di reprimere il senso di colpa. Sapeva che era insensato rimproverarsi perché sarebbe andata a Bologna a cantare e di lì nella sua casa in Francia, ma, più i giorni scivolavano l’uno nell’altro, più le sembrava di star abbandonando la nipote.
E di star abbandonando Severus.
Mentre abbracciava mamma e papà, si chiese cosa avrebbero pensato loro di quello che stava accadendo, ma era cosciente di non potersi confidare. Se lo avesse fatto, avrebbe tradito quel poco di fiducia che Gawain ancora riponeva in lei e, con ogni probabilità, avrebbe unicamente peggiorato la situazione.
Il pranzo fu tranquillo e suo padre apprezzò i loro regali e mamma sembrava calma mentre chiacchierava dei vicini e della vecchia maestra di Gawain che si era trasferita dopo essere andata in pensione.
Forse non si era accorta di nulla.
Forse non aveva notato la tensione tra lei e il fratello o tra Rebecca e i genitori.
E fu quello che si disse, mentre la seguiva in cucina per aiutarla a riordinare.
«Cosa sta accadendo, Ygraine?»
Era stata una sciocca a pensare che mamma non si accorgesse di nulla, lo sapeva perfettamente da sola. Si era soltanto illusa di poterle chiedere le chiavi dell’appartamento di Tristan e i nomi dei compagni di scuola del fratello.
«Nulla, mamma.»
«Ti conosco, Ygraine, e conosco Gawain. I vostri rapporti sono tesi e Rebecca sembra nervosa con i suoi genitori.»
La giovane donna osservò la madre, chiedendosi cosa potesse fare. Avrebbe voluto confidarsi con la donna, ma sapeva di non poterlo fare, non senza creare una frattura ancora più profonda con il fratello. Per quanto sapesse che si illudeva nel credere che Gawain sarebbe riuscito ad accettare il dono di Rebecca, voleva, almeno per il momento, rispettare il suo desiderio di mantenere ignari i genitori.
«Gawain ed io abbiamo avuto dei dissapori, ma, davvero, mamma, non è nulla di cui devi preoccuparti.»
Sua madre non sembrava per nulla convinta dalle sue parole, ma decise di non commentare. O, forse, sarebbe tornata all’assalto in un’altra occasione.
«E Rebecca?»
«Hanno litigato. Credo che Gawain non riesca ad accettare che Rebecca stia crescendo.»
«Non sono convinta che tu sia totalmente sincera con me, Ygraine.»
La donna la stava osservando interrogativa, ma lei sapeva di non poterle dire nulla e non importava se lei non desiderava altro che chiedere consiglio a sua madre.
«Non sta a me parlare di quel che accade tra mio fratello e sua figlia, però, mamma, vorrei che tu e papà appoggiaste più che potete Rebecca.»
«Sai che lo faremo volentieri, per quanto mi chieda, Ygraine, a che cosa serva il nostro appoggio.»
«Per le sue scelte future. Gawain non è felice perché Rebecca non desidera più diventare un medico.»
«Non ho mai creduto che quella fosse la strada giusta per mia nipote ed ho sempre pensato che lo abbia detto per compiacere Gawain. Conosciamo entrambe tuo fratello e quanto abbia sempre pensato che esistano lavori che lui definirebbe normali e lavori che non lo sono.»
Ygraine annuì soltanto. Sapeva che il fratello non aveva mai pienamente apprezzato che papà fosse un filologo che viveva immerso nel mondo arturiano. Credeva che fosse per quello che era diventato avvocato e che si era innamorato di Margaret, una donna tendenzialmente ragionevole e concreta.
Fuori dalla finestra il cielo si era incupito e sembrava che minacciasse temporale. Ygraine rimase ad osservare le nuvole grigie prima di tornare a fissare la madre. Sapeva che era stata lei a trovare Tristan morto e non avrebbe mai voluto chiederle le chiavi dell’appartamento del fratello. O forse, in quel momento, non si sentiva più tanto sicura che fosse una buona idea recarsi nel luogo in cui Tristan era morto, un luogo in cui non era ancora riuscita a mettere piede.
Un tuono ruppe il silenzio che si era creato in cucina.
E un tuono risuonò a chilometri di distanza, fuori dalla casa di Spinner’s End, mentre un gufo venne fatto entrare dalla finestra della cucina.
Severus prese la lettera dalla zampa del rapace, che se ne andò senza nemmeno aspettare una possibile risposta o un po’ di cibo. Aprì l’involto e lesse rapidamente la lettera che Minerva aveva allegato all’elenco di nomi che le aveva richiesto, senza nemmeno fornirle troppe spiegazioni. Non sapeva neanche se risponderle. Aveva parlato con lei al San Mungo, alcuni giorni dopo il suo risveglio e credeva che si fossero detti tutto quello che c’era da dire.
Mentre osservava i nomi di tutti gli iscritti a Hogwarts durante gli anni in cui Hugh Berenger e Mathilde Waley avevano frequentato la scuola, si rese conto di quanto gli fosse ben più facile avere a che fare con Ygraine o Rebecca che con persone che lo conoscevano da ben più tempo.
Minerva era stata una sua insegnante, prima, e una collega, poi, forse anche un’amica per qualche breve anno. Eppure, con lei non si era mai esposto come aveva fatto con Ygraine in quel giorno ventoso, come aveva già fatto in altre occasioni, perché, si rese improvvisamente conto, era da tempo che non indossava alcuna maschera con la giovane donna o con la bambina. All’inizio, quando aveva accettato di prendere un tè con loro, aveva deciso di voler apparire come una persona che viveva una vita tranquilla, simile in tutto alla maggior parte dei maghi e dei Babbani, ma ad un certo punto aveva smesso di nascondersi. Sapeva che il delitto al museo era stato fondamentale, perché, in qualche modo, gli Auror lo avevano in parte smascherato, accennando del suo passato a Ygraine, interrogando fino allo spasimo Rebecca, perché non riuscivano a concepire che una bambina potesse essersi affezionata a lui.
Era qualcosa che non comprendeva nemmeno lui, così come non poteva spiegare la fiducia profonda di Ygraine, ma era certo che fosse stata quella fiducia, più ancora dell’affetto della bambina, a far cadere la maschera che avrebbe voluto usare, così come era stata la sua comprensione, il suo conforto, il perdono offertogli in silenzio a farlo crollare davanti a lei e ad accettare, il giorno precedente, il conforto discreto di una mano posata sulla sua.
Fuori tuonava, mentre lui leggeva i nomi, trovandone di amaramente noti e leggendone altri che parevano avvalorare la sua tesi, per quanto nessuno potesse dargli veramente una risposta, almeno fino al giorno dopo, in cui Ygraine gli avrebbe riferito quanto le aveva detto sua madre.
Sistemò i fogli in un cassetto della credenza, prima di riprendere in mano la ricerca che stava seguendo in quel momento. Non era nulla di particolarmente difficile o complesso, ma quel piccolo centro di ricerche magiche non aveva particolari ambizioni. Forse avrebbe dovuto prendere contatto con centri più importanti. In Inghilterra ve n’era uno che, però, dipendeva dal Ministero, ma l’Europa magica ne disponeva di altri e, per quel tipo di ricerche, non avrebbe nemmeno dovuto abbandonare l’isola britannica.
Era qualcosa che doveva fare, si disse, non foss’altro per dimostrare a sé stesso di non buttare ulteriormente al vento quella possibilità che il destino gli aveva dato.
Era sopravvissuto quando si aspettava di morire e, per quanto non riuscisse a perdonarsi, per quanto non fosse in grado di afferrare il perdono che Ygraine gli offriva, doveva vivere.
Lo doveva a Rebecca che contava su di lui ora che i suoi genitori parevano rifiutarla.
Lo doveva a Ygraine che aveva fiducia in lui, nonostante tutto quello che le aveva raccontato.
Lo doveva a sé stesso se non voleva odiarsi ancora di più di quanto già non facesse.
Quando finì di lavorare, fuori tuonava ancora. Cenò rapidamente e ancora tuonava e lampeggiava, quasi che il temporale non volesse ancora abbattersi sulla cittadina.
E tuonava anche quando andò a letto, nella camera in cui, un tempo, avevano dormito i suoi genitori.
Il tuono accompagnò il suo sonno ed i suoi incubi, pieni di volti del suo passato e di volti del suo presente. Si svegliò più volte nel corso della notte, senza ricordare veramente cosa avesse sognato, tranne una volta, quando al posto di Charity Burbage gli era apparsa Ygraine e lui aveva dovuto vederla morire come aveva visto morire la collega.
Aveva sentito la bile in gola non appena si era destato di soprassalto, mentre fuori aveva iniziato a piovere.
Sapeva che la situazione attuale era totalmente diversa, che lui era libero di agire non appena avesse notato qualcosa di anomalo. Aveva preso tutte le precauzioni necessarie e Ygraine aveva accettato di buon grado che lui la accompagnasse a teatro ogni volta che ci andava per provare. L’unico luogo che non poteva controllare era il quello in cui si esercitava con Jane Stanton, a casa della pianista, ma la donna era una Babbana – aveva un anno o due in più di Ygraine ed era al conservatorio quando avrebbe dovuto essere a Hogwarts – e avrebbe posto sull’appartamento della donna le stesse protezioni che aveva posizionato su quello di Gawain Ainsworth.
Eppure, quell’incubo rivela i suoi timori più profondi.
Sapeva di fidarsi della giovane donna.
E poteva ammettere con sé stesso di considerarla un’amica.
E poteva ammettere con sé stesso di aver paura di perdere anche quell’amicizia, di distruggere, in qualche modo, ancora una volta quanto di positivo riusciva ad entrare nella sua vita.
E poteva ammettere con sé stesso di aver timore di fallire, di non riuscire a salvarla, nel caso in cui l'assassino e il suo complice avessero deciso di assalirla.
Non riusciva nemmeno a tranquillizzarsi, dicendosi che fino al giorno nel camerino non le avevano fatto nulla, che, anche quella sera, avevano voluto unicamente spaventarla. D'altronde, il loro piano di vendetta era complicato e mutevole. Era certo che l'uccisione dei due Babbani e il ritrovamento successivo della bacchetta di Berenger fossero un modo contorto per farlo accusare di quell'omicidio, con la speranza, forse, di trovare chissà quali prove incriminanti a casa sua. Avevano, d'altronde, coinvolto Ygraine fin da subito con quelle lettere anonime e facendola seguire dal suonatore di organetto.
Sapeva di aver preso tutte le precauzioni possibili, ma non riusciva a togliersi dalla mente l'idea di aver sottovalutato un particolare o di non averne considerato un altro.
La pioggia cessò, a un certo punto, nel cuore della notte, mentre era ancora desto, dopo quell'incubo vivido, e il giorno dopo l’intera isola era illuminata da un sole velato da qualche nube.
Ed il sole illuminava i passi di Ygraine mentre si avvicinava, con il cuore in gola, allo stabile dove un tempo aveva vissuto Tristan. Era stata una sua idea e ormai non poteva più tornare indietro. Sapeva che Severus l’avrebbe raggiunta con il gufo che aveva procurato a Rebecca e che sarebbe vissuto lì per gli anni che avrebbero separato la nipote da Hogwarts.
Sperava ancora che Gawain arrivasse ad accettare la magia, che si rendesse conto che non c’era nulla di male in quello che stava accadendo e che quel sotterfugio non dovesse durare a lungo, ma il più delle volte temeva che non ci fosse altra alternativa.
Quando raggiunse l'edificio, notò che Severus era già arrivato. Guardò l’orologio e si accorse di essere in ritardo, nonostante fosse uscita di casa per arrivare in anticipo. Forse, aveva inconsciamente rallentato il passo per arrivare il più tardi possibile o, forse, aveva voluto entrare insieme all’uomo.
«Mi scuso per il ritardo», gli disse trafelata, mentre apriva il portone d’ingresso.
L’uomo non commentò le sue parole, mentre la osservava con attenzione. Quando raggiunsero il secondo piano e la porta dell’appartamento che era appartenuto a Tristan Ainsworth, notò che le mani di Ygraine tremavano appena, mentre armeggiava con le chiavi, fino ad aprire la porta.
Si ritrovarono subito in un salotto di modeste dimensioni con i mobili ricoperti dalla polvere. Un libro giaceva aperto su un tavolino e alcuni quaderni erano appoggiati sullo scrittoio che si trovava accanto all’unica finestra, i cui tendoni erano aperti.
La signorina Ainsworth si trovava un passo davanti a lui, ma si era fermata e non sembrava riuscire ad avanzare. Posò per terra la gabbia coperta da un telo che conteneva il gufo per Rebecca, che la donna non sembrava nemmeno aver notato, come non sembravano, d’altronde, averlo fatto i pochi passanti che lo avevano visto, mentre l’aspettava.
«Credevo che… non hanno spostato nulla», non fosse stato per la polvere sarebbe sembrato che il padrone di casa fosse uscito da poco o che si trovasse in un’altra stanza. «Io…»
«Possiamo andarcene.»
«No. Credo che debba solo pulire e sistemare la casa», Severus rimase per qualche istante immobile, mentre la giovane donna avanzava verso il tavolino e prendeva in mano il libro aperto. La seguì, tenendosi discretamente a distanza. «Stava leggendo le Confessioni di Sant’Agostino. Diceva sempre che era stato questo testo a spingerlo a scegliere filosofia come facoltà.»
Ygraine chiuse il volume e tornò a posarlo sul tavolino, mentre si chiedeva se dovesse aggiungere qualcos’altro. Per qualche istante, dopo aver aperto la porta aveva immaginato che di lì a poco avrebbe visto il fratello uscire dalla porta dell’angusta cucina dell’appartamento, ma Tristan era morto da più di un anno ormai e lei lo sapeva perfettamente.
Avrebbe voluto voltarsi verso Severus ed aggrapparsi a lui, come aveva fatto nel camerino. Quel desiderio aveva poco a che fare con i sentimenti che provava per lui, quanto piuttosto con il modo in cui l’aveva fatta sentire al sicuro quella sera. O forse, voleva unicamente che le trasmettesse parte della forza d’animo che lei ammirava, quella forza d’animo che gli aveva permesso di essere una spia di fronte ad un mago che era ben felice di sapere morto.
«Vado a prendere le cose per pulire.»
Severus la seguì silenzioso verso una delle porte che si aprivano sulla stanza. Al di là poteva vedere una cucina lunga e stretta, probabilmente ricavata in maniera fortunosa quando l’edificio era stato diviso in appartamenti. Anche quell’ambiente era coperto di polvere, per quanto nulla sembrasse fuori posto. Ygraine si era bloccata sulla soglia. La sentì trarre un respiro come aveva fatto prima di uscire dal camerino la sera in cui era stata aggredita.
«Io…», la voce della giovane donna si spense in un singulto, ma non stava piangendo. Era immobile e Severus poteva immaginare che si fosse fatta mortalmente pallida. «Mamma l’ha trovato qui… ed io… ero a Parigi in quel momento e stavo cantando… e...»
«Anche se tu fossi stata a Londra, tuo fratello avrebbe agito nello stesso identico modo.»
Sapeva di aver parlato con tono brusco, ma riteneva che quello fosse l’unico modo affinché la giovane donna potesse riscuotersi, abbandonare la cucina e tornare nel piccolo salotto.
«Ma io…»
«Parlavi spesso con tuo fratello al telefono, l’hai detto tu stessa tempo fa. Ed immagino che i tuoi genitori non fossero assenti dalla vita di loro figlio.»
«Mamma ha… aveva un rapporto particolarmente stretto con Tristan. Ma… avrei dovuto accorgermi che c’era qualcosa che non andava. Era il mio migliore amico, oltre che mio fratello. Quando ho deciso di andare ad abitare in Francia, è stato con lui che mi sono confidata ed è stato il più entusiasta di tutta la famiglia… mi ha detto che aveva capito da tempo che avrei lasciato l’Inghilterra… perché io non ho capito che non riusciva più a vivere?»
La voce di Ygraine era sempre sul punto di rompersi, notò Severus, facendo un passo verso di lei. Si sentiva totalmente inadeguato di fronte alle sue confidenze. Avevano già parlato di Tristan Ainsworth e allora le aveva detto le poche frasi che gli sembravano opportune. Ma quel giorno, a casa sua, non aveva ancora rivelato il suo passato a Ygraine e non era giunto a comprendere di fidarsi profondamente della giovane donna.
«Credo che tuo fratello non abbia mai voluto far sapere né a te né ai tuoi genitori di star soffrendo.»
Ygraine si voltò verso di lui. Era pallida, come aveva immaginato, ma gli occhi non erano lucidi di lacrime pronte a scendere. Eppure, era sul punto di crollare, lo poteva vedere chiaramente dalla postura rigida e dal modo in cui stava stringendo la gonna con le mani strette a pugno.
«Ma avrei comunque…»
«No, non avresti potuto. Una persona può riuscire a far credere anche a chi gli sta più vicino di essere qualcuno di diverso da quello che è.»
Ygraine sembrò voler controbattere alle sue parole, ma dalle sue labbra non uscì altro che un singulto. Parve vacillare per un breve istante, prima di aggrapparsi improvvisamente a lui, sulla soglia della cucina impolverata dove si era suicidato suo fratello.
Stava singhiozzando, senza però versare ancora lacrime.
E stava cercando conforto in lui, a cui nessuno aveva mai chiesto prima conforto.
A teatro era stata una situazione più semplice da decifrare. La signorina Ainsworth era appena stata assalita e aveva bisogno di qualcuno per superare la paura. In quel momento, però, era unicamente il conforto che Ygraine cercava.
Le posò incerto le mani sulla schiena, quelle mani con cui aveva ucciso, quelle mani che gli parvero ancora più sporche di sangue in un terribile contrasto con l’innocenza della giovane donna.
Eppure, quella volta le sue mani non stavano portando dolore e morte, ma stavano tentando di offrire conforto.
Nessuno, prima di quel momento, si era affidato in quel modo a lui.
Nessuno, prima di quel momento, aveva cercato da lui una qualsiasi forma di consolazione. Gli era stato chiesto di uccidere, di spiare, di insegnare, di distillare pozioni e nuovamente di uccidere, ma mai di offrire conforto.
Mosse appena le mani sulla schiena del soprano, stringendola, senza quasi rendersene conto, maggiormente contro di sé.
Sentì le lacrime di Ygraine e si chiese se a lei queste potessero portare una pace più duratura, di quella che aveva portato a lui il pianto silenzioso di alcune mattine prima.
Ma la giovane aveva un animo innocente e puro, quando lui aveva commesso delle azioni orrende e terribili che avevano lacerato per sempre la sua anima.
E quel mattino tempestoso, aveva risentito farsi pressante il senso di colpa, ma Ygraine non aveva commesso alcuna colpa.
Tristan Ainsworth aveva scelto di togliersi la vita, senza che lei ne avesse alcuna responsabilità.
Lui aveva scelto di unirsi all’Oscuro Signore, aveva scelto di essere marchiato e, per quanto il Marchio Nero fosse diventata una cicatrice a malapena visibile, mai come in quel momento gli parve impresso a fuoco sulla sua pelle.
Non sapeva nemmeno se le stesse veramente donando conforto, lasciando che si stringesse a lui e tenendo le mani, nuovamente immobili, sulla schiena.
O se lo stesse, piuttosto ricevendo a sua volta.
Sentì uno strano senso di pace, mentre Ygraine piangeva aggrappandosi a lui, per quanto non sapesse spiegarsene il motivo.
E lo provò anche quando la giovane donna rimase immobile, anche dopo aver smesso di piangere.
In quel momento, nonostante tutto, nonostante il senso di colpa, nonostante le sue mani macchiate di sangue, gli pareva quasi di essersi avvicinato al perdono a cui anelava.
Era come se, cercando conforto in lui, Ygraine gli stesse donando nuovamente il perdono che gli aveva offerto quella mattina tempestosa.
Era come se parte del sangue che aveva sulle mani si stesse lentamente colando via, quasi che le lacrime della giovane donna lo avessero purificato.
Il sole giocava con la polvere che giaceva sul pavimento della cucina, con i capelli biondi di Ygraine, raccolti in una crocchia, sulle sue mani, ferme sulla schiena della giovane donna.
E Severus si permise di assaporare la pace.
E sentì il peso della colpa farsi meno gravoso.
E quella sensazione non si dissolse nemmeno quando Ygraine si allontanò da lui. Aveva gli occhi umidi di pianto, ma non fece nulla per nasconderlo. Gli sorrise grata, d’un sorriso che toccava gli occhi nocciola, che tante volte gli avevano mostrato fiducia e che non lo avevano mai giudicato.
Non dissero nulla per alcuni istanti, mentre il sole illuminava la cucina impolverata. La giovane donna era in piedi davanti a lui, gli occhi arrossati e il volto colmo di gratitudine.
«Devo pulire.»
Ygraine sapeva che avrebbe potuto dire dell’altro, ma non sapeva come ringraziare Severus per il modo in cui era riuscito a confortarla con la sua sola presenza, con le mani posate sulla sua schiena. Fino a che non era entrata nella casa del fratello, non si era resa conto di non averlo realmente pianto. Era arrivata a Londra il giorno del funerale e mamma era troppo sconvolta e papà si era rifugiato nel suo lavoro come se gli antichi poemi di cui si occupava potessero aiutarlo a superare la morte del figlio. Gawain non aveva nominato Tristan una sola volta nei giorni successivi al funerale. Lei aveva consolato Rebecca, ma non era riuscita a piangerlo realmente, fino a quel giorno.
«Torna nell’altra stanza. Ci penso io.»
«Grazie. Di tutto.»
La giovane donna notò che Severus aveva preso in mano la bacchetta, la stessa con cui le aveva curato le ferite a teatro. Non rimase ad osservarlo, ma andò nel salotto in cui tante volte aveva parlato con Tristan. In quel momento si sentiva più tranquilla. Iniziò a riordinare, sistemando i libri e i quaderni, chiedendosi se dovesse parlare con mamma di come aveva trovato l’appartamento, un tempo appartenuto ad un prozio scapolo, che l’aveva lasciato nel testamento a Tristan.
Si avvicinò ad una delle finestre e l’aprì, per far uscire l’odore di chiuso. E mentre lo faceva rifletté sulle ultime frasi che le aveva detto Severus prima di aggrapparsi a lui.
Sapeva che quelle parole dovevano essere state una realtà per lui perché era quello che doveva aver fatto quando era stato una spia, quando aveva rischiato ogni giorno la vita, senza che nessuno si rendesse veramente conto di quello che stava facendo, delle nuove ferite che si aggiungevano al suo animo.
E quelle parole dovevano essere state ancora più vere durante l’ultimo anno di guerra.
E riusciva ad immaginarlo, nella più assoluta solitudine delle stanze del preside, oppresso dall’impossibilità di salvare le vittime del mago oscuro, mentre l’odio per sé stesso aumentava costante.
Sperava che, con il tempo, almeno quell’odio iniziasse lentamente a diminuire, che, un giorno, potesse lasciarlo del tutto.
Si voltò verso la porta della cucina, quando lo vide uscire. Il sole che entrava dalla finestra spalancata illuminò i capelli neri e il volto pallido del mago.
E il sole spandeva i suoi raggi sulla capitale, insinuandosi oltre un tendone chiuso, illuminando un tavolo e i profili di due esseri umani, che stavano confabulando da tempo. Parlavano di piani carichi d’odio e di vendetta. Il momento opportuno si sarebbe palesato a tempo debito, disse uno dei due, e quando questo sarebbe accaduto coloro che avevano perso sarebbero stati vendicati.
E il sole spandeva i suoi raggi sull’ufficio di Gawain Ainsworth. Quella mattina era stata una giornata insolitamente tranquilla. Sembrava che nessuno avesse bisogno di un avvocato quel lunedì.
E questo gli lasciava fin troppo tempo per riflettere.
Il giorno precedente sua madre lo aveva fissato in modo strano, dopo che aveva parlato con Ygraine, ma non gli aveva fatto nessuna domanda. Era certo che avesse tentato di sapere qualcosa dalla sorella ed era altrettanto sicuro che questa avesse avuto il buon senso di non parlare della magia con mamma.
Sperava che le lezioni di disegno potessero distogliere Rebecca da quella sorta di malattia, che tutto potesse finire in pochi mesi, in modo da poter tornare a riavere in casa sua figlia, perché quella non era più la sua bambina.
Sperava che anche la sorella arrivasse a rendersi conto di come non vi fosse nulla di normale nel modo in cui improvvisamente la bambina aveva scoperto di possedere la magia.
Ma Ygraine era un’artista e, per quanto cercasse di essere razionale, probabilmente non ragionava con lucidità. Non era mai stato felice della decisione della sorella minore di frequentare il conservatorio e di studiare canto. Aveva quasi sperato che fallisse, che decidesse di intraprendere una carriera più normale. Sapeva che Ygraine aveva un dono e, l’unica volta in cui era andato ad ascoltarla, aveva notato la sua bravura. Era anche contento per il modo in cui stava andando la sua carriera, ma era convinto che fosse proprio il suo essere artista che l’aveva fatta cadere nella rete intessuta dall’uomo che doveva aver infettato Rebecca con la magia.
Eppure, quelle lezioni di disegno potevano essere una benedizione.
Un tempo, avrebbe rifiutato di mettere in contatto la figlia con l’arte, non perché odiasse l’arte, ma per il timore che Rebecca sviluppasse la stessa sensibilità malata di Tristan. In quel momento si disse che forse, proprio nell’arte era presente l’antidoto contro la magia, che proprio l’arte gli avrebbe ridato la figlia che stava perdendo.
Quando qualcuno bussò alla porta dello studio, Gawain lanciò un’occhiata oltre la finestra, verso il cielo terso e il sole che, ormai, non era più velato com’era stato nelle prime ore del mattino.
E il sole illuminò la porta del palazzo dove si trovava l’appartamento che un tempo era appartenuto a Tristan Ainsworth.
Ygraine chiuse il portone alle sue spalle, prima di incamminarsi, accanto a Severus, verso l’appartamento di Gawain.
Mentre avanzavano in silenzio, la giovane donna ripensò al gufo che stava dormendo nella gabbia lasciata aperta. Il mago aveva predisposto una finestra affinché il rapace potesse uscire a cacciare durante la notte.
Tutto sembrava più semplice, in quel momento in cui aveva realmente pianto il fratello, in cui si sentiva certa che non avrebbe più temuto di entrare in quello che era stato il suo appartamento. Forse, aveva finalmente accettato che Tristan non ci fosse più, che suo fratello avesse compiuto la sua scelta e che lei non sarebbe mai riuscita a impedirglielo, nemmeno se avesse completamente rinunciato alla sua carriera.
E sapeva che doveva quella consapevolezza a Severus, che le camminava silenzioso accanto. Avrebbe voluto ringraziarlo in qualche modo, ma temeva di dire delle frasi prive della gratitudine che provava. O forse non avrebbe dovuto dire nulla, se non tentare, per quel che poteva, di offrirgli una piccola parte della pace che l’uomo meritava di vivere.

---
[1]Wilhelm Müller, Täuschung (Illusione), vv. 1-4. La traduzione è presa dal programma di sala dell’Accademia di Santa Cecilia.

 
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view post Posted on 7/11/2022, 12:52
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Capitolo XIX - Seconda parte


Gran Bretagna, 11-28 febbraio 2002


La notte calò quieta sull’Inghilterra, lasciando che una minuscola falce di luna apparisse nel cielo, in cui le stelle brillavano luminose, con la loro luce brillante, adatta a guidare la vita degli uomini o ad illuderli.
E gli astri illuminavano una strada in una cittadina industriale che aveva visto giorni migliori.
Severus era seduto su una delle due poltrone, poste davanti alle scaffalature ricolme di svariati volumi, un libro aperto in mano, ma non riusciva a leggere nemmeno una riga.
Non era in grado di togliersi dalla mente il modo in cui Ygraine si era affidata a lui. Quando avevano parlato, una volta finito di pulire l’appartamento di Tristan, non ci aveva quasi più pensato, ma in quel momento, nella solitudine della casa di Spinner’s End, colma dei fantasmi delle sue colpe, gli sembrava quasi di sentirla ancora mentre si aggrappava a lui, in cerca di conforto.
E si concesse nuovamente di assaporare la pace che quel gesto gli aveva donato.
Non sapeva nemmeno se fosse riuscito a darle realmente quello che cercava, per quanto la giovane donna gli avesse rivolto un sorriso grato.
Era certo, d’altronde, di aver ricevuto in cambio, più di quanto lui non avesse donato.
Ed era quella una sensazione inusitata.
Chiuse il libro e lo posò, instabile, sul bracciolo della poltrona.
Avrebbe dovuto concentrarsi su ben altri pensieri.
Il giorno dopo avrebbe dovuto indossare nuovamente una maschera, quando si sarebbe presentato al cospetto di Gawain Ainsworth. Aveva creato nella sua mente la personalità di Tobias Prince, un uomo tranquillo, forse anche un po’ ingenuo, che viveva della sua arte.
L’unica vera incognita era la reazione di Rebecca che, gli aveva detto Ygraine, sarebbe tornata con la madre, quando lui sarebbe già stato nel salotto di Gawain.
Eppure, la sua mente continuava a tornare a quei momenti trascorsi sulla soglia della cucina dell’appartamento di Tristan Ainsworth.
Non sapeva nemmeno perché si stesse fissando così tanto su quegli attimi.
O forse lo sapeva perfettamente.
Già allora ne era stato cosciente.
Già allora gli era apparso chiaro che nessuno aveva mai cercato conforto in lui.
Non lo aveva fatto Lily, per quanto lui, all’epoca, avrebbe voluto che lei lo facesse. Gli aveva posto domande sulla magia, gli aveva posto anche domande sulla sua vita familiare, senza mai però – se ne rendeva perfettamente conto – andare veramente a fondo. Gli era rimasta accanto durante i primi cinque anni a Hogwarts, ma, pian piano, aveva iniziato ad allontanarsi da lui, già prima del momento in cui quell’amicizia, a cui tanto si era aggrappato, era crollata miseramente insieme a tutte le sue illusioni.
E non se n’era nemmeno mai del tutto accorto fino a quando non aveva incontrato Ygraine e Rebecca. Ci aveva già pensato a teatro, mentre ascoltava l’Otello, ma mai come in quel giorno gli pareva di aver sempre mal valutato quello che era accaduto quel giorno lontano. Aveva pensato con certezza e costanza che tutto ricadesse su di lui, ma, in quel momento, mentre rivedeva il sorriso grato di Ygraine e la sua fiducia profonda, iniziava a dubitare di quella convinzione a tal punto radicata nel suo animo da averla considerata una verità assoluta.
Era stata Lily a allontanarlo per sempre, al punto da non rivolgergli nemmeno una parola negli ultimi due anni di scuola. Non negava certo di aver avuto una responsabilità decisiva in quello che era accaduto, ma, forse, se la ragazza non fosse stata così inflessibile, se avesse anche solo cercato di ascoltarlo, qualcosa di quell’amicizia già traballante avrebbe potuto essere salvato e, forse, il baratro in cui stava cadendo si sarebbe allontanato di qualche passo, per quanto dubitasse che sarebbe bastato quello ad impedirgli di decidere che diventare un Mangiamorte era una buona idea.
Quella era una scelta che aveva maturato scientemente, senza che nessuno lo obbligasse. Avrebbe potuto prendere un’altra decisione, anche se non fosse mutato nulla della sua vita di allora. Avrebbe dovuto capire da solo che quella era una scelta orrenda, che così facendo avrebbe distrutto qualsiasi sogno ancora possedesse di un futuro migliore. In fondo, nell’accettare che il Marchio Nero fosse impresso sul suo avambraccio aveva solo lasciato vincere i pregiudizi nei suoi confronti, aveva dato ragione a Potter e ai suoi sodali e all’idea diffusa che un Serpeverde fosse destinato, in qualche modo, a finire male. Aveva fatto vincere la sua rabbia e un desiderio di rivalsa indirizzato nel peggiore dei modi.
La sua migliore vendetta sarebbe stata ignorare le profferte dei suoi compagni di casa e perseguire una carriera di studio.
Invece, si era lasciato accecare e, alla fine, era diventato quello che gli altri pensavano che lui potesse diventare.
Per un istante si chiese se non avesse ceduto anche ai pregiudizi che Lily poteva aver nutrito nei suoi confronti. Ricordava che Petunia lo aveva definito con disprezzo come il figlio dei Piton che abitava a Spinner’s End, la via dei miserabili e dei derelitti. E forse Lily non aveva mai dimenticato le parole della sorella maggiore e, quando erano andati a Hogwarts, quando le cose avevano iniziato a farsi tese tra di loro, quei pregiudizi potevano essere riemersi.
All’epoca non aveva nemmeno fatto caso alle parole di Petunia e, dopo, era stato troppo grato per il fatto che Lily gli voleva essere amica per rifletterci veramente.
Per un istante si chiese se Lily gli fosse stata veramente amica o, meglio, si chiese se l’amicizia di Lily fosse stata pura e gratuita o se non fosse stata soltanto spinta dalla necessità di parlare con un altro mago, di avere qualcuno con cui condividere i poteri di cui tanto andava orgogliosa.
Ma non voleva trovare la risposta a quel dubbio.
Non ancora, almeno.
Eppure, una parte di lui sapeva che Lily non lo sarebbe stato a sentire come aveva fatto Ygraine quella mattina tempestosa e che non avrebbe mai cercato conforto in lui con la fiducia che riempiva sempre lo sguardo del soprano ogni volta che lo vedeva.
Ma scacciò con forza quei pensieri, cercando di ignorare le crepe che stavano iniziando a sfregiare il volto di Sancta Lilias, di quel quadro Babbano in cui aveva visto Lily, in cui aveva cercato il perdono e la pace, che, invece, gli erano arrivati in maniera inaspettata da una giovane Babbana che non lo aveva mai guardato con sospetto, che non aveva mai nutrito alcun pregiudizio nei suoi confronti, quando avrebbe potuto farlo.
Avrebbe potuto considerarlo un uomo patetico che trascorreva le sue giornate davanti ad un quadro. Avrebbe anche potuto prenderlo per uno squilibrato quando aveva parlato della magia. Invece, non aveva fatto nessuna di quelle cose.
Riprese in mano il libro, ma non riuscì a leggere nemmeno una riga per quanto si sforzasse.
I suoi pensieri sembravano vagare senza sosta.
Era come se non riuscisse più ad avere un controllo totale sul suo animo.
O forse, per la prima volta da tanti lunghi anni la sua mente non era costretta a rimanere sempre all’erta, soggetta ad un ferreo controllo.
Il giorno successivo avrebbe indossato una nuova maschera, ma fingere di essere qualcuno che non era con Gawain e Margaret Ainsworth non avrebbe comportato il livello di autocontrollo che aveva dovuto esibire davanti all’Oscuro Signore.
Ma, eccezion fatta per quell’occasione e per eventuali nuovi interrogatori da parte degli Auror, non aveva alcuna necessità di celarsi nei recessi più remoti della sua mente. Ygraine sapeva tutto di lui e Rebecca gli aveva donato il suo affetto innocente di bambina.
Ed egli avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di impedire che la giovane donna e le bambina – anche se credeva che lei non fosse affatto nelle mire dell’assassino e del suo complice – non subissero alcun danno.
Nonostante quello che aveva appreso dagli elenchi che gli aveva inviato Minerva, non era riuscito a trovare alcun possibile collegamento con Tristan Ainsworth. La madre di Ygraine non aveva riconosciuto nessuno dei nomi dei tre Auror, il che poteva unicamente portare a far pensare che il complice fosse qualcuno che aveva conosciuto Tristan e che era in contatto con uno degli Auror, rendendo particolarmente complessa la sua individuazione.
Quanto ai tre maghi di cui sospettava tutti avrebbero potuto entrare in contatto con i Beranger a partire da Emily Thomson che era stata una Corvonero come Berenger e, per quanto avesse tre anni più di lui, avrebbe potuto comunque essergli amica, soprattutto perché la sorella minore era stata nella stessa casa nello stesso anno di Berenger.
Anche Cristopher Taylor era stato ad Hogwarts insieme a Berenger, per quanto fosse di un anno più giovane e appartenesse ad un'altra casa. Eppure, era stato un Prefetto di Tassorosso e Hugh Berenger era stata Prefetto di Corvonero e poi Caposcuola. Avrebbero anche potuto stringere un’amicizia, per quel che ne sapeva lui. Dei due ricordava vagamente Taylor, che era stato un alunno del terzo anno quando lui era giunto a Hogwarts.
Michael Green, infine, poteva aver conosciuto i Berenger, tramite il fratello maggior Marc, che era stato un Grifondoro, compagno di casa di Mathilde Waley, nata come Hugh nel 1957.
Mentre ripensava ai tre Auror si chiese quale dei tre avesse a cuore i Berenger e, allo stesso tempo, potesse in qualche modo conoscere qualcuno che ritenesse Ygraine responsabile della morte di Tristan. E se poteva comprendere il motivo per cui avessero deciso di colpire lui, un mostro con le mani macchiate di sangue, non riusciva ad accettare che volessero anche tormentare Ygraine che aveva l’animo a tal punto puro da offrirgli pace e perdono.
Si guardò per un istante le mani che stringevano il libro che avrebbe voluto leggere quella sera.
Quel mattino aveva creduto che le lacrime di Ygraine stessero lavando la colpa, che il sangue stesse svanendo dalle sue mani colpevoli, ma, in quel momento gli pareva di vederle ancora lorde.
Eppure, sentiva ancora parte della pace che Ygraine gli aveva offerto, chiedendogli conforto, e ancora gli pareva che le sue lacrime avessero pulito il sangue sparso, che gli imbrattava le mani.
Ma, forse, troppo era stato il male che aveva fatto.
E, nonostante tutto, anche al di là dei suoi più intimi desideri, nulla e nessuno avrebbe potuto pulire completamente quel sangue.
Aveva accarezzato una speranza, una lieve illusione di pace, quella mattina.
Aveva tentato di sfiorare la luce dell’innocenza dell’anima di Ygraine, ma la sua anima era troppo spezzata, troppo annerita dalla colpa per poter essere guarita.
Si alzò stancamente in piedi, mentre al di fuori le stelle splendevano luminose e la luna era a malapena visibile.
E quella luna e quelle stelle illuminavano anche l’appartamento di Gawain Ainsworth e i suoi occupanti addormentati. E poi fu il turno di un pallido sole di febbraio, la cui luce fu oscurata da nuvole portatrici di una pioggia gelata che bagnò ogni cosa nella capitale e che cadde per buona parte del pomeriggio.
E fuori dalle finestre dell’appartamento, il cielo era ancora grigio, per quanto la pioggia avesse smesso di cadere, quando il campanello suonò, facendo sobbalzare Ygraine. Sapeva che non aveva alcun motivo per agitarsi, dal momento che era stato tutto preparato e lei non doveva nemmeno recitare una parte. Le bastava mostrarsi amica del maestro di disegno e quella, indipendentemente dal nome con cui l’avrebbe chiamato, era la semplice verità. Si alzò in piedi, sotto lo sguardo attento del fratello e rispose al citofono.
Quando aprì l’uscio, sorrise a Severus, invitandolo ad entrare. Per un attimo, mentre lo lasciava passare, si chiese se non avesse incespicato sul nome fittizio che avevano deciso di utilizzare. Ma, anche se era successo, Gawain non si era accorto nulla e stava, in quel momento, facendo accomodare Severus in salotto.
Quando si furono seduti e lei ebbe servito il tè, notò che il fratello sembrava leggermente teso, com’era sempre quando incontrava qualche volto nuovo, mentre Severus appariva perfettamente a suo agio. Mentre lo osservava si accorse che sembrava quasi una persona diversa, come se avesse improvvisamente indossato la maschera del tranquillo bozzettista. Anche il suo sguardo pareva diverso, quasi che l’uomo che aveva davanti fosse veramente un illustratore Babbano che non aveva mai impugnato in vita sua una bacchetta, che non provava alcun senso di colpa, che non si odiava.
Mentre sorseggiava il tè, lasciando che suo fratello ponesse delle domande a Severus, si chiese quante altre volte l’uomo avesse celato così accuratamente sé stesso. Trattenne a stento un brivido pensando a quando lo avesse dovuto fare. Era come le aveva detto, parlando di Tristan. Si poteva nascondere completamente il proprio animo e Severus doveva averlo celato sempre più a fondo durante i suoi anni di spia, quando un semplice cedimento avrebbe voluto dire la morte e forse la vittoria dell’Oscuro Signore.
«Da quanto vi conoscete?»
Severus si voltò per un attimo verso Ygraine, notando che la giovane donna sembrava essere fin troppo assente dalla conversazione. O, forse, era unicamente preoccupata per il momento in cui Rebecca sarebbe entrata dalla porta di casa con la madre.
«Da anni», rispose, distogliendo lo sguardo da Ygraine e riportandolo su Gawain, osservandone ogni minima reazione. «Ci siamo conosciuti in un museo, a Digione. Eravamo per caso nella stessa sala quando è venuta a mancare la luce. Mentre tutti gli altri visitatori si sono lasciati prendere dal panico, noi siamo rimasti nella sala e abbiamo iniziato a parlare per riempire il silenzio.»
Ygraine osservò con attenzione Severus mentre spiegava quell’incontro a suo fratello. Quando avevano parlato al parco erano stati più vaghi su alcuni particolari, ma sapeva che quello che aveva appena descritto era un evento veramente accaduto, alla Tate Britain, ben prima del giorno in cui Rebecca gli aveva chiesto un fazzoletto. Quel giorno aveva vagamento sentito la presenza di quello che all’epoca era uno sconosciuto, ma era stata troppo presa dal ricordo della morte di Tristan per potersi veramente accorgere di lui, se non per porsi qualche domanda circa la presenza costante di quell’uomo davanti a Sancta Lilias.
«Quindi lei è un illustratore di libri, oltre che un bozzettista teatrale?»
Gawain osservò con attenzione l’uomo che sua sorella aveva nominato domenica. Si era aspettato qualcuno che apparisse più simile allo stereotipo dell’artista, invece di quell’uomo tranquillo e serio e perfettamente normale. Mentre gli spiegava con calma il tipo di lavoro che faceva, si disse che poteva avere una buona influenza sulla figlia, che poteva effettivamente farle dimenticare la magia. Forse sarebbe riuscito anche a guarirla da quella specie di infezione.
Quando sentì girare le chiavi nella toppa, si voltò verso la porta, da cui entrarono Margaret e Rebecca. Non osservò la figlia, ma fissò negli occhi la moglie e le sorrise appena, sperando che la donna capisse che quel maestro di disegno era proprio quello che faceva al caso loro.
Si affrettò a presentare la figlia e la moglie, notando che il suo ospite stava osservando con attenzione Rebecca, mentre cercava, con ogni probabilità, di capire se sarebbe stata una brava allieva.
«Sono lieto di fare la conoscenza della piccola artista.»
Severus aveva notato che Rebecca non aveva idea di cosa fare. Sapeva, da quel che si erano detti il giorno precedente, che Ygraine l’aveva avvertita quando l’aveva accompagnata a scuola, ma Rebecca, per quanto fosse matura e sensibile, rimaneva una bambina di otto anni. La vide rilassarsi appena alla sua frase, ma non disse nulla.
«La perdoni. È solo timida», spiegò Gawain, ma Severus non avrebbe mai definito la bambina in quel modo.
Ricordava ancora il giorno in cui gli aveva rivolto la parola al museo, per chiedergli un fazzoletto e, qualche tempo dopo, quando gli aveva chiesto di fermarsi ed ascoltare il concerto della zia. In quei momenti avrebbe potuto sembrare quasi avventata a rivolgere così la parola ad uno sconosciuto e Severus sapeva con certezza che il suo aspetto non era quello di una persona gioviale.
«Forse potrebbe mostrarmi qualcuno dei suoi lavori.»
«Credo sia un’ottima idea, Gawain», disse Ygraine, intervenendo per la prima volta nella conversazione. Forse avrebbe dovuto essere più attiva, ma Gawain pareva voler ascoltare unicamente quello che aveva da dire Severus. «Rebecca, i tuoi disegni sono in camera tua?»
«Sì, zia.»
«Perché non ci accompagni e non ce li mostri?»
Rebecca annuì soltanto, guardando per un istante il padre che diede la sua approvazione, poi prese la mano della zia, conducendo lei e Severus verso la camera.
«Scusa per il disordine», mormorò la bambina non appena furono entrati e la porta fu chiusa alle loro spalle. «E per non essere riuscita a dire una parola… è che avevo paura di sbagliare nome.»
Severus si guardò intorno. La stanza di Rebecca era piuttosto caotica, per quanto fosse sicuro che esistessero bambini ben più disordinati.
Fuori dalla finestra il cielo era grigio e cupo e così appariva anche dalle finestre del salotto dove i genitori della bambina stavano confabulando a bassa voce.
Gawain Ainsworth era certo che il signor Prince potesse essere un vero toccasana per la figlia, che potesse distogliere la sua mente dalla magia, che la facesse ritornare normale. Gli era parso un uomo concreto e tranquillo, dallo sguardo onesto. Lo osservò tornare poco dopo e affermare che Rebecca aveva talento. Fu molto facile per lui accordarsi sulle lezioni, su quando e dove dovessero svolgersi. A quanto pareva l’uomo aveva casa in città e preferiva tenere lì le sue lezioni, cosa a cui Gawain non controbatté se non chiedendo che Ygraine potesse essere presente.
Quando l’uomo se ne andò, con la promessa di tenere una prima lezione due giorni dopo, Ainsworth si disse che tutto stava andando come doveva.
E quel pensiero rimase nella sua mente per tutta la giornata e lo cullò quasi nel sonno.
E, i giorni, scivolarono lenti l’uno nell’altro, alternando il sole alla pioggia.
E in quei giorni iniziarono le prove di un nuovo spettacolo alla Royal Opera House a cui Severus assisteva in disparte, rimanendo sempre all’erta, mentre Ygraine cantava la sua parte. Ed imparò a conoscere quell’opera che vedeva come protagonista uno sventurato cavaliere, innamorato di una donna che non si fidava di lui. Sembrava quasi ironico che la signorina Ainsworth interpretasse proprio quel ruolo, quando lei, al contrario del suo personaggio, era riuscita a fidarsi di lui fin da subito e continuava a fidarsi profondamente di lui nonostante le colpe che le aveva confessato.
E in quei giorni, una bambina si intrufolava nell’appartamento che, un tempo, era appartenuto a zio Tristan per poter imparare a disegnare, sempre accompagnata da zia Ygraine che sedeva in disparte, con in mano un libro o una partitura, mentre Severus le insegnava veramente a disegnare in modo che avesse qualcosa da mostrare a mamma e papà. E, tra un tratto di matita e l’altro, gli poneva delle domande sulla magia o sul disegno o gli parlava di quello che aveva fatto quel giorno a scuola. Ed ogni tanto andava nell’appartamento soltanto con la zia per spedire una lettera all’uomo con il gufo che aveva chiamato Hoffmann, perché era il nome del protagonista dell’opera che era andata a vedere insieme a Severus. Ed anche in quelle lettere gli raccontava quello che aveva fatto a scuola e gli chiedeva consiglio e gli ripeteva che gli voleva bene.
A volte, a Rebecca sembrava di fare con Severus tutto quello che prima faceva con i genitori, ma non voleva pensare troppo alla questione perché la risposta le faceva paura e non a causa di Severus, ma di mamma e papà.
Un giorno di metà mese, mentre lei e la zia uscivano con Severus dall’edificio dove si trovava l’appartamento di zio Tristan, Rebecca si spaventò al suono scordato di un organetto. Strinse una mano sia all’uomo che alla zia e notò l’occhiata che si scambiarono i due adulti, mentre iniziavano a camminare verso casa. Però quando le note si spensero, si sentì decisamente più tranquilla e le parve, per un istante, che loro tre fossero quasi come una famiglia.
E quel pensiero le rimase impresso nella mente, anche quando mamma e papà iniziarono a mostrarsi più affettuosi. Rebecca era contenta che stesse accadendo e sperava che mamma e papà tornassero a volerle bene, ma, quando si trovava con Severus e la zia si sentiva maggiormente a suo agio, forse perché qualche volta la mamma la guardava in maniera strana e altre volte papà la osservava a lungo, come stava avvenendo la sera del 25, in cui il cielo nuvoloso pareva aver fatto sparire qualsiasi luce notturna, inghiottendo quasi anche quella dei lampioni.
Gawain osservò la moglie leggere un racconto insieme a Rebecca e sorrise. Era da quando la figlia aveva iniziato le lezioni di disegno che sembrava che tutto fosse tornato alla normalità. Nessuno – né la bambina, né Ygraine – aveva più parlato di magia, né di quell’uomo.
Quando Margaret chiuse il libro, augurò la buonanotte alla figlia abbracciandola, come aveva sempre fatto prima che Rebecca distruggesse i vetri delle foto in salotto. Tutto era come doveva essere.
«Credi che stia guarendo?»
La voce della moglie era poco più di un sussurro, quando lo raggiunse in camera da letto.
«Ne sono quasi del tutto certo. Sembra la bambina di prima, calma e tranquilla, senza nessun moto di ribellione.»
«Ero più perplessa di te riguardo a quelle lezioni di disegno, ma credo che il signor Prince abbia un’ottima influenza su Rebecca. Sembra una persona perfettamente razionale e questo non può che fare del bene a nostra figlia.»
Gawain osservò la moglie, che si era infilata sotto le coperte al suo fianco e che aveva preso in mano il libro che teneva sul comodino. Tutto sembrava perfettamente normale da qualche giorno e l’uomo era certo che le cose non potessero che migliorare.
L’unica sua preoccupazione era Ygraine, ma la sorella era immersa nelle prove di una nuova opera e passava molte ore a teatro o a casa di Jane.
E forse anche quello era positivo.
Sua sorella si era lasciata incantare da quel Severus Piton ed aveva creduto ad ogni sua parola, con quell’ingenuità che aveva sempre notato in lei. Gli dispiaceva per lei, per il modo in cui si era lasciata manovrare, senza nemmeno accorgersi di come Rebecca stesse cambiato. Fortunatamente conosceva quel bozzettista che stava insegnando alla figlia a disegnare e, quando aveva visto l’ultima opera della bambina, gli era sembrato che quell’arte fosse incredibilmente logica e razionale, perfettamente adatta per far ritornare Rebecca alla realtà.
Era certo che tra pochi giorni la bambina avrebbe di nuovo immaginato un futuro da medico, dimenticando per sempre tutte quelle sciocchezze relative a pozioni e altri intrugli di cui non voleva nemmeno contemplare l’esistenza.
«Sono sicuro, Margaret, che Rebecca stia ritornando ad essere la nostra bambina», disse, mentre spegneva l’abat-jour posta sul suo comodino.
«Anch’io», mormorò la moglie, sfogliando una pagina del libro.
Gawain rimase per qualche istante immobile, prima di chiudere gli occhi e scivolare lentamente in un sonno sereno e privo di sogni.
Al di fuori il cielo era cupo e nuvoloso, senza che una sola stella apparisse ad illuminare la notte. Harry si sentiva stranamente inquieto, osservando quell’oscurità. Non sapeva nemmeno a cosa fosse dovuta quell’inquietudine, ma era certo che avesse a che fare con il caso del museo. Era dal giorno in cui aveva perquisito la casa di Piton con Emily che nessuno aveva più nominato quegli omicidi. E solo quello era un fatto strano.
Aveva riletto tutti i verbali e anche in quelli c’era qualcosa di insolito. Erano sempre molto superficiali soprattutto per quel che riguardava il modo in cui l’indagine era stata portata avanti.
Era quasi come se stessero volutamente nascondendo qualcosa, per quanto non riuscisse a comprendere come degli Auror di esperienza come Emily, Cristopher e Micheal potessero farlo. Uno di essi era il suo supervisore e, fino ad allora, gli era sempre sembrato scrupoloso. Anche la Thomson, per quanto gli risultasse insopportabile nel condurre quel caso, era sempre stata meticolosa e Micheal era un buon investigatore.
Eppure, in quel caso parevano aver tutti dimenticato le regole più basilari. Forse erano stati tutti troppo presi dalla convinzione che il colpevole fosse Piton per indagare sulle due vittime e comprendere se, per caso, conoscessero un mago che li avesse presi di mira.
Invece, non si capiva nemmeno come fosse finita fra le loro mani l’arma del delitto.
Il ragazzo si chiese se non dovesse parlarne con Hermione o, anche, andare a chiedere consiglio a Piton, ma, forse, prima di parlare con il mago avrebbe dovuto fare quello che gli aveva suggerito tempo prima. Doveva osservare i suoi colleghi per capire se il sospetto che si stava facendo strada in lui fosse sensato, se, effettivamente, le indagini erano state condotte in maniera così superficiale perché l’assassino era uno di loro.
Il ragazzo si staccò dalle finestre con un brivido, mentre al di fuori le nubi coprivano tutta la Gran Bretagna, portando con loro, di tanto in tanto un vento di burrasca che agitava l’Oceano e che smuoveva gli alberi lungo le strade e che muoveva le banderuole sui tetti.
Severus alzò per un istante il capo dalla lettera che Rebecca gli aveva inviato quel pomeriggio usando Hoffmann. Le parole della bambina erano speranzose. I suoi genitori sembravano essere tornati a comportarsi come un tempo e lei si sentiva più serena da quando avevano cominciato le lezioni di disegno, che, il più delle volte, si trasformavano in delle brevi lezioni relative al mondo magico o in resoconti della giornata scolastica di Rebecca, che – e di questo si stupiva – si era ritrovato ad ascoltare con interesse.
Eppure, l’uomo preferiva essere cauto. Per quanto Gawain e Margaret Ainsworth si stessero comportando con la figlia come un tempo, non poteva ignorare che la magia della bambina avrebbe potuto manifestarsi nei momenti più inopportuni e, da quello che gli aveva detto Ygraine, i due Babbani erano convinti che la magia potesse, in qualche modo, essere scacciata, come se fosse una specie di malattia.
Forse era lui a non riuscire ad afferrare la ben che minima speranza, ma troppe volte aveva sperato e t speranza era stata delusa.
Aveva sperato che un giorno i suoi genitori riuscissero ad amarlo, ma non era mai accaduto.
Aveva sperato che la sua amicizia con Lily durasse per sempre e che Lily giungesse ad innamorarsi di lui, ma anche quella speranza si era infranta.
Aveva sperato che Albus lo considerasse come un figlio, ma era stato, al più, una pedina sacrificabile.
Ed aveva nutrito tante altre piccole speranze, che erano state progressivamente deluse. Aveva anche sperato, nella sua stoltezza, di aver trovato un senso di appartenenza unendosi ai Mangiamorte.
Ed aveva sperato di poter rimediare alle sue colpe, ma aveva ben presto capito che nulla di quello che avrebbe fatto avrebbe potuto restituire le vite che aveva distrutto.
Si passò una mano sugli occhi stanchi, chiedendosi se avrebbe potuto tentare di sperare ancora, di credere che, forse, con il tempo sarebbe riuscito ad assaporare anche solo una piccola parte del perdono che gli stava donando Ygraine ogni volta che lo guardava fiduciosa, come aveva fatto alcuni giorni prima, quando era ricomparso il suonatore di organetto e Rebecca li aveva presi entrambi per mano.
La fede che la giovane donna riponeva in lui sembrava a volte diventare più profonda, colma com’era della luce del perdono.
Forse avrebbe potuto permettersi di sperare di riuscire almeno a dare nuovo sollievo alla sua anima, come era accaduto quella mattina soleggiata nell’appartamento che era appartenuto a Tristan Ainsworth.
Mentre chiudeva gli occhi, si chiese se almeno quella notte sarebbe riuscito a dormire senza che gli incubi che lo tormentavano venissero a destarlo più e più volte.
Ma fu una mera illusione.
E nel cuore della notte si destò con l’immagine di Albus che moriva per mano sua. E qualche tempo dopo furono delle immagini di morte confuse a destarlo. Ed ogni volta tornava a chiudere gli occhi fino a quando non giunse l’alba di un nuovo giorno, che si trascinò lento, fino a quando non raggiunse Ygraine al Covent Garden nel primo pomeriggio.
Quel giorno il regista, che aveva deciso di svolgere la storia in un XIX secolo con elementi medievaleggianti, sembrava essere particolarmente pignolo, mentre spiegava la sua idea per la scena che avrebbero dovuto provare quel giorno.
Ygraine si dimostrò essere una delle persone più pazienti che avesse mai conosciuto, quando la vide ripetere per la decima volta lo stesso movimento scenico. Il regista la stava tormentando da un buon quarto d’ora e il mezzosoprano, che interpretava Ortrud, pareva sul punto di scoppiare, mentre la giovane donna posava con calma la mano sinistra sui tasti del pianoforte presente in un angolo della scena. In un momento preciso, la cantante che interpretava Ortrud iniziava a calare il coperchio dello strumento sulla mano di Ygraine che doveva ritrarla di colpo appena prima che l’altro personaggio la schiacciasse.
Il regista aveva dato anche una lunghissima spiegazione del perché dovessero fare quei gesti all’inizio dell’opera, durante la sinfonia, ma Severus non era certo di essere riuscito a seguire la motivazione per cui tutto quello – che metà teatro probabilmente non avrebbe nemmeno visto – avrebbe dovuto rappresentare il tentativo di Elsa di liberarsi dall’oppressione di Ortrud, senza però realmente riuscirvi come mostrava il duetto dell’atto secondo in cui la donna convinceva la fanciulla a porre le domande proibite a Lohengrin.
«Perfetto», esclamò improvvisamente l’uomo, dopo averle fatte provare un’ultima volta.
Il maestro preparatore – a quanto gli aveva detto Ygraine il direttore d’orchestra quel giorno era impegnato in un concerto a Milano – sembrava a sua volta sollevato che quella parte delle prove fosse finita. D’altronde dopo aver provato l’arrivo di Lohengrin e le sue parole di ringraziamento al cigno, la giornata si chiuse, con il regista che trattenne per qualche istante il soprano, che annuì pazientemente alle sue parole.
Quando uscirono dal teatro la giovane donna sembrava esausta.
«Mi spiace che le prove siano durate così a lungo», gli disse, una volta che iniziarono a camminare verso la casa di Gawain.
«Di certo non è dipeso da te.»
«Credo che se ci avesse fatto ripetere la scena un’altra volta, gli avrei dovuto chiedere una pausa. Sophia stava per esplodere. Per un istante ho temuto che sbagliasse completamente il ritmo e mi schiacciasse veramente la mano.»
Ygraine stava massaggiandosi distrattamente il polso, notò Severus, ricordando che, all’ottava volta aveva ritratto il braccio troppo bruscamente. Da dove si trovava non l’aveva notato, ma, forse, poteva aver sbattuto contro il pianoforte.
«Domani potrei arrivare in ritardo con Rebecca alla lezione. La sua classe andrà a vedere uno spettacolo teatrale per bambini e la maestra ha avvisato che potrebbero arrivare un quarto d’ora dopo.»
L’uomo annuì soltanto. Rebecca aveva scritto qualcosa in proposito nella sua ultima lettera, anche se non era stata precisa come Ygraine, ed era certo che la bambina gli avrebbe raccontato ogni aspetto dello spettacolo che avrebbe visto.
E ascoltarla gli piaceva, probabilmente perché Rebecca gli parlava con affetto, probabilmente perché la nipote, al pari della zia, non aveva mai nutrito alcun dubbio nei suoi confronti.
Quando arrivarono all’appartamento di Gawain Ainsworth erano da poco passate le sei del pomeriggio. Salutò Ygraine, che gli sorrise e lo ringraziò come faceva ogni volta dopo le prove dell’opera e dopo le lezioni con Rebecca.
Quando il soprano sparì dietro il portone, Severus rimase per qualche breve istante immobile, poi si allontanò camminando rapidamente, fino al vicolo da cui si sarebbe Smaterializzato. Ed allora si sarebbe ritrovato intrappolato nella casa di Spinner’s End con i fantasmi delle sue colpe, con i suoi tentativi di assaporare quella stessa pace che si affacciava nella sua vita, a volte, quando si trovava in compagnia della giovane donna o della bambina.
Dall’altra parte della strada, una figura aveva osservato il modo in cui Piton e la Ainsworth si erano salutati. Quel giorno aveva voluto analizzare i loro movimenti di persona, per capire se quel che gli era stato riferito fosse vero e, da dove montava la guardia, nell’ombra dell’androne del palazzo di fronte all’edificio dove si trovava l’appartamento di Gawain Ainsworth, aveva notato il modo amichevole con cui i due si erano salutati. Un osservatore casuale non lo avrebbe notato, ma alla figura in ombra non era sfuggito.
E quel particolare avrebbe reso più dolce la vendetta.
E quando si allontanò, quella sensazione divenne unicamente più inebriante.
Nessuno vide la figura allontanarsi solitaria lungo la strada o, se qualcuno lo incrociò, non lo notò nemmeno.
All’interno dell’appartamento di suo fratello, Ygraine stava raccontando a Rebecca come fossero andate le prove quel giorno, mentre apparecchiavano la tavola. La cena sembrò incredibilmente tranquilla, con Gawain e Margaret che si stavano interessando alle future lezioni di disegno. Quando si trasferirono in salotto, sembrò quasi che le cose stessero tornando com’erano prima che scoprissero del dono della figlia e Ygraine sperò che tutto continuasse a quel modo, che i mesi e gli anni successivi potessero essere altrettanto quieti per la nipote.
Si ritirò per prima, quella sera, il polso ancora dolorante dopo averlo sbattuto sullo spigolo del pianoforte. Una volta tornata a casa, era stata subito assalita dalle domande di Rebecca e, dopo cena, aveva preferito assaporare la tranquillità di quella sera. Stava per andare a frugare tra le medicine in cerca di una pomata, quando udì un ticchettio contro la finestra della sua camera. Al di là c’era un gufo dall’espressione triste che allungo una zampa verso di lei. Si era ormai abituata a badare a Hoffmann quando andava a portargli una lettera della nipote per Severus e non le fu difficile prendere il pacchetto che il rapace le stava consegnando. Sulla busta riconobbe la grafia dell’uomo e quando la aprì trovò un breve biglietto e un contenitore di vetro.
Per il polso.
Seguivano le istruzioni per usare l’unguranto e l’elenco degli ingredienti – alcuni incredibilmente banali, notò Ygraine – e alcune raccomandazioni.
La giovane donna osservò il punto in cui era atterrato il gufo, ma il rapace se n’era già andato.
E le dispiacque di non poter ringraziare subito Severus, ma lo avrebbe fatto il giorno dopo. Non sapeva nemmeno che parole gli avrebbe rivolto, ma sentì in quel momento gli occhi umidi di lacrime di fronte a quel gesto gentile.
Il gesto di un uomo attento, dato che doveva aver notato che si era fatta male.
Il gesto di un uomo che avrebbe però negato di essere di una brava persona, una persona meritevole della sua gratitudine.
E si rese conto di ammirarlo ancora di più.
E sentì l’amore che provava per lui farsi più profondo.
Applicò l’unguento con cura, stando attenta a seguire alla lettera le istruzioni che le aveva scritto l’uomo, poi ripose il contenitore in un cassetto della scrivania.
E quando si addormentò, aveva un lieve sorriso sulle labbra.
Il giorno dopo passò rapido in attesa della lezione di Rebecca e questa sembrò essere ancora più rapida, iniziata con il suo ringraziamento e proseguita con le domande della bambina. E la notte passò veloce, facendo volgere il mese di febbraio al suo ultimo giorno, un giorno soleggiato e sereno, in cui, durante il pomeriggio il sole illuminò ogni angolo della capitale, anche quando, prossimo al tramonto, penetrò nell’appartamento di Gawain Ainsworth, spargendo la sua luce nel salotto.
Rebecca teneva in mano la biro, mentre cercava di inventare un’altra frase per i compiti, una frase semplice in cui non parlasse di gufi, né di lezioni di disegno in cui si parlava di magia. La maestra aveva chiesto che descrivessero il giorno precedente e, dopo aver parlato della scuola, aveva unicamente detto che era andata dal suo maestro di disegno. Poi si era bloccata. Il giorno prima aveva disegnato ben poco, perché voleva porre delle domande a Severus sul libro di pozioni che le aveva fatto avere.
«Vuoi che ti aiuti con i compiti?»
La bambina si voltò verso papà, che, quel giorno, l’era andata a prendere a scuola. La zia era impegnata, anche se non ricordava più se fosse a teatro o da Jane e mamma doveva lavorare fino a tardi.
«Sì, certo, papà.»
Anche prima di sapere della magia l’uomo l’aiutava con i compiti e le fece piacere sentirlo sedere al suo fianco sul divano. Non l’aveva nemmeno sgridata perché stava scrivendo tenendo il quaderno in equilibrio sulle ginocchia, invece di usare la scrivania che aveva in camera.
Gli fece vedere le frasi e lui le suggerì di spiegare cosa avesse disegnato. Rebecca sorrise appena, mentre descriveva il disegno che aveva iniziato la volta prima e di cui era piuttosto soddisfatta. Non le ci volle molto per finire. Chiuse il quaderno e si mise ad osservare il cielo sereno fuori dalla finestra.
Non seppe per quale ragione, ma lo sguardo le cadde sui fiori finti della mamma. Avevano tutti i petali bianchi e le parvero molto tristi per un giorno così bello e sereno. Iniziò ad immaginarli variopinti. Sarebbero stati molto più belli e più adatti a quel giorno soleggiato.
Quando tornò ad osservare i fiori erano tutti di colore diverso. Era accaduto come con la signora al museo, il giorno in cui aveva incontrato Severus.
Rebecca era certa che a papà quella magia sarebbe piaciuta, che la mamma non avrebbe più avuto paura di lei. Forse era solo il tipo di magia che avevano visto quella volta in cui aveva fatto cadere le foto che dava loro dei problemi.
«Papà», suo padre stava rileggendo il suo compito, come era stato solito fare. «Guarda, ho cambiato il colore dei fiori della mamma.»
Rebecca osservò con un sorriso papà. Lo vide alzare lo sguardo, mentre chiudeva il quaderno e lo posava accanto a lui. Non riusciva a vederne l’espressione, ma era certa che anche lui fosse felice. Lo seguì con lo sguardo, mentre si levava in piedi e si avvicinava ai fiori della mamma. Prese in mano il vaso per osservarlo meglio.
Poi gli scivolò di mano.
Rebecca sobbalzò, ma si disse che non doveva avere paura, che forse papà era unicamente stupito.
«Cos’hai fatto?»
«Una magia, papà. I fiori della mamma erano tristi ed io…»
La voce le morì sulle labbra. Papà era irritato e qualcosa nel suo sguardo le fece paura. Si alzò dal divano. Voleva unicamente andare in camera sua, chiudersi dentro e aspettare che tornasse la zia.
«Non dovevi… non dovevi.»
La voce di papà non era normale. Rebecca si mosse rapidamente, ma la mano dell’uomo le strinse il polso destro con forza.
«Non ho fatto nulla di male.»
«Perché l’hai fatto?»
Papà aveva parlato con voce strana, come se volesse urlare, ma si stesse trattenendo.
Le strinse maggiormente il polso.
E lei si mise a piangere.
«Erano tristi ed ho pensato… papà…»
Le parole le morirono sulle labbra. L’uomo la stava fissando con rabbia, con una rabbia che non aveva mai visto prima e che la terrorizzava.
Non riuscì più a parlare. Voleva unicamente che tornasse la zia, che, in un qualche modo, Severus apparisse sulla porta dell’appartamento.
Ma non accadde nulla del genere.
Poi sentì il dolore dello schiaffo.
Cercò di parlare, di dire a papà di lasciarla andare, ma non ci riuscì.
Il secondo schiaffo le fece più male del primo. E il terzo ancora di più. Sentì il sangue colarle dal naso.
«Papà.»
Gawain si fermò di colpo, la mano a mezz’aria. Rebecca stava tremando e piangendo e la sua voce era fioca e impaurita. La lasciò andare di colpo, poi rimase immobile, E non si mosse neanche quando Rebecca corse fuori dalla porta dell’appartamento.
Si guardò spaventato le mani.
Si era ripromesso di non sfiorare mai la figlia, invece era stata soltanto una promessa vuota.
Si era illuso che il disegno potesse guarire Rebecca dalla magia, si era cullato nell’illusione che la magia sarebbe scomparsa.
Se l’era ripetuto così tante volte da essere stato certo che ormai la figlia avesse già iniziato a perdere quei poteri orrendi.
Invece, la magia era ben presente.
E lui non era stato in grado di reagire in maniera diversa. Aveva perso completamente il controllo e, nel farlo, aveva fatto del male a Rebecca.

 
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Capitolo XX - Parte I

Der Wegweiser



Einen Weiser seh' ich stehen
unverrückt vor meinem Blick;
eine Strasse muss ich gehen,
die noch keiner ging zurück.

Qui vedo un segnale,
fisso davanti a me;
devo prendere la via
da cui mai nessuno è ritornato
[1]

28 febbraio – 1° marzo 2002


Ygraine salutò con un sorriso Severus che, come ogni volta che provava, l’aveva riaccompagnata a casa. Rimase per qualche istante immobile, mentre lo osservava allontanarsi, poi oltrepassò il portone e salì le scale. Si sentiva più tranquilla, in quei giorni. A teatro le prove stavano procedendo bene e credeva di essere finalmente riuscita a comprendere appieno l’idea del regista, che non condivideva del tutto, ma che aveva diversi spunti interessanti. O, forse, più banalmente le prove le permettevano di passare più tempo accanto a Severus ed apprezzava il modo in cui parlavano, in conversazioni inframmezzate da lunghi silenzi e nonostante sapesse che l’uomo non avrebbe mai ricambiato i suoi sentimenti, si sentiva felice nello stargli accanto, nel conversare con lui, nell’essergli amica.
Aprì la porta dell’appartamento del fratello, pensando alle domande che Rebecca le avrebbe posto su quel giorno di prove e a quelle che avrebbe aggiunto quando fossero state da sole, per quanto, quella sera avrebbe dovuto nascondere il regalo che aveva comprato per il compleanno della nipote.
Ma quando si ritrovò nel salotto di Gawain, della nipote non c’era traccia e suo fratello sembrava sconvolto e Margaret era nervosa, al punto che interruppe a metà una frase, mentre la scrutava.
«Hai fatto tardi. Hanno già acceso i lampioni.»
«Il direttore si è attardato su un passaggio particolare.»
La frase della cognata era particolarmente strana. La donna sapeva perfettamente che a volte le prove andavano per le lunghe, soprattutto quando si stava preparando un nuovo spettacolo e, in particolare, quel pomeriggio in cui il direttore e il regista li avevano tormentati sulla stessa scena, quasi volessero provare di essere l’uno più bravo dell’altro.
«Dov’è Rebecca, Ygraine?»
A parlare era stato Gawain e la sua voce era flebile e sconfortata.
«Perché mi fai questa domanda? Rebecca è…» si interruppe, mentre osservava con attenzione la stanza. I fiori finti di Margaret erano sparsi sul pavimento e il loro colore era decisamente diverso da quello solito. «Cos’è successo?»
Gawain non riusciva a guardare in faccia la sorella, né la moglie. Era unicamente in grado di fissarsi le mani come se appartenessero ad un altro.
«La bambina ha cambiato il colore dei fiori e…»
«Ha avuto quel che si è meritata», la voce Margaret era gelida e a Gawain fece quasi paura, come gli facevano paura le sue mani.
«L’ho schiaffeggiata più volte.»
Ygraine deglutì a vuoto, mentre cercava di calmarsi, ma le parole del fratello le parevano rimbombare nella stanza, sinistre e minacciose.
«Dov’è Rebecca?»
«Non lo sappiamo. È corsa fuori come una furia.»
«Quando?»
Lei e Severus non erano incappati in Rebecca e non poteva fare a meno di immaginarsela sperduta per Londra, sola e spaventata. Nonostante sentisse il panico farsi strada in lei, si costrinse a rimanere calma. Sapeva che a scuola i bambini avevano seguito un progetto di orientamento, in cui avevano imparato la direzione delle varie linee della metropolitana. Forse Rebecca si stava recando da Jane o a teatro e lei e Severus non l’avevano vista per puro caso.
«Qualche tempo fa… un’ora, forse due.»
«E avete avvisato la polizia? Mamma e papà?»
Nello sguardo del fratello lesse la verità. Non avevano detto nulla a nessuno e Rebecca era sparita da tempo, da un tempo che non riuscivano nemmeno a calcolare. Poteva essere ovunque e lei si sentiva totalmente impotente. Si avvicinò rapidamente al telefono, ma la cognata le si parò davanti.
«Cosa stai facendo?»
«Telefono a mamma e papà. Forse Rebecca è andata nel Kent. Vi ricorderete che hanno fatto un progetto a scuola…», Ygraine si interruppe cercando di raccogliere le idee. Sapeva perfettamente che la nipote non aveva illustrato la strada per andare dai nonni, ma era qualcosa che Margaret e Gawain ignoravano, dato che il lavoro era stato fatto tutto a scuola e loro avevano saputo unicamente dell’ottimo risultato ottenuto da Rebecca. «Se non ricordo male dovevano fare una ricerca e spiegare che mezzi di trasporto avrebbero preso per andare in un posto di loro scelta e…»
«Questo è assurdo, Ygraine. Lei non ha nemmeno nove anni», ribatté Margaret, osservandola con astio.
La giovane donna avrebbe voluto ribattere che proprio per quello avrebbero dovuto avvertire la polizia, ma le parve inutile. Gawain sembrava essere sconvolto – e forse era un bene, si disse Ygraine –, ma Margaret era fredda e astiosa e non aveva mai nominato il nome della figlia. Era quasi come se stesse parlando di un’estranea.
E adesso che sapeva quanto tempo fosse trascorso era certa che la nipote non si era recata a teatro perché sarebbe dovuta arrivare che lei era ancora al Covent Garden e non poteva nemmeno essersi recata andata da Jane, dato che la pianista le avrebbe sicuramente telefonato.
Forse si era precipitata all’appartamento di Tristan, usando la coppia di chiavi che portava sempre con sé, ed aveva deciso di mandare Hoffmann da Severus. Poteva andare rapidamente là ed accertarsi che così fosse. Osservò il fratello e la cognata, cercando di capire come spiegare loro la questione, ma sapeva di non poter dire nulla in proposito, se non voleva togliere alla nipote il conforto delle lezioni di disegno.
Le sembrava di trovarsi di fronte ad un segnale stradale e di non sapere in alcun modo da che parte andare.
O, forse, più semplicemente non aveva idea di come affrontare il fratello, di come parlare con lui, di come spiegargli che credeva che Rebecca potesse aver usato un gufo per contattare Severus, senza però mai dare realmente quella spiegazione.
E fuori dalle finestre era già sera e i lampioni erano accesi da tempo.
E le luci stradali illuminavano lo spiazzo fuori da una stazione in una cittadina che, un tempo, aveva avuto un glorioso passato industriale.
Rebecca si mise a correre non appena scese dal treno. Era rimasta attenta durante tutto il viaggio per essere sicura di non saltare la stazione. Era stata una fortuna che la maestra avesse fatto fare loro quel compito in cui dovevano descrivere un percorso da effettuare usando la metropolitana e il treno e lei aveva scelto quella città. Ed aveva memorizzato perfettamente ogni cosa mentre preparava la mappa che la maestra aveva valutato. Non era stata sicura di riuscire a farcela, invece si trovava lì e nessuno si era accorto di lei durante il percorso. Il controllore non l’aveva quasi guardata e non aveva nemmeno dovuto dirgli la frase che si era preparata.
Si fermò soltanto, quando si trovò in una strada a pochi metri dalla stazione, per chiedere indicazioni ad una signora che stava aspettando l’autobus ad una fermata sgangherata. Non si preoccupò nemmeno dello sguardo perplesso che la donna le lanciò, perché si rimise a correre.
Le parve di sentire qualcuno che la chiamava, ma non ci badò.
Le strade erano illuminate dalle luci dei lampioni e la notte pareva particolarmente cupa, ma lei non ci fece caso, fino a quando non si trovò nella via che stava cercando. Solo allora rallentò e lesse con attenzione i numeri delle case, fino a quando non trovò quella giusta.
Una luce baluginante illuminava le finestre del pianterreno.
Rebecca sorrise leggermente, prima di avvicinarsi alla porta e bussare con forza.
Attese pochi istanti poi vide l’uscio aprirsi. Alzò lo sguardo verso l’uomo poi lo abbracciò, stringendolo forte. Non badò a nient’altro, ma soltanto al fatto che era arrivata, che era riuscita ad andare da casa alla stazione a Londra e poi a prendere il treno e ad arrivare fino a lì.
Sentì le mani di Severus sulla schiena e provò immediatamente un senso di profonda sicurezza. Avvertì a malapena la porta che si chiudeva alle sue spalle, mentre iniziava a piangere stringendosi all’uomo. Era certa che se al posto di suo padre ci fosse stato lui, non sarebbe successo nulla.
La notte incombeva cupa fuori dalla casa di Spinner’s End ed i lampioni illuminavano malamente la strada silenziosa e sgangherata.
Quando aveva sentito bussare alla porta, Severus era stato convinto di trovarsi davanti Potter o qualche altro componente del Mondo Magico. Invece, Rebecca gli si era gettata contro e stava piangendo con una disperazione che non aveva mai notato prima in lei, nemmeno quel giorno al museo quando aveva parlato con Ygraine della magia accidentale che aveva compiuto a scuola contro un suo compagno.
La bambina era sola, aveva notato subito, e, se non fosse stata così bisognosa di conforto, l’avrebbe rimproverata per la sua irresponsabilità.
Ma Rebecca stava palesemente soffrendo e stava cercando conforto tra le braccia di un assassino, come aveva fatto Ygraine nell’appartamento di Tristan.
Quella volta, però, le sue mani erano meno incerte, mentre ricambiavano l’abbraccio, per quanto non facesse altro che stringere la bambina contro di sé. Era certo che avrebbe dovuto mormorare delle parole di conforto, come avevano fatto i signori Evans con Lily una volta che questa si era sbucciata un ginocchio.
Lasciò che Rebecca piangesse, senza chiederle nulla, ma era certo che fosse successo qualcosa di grave e che la bambina fosse rimasta da sola per troppo tempo. Non riusciva nemmeno ad immaginare come fosse riuscita ad arrivare da sola da Londra. Ed evitò con cura di pensare a cosa le sarebbe potuto accadere se avesse imboccato la strada sbagliata o avesse chiesto un’informazione ad una persona malintenzionata. O se fosse giunta prima che lui tornasse da Londra. Poteva quasi immaginarsela mentre lo attendeva davanti alla porta e Spinner’s End non era il luogo adatto ad una bambina sola di quasi nove anni.
Quando i singhiozzi di Rebecca si calmarono, la condusse, senza lasciarla del tutto andare, verso le due poltrone che si trovavano davanti alla biblioteca, al di là del tavolo a cui si era seduta Ygraine il giorno che era giunta altrettanto inattesa.
Aspettò che la bambina si sistemasse, prima di sedersi di fronte a lei sulla poltrona spaiata che aveva acquistato quando uno degli abitanti della via aveva deciso di svuotare casa. Con un movimento della bacchetta accese altre candele, in modo che la stanza fosse più illuminata.
«Chi ti ha accompagnata, Rebecca?»
Sapeva che era una domanda retorica, ma forse era un buon punto da cui iniziare.
«Nessuno sa che… papà…»
La bambina tirò su con il naso. Non voleva piangere di nuovo. Era una bambina grande, ormai. Tra pochi giorni avrebbe compiuto nove anni e non doveva far altro che spiegare tutto a Severus, ma era così difficile. Si mosse sulla poltrona, cercando una posizione più comoda. O forse voleva unicamente trovare il coraggio di dirgli quello che era accaduto.
Sapeva che lui avrebbe impedito a papà di farle del male.
Eppure, non riusciva a parlare.
«Cos’è successo, Rebecca?»
Solo mentre la bambina si stava muovendo l’uomo aveva visto il livido sulla guancia e le tracce del sangue che aveva perso dal naso. E sapeva perfettamente cosa volessero dire quelle tracce di sangue e quel livido.
«Stavo facendo i compiti con papà, quando… non so perché, ma i fiori finti di mamma sembravano così tristi… è successo come con quella signora al museo. Sono diventati di un altro colore e l’ho fatto vedere a papà. Ero certa che gli sarebbe piaciuto, che avrebbe capito che la magia non è cattiva. Ma si è arrabbiato tanto. E io ho insistito e lui… non mi aveva mai… mi ha…», la voce della bambina si spezzò. Era spaventata e stava lottando per non riprendere a piangere. La sentì tirare sul col naso, prima che ricominciasse a parlare. «Mi ha picchiata… e… sono scappata, appena mi ha lasciato andare il polso… mi sono messa a correre. Non sapevo dove fosse la zia. Non ricordavo più se era da Jane o a teatro… e… per un compito ho ricercato come si fa ad arrivare qui e… posso rimanere qui?»
Severus si alzò e si inginocchiò davanti alla poltrona su cui era seduta Rebecca. Era sembrato tutto incredibilmente tranquillo i giorni precedenti, mentre le lezioni di disegno procedevano nel vecchio appartamento di Tristan Ainsworth. Aveva dubitato che tutto potesse andare veramente bene per la bambina, ma aveva sperato di essersi sbagliato e, ancora una volta, le sue speranze si erano rivelate vane.
Rebecca lo stava guardando negli occhi e, quel giorno, lo sguardo della bambina non era sorridente. C’era unicamente il suo affetto per lui e la paura che Gawain Ainsworth aveva provocato.
«Non lo so», era l’unica risposta che potesse darle. Non le avrebbe mentito, perché sapeva che facendolo l’avrebbe ferita e, quel giorno, Rebecca era già stata ferita nel corpo e nell’animo. «Devo far sapere a tua zia che ti trovi qui.»
Rebecca annuì, sorridendo incerta a Severus. Forse sarebbe dovuta andare nell’appartamento che era stato di zio Tristan dove incontrava di nascosto l’uomo, che mamma e papà erano convinti fosse un bozzettista e illustratore di nome Tobias Prince. Quando tutto era iniziato, le era sembrata una specie di avventura o, meglio, si era detta che lo era, perché non voleva pensare al fatto che stava mentendo a mamma e a papà.
Osservò l’uomo, sempre inginocchiato davanti a lei, prendere la bacchetta. Poco dopo apparve una cerva argentea. Era bellissima si disse, Rebecca, anche se per un istante le parve che una zampa fosse quasi invisibile, ma doveva essere a causa della luce delle candele. Sentì Severus dire qualcosa all’animale e, mentre l’uomo parlava, le sembrò di notare per qualche secondo così rapido che le parve di esserselo immaginato, un’ala sbucare sul fianco destro della cerva.
Poi l’animale se ne andò e la stanza sembrò ripiombare nella semioscurità.
«Che cos’era?»
Fare domande sulla magia le avrebbe permesso di non pensare a quello che era accaduto e, mentre Severus le spiegava cosa fosse un Patronus e a cosa servisse, si sentì stranamente tranquilla.
«Quindi l’hai mandato da mia zia?»
«Esatto. Deve sapere che ti trovi qui.»
Mentre parlava, Severus osservò con attenzione il livido di Rebecca, poi le prese i polsi e trovò quello che Gawain Ainsworth doveva aver stretto con forza, lasciando l’impronta rossa della sua mano. Per un istante gli sembrò che suo padre fosse tornato in quelle stanze, che, come era accaduto troppe volte, stesse per scaricare le sue frustrazioni su di lui. E l’ultima cosa che desiderava era che Rebecca diventasse vittima di un padre violento, che Gawain Ainsworth seguisse la stessa china di Tobias Piton. Forse, però, la madre della bambina era diversa dalla sua e avrebbe contrastato il marito.
Si alzò in piedi e andò rapidamente nel laboratorio per prendere una lozione a cui aveva apportato diverse migliorie nei giorni precedenti.
Sentì lo sguardo di Rebecca su di lui, mentre tornava ad inginocchiarsi di fronte a lei. Poi iniziò ad usare l’unguento sul polso e sulla guancia.
E fuori la notte si faceva sempre più cupa, una notte senza stelle e senza luna, in cui tutto pareva diventare invisibile, anche i segnali stradali.
«Cos’era quella cosa?»
A parlare era stata Margaret, ma Ygraine non l’ascoltò quasi. Si sentiva incredibilmente sollevata nel sapere che Rebecca si trovava con Severus. Non voleva nemmeno pensare a come la nipote fosse riuscita ad arrivare fino alla casa dell’uomo e ai rischi che aveva corso. Le bastava sapere che, in quel momento, era al sicuro, che si trovava con la persona di cui si fidava di più al mondo.
Non sapeva nemmeno cosa fosse quella cerva argentea che aveva portato il messaggio del mago, ma non le importava.
Rebecca era con lui e questo le bastava.
«Non lo so, ma conosco chi la manda.»
Non aggiunse altro. Suo fratello era mortalmente pallido e continuava a guardarsi la mano di tanto in tanto. Sua cognata aveva un’espressione sospettosa sul volto.
«Da chi è andata?»
«Dal signor Piton», Ygraine non trovò alcuna ragione per mentire a Gawain e a Margaret. «Tieni la macchina sempre nel solito posto?»
L’uomo alzò il capo verso la sorella quando nominò quel nome. Non sapeva nemmeno cosa pensare, né come agire. Aveva fatto qualcosa che prima di allora non aveva mai compiuto, che si era ripromesso di non fare mai.
Invece, aveva schiaffeggiato Rebecca.
Eppure, per quanto si sentisse in colpa, non riusciva a sopportare l’idea che la bambina fosse scappata per andare a cercare conforto nell’uomo che l’aveva resa diversa.
«Sì, è sempre lì, come ben sai, dato che eri con noi quando siamo andati dai nostri genitori.»
Gawain osservò Ygraine annuire. La seguì con lo sguardo quando andò verso le camere e ne ritornò, pochi minuti dopo, con un borsone. Notò che stava andando a prendere le chiavi dell’automobile dal cassetto in cui le teneva, ma rimase in silenzio, esattamente come sua moglie. Non disse nulla nemmeno quando la sorella annunciò che sarebbe andata da Rebecca, aggiungendo che non credeva una buona idea che la bambina tornasse a casa quella sera.
Fuori era buio e le strade erano illuminate dai lampioni stradali a Londra come a Spinner’s End, dove Rebecca sedeva ancora sulla poltrona, dopo che Severus le aveva dato quella pomata sulla guancia e sul polso.
«Credi che la zia verrà fino a qui?»
«Forse. L’importante è che sappia dove ti trovi.»
Rebecca non aveva più nominato i suoi genitori e sembrava più tranquilla, mentre stava rannicchiata sulla poltrona. Gli aveva posto alcune domande sull’unguento che aveva usato ed era sembrava più attenta e interessata di qualsiasi allievo avesse mai avuto a Hogwarts. Poi si era accontentata di rimanere lì, in silenzio, come se le bastasse la sua compagnia.
Severus osservò il pendolo che aveva comprato allo stesso mercato di cose vecchie dove aveva trovato la credenza.
Era trascorsa più di un’ora da quando aveva mandato il Patronus, ma sapeva che ci voleva tempo perché si giungesse da Londra alla cittadina. Non aveva nemmeno idea se Ygraine avrebbe fatto in tempo ad uscire di casa e ad andare a prendere un treno, dato che non sapeva a che ora partisse l’ultima corsa.
«Vieni.»
Non le disse altro, ma la bambina lo seguì fiduciosa in cucina. Era l’unico posto della casa che aveva riallacciato alla rete elettrica dopo la morte dell’Oscuro Signore. Aveva sempre preferito cucinare usando tecniche Babbane, ma, durante i suoi anni di spia aveva ritenuto più opportuno mostrare di aver rinnegato qualsiasi aspetto della sua ascendenza Babbana. E, quando gli era stato imposto di ospitare Minus, quella scelta gli era parsa ancora più saggia. All’epoca ogni aspetto della sua abitazione era magico.
Mentre osservava la cucina, si disse che forse lui e Ygraine avrebbero dovuto pensare ad un congegno Babbano per comunicare in casi di emergenza, ma a nessuno dei due era venuto in mente. Si erano soffermati sul Mondo Magico, commettendo un imperdonabile errore. Certo, Rebecca avrebbe potuto utilizzare il gufo quella sera e forse lo avrebbe fatto, se non fosse stata così sconvolta, ma un mezzo Babbano sarebbe stato di certo più immediato.
«Si può cucinare con la magia?»
La voce di Rebecca era curiosa e lo stava seguendo con lo sguardo. L’aveva osservata, mentre tirava fuori le verdure e la carne dal frigorifero, aspettandosi che dicesse qualcosa, che gli spiegasse cosa amasse e cosa no, ma la bambina gli aveva sempre sorriso.
«Sì, ma preferisco utilizzare metodi Babbani.»
«Posso aiutarti?»
Rebecca lo stava guardando in modo diverso dal solito. Non sapeva nemmeno lui spiegarsi perché avesse quell’impressione, ma era certo che ci fosse qualcosa di nuovo nell’affetto espresso così apertamente dai suoi occhi.
Annuì soltanto, passandole alcune carote da tagliare a pezzetti. Usò sul coltello un incantesimo che aveva visto fare a sua madre, una delle rare volte in cui gli aveva permesso di aiutarla in cucina. Suo padre aveva ottenuto un nuovo lavoro e sembrava che le cose potessero andare bene per la famiglia. Aveva poi descritto l’incantesimo in un quaderno, in cui annotava tutto quello che Eileen gli diceva circa la magia.
Era stato un giorno felice, quello.
Uno dei pochi che avesse trascorso con i suoi genitori.
Rebecca stava seguendo diligentemente le sue istruzioni, ponendogli alcune quiete domande su quello che stavano facendo. Si fece anche spiegare l’incantesimo che aveva praticato poco prima, che rendeva la lama innocua per la bambina, ma comunque tagliente sugli ortaggi.
In quei momenti, nonostante quello che era accaduto a Rebecca, si sentiva stranamente in pace. Era come se, improvvisamente, la sua strada gli fosse apparsa chiara, quasi che un segnale stradale gli indicasse la bambina.
E si rese conto, mentre cucinava con Rebecca, di considerarla quasi come una figlia.
«Severus, cos…»
Rebecca si interruppe di colpo, quando sentirono bussare alla porta. La bambina scese dalla sedia su cui si era messa in ginocchio per arrivare meglio al tavolo ed osservò l’uscio, improvvisamente timorosa.
Rimase dov’era mentre Severus andava ad aprire. Si era sentita meglio, mentre cucinava insieme all’uomo. Era come se stesse condividendo qualcosa con un padre, anche se con papà non aveva mai cucinato.
Ma papà non le voleva più bene, mentre Severus gliene voleva, ne era certa, anche se non glielo aveva mai detto.
Però faceva tutto quello che avrebbe fatto qualcuno che le voleva bene. L’aveva consolata e le aveva dato quell’unguento e le aveva anche spiegato com’era stato fatto.
Sentì Severus parlare con qualcuno. Si avvicinò alla soglia della cucina e si sentì improvvisamente meglio, quando notò la zia, che corse ad abbracciare. Non sentì nemmeno quello che lei e Severus stavano dicendo. Era soltanto felice che fosse venuta e sperava che le dicesse che poteva restare lì, che poteva restarci per sempre.
Fuori dalla finestra i lampioni sembravano illuminare dolcemente la casa di Spinner’s End, diversi dai lampioni della capitale più freddi e pallidi.
O almeno così sembravano a Gawain, mentre osservava la strada fuori dalla finestra. Ygraine gli aveva mandato un SMS per informarlo che era arrivata a destinazione e che Rebecca era con lei. Non gli aveva detto altro e lui non aveva chiesto nulla.
«Avremmo dovuto essere più chiari con Rebecca, non stare a sentire tua sorella e impedirle di avere a che fare con quell’uomo. L’hai detto diverse volte anche tu, Gawain. È lui che l’ha resa diversa.»
«Questo è vero, Margaret, ma non avrei mai dovuto picchiarla… e dopo avremmo dovuto chiamare la polizia. Se lo avessimo fatto, l’avrebbero trovata subito e adesso non sarebbe…»
Non riuscì nemmeno a finire la frase.
Era sempre stato certo di amare la figlia.
L’amava ancora.
Eppure, non riusciva ad accettare che Rebecca non fosse come tutti gli altri bambini, che non potesse fare la carriera che aveva sempre detto di voler fare.
Non avrebbe dovuto picchiarla e si sentiva il peggiore dei padri per quello, ma non era riuscito a trattenersi, non quando la figlia aveva fatto qualcosa che gli rammentava quello che voleva dimenticare ogni giorno.
«Posso chiamare Ygraine e dirle di riportarla a casa. Non è lei la madre di Rebecca. Potremmo denunciarla per sottrazione di minore.»
Gawain si voltò verso la moglie. Margaret aveva parlato con durezza, ma vedeva che era spaventata, che era terrorizzata tanto quanto lui.
Nessuno dei due sapeva cosa fare ed era certo che, nonostante le sue parole, la moglie non volesse avere Rebecca a casa quella sera. Ygraine aveva detto qualcosa circa il fatto che i bambini non sapevano ancora controllare la magia e lui non voleva che accadesse null’altro del genere.
«La chiameremo domani mattina. Avrà delle prove a teatro e dovrà riportarla per forza.»
Al di fuori della finestra i lampioni illuminavano i segnali stradali e così facevano su tutta l’Inghilterra e fuori dai vetri della casa di Spinner’s End.
Ygraine stava osservando Rebecca e Severus, mentre tutti e tre si trovavano intorno alla tavola della cucina. Era come se quel giorno il loro rapporto si fosse evoluto, come se si fossero fatti più vicini. Non sapeva cosa si fossero detti nel tempo che lei aveva impiegato per arrivare, ma era come se la bambina avesse compiuto l’ultimo passo per trovare nel mago una nuova figura paterna. Già da tempo aveva notato che qualcosa del genere stava accadendo, ma non era mai stato evidente come nelle ultime settimane. Quando erano sole, Rebecca nominava ben più spesso Severus che non Gawain e non sembrava nemmeno importare che, negli ultimi tempi, prima di quella maledetta sera, il fratello pareva aver ritrovato in parte i suoi modi affettuosi verso la figlia.
Quando era arrivata e la nipote le aveva detto che stavano cucinando insieme aveva sentito le lacrime pungerle gli occhi, ma le aveva ricacciate indietro. Non sapeva nemmeno se avesse voluto piangere per l’affetto che legava così strettamente la nipote e Severus oppure per l’enormità di quello che era accaduto, ma era cosciente di doversi mostrare forte con la nipote.
Non aveva mai creduto possibile che Gawain potesse picchiare Rebecca. Non era mai stato violento prima di allora, né lo aveva mai visto perdere realmente la calma. Suo fratello era una persona tranquilla, forse noiosa, ma prima di allora non aveva mai fatto del male ad anima viva.
«C’è un albergo in questa cittadina?» domandò a Severus, quando ebbero finito di mangiare. «Ho detto a Gawain che non saremmo tornate a casa stasera.»
«Non possiamo rimanere qui, zia?»
La voce di Rebecca era timida, titubante quasi e la nipote non aveva mai dimostrato quell’incertezza prima di allora. Ygraine sentì una rabbia sorda nei confronti del fratello e della cognata e sentì un profondo dolore per quello che la bambina aveva subito.
«Non vorrei…»
«C’è posto per entrambe.»
Severus sapeva di aver parlato bruscamente, ma a quanto pareva a Rebecca non importava dato che stava sorridendo felice e Ygraine appariva stranamente sollevata. Le lasciò da sole, dopo che la giovane donna lo ebbe ringraziato con un lieve sorriso.
Salì al piano superiore ed aprì la stanza in cui aveva dormito fino al giorno in cui suo padre era morto, poco dopo che il Marchio Nero era stato impresso sul suo avambraccio sinistro, poco dopo il suo primo omicidio.
Era da quando vi aveva dovuto far dormire Minus che non ci metteva piede, se non per pulirla a fondo e sistemare i mobili.
Aprì l’unica finestra, facendo entrare la luce dei lampioni, prima di iniziare a pulirla con la magia.
Sapeva di aver agito d’istinto quando aveva interrotto Ygraine, ma il volto di Rebecca si era fatto improvvisamente pallido e la voce timida e titubante, come non l’aveva mai sentita prima. Si sentiva in dovere di proteggerla, di vegliare, anche solo per quella notte su di lei.
Quando fu soddisfatto del lavoro fatto, si spostò nella camera che era stata dei suoi genitori e che era diventata sua dopo la morte del padre. Si affrettò a cambiare le lenzuola e a trasferire quello che gli serviva nell’altra stanza.
Quando tornò in cucina, zia e nipote stavano lavando e asciugando i piatti. Ygraine stava cantando una melodia cullante, con la voce che era ormai giunto a conoscere bene e ad apprezzare.
Tutto era pacifico nei loro gesti, così diverso da altri gesti che erano avvenuti in quella casa. Chiuse per un istante gli occhi, cacciando qualsiasi ricordo della sua infanzia in un angolo sperduto della sua mente, poi si avvicinò a loro, mentre Rebecca asciugava con cura l’ultimo piatto.
Scambiarono alcune tranquille parole, prima di accompagnare la bambina al piano superiore, nella sua stanza, dove quella notte avrebbero dormito le sue ospiti. Mentre Rebecca gli augurava la buona notte, si rese conto che quella era la prima volta che invitava qualcuno a casa sua. Aveva dovuto ospitare Minus per ordine dell’Oscuro Signore, ma mai, prima di quel momento, aveva chiesto a qualcuno di rimanere nella sua casa, nemmeno a Lily.
Quando tornarono al piano inferiore, la notte appariva ancora più cupa e a Severus parve che anche il volto di Ygraine si fosse fatto più cupo o, forse, era semplicemente preoccupato per la nipote e per quello che sarebbe accaduto il giorno dopo quando avrebbe dovuto riportare la bambina dal fratello.
Nessun dei due parlò per diverso tempo, quando si sedettero sulle poltrone, lasciando quasi che la notte li cullasse con il suo silenzio.
«Domani dovrò riportarla a Londra?»
Ygraine sapeva che era una domanda retorica, ma sperava quasi che Severus le dicesse che non avrebbe dovuto farlo, che c’era una qualche soluzione a cui lei non aveva pensato mentre guidava verso la cittadina.
«Sai che è l’unica soluzione possibile.»
La giovane donna aveva il volto stanco e l’uomo si chiese per un istante se tutta quello che stava accadendo a Rebecca non fosse frutto delle sue scelte. Se, all’origine di tutto, se dietro le lacrime della bambina e il volto triste di Ygraine non ci fosse stata la sua decisione di accettare quell’invito a bere un tè, perché aveva egoisticamente voluto sperimentare cosa volesse dire essere una persona normale. Oppure, il vero problema stava nel fatto che aveva scelto di parlare della magia a Rebecca. Avrebbe potuto non dire nulla, accettare l’invito e tacere, ma gli era sembrato giusto spiegare alla bambina ogni cosa, per renderla consapevole di quello che le stava accadendo. Aveva sempre trovato controproducente che ai maghi figli di Babbani venisse spiegato cosa fossero soltanto in occasione del loro imminente arrivo a Hogwarts.
Ma avrebbe anche dovuto sapere che alcuni dei genitori di Nati Babbani faticavano ad accettare la magia.
«Ho paura di quello che potrebbe accadere domani e ho paura di quello che potrebbe avvenire quando lascerò Londra ad aprile. Mi auguro che Gawain non agisca più in quel modo. Sembrava sconvolto ieri, ma… mamma ha lavorato per qualche tempo nei Servizi Sociali, prima di aprire una piccola libreria in paese, e ci ha sempre lasciato intendere che spesso le cose peggiorano soltanto. Voglio sperare che questo non succeda a Gawain, ma potrebbe accadere di nuovo e…»
«Tua cognata come ha reagito?»
Severus la interruppe. Avrebbe potuto dirle che sua madre aveva ragione, che in molte situazioni le cose non facevano che peggiorare e che lui lo sapeva perfettamente. Anche suo padre si era mostrato sconvolto la prima volta che lo aveva picchiato e la seconda volta gli aveva promesso che non l’avrebbe fatto più. E sua madre era stata a guardare ogni volta senza muovere un dito.
«Ha detto una cosa orribile… ha detto che Rebecca aveva avuto quello che si meritava.»
Il che rendeva Margaret Ainsworth ben più pericolosa del marito, si disse l’uomo. Il fratello di Ygraine aveva colpito fisicamente la figlia, ma i danni peggiori sarebbero arrivati dalla madre. Ed era qualcosa che non sarebbe mai dovuta accadere. Rebecca era una bambina felice, dalla vita tranquilla, ma i suoi genitori stavano distruggendo tutto quello perché non riuscivano ad accettare che la bambina fosse una strega.
Ricacciò in un angolo della sua mente l’idea che Rebecca fosse stata una bambina felice fintanto che non aveva incontrato lui, che l’unica cosa che era in grado di fare era distruggere quel poco di buono che illuminava la sua miserevole vita.
Alla bambina non serviva la sua autocommiserazione, ma la sua comprensione e il suo appoggio. E non le serviva nemmeno la rabbia che provava nei confronti di Gawain e Margaret Ainsworth, perché sapeva che non l’avrebbe portato da nessuna parte. Se voleva proteggere, per quel che poteva Rebecca, avrebbe dovuto agire diversamente.
«Domani è in programma una lezione di disegno», disse, senza commentare la frase di Ygraine, ma il tono di voce della donna era stato incredibilmente rassegnato ed era certo che avesse compreso anche lei che la cognata poteva essere il peggiore dei genitori di Rebecca. «Parlerò con tuo fratello e farò di tutto per convincerlo ad aumentare il numero di lezioni settimanali.»
Sapeva che non era abbastanza, ma avrebbe potuto controllare con assiduità la bambina anche dopo che Ygraine sarebbe partita per l’Italia tra un mese e mezzo circa, una data a cui, il più delle volte, evitava di pensare.
«Forse dovrei parlare con i miei genitori. Mamma ha già notato che c’è qualcosa di teso tra mia nipote e mio fratello e sono certa che saranno di supporto a Rebecca.»
Il silenzio tornò ad avvolgere per qualche lungo istante la stanza, mentre al di fuori la notte si faceva sempre più cupa.
E la notte avvolgeva tutta l’isola.
Ed un paio di occhi verdi stavano osservando inquieti quella notte.
Harry era stanco, per quanto quel giorno al lavoro non fosse accaduto nulla e lui ne aveva approfittato per prepararsi alla prova che avrebbe sancito la fine del suo apprendistato.
Ma, a voler essere sincero, non aveva pensato realmente a quel momento. Aveva trascorso il suo tempo ad osservare discretamente – o almeno sperava di averlo fatto – Cristopher, Micheal ed Emily.
E l’idea che uno di loro fosse coinvolto negli omicidi del museo si era fatta sempre più forte. Aveva riletto nuovamente i verbali e appuntato tutto quello che gli era apparso sospetto.
Mentre osservava l’oscurità dell’ultima notte di febbraio, si chiese se non dovesse mettere ordine nelle sue idee. Era certo che se ne avesse parlato con Hermione, l’amica gli avrebbe suggerito di mettere nero su bianco le sue impressioni. E, in quell’occasione, poteva essere un’ottima idea.
Prese tre fogli di pergamena e vi scrisse tutto quello che sapeva e che aveva notato degli altri tre Auror. Lavorò alacremente e, quando finì, si chiese cosa avrebbe dovuto farne con tutte quelle annotazioni che, per quanto si fosse impegnato, apparivano disordinate persino a lui.
Eppure, gli pareva di aver trovato una direzione da intraprendere.
Quando andò a letto, si sentiva soddisfatto del modo in cui aveva analizzato ogni singola cosa. Forse avrebbe dovuto parlarne con Piton, ma sapeva che il giorno dopo sarebbe stato impossibile, considerando che Cristopher gli aveva chiesto di stare al lavoro fino a tardi perché lui doveva andare ad espletare alcune pratiche burocratiche che gli avrebbero portato visa l’intera gioranta.
Al di fuori della finestra la notte era ancora oscura e il mattino portò con sé nuvole grigie cariche di pioggia, che iniziò a cadere non appena Ygraine mise in marcia l’auto del fratello.
Alla giovane donna sembrò quasi che quel clima rispecchiasse il suo proprio animo.
E quello della nipote che era seduta dietro, rannicchiata contro Severus che aveva accettato la richiesta di Rebecca di andare a Londra con loro.
La giovane donna cercava di tenere a bada le proprie paure, mentre guidava sotto la pioggia battente. Quel mattino aveva telefonato a Gawain che le aveva fatto sapere che sarebbe rimasto a casa da lavoro quel giorno, al contrario di Margaret.
E quello era sicuramente un bene.
La sera prima aveva chiesto a Severus di andare con lei a parlare con i genitori e si erano accordati perché lei accennasse loro qualcosa il giorno del compleanno di Rebecca durante il quale sarebbero stati nel Kent.
Forse se avesse avuto il supporto di mamma e papà, le cose sarebbero cambiate, forse loro sarebbero stati in grado di far comprendere a Gawain che non ci fosse nulla di strano in Rebecca, ma quando parcheggiò la macchina a Londra si sentì unicamente riassalire dalla paura di quello che sarebbe potuto accadere nelle settimane successive.



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[1] Wilhelm Müller, Der Wegweiser (Il segnale stradale), vv. 13-16. La traduzione è presa dal programma di sala dell’Accademia di Santa Cecilia.
 
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Capitolo XX - Parte II

Der Wegweiser


2-5 marzo 2002


Quando Harry raggiunse la casa di Spinner’s End si sentiva incredibilmente sicuro di sé, come non gli era mai capitato in altre occasioni. Aveva parlato dei suoi sospetti con Hermione e l’amica lo aveva aiutato a sistemare i suoi appunti.
Sperava, però, che Piton potesse dargli un’altra prospettiva, che anche lui, in qualche modo condividesse i suoi stessi sospetti.
Bussò all’uscio e non dovette attendere molto prima che l’uomo venisse ad aprire. Non gli disse una parola, ma lo fece entrare. Harry notò che tutto era in ordine nella stanza, fatta eccezione per quello che sembrava essere un disegno che giaceva abbandonato sulla credenza e che gli sembrava incredibilmente fuori posto.
«Hai finito di guardarti intorno?»
«Sospetto che uno dei miei colleghi abbia a che fare con gli omicidi alla Tate Britain.»
Piton lo osservò per diversi istanti in silenzio, come se lo stesse in qualche modo valutando, poi lo invitò a sedersi al tavolo.
«Cosa ti ha fatto giungere a questa conclusione?»
Severus notò che il ragazzo si stava comportando in maniera più tranquilla rispetto alle altre volte in cui era andato a fargli visita.
Ne fissò gli occhi verdi e si rese conto di non provare nulla nel vederli. Non c’era né il desiderio di poter leggere in loro l’odio, né quello di leggervi il perdono, né il rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e che non era mai stato realmente possibile.
Era come se stesse fissando gli occhi di una persona qualsiasi e non quelli del figlio di Lily.
Quando Potter iniziò a parlare, ricacciò quei pensieri in un angolo sperduto della sua mente. Li avrebbe analizzati in un altro momento, forse.
«Ho letto e riletto tutti i verbali scritti sul caso e hanno tutti qualcosa che non funziona», affermò il ragazzo. «Mancano di accuratezza. Non si capisce, per esempio, dove sia stata trovata l’arma del delitto e chi abbia fatto la scoperta. Non c’è nemmeno una parola sulle due vittime, se non i loro nomi e quello che è stato fatto per spiegarne la morte ai parenti. E tutti e tre gli Auror che stanno indagando sono generalmente scrupolosi.»
«Hai notato nulla nei loro comportamenti?»
«L’Auror Taylor mi è sembrato distratto ultimamente, ma, da quel che ho capito, ha delle incombenze amministrative piuttosto stressanti.»
«E tu credi che la sua distrazione sia dovuta solo a questo?»
«Voglio sperare di sì», ammise Harry, lanciando un’occhiata alla credenza. Da dove si trovava poteva vedere che il disegno era solamente abbozzato. «Cristopher è il mio supervisore e mi è sempre sembrato molto attento e competente. Quanto all’Auror Thomson è quella che più di tutti pare essere disposta a credere che lei sia il colpevole, Piton. Mi è parso a volte che influenzasse le azioni di Micheal, che ha indagato, di certo, in maniera superficiale e che ultimamente non sembra nemmeno più essere interessato alla questione.»
Severus osservò con attenzione il ragazzo. Potter aveva fatto esattamente quello che gli aveva suggerito di fare: non imbarcarsi in un’indagine solitaria e osservare i suoi colleghi. Forse aveva finalmente imparato a riflettere prima di lanciarsi a capofitto in una situazione pericolosa. Il che sarebbe stato unicamente un bene, considerando il mestiere che aveva scelto di fare.
«Ti sei fatto un’idea sul loro possibile movente?»
«Fino a quando non ho riflettuto sulla questione dell’arma del delitto non sono riuscito a capire, ma adesso credo che abbia qualcosa a che fare con la morte di Hugh Berenger e della sua famiglia. Ritengo che si tratti di una vendetta, che lo scopo della morte di quei due Babbani sia legato all’idea di accusare lei dell’omicidio e di farla finire ad Azkaban.»
«La Thomson e Taylor hanno frequentato Hogwarts quando erano studenti Hugh Berenger e sua moglie.»
«Quindi Michael potrebbe essere innocente?»
«Suo fratello maggiore era a scuola con i Berenger, quindi potrebbe averli conosciuti anche lui.»
Ad Harry sembrò di essere tornato al punto di partenza. Aveva creduto che le parole di Piton escludessero almeno uno dei tre colleghi; invece, era accaduto esattamente il contrario. Tutti e tre avrebbero potuto essere amici dei Berenger e, quindi, voler vendicarsi della loro uccisione. Aveva letto della morte di quella famiglia e dell’unico sopravvissuto alla strage. E dall’ultimo interrogatorio a Piton sapeva che l’uomo era stato presente. Harry si chiese come fosse riuscito a vederli morire, come avesse fatto a non intervenire per salvarli, facendo saltare completamente la sua copertura. Lui si era sentito in colpa per le persone che erano morte durante la battaglia perché stavano seguendo la sua causa, ma credeva che non fosse nulla se confrontato alla consapevolezza di non essere in grado di salvare la vita alle persone che gli altri Mangiamorte stavano uccidendo, perché farlo avrebbe significato, con ogni probabilità, la disfatta della resistenza a Voldemort.
«Hai notato altro nel loro comportamento?»
«Due giorni fa stavano parlando e Micheal ha nominato la signorina Ainsworth, dicendo che non riusciva a comprenderla. Emily si è detta d’accordo con lui e gli ha consigliato di interrogarla di nuovo, perché, secondo lei, potrebbe nascondere qualcosa. Mi sono stupito perché era da tempo che nessuno parlava dell’omicidio, ma non ho fatto commenti, per quanto non stessero affatto nascondendo la loro conversazione. A quel punto Micheal ha detto che aveva fatto delle indagini sulla signorina Ainsworth e che aveva scoperto che uno dei suoi fratelli si era suicidato. Emily si è chiesta se non fosse un buon indizio, per quanto a Cristopher non sembrasse affatto tale. Mi ricordo che ha detto qualcosa come “non possiamo di certo far ricadere il suicidio del fratello sulla signorina Ainsworth”. Emily ha scosso il capo e Micheal ha affermato che, forse, la morte di Tristan Ainsworth non era una vera fatalità.»
Severus scrutò con attenzione Potter, che, mentre parlava, sembrava essere attratto dal disegno posato sulla credenza. Era appena abbozzato, ma aveva intenzione di finirlo non appena il ragazzo se ne fosse andato, in modo da poterlo fare incorniciare e regalarlo a Rebecca per il suo compleanno. Quando Ygraine gli aveva parlato per la prima volta del compleanno della bambina, aveva pensato di farle avere un libro di racconti magici, ma, dopo quello che era accaduto con Gawain aveva creduto una migliore idea donarle un disegno, qualcosa che anche i genitori potessero tranquillamente vedere, per quanto non avrebbero saputo chi fosse il vero mittente.
«Hanno deciso di convocare nuovamente la signorina Ainsworth?»
«No. Alla fine, Cristopher ha convinto Emily e Micheal che quella loro idea non aveva senso.»
Severus rifletté rapidamente su quello che il ragazzo aveva appena detto. Stando a quello che era accaduto Green e la Thomson erano dei colpevoli più probabili di Taylor, per quanto non credesse una buona idea eliminarlo totalmente dalla lista dei sospetti.
Osservò per qualche istante Potter, che aveva smesso di guardare il disegno e aveva portato tutta la sua attenzione su di lui. Il ragazzo lo stava osservando con una concentrazione che non credeva di avergli mai visto prima. E fu quella concentrazione e il modo maturo con cui si era comportato che lo portarono a decidere di rivelare a Potter del legame che doveva esistere tra i Berenger e Tristan Ainsworth nel movente dell’assassino.
Era qualcosa di cui aveva parlato con Ygraine, un giorno in cui era ricomparso il suonatore di organetto davanti all’uscita artisti del Covent Garden. Le aveva chiesto se fosse d’accordo nello spiegare la vicenda di Tristan e le minacce che aveva ricevuto a Potter, nel caso in cui dovesse risultare necessario.
E la giovane donna gli aveva detto, con i suoi nocciola colmi di fiducia, che era certa che lui avrebbe compiuto la scelta migliore.
Mentre parlava, il crepuscolo iniziò a scendere sulla via, avvolgendo completamente l’isola.
Nella capitale la notte appariva particolarmente oscura, o almeno così parve a Ygraine, mentre sistemava l’ultimo piatto in lavastoviglie. Rebecca si era già ritirata in camera da letto e Gawain e Margaret stavano parlando tra loro.
Tutto sembrava incredibilmente tranquillo da quando erano tornate a Londra il giorno precedente, ma Ygraine temeva che quella fosse la quiete che precedeva la tempesta. Almeno il fratello aveva accettato di buon grado che la bambina prendesse più lezioni di disegno e già il giorno successivo Severus sarebbe stato con Rebecca.
Durante quell’incontro lei e l’uomo si sarebbero accordati su cosa avrebbe dovuto dire ai genitori il giorno del compleanno della nipote, in modo da svelare loro quello che era accaduto.
Impostò il programma della lavastoviglie, poi salutò il fratello e la cognata, che le augurarono la buonanotte come se nulla fosse accaduto, come se Gawain non avesse picchiato Rebecca, ma nella loro voce riusciva quasi a sentire il ribollire dei loro sentimenti, delle loro paure e della loro incapacità di accettare la magia della figlia.
Quando entrò in camera sua, trovò Rebecca ad aspettarla. La bambina le chiese se poteva dormire con lei e Ygraine accettò e, per un breve istante, desiderò essere di nuovo nella casa di Severus, di svegliarsi il giorno dopo e trovarlo in cucina. Era stato strano come, la mattina del primo marzo, loro tre fossero quasi sembrati una famiglia.
E quel pensiero la fece sorridere tristemente, per quanto sapesse che non sarebbe mai riuscita ad impedirsi di immaginare una vita insieme all’uomo, nonostante fosse certa che quei sogni non si sarebbero mai realizzati.
Eppure, mentre Rebecca si rannicchiava contro di lei, scivolò nel sonno con l’immagine di lei, l’uomo e la nipote che facevano colazione insieme nella casa di Spinner’s End.
E quando sorse l’alba, questa era grigia e opprimente. E così furono anche altre albe che si succedettero, fino al giorno precedente il compleanno di Rebecca. Ygraine l’era andata a prendere a scuola, consapevole che di lì a una trentina di minuti sarebbero andate nell’appartamento di Tristan e avrebbero trascorso del tempo con Severus.
La bambina le strinse la mano, mentre andavano verso casa, il cielo si era rasserenato nel corso della mattinata e, in quel momento, splendeva un bel sole vivace. Salirono rapidamente le scale che conducevano all’appartamento di Gawain e Ygraine mise la chiave nella toppa cercando di non tremare. Ogni volta che riportava Rebecca dal fratello e dalla cognata si sentiva inquieta, per quanto nei pochi giorni precedenti non fosse mai accaduto nulla. Per rincuorarsi si disse che tra poco sarebbe arrivato Severus e che tutto sarebbe andato bene, anche quel giorno.
Quando entrarono, la bambina sobbalzò e si nascose, quasi, dietro di lei. Soltanto allora Ygraine notò che Gawain e Margaret le stavano aspettando in salotto. E il fratello e la cognata non dovevano trovarsi lì, ma al lavoro.
E la loro espressione era dura.
La giovane donna cercò di mostrarsi tranquilla, anche quando notò che in un angolo avevano ammucchiato le valige con i suoi vestiti e le sue partiture, ma non riuscì ad impedirsi di deglutire a vuoto, quando si accorse che sul tavolino tra le due poltrone erano stati posati il libro di pozioni che Severus aveva dato alla bambina e le lettere dell’uomo.
«Credo che tu debba andartene da casa nostra, Ygraine.»
La voce di Margaret era particolarmente fredda, mentre Gawain la stava fissando con una durezza che non gli aveva mai visto.
«No, la zia deve rimanere qui… papà, mamma.»
Rebecca avrebbe voluto unicamente correre fino al tavolino, prendere il libro e le lettere e andarsene fuori. Avrebbe sicuramente incontrato Severus che doveva andare da loro e gli avrebbe chiesto di portarla via, al sicuro, con lui e la zia.
«Tu sei ancora piccola e non capisci quello che sta accadendo. La zia ha bisogno di rimanere da sola a riflettere e noi dobbiamo passare più tempo insieme», a parlare era stata ancora la mamma, ma la bambina non voleva starla a sentire. Se avessero mandato via la zia, poi le avrebbero impedito di prendere lezioni di disegno, anche se loro non sapevano che il suo maestro era Severus. «Abbiamo trovato un libro di cui non ci hai mai parlato e delle lettere a cui non hai mai fatto cenno.»
«Margaret…»
«Taci, Ygraine», la voce di Gawain era fredda. «Hai già fatto abbastanza danni. Hai incoraggiato Rebecca con questa follia della magia e hai permesso che ricevesse delle lettere da un uomo di cui non sappiamo nulla se non che è un poco di buono, un uomo che, con ogni probabilità, ti ha plagiata.»
«Severus è l’uomo migliore al mondo», la voce della bambina era poco più di un sussurro, mentre rimaneva accanto alla zia.
«E cosa vuole fare quest’uomo meraviglioso? Prendere il nostro posto? Contaminarti con quella sua maledetta magia? Qualsiasi cosa tu pensi di quell’uomo non dovrai mai più avere a che fare con lui. Prendi queste lettere e quel libro e buttali nel cestino della carta straccia.»
Ygraine lanciò un’occhiata all’orologio appeso alla parete di fronte a lei. La situazione stava precipitando e lei non aveva idea di come trovare una via di fuga, di come impedire che la vita di sua nipote diventasse un inferno. Le lezioni di disegno non sarebbero più bastate per aiutare Rebecca, che stava tremando di fianco a lei.
«Obbedisci a tuo padre», la voce di Margaret la fece quasi rabbrividire, colma com’era di freddezza.
«No. Non potete farmelo fare.»
«Allora lo farò io stesso.»
Rebecca sentì quasi mancarle il respiro. Non potevano toglierle il libro, né le lettere. Corse verso il tavolino ed afferrò tutto prima che suo padre potesse farlo. Rimase immobile, stringendo al petto il libro e le lettere.
Sarebbe ritornata accanto alla zia, ma il padre l’afferrò prima che lo facesse. Con la mano libera tentò di prendere una lettera di Severus. Rebecca era terrorizzata e tentò di indietreggiare, di impedirgli di portarle vie quel foglio di pergamena.
Non si rese nemmeno conto che suo padre aveva urlato.
Sentì soltanto che la lasciava andare.
Fece un passo indietro, verso la zia, ma l’uomo tornò ad afferrarla con tanta forza che non riuscì più a tenere strette le lettere di Severus e il libro di pozioni, che finirono ammonticchiati per terra.
«Gawain, lasciala andare.»
Ygraine si avvicinò di corsa al fratello, lanciando un’occhiata a Margaret, ma la donna stava ferma ad osservare il marito e sembrava essere perfettamente d’accordo con lui.
Temeva che qualcosa del genere sarebbe potuta accadere, quando la magia accidentale di Rebecca aveva ferito leggermente Gawain alla mano che voleva portarle via le lettere.
Il rumore della mano del fratello sulla bambina risuonò nel silenzio della stanza. Si avventò su di lui, cercando di fermarlo, ma Gawain era più alto di lei e più forte e non gli fu difficile colpirla al volto e poi gettarla sul divano.
Colpì altre volte Rebecca, prima che nel salotto risuonasse il campanello.
Fu Margaret a rispondere, calma, come se non avesse appena visto la furia del marito.
E Gawain non era mai stato così, prima di allora. Non lo aveva mai visto perdere a tal punto il controllo. Sapeva che lo aveva già fatto il 28 febbraio, ma Rebecca le aveva detto che l’aveva lasciata andare quasi subito e quando lei gli aveva parlato sembrava quanto meno sconvolto da quello che aveva fatto. E quando il primo marzo erano tornate era parso contrito e pentito, ma, forse era soltanto quello che voleva far credere a lei e probabilmente anche a sé stesso.
«Si tratta del signor Prince.»
Alle parole di Margaret, Gawain abbassò la mano, ma non lasciò andare Rebecca, che stava singhiozzando.
«Fallo salire e spiegagli che Rebecca non potrà fare la sua lezione oggi.»
Mentre si alzava dal divano, Ygraine vide Margaret andare ad aprire la porta e sentì la voce di Severus, ovattata al di là dell’uscio. La cognata sembrava aver fretta e Ygraine si sentiva completamente impotente, intrappolata com’era tra il divano, le poltrone e il corpo di Gawain, che appariva incredibilmente teso.
Non si accorse nemmeno che Rebecca era riuscita a liberarsi della presa del fratello, se non quando la vide correre verso la porta. Gawain rimase immobile dove si trovava, mentre la bambina era riuscita a passare oltre Margaret. Ygraine non vedeva nulla da dove si trovava, ma sapeva che Rebecca doveva aver abbracciato Severus ed era certa che il loro stratagemma fosse miseramente crollato.
«Torna dentro», disse Gawain, facendo un passo in avanti.
Severus sentiva le lacrime della bambina contro di lui e i suoi singhiozzi. Tenendola stretta contro di sé, riuscì a superare Margaret Ainsworth che non aveva detto più una parola da quando Rebecca gli si era gettata contro. Ygraine era pallida, di un pallore che non le aveva mai visto prima, ma che sapeva riconoscere fin troppo bene. Era il pallore della paura. Era in parte nascosta e sovrastata dal corpo di Gawain Ainsworth che sembrava pronto a esplodere. E già doveva aver scatenato la sua rabbia, come era evidente dal livido che si stava formando sulla guancia di Ygraine, che, lo poteva immaginare perfettamente, doveva aver tentato di fermare il fratello.
«Rebecca, dovresti lasciare andare il signore.»
A parlare era stata la madre della bambina, che sembrava voler agire come se non fosse accaduto nulla. Aveva imbastito una scusa miserevole per farlo andare via e, prima che Rebecca gli corresse incontro, stava cercando di convincerla che una lezione di disegno era l’ideale per aiutare la bambina dopo quello era accaduto a scuola, dove era caduta, inciampando nel suo zaino. Come se non avesse sentito i singhiozzi della piccola all’interno della stanza, ma, forse, la signora Ainsworth credeva che lui fosse uno stolto.
«Non si preoccupi», disse, mentre esaminava con cura la stanza. Notò il libro che aveva fatto avere a Rebecca per terra, insieme alle sue lettere e, in un angolo, alcune valigie.
«Credo che dovrebbe andarsene, signor Prince. Come può notare, mia figlia non sta bene.»
Gli occhi nocciola di Ygraine erano preoccupati, impauriti, come non li aveva mai visti, nemmeno quella sera in cui era stata aggredita a teatro. Eppure, nonostante tutto, riusciva ancora a leggere la fiducia nei suoi confronti sul suo volto.
«Come stavo dicendo a sua moglie, il disegno è un vero toccasana con i bambini, quando affrontano delle difficoltà», disse. Era certo di apparire come il più ingenuo degli uomini, i suoi sentimenti accuratamente celati. Aveva iniziato ad occludere non appena aveva sentito i singhiozzi di Rebecca dal momento che non poteva permettersi, in quel momento, di reagire in maniera sconsiderata, lasciandosi guidare dalla rabbia e dall’affetto. Doveva indossare la maschera di Tobias Prince, l’ingenuo maestro di disegno. «Da quel che ho capito, la nostra piccola artista si vergogna per essere stata così goffa a scuola, e devo dire che posso comprenderla perfettamente. Anche a me è capitato, quand’ero piccolo. La maestra diceva che avevo sempre la testa tra le nuvole.»
Ygraine non si era mai sentita così tesa. Sperava che il fratello desse retta a Severus, che gli permettesse di dare quella lezione di disegno, ma aveva paura che così non fosse. Era terrorizzata per quello che sarebbe potuto avvenire di lì a poco ed era terrorizzata all’idea di rimanere da sola con il fratello e Margaret, perché lei non sarebbe riuscita a proteggere Rebecca come avrebbe voluto.
«Sono felice che lei comprenda, ma, come le ho già detto dovrebbe andarsene. Rebecca è stanca.»
Ygraine avrebbe voluto parlare, ma era certa che avrebbe unicamente peggiorato le cose. Incontrò per un istante lo sguardo di Severus. L’uomo appariva perfettamente controllato, ma qualcosa nei suoi occhi mostrava la desolante verità. L’unica soluzione, in quel momento era accondiscendere, sperando che almeno Gawain non togliesse alla figlia le lezioni di disegno, che avrebbero potuto offrirle un piccolo spiraglio di serenità.
Osservò l’uomo, allontanare con delicatezza da sé Rebecca, posandole per qualche istante le mani sulle spalle e poi lasciandola andare del tutto, prima di fare un passo verso la porta.
«Non andartene… Severus… non and…»
Ygraine vide l’uomo fermarsi e voltarsi verso la bambina, il fratello farsi più teso, mentre Rebecca pareva singhiozzare ancora più forte. Per diversi lunghi secondi nessuno disse né fece nulla, poi Gawain si avvicinò alla bambina.
«Le consiglio di non fare un altro passo, signor Ainsworth, né men che meno di sfiorare sua figlia.»
Le parole di Severus erano freddamente cortesi, tranquille quasi, ma nel loro essere fredde e tranquille apparivano più minacciose di un grido. E mentre parlava aveva fatto qualche passo avanti e si era posto tra Rebecca e Gawain.
«Se ne vada, subito», era stata Margaret a parlare, da dove si trovava, presso la porta, che aveva chiuso senza che lei se ne accorgesse. «E anche tu, Ygraine. Provavamo pietà per te, credevamo che fossi stata plagiata… invece non sei altro che una bugiarda.»
«Margaret…»
«Taci», Gawain si era voltato verso di lei, minaccioso, arrabbiato forse ancora di più rispetto a pochi istanti prima.
«Signor Ainsworth, le sconsiglio di toccare sua sorella, così come le ho sconsigliato di toccare sua figlia.»
Il tono della voce di Severus era se possibile ancora più freddo. Gawain si bloccò di colpo e lei ne approfittò per correre verso Rebecca che, notò in quel momento, si era di nuovo aggrappata all’uomo.
«Rebecca vieni qui, subito.»
Severus sentì la bambina afferrargli con forza la mano sinistra e nascondere il volto contro di lui. Ygraine era riuscita ad allontanarsi da Gawain, ma la situazione non poteva che aggravarsi. Ne era stato certo nel momento in cui Rebecca si era lasciata sfuggire il suo nome. Aveva temuto che potesse accadere qualcosa del genere quando aveva iniziato ad allontanarsi, ma, in quel momento, non avrebbe potuto agire diversamente. Insistere sarebbe stato inutile e controproducente, soprattutto se voleva conservare una benché minima possibilità di mantenere il ruolo del maestro di disegno, un ruolo con cui, forse, avrebbe potuto aiutare la bambina, in futuro. Aveva dovuto allontanarsi da Rebecca sperando che la bambina capisse che non la stava abbandonando, ma lei non aveva nemmeno nove anni ed era impaurita. Aveva reagito nel modo più ovvio.
«Cos’ha fatto a mia figlia?»
«Io, nulla.»
«Invece qualcosa deve aver fatto, Piton», la voce di Gawain Ainsworth rasentava l’isterismo e, allo stesso tempo, appariva colma d’odio represso. «Lei ci ha portato via la nostra bambina.»
«Qui si sbaglia, signor Ainsworth», Rebecca gli stava stringendo con ancora più forza la mano. Sentì Ygraine farsi più vicina a loro, ma non si girò, preferendo tenere gli occhi fissi su Gawain. «Lei e sua moglie avete fatto tutto da soli.»
«Mia sorella può crederla un grand’uomo, ma quei vostri poliziotti ci hanno detto che è un assassino, un criminale… è lei che ha cambiato Rebecca, che l’ha infettata, che l’ha fatta diventare diversa.»
Sentì la mano di Ygraine unirsi a quella di Rebecca sulla sua. La bambina lasciò andare leggermente la presa, senza alzare il capo da dove l’aveva nascosto contro il suo cappotto. Il soprano stava tremando. Eppure, nonostante tutto, nel gesto della giovane donna riusciva a leggere la fiducia, che, mai come in quel momento, gli appariva malriposta.
«Non nego il mio passato, signor Ainsworth. Eppure, anche un imbecille capirebbe che siete stati voi due a fare tutto.»
Ygraine lanciò un’occhiata al fratello da dove si trovava, accanto alla nipote e a Severus, con una mano su quella dell’uomo, che Rebecca stava stringendo con forza e l’altra sulla schiena della bambina. Mentre il fratello e la cognata parlavano e Severus ribatteva, sentì la fiducia per lui aumentare. Il suo tono di voce non era più così freddo e minaccioso, com’era stato quando aveva fermato Gawain dal fare nuovamente del male a Rebecca. Era calmo, secco a volte, ma sempre perfettamente controllato.
«Non nega nemmeno di essere un assassino?» la voce di Margaret era stranamente acuta. Ygraine si voltò verso la cognata che si stava avvicinando al marito. Sembrava spaventata in quel momento e irritata. «Però nega di aver fatto qualcosa a Rebecca… nostra figlia è irriconoscibile, disobbediente e… se non fosse stato per lei, mio marito non avrebbe fatto quello che ha fatto.»
«Quindi sono stato io a dirgli di schiaffeggiare Rebecca?» Ygraine non aveva mai sentito la voce di Severus così sarcastica. «Oppure non volete ammettere di essere stati così vigliacchi da picchiare vostra figlia?»
Margaret non ribatté, ma Gawain fece un passo verso di loro.
«Non si avvicini oltre, signor Ainsworth.»
L’uomo si bloccò, per quanto non volesse farlo, ma qualcosa nel tono di voce di Piton lo spaventava. Quello non era più l’insegnante di disegno che credeva fosse stato, razionale e tranquillo. Quello era il mago che gli aveva portato via la sua bambina. Gawain sapeva che quello non era un pensiero logico, che quel maledetto uomo aveva ragione e che erano stati lui e Margaret ad allontanare Rebecca.
Ma quei pensieri non fecero altro che irritarlo ancora di più.
Avrebbe dovuto cacciare Piton da casa sua, ma non l’aveva fatto. E adesso vedeva la figlia che gli si stringeva contro piangendo.
Il mago si voltò per un attimo verso Ygraine e mormorò alcune parole che Gawain non riuscì ad afferrare. Osservò la sorella annuire e condurre via Rebecca verso le camere da letto. Avrebbe voluto fermarle, ma non lo fece. Quando se ne furono andate, Piton tornò ad osservare lui e Margaret.
«Credo sia giunto il momento di parlare, signori Ainsworth.»
«E cosa ci sarebbe da dire?»
Gawain fece di tutto per non far capire che era incredibilmente spaventato, arrabbiato e confuso. Era deluso da sé stesso perché aveva creduto ciecamente alla sorella quando gli aveva presentato Tobias Prince, senza porsi nemmeno una domanda. Invece, avrebbe dovuto dubitare. Avrebbe dovuto capire che c’era qualcosa di strano in quell’uomo, ma, a quanto pareva Piton sapeva fingere molto bene. Ed era arrabbiato con quel criminale che aveva rivoltato Rebecca contro di lui. Ed era spaventato da lui perché non aveva idea di cosa potesse fare un mago adulto.
«Non molto», disse Piton, con quella sua voce freddamente minacciosa che lo fece quasi rabbrividire. «La situazione mi pare quasi limpida, signori Ainsworth.»
«Lei se ne deve andare», Margaret era decisamente più coraggiosa di lui, che non era riuscito a dire quelle parole. «Questa è casa nostra e non ha alcun diritto di restare o di parlarci.»
«E voi avete forse il diritto di maltrattare vostra figlia? Se non ricordo male, è un reato e lei dovrebbe saperlo bene, signor Ainsworth.»
Gawain avrebbe voluto ribattere, ma sapeva che l’uomo aveva ragione. Nessuno avrebbe avuto il bene che minimo dubbio a condannare lui perché aveva picchiato Rebecca e nessun giudice avrebbe creduto alle ragioni che lo avevano portato a perdere a tal punto la calma. Chi gli avrebbe dato retta se avesse detto che sua figlia gli aveva fatto del male con la magia? Non che la bambina avesse fatto un gran danno, ma quel gesto involontario gli aveva fatto perdere completamente il controllo.
E quell’uomo, così calmo e freddo davanti a lui, lo riempiva di un odio e di una rabbia che non aveva mai provato prima.
E tutto quello lo terrorizzava.
«Lei non…»
«Le consiglio di tacere, signora Ainsworth», Severus portò lo sguardo sulla madre di Rebecca e fu certo che quanto aveva intuito quella sera a casa sua corrispondesse alla verità, che la peggiore dei due fosse lei. L’aveva osservava mentre parlava e mentre guardava la figlia. Era più calma del marito e questo la rendeva più pericolosa. «E consiglio entrambi di ascoltarmi con attenzione. Voi non alzerete più nemmeno un dito su Rebecca e non le direte più una sola parola contro la magia che nulla potrà fare sparire come invece voi credete che possa accadere. E statene certi che se mai farete qualcosa del genere, lo verrò a sapere.»
«E come? Rebecca non avrà più nulla a che fare con lei.»
«E credete veramente che questo mi impedirà di sapere?»
Severus osservò Gawain impallidire e Margaret mostrare chiaramente la sua paura e l’odio. Nessuno dei due disse nulla, per quanto forse avrebbero voluto, anche solo per dirgli quanto lo odiassero. Lo aveva letto nei loro sguardi quell’odio intenso nei suoi confronti, ma a quel sentimento era abituato e lo trovava meno destabilizzante della fiducia di Ygraine e dell’affetto di Rebecca.
Con un movimento accurato della bacchetta chiamò a sé le lettere e il libro di pozioni. Avrebbe potuto lasciarli dov’erano, ma aveva bisogno che Gawain e Margaret avessero ben chiaro che lui padroneggiava perfettamente l’arte magica. E del fatto che per praticarla non occorresse parlare.
«Immagino siate d’accordo con me nel ritenere che Rebecca sarebbe più serena lontana per qualche giorno da questa casa.»
«E finire quello che ha iniziato? Perché vuole portarcela via?»
La voce della Margaret Ainsworth era quasi tranquilla, per quanto piuttosto acuta, ma gli occhi erano colmi di odio e paura e Severus temeva che parte di quell’odio e di quella paura fossero rivolti alla bambina e forse anche a Ygraine.
«Da quel che so Rebecca ha dei nonni, i signori Ainsworth, che sono certo saranno più che felici di occuparsi di lei nei prossimi giorni.»
Severus sapeva che stava unicamente prendendo tempo. Ygraine era certa che i suoi genitori avrebbero appoggiato Rebecca e lui voleva credere che fosse vero, che effettivamente i nonni della bambina fossero più simili alla figlia che al figlio.
«Lasci fuori i miei genitori da tutta questa storia.»
«E crede veramente, signor Ainsworth, che non si accorgeranno di nulla? Domani è il compleanno di Rebecca e so che lo avreste festeggiato a casa loro, subito dopo la scuola.»
Gawain avrebbe voluto colpire quel maledetto mago che pareva sapere tutto – e per quello doveva unicamente ringraziare Ygraine –, ma l’aveva appena visto sollevare il libro e le lettere senza che dicesse una sola parola e non aveva idea di che cos’altro potesse fare, di come un mago sapesse uccidere.
Fuori dalla finestra un raggio di sole illuminava il salotto e la stanza di Rebecca. Ygraine teneva contro di sé la nipote che non aveva ancora parlato da quando si era lasciata sfuggire il nome di Severus. Sperava che l’uomo riuscisse a convincere Gawain e Margaret a non fare più del male a Rebecca, ma era terrorizzata da quello che sarebbe accaduto quando lei sarebbe partita per l’Italia tra poco più di un mese, di quello che sarebbe potuto accadere mentre lei era alle prove e Rebecca era sola in casa con Gawain e Margaret.
Quando Severus entrò nella stanza, teneva in mano le lettere e il libro della bambina.
«Ho convinto tuo fratello a farti restare qui fino a che non dovrai partire e a far andare Rebecca dai vostri genitori per qualche giorno.»
Ygraine riuscì a sorridergli, mentre Severus posava le lettere e il libro ordinatamente sulla scrivania della bambina. In silenzio si alzò e preparò una borsa mettendovi dentro alcuni vestiti per Rebecca. Quando tornò a guardare l’uomo, notò che si era seduto sul letto e che la nipote lo aveva abbracciato, con forza, le braccia intorno al collo e il capo nascosto contro la spalla.
E lui stava ricambiando l’abbraccio, nello stesso modo in cui un padre avrebbe abbracciato una figlia, mentre il sole giocava con i capelli neri dell’uomo, rendendoli quasi più scuri di quanto non fossero.

 
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Capitolo XX - Parte III

Der Wegweiser



Gran Bretagna, 5 marzo 2002


Il sole di quel giorno di marzo illuminava il salotto, dove Margaret e Gawain si trovavano, seduti sul divano, dopo che l’uomo aveva riportato le borse della sorella nella stanza degli ospiti. Era stato tentato di sbirciare nella camera della figlia, ma aveva avuto paura di quello che avrebbe visto.
Ed ora era seduto in silenzio in salotto, mentre cercava di trovare un senso ai suoi pensieri e alle sue sensazioni.
«Non avremmo dovuto acconsentire.»
Margaret si voltò verso il marito e notò che aveva il volto pallido e l’espressione incerta. Sapeva che Gawain aveva sbagliato a reagire come aveva fatto e che lei non avrebbe mai dovuto essere del suo stesso avviso, che non avrebbe mai dovuto dire, giorni prima, che la bambina aveva avuto quello che si meritava.
Ma era terrorizzata da quello che Rebecca era diventata e, per quanto non volesse ammetterlo, quella paura si stava trasformando in sentimenti ben più cupi.
«Lo so, Margaret, ma hai visto come… sono certo che sappia fare ben di peggio.»
La donna avrebbe voluto dire al marito che non avrebbero mai dovuto accettare di ospitare Ygraine. Lei non era stata d’accordo. Sapeva che sua cognata si era offerta di contribuire alle spese familiari durante il suo soggiorno, ma, per come la vedeva lei, avrebbe tranquillamente potuto prendere un appartamento in affitto, considerando che guadagnava fin troppo per esibirsi su un palcoscenico. Ma Gawain era stato felice di avere la sorella in casa. Avrebbe potuto aiutarli con Rebecca, aveva detto.
Ed il suo aiuto era stato quello di far entrare nella vita della figlia un uomo che non negava nemmeno di aver avuto un passato violento e suo padre le aveva sempre ripetuto che un criminale rimaneva sempre un criminale. Ed era stato felice quando aveva saputo che avrebbe sposato un rispettabile avvocato civile e che non avrebbe inseguito qualche stupida idea romantica, come aveva fatto sua zia, che si era sposata con un piccolo criminale da poco uscito dal carcere e che era finita ammazzata dal marito. Si chiese cosa avrebbe detto suo padre, se fosse stato ancora in vita, del modo in cui Ygraine guardava quel Piton.
«Quando la bambina tornerà dalla casa dei tuoi genitori, dobbiamo riprendere il controllo su di lei.»
«Come puoi essere così fredda, Margaret?»
La voce di Gawain era sconfortata. Tra loro due si stava rivelando il più impulsivo, ma lei non si sentiva affatto fredda come lui diceva. Rebecca si stava allontanando da loro, stava scivolando via, irretita da quel mago – ormai non aveva più alcuna possibilità di negare che la magia fosse ben reale – dalla voce tagliente.
Ed era terrorizzata per il modo in cui stavano perdendo la figlia.
E odiava con tutta sé stessa l’uomo che la cognata aveva fatto conoscere a Rebecca.
E provava una rabbia sorda nei confronti di Ygraine.
Ma voleva mostrarsi tranquilla, perché riteneva che Gawain ne avrebbe avuto bisogno nei prossimi giorni.
«Margaret…»
«Gawain, io…»
Ma non riuscì a proseguire quando sentì la porta della stanza di Rebecca e subito dopo i passi sul pavimento. La prima a entrare nel salotto fu Ygraine. La cognata era pallida e Margaret non riusciva a mostrarsi dispiaciuta per il livido che aveva sulla guancia. Dietro di lei avanzava il mago, il volto calmo, quasi inespressivo, mentre teneva in braccio Rebecca, che aveva il volto nascosto contro di lui.
La donna sentì di odiarlo ancora di più e di essere gelosa per come la figlia si stava affidando a lui.
Ma poteva, in tutta sincerità, darle torto dopo quello che lei e Gawain avevano fatto?
Anche un imbecille capirebbe che siete stati voi due a fare tutto.
Era come se l’uomo, che era appena uscito dall’appartamento, stesse ancora dicendo quelle parole e Margaret sapeva, al di là dell’odio, della paura e della rabbia, che quelle parole erano orrendamente vere.
Ed era certa che lo sapesse anche Gawain.
Eppure, non riusciva ad immaginare di comportarsi in maniera diversa.
Non era nemmeno in grado di afferrare completamente il fatto che Rebecca non fosse una bambina tranquilla e normale, com’era stata, prima. Era sempre stata orgogliosa della maturità della figlia, del suo modo tranquillo di fare. Era stata unicamente preoccupata dalla sua sensibilità dopo che Tristan si era suicidato.
Invece, aveva improvvisamente scoperto che Rebecca era una specie di scherzo della natura, capace di infrangere vetri e di ferire Gawain.
E non era riuscita ad accettarlo, come non l’aveva fatto il marito.
Si era rifugiata nell’idea che quella che sua cognata e la bambina chiamavano magia fosse una specie di malattia, aveva anche proposto a Gawain di mandarla da uno psicologo, ma il marito aveva fermamente rifiutato.
E, adesso, dopo quello che era accaduto non sapeva cosa fare, se non osservare, seduta in silenzio accanto al marito, il sole che tramontava, lasciando spazio al crepuscolo.
E il crepuscolo copriva le campagne del Kent, quando in un sentiero deserto, poco distante da una casa abbandonata da anni, si sentì il rumore sordo che un mago avrebbe identificato istintivamente.
Severus controllò immediatamente Rebecca e Ygraine, che si erano affidate, ancora una volta, a lui, quando aveva proposto loro quel modo per raggiungere il Kent, spiegando accuratamente tutti i rischi, ma la giovane donna gli aveva unicamente detto che si fidava del suo giudizio e che era certa che non sarebbe accaduto nessun incidente.
La bambina aveva ancora le mani strette attorto al suo collo e non sembrava nemmeno essersi accorta che si erano appena Materializzati. Non aveva nemmeno fatto una domanda quando lui aveva rimpicciolito la borsa con i vestiti suoi e della giovane donna, prima di lasciare Londra, forse perché non aveva mai sollevato il capo dalla sua spalla.
Ygraine si staccò lentamente da lui, dopo pochi istanti. Stava tremando ed era molto pallida, ma pareva non essere sul punto di vomitare.
«Hai viaggiato così ogni volta che sei tornato a casa da Londra?»
Annuì soltanto, prima di riportare, bilanciando il peso di Rebecca su un solo braccio, la borsa con i vestiti alle sue dimensioni normali. Ygraine era ancora un po’ instabile, mentre si chinava e prendeva in mano il borsone. La bambina era rimasta immobile, aumentando solo leggermente la presa.
«I miei genitori abitano a circa dieci minuti da qui.»
Accanto a loro c’era il sentiero che portava alla casa degli Hancock e che ricordava fin troppo bene, come ogni cosa che era accaduta quella notte di Natale di tanti anni prima. Ma quei pensieri non erano importanti in quel momento. Voleva concentrarsi unicamente sulla bambina che gli stava in braccio e sulla donna che gli stava accanto.
«Rebecca», la voce di Ygraine era quasi un dolce sussurro. «forse dovresti scendere per raggiungere la casa dei nonni.»
Ma la bambina scosse il capo alle parole gentili della zia. Non parlò nemmeno, non l’aveva più fatto da quando lo aveva chiamato per nome davanti ai suoi genitori. L’uomo annuì soltanto, rivolto alla giovane donna che prese a camminare lungo il sentiero, fino alle prime case del villaggio. Le mani di Rebecca gli stavano irritando la cicatrice lasciata dalla ferita di Nagini, ma non fece nulla per scostarla. Sperava che la bambina riuscisse – per quanto improbabile gli sembrasse – a trovare conforto, a superare quello che era accaduto. Quando era entrato nella camera della piccola aveva visto i lividi vistosi e aveva dovuto vincere la tentazione di andare nell’altra stanza e di farla pagare a Gawain e Margaret Ainsworth, che erano riusciti a distruggere il sorriso solare che era sempre presente sul volto di Rebecca, che l’avevano ammutolita, lei che gli poneva sempre delle domande sulla magia e, da qualche tempo, sul disegno e che gli raccontava anche con entusiasmo ogni piccolo fatto delle sue giornate.
Ma aveva saputo che sarebbe stato controproducente aggredire due Babbani e non sarebbe servito a nulla, se non a portare lui ad Azkaban, probabilmente a vita, considerando che si sarebbe aperta una revisione del processo che lo aveva assolto alla fine della guerra.
Non importava nemmeno che loro fossero convinti che lui li avrebbe colpiti con la magia, nel caso in cui si fosse accorto che avevano fatto nuovamente del male a Rebecca, per quanto credesse che fosse ormai tardi, che il male peggiore lo avessero già compiuto.
E lui non era riuscito ad evitarlo.
Sapeva che avrebbe dovuto escogitare un modo per riuscire a proteggere la bambina, per riuscire a starle vicino senza che i suoi genitori se ne accorgessero, soprattutto se i nonni non si fossero rivelati il supporto che Ygraine sperava.
«Siamo arrivati.»
La voce di Ygraine era poco più di un sussurro, quando si fermò davanti ad una casa circondata da un piccolo giardino. Le finestre spandevano una luce vivace sul prato ai lati del vialetto d’ingresso e sui cespugli di rose che sarebbero sbocciate di lì a qualche tempo.
La giovane donna suonò il campanello, poi rimase ferma, qualche passo davanti a lui e Rebecca, il corpo leggermente teso.
«Ygraine?»
«Mamma, possiamo entrare? Giuro che ti spiegherò tutto, ma Rebecca è stanca e…»
Severus sentì lo sguardo della donna su di sé per qualche istante, prima che li invitasse ad entrare. Rebecca, se possibile, si strinse maggiormente a lui, affondando involontariamente le dita nella cicatrice, ma non fece quasi caso al fastidio che gli provocava quel gesto, mentre la signora Ainsworth li faceva accomodare in un salotto dai colori vivaci.
«Cos’è successo, Ygraine?»
«Credo sia meglio che ci sia anche papà.»
La giovane donna osservò la mamma annuire comprensiva, prima di uscire dalla stanza. Fece segno a Severus di accomodarsi sul divano, sedendosi subito doppo accanto a lui. Rebecca non sembrava voler lasciare l’uomo, né parlare.
Ygraine si sentiva incredibilmente tesa e preoccupata. Non aveva nemmeno pensato di avvisare i suoi genitori del loro arrivo quando avevano lasciato l’appartamento di Gawain. Sperava che mamma e papà accettassero di ospitare lei e Rebecca per qualche giorno e che potessero parlare con il fratello e la cognata. Non sapeva cosa Severus avesse detto loro dopo averle mandate nella camera della bambina, ma, almeno, avevano acconsentito a fare allontanare per qualche giorno Rebecca e a non cacciare lei fuori di casa.
Osservò per qualche istante la stanza in cui aveva letto con Tristan durante i giorni di pioggia, cercando di trovare la calma necessaria per affrontare il discorso con la madre. Accanto a lei, Severus stava mormorando alcune parole alla bambina, che, poco dopo, gli lasciò andare il collo, per poi sedersi accanto a lui, dall’altra parte del divano. Ma appena si fu posizionata, nascose il volto contro il fianco dell’uomo.
E Ygraine poteva capirne tranquillamente il motivo. Rebecca voleva sentirsi al sicuro.
Quando mamma tornò, papà era con lei e fissò, per un breve istante, Severus con un’espressione indecifrabile, che però si trasformò ben presto nel suo abituale volto gioviale. Dopo che furono state fatte le presentazioni, la giovane donna tacque, senza riuscire a capire da dove potesse cominciare a raccontare quello che era accaduto.
«Cos’è successo, Ygraine?»
La voce del signor Ainsworth era preoccupata e Severus era certo che l’uomo avesse notato il livido sul volto della figlia e il modo in cui la bambina si stava aggrappando a lui. Rebecca non l’aveva più lasciato andare da quando era entrato in camera sua dopo aver parlato con Gawain e l’uomo temeva che quanto accaduto influisse per sempre sull’animo della bambina.
E lui si sentiva completamente inadeguato in quel momento. La sentiva tremare contro di lui e sotto la mano che le aveva posato sulla schiena.
«Gawain…», la voce di Ygraine si spezzò. Severus si voltò verso di lei e notò che sembrava sul punto di crollare, ma riuscì, in qualche modo, a mantenere la calma. «Devo spiegarvi tante cose e non so nemmeno se mi crederete…»
«Ygraine, è stato Gawain?»
Mary Ainsworth aveva notato il livido sul volto della figlia e il modo in cui Rebecca sembrava non voler lasciare l’uomo che era con lei. Ma aveva intravisto dei lividi anche sul volto della bambina e aveva notato che non aveva nemmeno salutato lei e Alfred. Chiunque fosse quel signor Piton, la nipote doveva aver instaurato un rapporto profondo con lui, al punto da affidarglisi totalmente.
«Sì, mamma, ma è… le motivazioni sono complicate.»
«Lo sai che puoi dirci tutto.»
Mary osservò la figlia deglutire a vuoto e la osservò mentre si voltava verso l’uomo che le aveva accompagnate. Li vide scambiarsi un’occhiata. Ygraine sembrava incerta e la donna avrebbe voluto che si fosse confidata con lei il giorno del compleanno di Alfred, che le avesse almeno parlato del signor Piton, che stava agendo nel migliore dei modi con Rebecca, confortandola in silenzio, senza spingerla a parlare o ad assumere un comportamento abituale. Vedere dei bambini in quelle condizioni era stato il motivo per cui, poco dopo essersi sposata, aveva deciso di lasciare il suo lavoro nei Servizi Sociali. E vedere quei segni sul volto della nipote la stava facendo interrogare su quanto fosse stata una buona madre per Gawain.
«Forse, sarebbe meglio se prima di parlare vi rinfreschiate e credo che la cosa migliore da fare sia discorrere mentre ceniamo», disse Alfred che, notò Mary, stava osservando la nipote preoccupato.
«Sì, è una buona idea», disse la donna. «Vado a prendere una pomata.»
Severus sentì Rebecca scostarsi leggermente da lui, non appena la nonna ebbe parlato, e tirargli la manica del cappotto. Quando si voltò vide che lo stava guardando, con gli occhi arrossati e i lividi sul volto. Eppure, nel suo sguardo era presente l’affetto e la fiducia, la fiducia in un uomo che aveva ucciso e che aveva le mani macchiate di sangue. Era la stessa fiducia di Ygraine, per quanto vi fosse qualcosa di diverso nei loro sguardi, come se quella fiducia le avesse condotte ad esprimere diversamente l’affetto e l’amicizia.
«Non puoi usare l’unguento che hai fatto tu?»
La voce della bambina era flebile, forse a malapena udibile, per quanto Ygraine e i suoi genitori non avessero detto nulla, né fatto un solo movimento.
«Dovrò andarlo a prendere.»
Rebecca scosse il capo e tornò a stringersi a lui, quasi che avesse paura di vederlo scomparire da un momento all’altro.
«Non andartene… Severus…»
La voce di Rebecca era ovattata dal suo cappotto, ma l’uomo poteva sentirne la disperazione e avvertiva chiaramente il modo in cui la bambina si stava aggrappando a lui. I genitori di Ygraine li stavano osservando e poteva leggere sui loro volti la sincera preoccupazione per la nipote.
«Rebecca…»
«Non puoi preparare qui l’unguento?»
La bambina continuava a tenere il volto nascosto nel suo cappotto e ad aggrapparsi a lui. Sentì Ygraine alzarsi da dov’era seduta e la vide avvicinarsi ai suoi genitori. Non udì cosa si dissero, ma la signora Ainsworth annuì e annunciò, con voce leggermente scossa, che sarebbe andata a preparare la cena e il marito aggiunse che sarebbe andato ad aiutarla. Fu grato a Ygraine per aver convinto i loro ospiti ad allontanarsi, per quanto non sapesse se la sua gratitudine fosse dovuta al fatto che avrebbe potuto parlare più apertamente o perché in questo modo i nonni della bambina non avrebbero notato il suo disagio.
«Occorre troppo tempo, Rebecca», disse, mentre, con delicatezza, scostava di poco la bambina da sé, in modo da guardarla in viso. Ygraine era andata a sedersi dall’altra parte della piccola e lo stava osservando con la sua sconfinata fiducia. «Mi assenterò soltanto il tempo di andare a casa e di prendere l’unguento.»
«Non voglio che tu vada via.»
Severus tentò di ignorare i lividi presenti sul volto di Rebecca e di concentrarsi sul suo sguardo, colmo della paura che lui potesse non tornare più.
E lui non sapeva come agire di fronte a quello sguardo.
«Ti prometto che tornerò, Rebecca.»
La bambina osservò il volto serio di Severus e i suoi occhi neri. C’era qualcosa nel tono di voce del mago che le fece credere che l’uomo non avrebbe mai tradito quella promessa, ma non riusciva a non avere paura.
Mamma e papà non le volevano più bene.
E sapeva che la zia doveva andare a lavorare all’estero.
E non voleva perdere di vista Severus, voleva stare al sicuro abbracciata a lui, perché lui l’avrebbe sempre difesa da mamma e papà.
«Mi… mi vuoi ancora bene?»
«Rebecca…», Severus si interruppe, deglutendo a vuoto. Sapeva cosa rispondere alla bambina, ma non era mai stato realmente capace di esprimere i suoi sentimenti. Da piccolo aveva tentato con i suoi genitori, ma in cambio aveva avuto soltanto botte e indifferenza. Allungò esitante una mano e sfiorò delicatamente la guancia della bambina, attento a non farle del male. «… sì, certo.»
«E me ne vorrai sempre?»
«Sì.»
Forse avrebbe dovuto aggiungere qualcosa, ma Rebecca gli sorrise appena, il primo sorriso di quel giorno.
«Tonerai subito con l’unguento?»
«Te lo prometto, Rebecca», la bambina si scostò del tutto da lui. «Resta qui con tua zia.»
Ygraine seguì con lo sguardo l’uomo, mentre si alzava dal divano e si chiese se si fosse accorto dell’unica lacrima che aveva versato quando Rebecca gli aveva chiesto se le volesse bene. Lo vide girarsi una sola volta verso di loro, prima di uscire.
«Quanto tempo impiegherà?»
«Non lo so, Rebecca», non aveva idea se Severus sarebbe dovuto andare nel punto in cui erano apparsi usando quell’orribile modo magico di viaggiare o se si trovasse già nella casa di Spinner’s End. «Ma sono certa che tornerà, prima che ce ne rendiamo conto.»
«Lo so. L’ha promesso.»
Ygraine annuì soltanto alle parole della nipote. Quella sera la sua stima per Severus e la sua fiducia in lui erano ulteriormente aumentate. Era riuscito a gestire nel migliore dei modi tutta quell’orribile situazione e si sentiva sollevata sapendo che tra poco sarebbe tornato e che le sarebbe stato accanto durante la cena, quando avrebbe dovuto parlare con mamma e papà.
Lanciò uno sguardo alla porta di casa, quasi si aspettasse di vederlo già di ritorno. Fuori era buio e l’oscurità della notte era ben visibile anche dalla finestra della cucina.
«Sono preoccupata, Alfred», mormorò Mary Ainsworth, mentre controllava le patate in forno.
Quando Ygraine li aveva pregati di andare in cucina, aveva pensato, per qualche istante, di protestare, ma aveva visto quanto fosse preoccupata la figlia e aveva creduto che fosse meglio lasciare soli il signor Piton e Rebecca, sperando di poter, d’altronde, presto capire per quale motivo Gawain si fosse accanito a quel modo contro la bambina.
«Anch’io, anche se credo che quell’uomo abbia la situazione sotto controllo. Mi sembra chiaro che Ygraine si fida completamente di lui.»
Mary annuì alle parole del marito. Aveva notato il modo con cui la figlia osservava l’uomo ed era certa che Ygraine dovesse avere le sue ragioni per nutrire quella fiducia così profonda nei suoi confronti.
«Chi pensi che sia?»
«Non lo so, ma nostra figlia non è una sprovveduta», affermò Alfred che, Mary lo sapeva perfettamente, aveva sempre avuto un rapporto particolarmente stretto con Ygraine. «Se si fida del signor Piton avrà degli ottimi motivi.»
Nessuno dei due fece cenno a quello che dovevano aver notato. La figlia cercava di nasconderlo, ma la conosceva da troppi anni per non comprendere che i sentimenti che Ygraine provava per quell’uomo erano profondi, ben più profondi di quelli che aveva dimostrato nei confronti di quel controtenore con cui si era fidanzata per qualche mese.
Il volto del signor Piton era invece illeggibile, per quanto fosse chiaro che tenesse a Rebecca, considerando il modo in cui l’aveva tenuta stretta a sé, fino a quando la bambina non aveva parlato, facendo riferimento ad un misterioso unguento. Forse l’uomo lavorava per qualche industria farmaceutica, anche se non credeva che la risposta fosse così banale.
Sentì dei passi nell’altra stanza, ma vinse la tentazione di aprire la porta e spiare cosa stesse accadendo. Preferì portare lo sguardo sul cielo notturno che si stava trapuntando di stelle.
E le stelle sembravano seguire i passi di Severus fino a quando non si trovò davanti alla porta della casa dei genitori di Ygraine. Non appena mise piede in salotto, Rebecca gli corse incontro e lo abbracciò con affetto.
La bambina si staccò quasi subito da lui, che prese l’unguento da una tasca. Senza dire una parola, Rebecca si sedette sul divano e attese che l’uomo si inginocchiasse davanti a lei. Fu un’operazione silenziosa e delicata. Gawain Ainsworth era stato più violento quel giorno ed i lividi erano più severi. Il mago sapeva che quell’unguento avrebbe permesso di riassorbirli più rapidamente, ma non sarebbe mai bastato per permettere a Rebecca di superare quello che era successo, soprattutto considerando che, un giorno, sarebbe dovuta tornare dai suoi genitori.
«Ti fa male anche da qualche altra parte?»
Rebecca scosse il capo, prima di rannicchiarsi sul divano. Dalla porta chiusa della cucina proveniva l’odore della cena che la madre di Ygraine stava preparando.
«Forse è meglio se andiamo di là.»
«Aspetta», la fermò l’uomo, tenendo ancora in mano l’unguento che aveva usato sulla bambina.
Ygraine si voltò verso la vetrina che conteneva il servizio da tè per le feste e notò solo allora la presenza di un livido, là dove Gawain l’aveva colpita. Severus le si era avvicinato, mentre Rebecca la stava osservando dal divano. Le dita dell’uomo erano gentili, mentre le applicava l’unguento. E le parve che quel gesto fosse lo specchio della gentilezza che l’uomo teneva nascosta, quella stessa gentilezza che l’aveva caratterizzato il giorno in cui aveva prestato il suo fazzoletto a Rebecca. Ed era uno specchio della sua nobiltà d’animo. Papà le aveva spiegato, un giorno, che nel Medioevo la parola gentilezza era utilizzata per designare la nobiltà d’animo e Severus, per quanto sembrasse pensare il peggio di sé, possedeva un animo nobile, reso tale da quelle stesse colpe che lo tormentavano e che aveva cercato di espiare in ogni modo possibile.
«Ti siederai di fianco a me, Severus?»
Rebecca si era avvicinata alla zia e all’uomo. Erano le uniche due persone di cui si fidasse completamente in quel momento. Forse anche dei nonni, ma temeva che facessero come mamma e papà, che appena avessero scoperto che lei era una strega non l’avrebbero amata più.
La zia però non aveva smesso di volerle bene e Severus le aveva appena detto che le avrebbe sempre voluto bene.
Prese la mano ad entrambi, mentre andavano in cucina.
I nonni stavano apparecchiando la tavola e sembravano tutti e due preoccupati, mentre si sedevano. Lei si mise tra Severus e zia Ygraine.
Era come se si fosse trovata tra mamma e papà.
E, per un attimo, sognò che fossero loro due i suoi genitori ed era certa che con loro sarebbe stata felice.
«Ygraine, cos’è successo?»
Mary Ainsworth aveva notato come la nipote non avesse ancora salutato né lei, né il marito e aveva visto il posto che aveva scelto per sedersi. Ma c’era qualcosa altro che aveva notato e che non riusciva a comprendere. I lividi sul volto di Rebecca erano molto meno evidenti in quel momento e allo stesso modo quello sul viso di Ygraine. Si chiese che unguento avesse utilizzato l’uomo che era giunto con loro.
«Mamma, papà», la voce di Ygraine era flebile. Mary notò che la mano che teneva la forchetta stava tremando leggermente. «Quello che sto per dirvi… avevo già pensato di farlo, dopo il compleanno, ma la situazione è precipitata e a Rebecca serve il vostro appoggio.»
«Quello che mi hai chiesto il mese scorso, quando hai voluto la chiave dell’appartamento di Tristan.»
Ygraine osservò i genitori, cercando di capire da dove cominciare. Forse avrebbe dovuto chiedere a Severus di spiegare tutto lui, ma credeva che fosse meglio che a iniziare il discorso fosse lei. Posò la forchetta sul piatto e portò le mani in grembo. Si voltò verso il mago e notò che la stava osservando ed il suo sguardo le diede il coraggio di continuare.
«Avete mai notato capitare delle cose strane a Rebecca?»
«Cosa intendi per strane, Ygraine?»
«Qualcosa di inspiegabile, papà… come dei fiori che cambiano colore senza alcun motivo.»
Non era certa che fosse la frase giusta da dire. Severus aveva fatto sembrare tutto così semplice e naturale quando aveva spiegato dell’esistenza del mondo magico a Rebecca, al punto che lei aveva creduto ad ognuna delle sue parole, senza nemmeno pensare a chiedergli di dimostrare che quello che stava dicendo fosse vero. Ma già allora si fidava istintivamente di lui.
«Ygraine, cosa stai cercando di dirci?» la voce della mamma era perplessa e la stava osservando con attenzione, com’era solita fare quando c’era un problema in famiglia.
«È complicato, mamma.»
«Forse dovresti cominciare dall’inizio e spiegarci come hai conosciuto il signor Piton.»
«L’ho incontrato alla Tate Britain, a dicembre dell’anno scorso. Ero con Rebecca e una donna ha manifestato il suo fastidio per qualcosa di inspiegabile. La donna diceva che la bambina aveva usato un pennarello per colorare i fiori sul suo vestito e Rebecca ha ammesso soltanto di aver pensato che il colore fosse brutto. Io non sapevo cosa fare, ma, alla fine ho convinto la donna ad uscire con me dalla sala e Rebecca ha preferito rimanere lì, sedendosi sul divanetto», Mary non commentò le parole della figlia, ma riteneva che Ygraine fosse stata irresponsabile a lasciare sola la nipote, per quanto potesse immaginare che non sapesse come comportarsi in quel momento. «Sul divanetto dove si è sistemata Rebecca, era già seduto Severus.»
«Ed è stato molto gentile, nonna. Mi ha prestato un fazzoletto.»
Severus scostò lo sguardo dai signori Ainsworth che stavano ascoltando con attenzione il racconto della figlia per portarlo su zia e nipote, in tempo per vedere Ygraine annuire in risposta alle parole di Rebecca. Nessuno nel Mondo Magico lo avrebbe definito in quel modo. Lui stesso non si sarebbe definito in quel modo ed era certo che Lily non lo avrebbe mai definito gentile, ma quell’ultimo pensiero lo mise a tacere. Non era quello il momento di analizzare la sua amicizia con la Grifondoro.
O, forse, non voleva ancora ammettere con sé stesso la verità.
«Ed è da allora che è entrato nella tua vita, Ygraine?»
«Non propriamente, papà», mentre Ygraine parlava, Severus si rese conto che era tutto accaduto rapidamente. In poche settimane era giunto a fidarsi della giovane Babbana, come non si era mai fidato di persone che aveva conosciuto per anni. E si era affezionato a tal punto a Rebecca, da iniziare a vederla come una sorta di figlia. «Abbiamo scambiato soltanto qualche fugace parola prima di un incidente a scuola. Ero andata a prendere Rebecca, perché la maestra aveva telefonato a casa. C’era stata una lite tra lei e un compagno di classe e quest’ultimo aveva accusato Rebecca di averlo graffiato, ma lei giurava di non averlo fatto. Non voleva nemmeno tornare a casa e mi ha chiesto di portarla al museo. Mi ha detto che le stavano accadendo delle cose strane, che aveva liberato una coccinella sciogliendo il ghiaccio, che quel giorno a scuola era impaurita e arrabbiata, ma che non ricordava di aver graffiato il bambino. Ci eravamo sedute accanto a Severus e gli ho chiesto, dato che lo avevamo disturbato altre volte, se gli avrebbe fatto piacere prendere un tè con noi. Ed è stato mentre eravamo nella caffetteria del museo che ha spiegato tutto a Rebecca.»
«Cos’ha spiegato, Ygraine?»
Mary si voltò verso Alfred, cercando la sua stessa perplessità e preoccupazione, ma il marito aveva sul volto la stessa espressione di quando aveva appena compreso quale lezione scegliere per l’edizione di un oscuro poema arturiano. Era come se avesse improvvisamente compreso cosa stava cercando di dire Ygraine, qualcosa che a lei sfuggiva completamente.
«Rebecca ha un dono, mamma, papà… possiede la magia.»
«Ygraine…»
«Mi vorrete ancora bene?»
La voce di Rebecca aveva interrotto la frase di sua madre. Ygraine si voltò verso la nipote e Severus e notò che l’uomo stava fissando con attenzione i suoi genitori, come se non volesse lasciarsi sfuggire nessuna sfumatura del loro sguardo. La bambina aveva spostato la sedia e si trovava più vicina al mago.
«Certo che ti vogliamo bene», la voce di papà era affettuosa e tranquilla, mentre mamma sembrava non sapere cosa dire, ma il suo volto era soltanto perplesso. Non c’era paura, né sospetto.
«Anche… anche se non sono come gli altri bambini?»
«Naturalmente, Rebecca, per quanto forse ci dovresti spiegare meglio quello che ci stava dicendo la zia.»
Mary invidiava il marito che appariva così tranquillo, ma lui passava le sue giornate immerso nella lettura delle avventurose imprese di cavalieri che incontravano ogni sorta di sortilegio. Ed era stato per quello che si era innamorata di lui. Tutti gli altri ragazzi del villaggio erano eccitati dall’uscita di un nuovo film o di una nuova canzone, mentre Alfred Ainsworth stava studiando filologia e non sembrava saper parlare d’altro che di Lancelot, Guenevere – guai a chiamarla Ginevra – o qualche cavaliere della Tavola Rotonda. E lei ne era rimasta affascinata, forse perché, con le sue storie la portava lontana dalla dura realtà che affrontava ogni giorno nel suo mestiere. Gli aveva anche lasciato scegliere i nomi dei loro figli, per quanto inusuali potessero essere.
«Lo farò io.»
Era la prima volta che il signor Piton interveniva da quando avevano iniziato a parlare, mentre la cena si stava raffreddando. Mary aveva notato come Rebecca si fosse mossa avvicinandosi a lui e si chiese quanto dovesse averla ferita Gawain perché la nipote giungesse ad affidarsi così tanto ad un uomo che conosceva da poco tempo.
E rimase ad ascoltarlo, mentre spiegava brevemente dell’esistenza di un mondo parallelo al loro fatto di maghi e di streghe, un mondo di cui sua nipote, a quanto pareva, faceva parte. E lei non riusciva a capire se fosse un pazzo o se stesse dicendo la verità. Alfred stava accogliendo con tranquillità quello che il signor Piton stava dicendo, come doveva averlo fatto Ygraine, che era più simile al padre di quanto lei non avesse mai creduto.
Più di Tristan, per quanto fosse certa che il figlio avrebbe abbracciato subito quello che era appena stato detto.
«Forse, signora Ainsworth, le risulterà più facile capirlo, se ne avrà una prova concreta.»
Mary annuì soltanto. La sua perplessità doveva essere incredibilmente visibile se quell’uomo aveva anticipato la sua domanda. Lo vide prendere in mano qualcosa di molto simile alla bacchetta di un direttore d’orchestra, anche se le sembrava più pericolosa. Poi lo sentì mormorare delle parole in quello che credeva essere latino e i bicchieri divennero tutti verdi. Se avesse fatto scomparire qualcosa avrebbe potuto credere in un trucco da prestigiatore, ma non avrebbe potuto in alcun modo sostituire tutti i bicchieri con bicchieri nuovi. Poco dopo mosse di nuovo la bacchetta e i bicchieri tornarono trasparenti com’erano prima.
«Ci credi adesso, mamma?»
«Non so come farei a non crederci… e, Rebecca, avrai tutto il mio appoggio e quello di Alfred. Non so come mi sento a sapere che esistono persone che possono fare quello che ha appena fatto il signor Piton, ma so che ti voglio bene e che ti appoggerò nel tuo futuro.»
Mary notò il sorriso sollevato sul volto della figlia e che la nipote sembrava più calma, anche se aveva ancora gli occhi tristi. Tagliò un pezzo di carne e se lo portò alla bocca. Era straordinariamente ancora caldo, come se fosse appena stato tolto dalla padella. Lanciò un’occhiata verso il signor Piton, ma l’uomo sembrava impegnato a rispondere ad una domanda della nipote.
Guardò per un istante fuori dalla finestra, decidendo di aspettare la fine della cena prima di chiedere alla figlia di Gawain, ma temeva di sapere cosa fosse accaduto. Al di là dei vetri la notte si era fatta cupa e le stelle sembravano aver abbandonato i cieli inglesi nel Kent, come a Londra.
Nell’appartamento degli Ainsworth, né Gawain né Margaret riuscivano a pensare ad altro se non a quello che era accaduto.
L’uomo si era avvicinato al telefono tre volte con l’idea di telefonare alla madre e per tre volte aveva rinunciato. Non avrebbe nemmeno saputo cosa dirle. Sapeva che quando Rebecca fosse arrivata avrebbe portato i segni della sua rabbia ed era cosciente che la mamma aveva lavorato per qualche anno nei Servizi Sociali.
Si disse che era tutta colpa di quel mago, ma sapeva che non era vero.
Quel pensiero era il peggiore di tutti.
E lo riempiva di nuova rabbia nei confronti di un criminale che si stava dimostrando migliore di lui.
Avrebbe potuto dire che quel Piton gli aveva rubato la figlia, ma sapeva che Rebecca si era allontanata da loro perché lui non era riuscito ad accettare il fatto che non fosse una bambina come tutti gli altri.
Si voltò verso Margaret e lesse nei suoi occhi i suoi stessi pensieri.
La stessa rabbia.
E la stessa paura.
E non riusciva nemmeno più a capire a chi fossero indirizzate quella rabbia e quella paura.

 
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Capitolo XX - Parte IV

Der Wegweiser


Gran Bretagna, 5 marzo 2002


Nel Kent tutto si era fatto buio. La casa degli Ainsworth era quasi completamente immersa nell’oscurità. Rebecca era andata a dormire subito dopo cena, esausta, lasciando che gli adulti parlassero tra loro di quello che era accaduto. Aveva solo ottenuto che la nonna chiedesse a Severus di fermarsi per quella notte, perché sapeva che si sarebbe sentita al sicuro sapendolo sotto lo stesso tetto.
Mary e Alfred Ainsworth avevano ascoltato sconfortati quello che Ygraine e il signor Piton avevano detto. Sapevano entrambi che Gawain e Margaret avevano distrutto qualsiasi fiducia Rebecca avesse in loro e quello era un pensiero orribile. La donna decise di andare a Londra il giorno successivo per provare a parlare con il figlio, per capire cosa lo avesse spinto a rifiutare in quel modo la natura stessa di Rebecca. Poteva comprendere che Gawain potesse sentirsi a disagio. Lei stessa si sentiva scossa dall’aver appreso dell’esistenza di quel mondo parallelo di cui non avrebbe dovuto fare parola a nessuno. Ed era certa che ci fossero altre cose che non le erano state dette, cose che forse non voleva nemmeno sapere.
Avrebbe appoggiato la nipote perché l’amava e non voleva perderla, ma sperava, al contempo, di non dover conoscere molti altri maghi e di non mettersi ad osservare ogni vicino di casa per capire se uno di loro aveva una bacchetta come quella del signor Piton.
Si rannicchiò contro il marito. Alfred sembrava invece piuttosto eccitato all’idea che Rebecca fosse una strega ed era certa che unicamente la gravità di quello che aveva fatto Gawain lo avesse bloccato da porre delle domande al mago che Ygraine aveva conosciuto in maniera così casuale e per cui la figlia pareva nutrire sentimenti così profondi.
E quello era un’altra cosa strana.
Ygraine non era mai stata una persona istintiva, ma in quel frangente pareva essersi fidata fin da subito del signor Piton e in pochi mesi aveva stretto con lui un rapporto di amicizia più profondo di quello che aveva con Dominique o con Jane, per quanto a lei la pianista non fosse mai piaciuta.
Fuori la notte era cupa e una pioggia leggera aveva iniziato a cadere sul Kent. La casa degli Ainsworth era quasi tutta immersa nell’oscurità, tranne che per una luce fioca che proveniva dallo studio di Alfred, dove si trovavano Severus e Ygraine, accanto alla scrivania, ingombra di libri, fogli e microfilm. La giovane donna sembrava più tranquilla in quel momento, notò l’uomo, che l’aveva raggiunta dalla stanza degli ospiti, dove aveva appena posato un cambio di vestiti e il regalo che aveva preparato per la bambina, che era andato a recuperare nella casa di Spinner’s End. Quando Mary Ainsworth gli aveva chiesto di rimanere per notte, seguendo le parole che Rebecca aveva mormorato, non aveva osato rifiutare, non di fronte allo sguardo bisognoso di conforto della bambina. In quel momento, mentre si trovavano in quella stanza resa angusta dal numero di oggetti presenti, Ygraine lo stava osservando con gli occhi nocciola colmi di fiducia e di amicizia profonda.
«Sono felice che mamma e papà siano stati ragionevoli.»
«Tua madre farà più fatica ad accettare la verità. Non rifiuterà Rebecca, ma potrebbe non riuscire ad essere totalmente coinvolta nella sua vita di strega.»
«Sì, me ne sono accorta. Papà sembra invece entusiasta», Ygraine osservò Severus che aveva lo sguardo rivolto all’oscurità fuori dalla stanza.
«Forse tuo padre potrebbe aver letto qualche poema scritto da un mago. A quell’epoca la distanza tra i nostri due mondi non era così marcata e alcuni poeti di romanzi cavallereschi erano maghi. Sono certo che un membro di Serpeverde abbia scritto un poema in anglonormanno quando è arrivato alla corte di Alienor d’Aquitania.»
Ygraine osservò lo studio del padre, chiedendosi se in qualcuno di quei microfilm non ci fosse anche la riproduzione di uno di quei poemi.
«Ma non dovrebbero non essere accessibili a noi Babbani?»
«Non sono un esperto, ma da quel che so venivano create delle copie per le corti Babbane e delle copie per i maghi. A differenziarle erano le miniature, ma temo che molte famiglie Purosangue non siano state particolarmente attente con i loro libri più antichi, soprattutto quelli che non parlavano di incantesimi. Molti manoscritti sono andati perduti, distrutti dalla cattiva cura dei loro proprietari.»
Il che era un peccato, si disse l’uomo. Non vi aveva mai realmente riflettuto, ma solo in quel momento si rese conto che l’educazione offerta a Hogwarts mancava di qualsiasi insegnamento che esulasse dalla pratica magica. Non c’era nemmeno un cenno alla letteratura, all’arte o anche solo alla matematica. Aveva sentito dire che in alcune zone d’Europa avevano iniziato ad aprire delle piccole scuole di magia in cui si affiancavano agli insegnamenti tradizionali altri che intrecciavano maggiormente Mondo Magico e Babbano, in corsi ben diversi e più variegati di Babbanologia.
«Papà inorridirebbe», Ygraine gli sorrise appena. Era una conversazione tranquilla, come altre che avevano avuto, per quanto fossero entrambi coscienti, ne era certo, di quello che era avvenuto quel giorno. «Severus, credi che dovrei tentare di parlare con Gawain, nei prossimi giorni?»
«Non ritengo che tuo fratello ti starebbe a sentire più di quanto non abbia fatto nelle settimane scorse», l’uomo vide la giovane donna annuire.
Era certo che gli avesse posto quella domanda, unicamente perché sentiva il bisogno che qualcuno confermasse quello che lei già sapeva. Gawain aveva colpito anche lei quel giorno ed era certo che Margaret odiasse la cognata, per quanto lui trovasse inconcepibile che qualcuno potesse odiare Ygraine.
La osservò con attenzione, mentre i suoi occhi, sempre così espressivi, si facevano tristi.
Ma poco dopo lo osservarono grati e, improvvisamente, quella gratitudine gli fece salire la bile in gola, perché, nonostante quello che aveva detto a Gawain e Margaret Ainsworth, non riusciva ad impedirsi di sentirsi colpevole per il male che aveva colpito Rebecca e, di conseguenza, Ygraine, per come non era riuscito a proteggere realmente la bambina come invece avrebbe voluto.
«Ti sono grata per tutto quello che hai fatto oggi, Severus», la voce della giovane donna era tranquilla e i suoi occhi colmi di gratitudine e di ammirazione, due sentimenti che sapeva di non meritare. «E vorrei ringraziarti per tutto quello che hai fatto per Rebecca. Se non…»
«E per cosa vuoi ringraziarmi di preciso, Ygraine? Per essere la causa di tutto quanto è accaduto? Per…», si interruppe di colpo. Non era stata sua intenzione pronunciare quelle parole, né usare quel tono duro. Tuttavia, era da quando Rebecca era andata da lui e, ancor più da quando aveva cenato con gli Ainsworth che non riusciva a fare altro che a pensare a come, in definitiva, fosse a causa sua se Rebecca soffriva in quel modo. «So quanto possa essere difficile per un Babbano accettare la magia. Non avrei dovuto rivelare tutto a Rebecca o avrei dovuto proporti di parlare poco dopo con tuo fratello. O, anche se non avessi pensato a tutto questo, avrei dovuto comprendere che il nostro sotterfugio non sarebbe durato.»
«Come potevi immagine che Gawain avrebbe reagito in quel modo? Da quando mio fratello e Margaret hanno saputo della magia, tu hai fatto il possibile per aiutare Rebecca», la voce di Ygraine era pacata. Era vicinissima a lui e poteva leggere la fiducia profonda nei suoi occhi nocciola. «Se mia nipote sa ancora sorridere, è per merito tuo, Severus. È stato da te che si è rifugiata quando Gawain l’ha picchiata per la prima volta. Non ha nemmeno pensato di venire a teatro o di andare da Jane. E, ti prego, Severus, non addossarti la responsabilità delle scelte di mio fratello e di mia cognata. L’hai detto tu stesso oggi, in casa loro… sono stati loro a fare tutto, a perdere Rebecca. Nulla di quello che è accaduto a mia nipote è colpa tua. L’unica cosa che hai fatto è stato starle vicino e proteggerla.»
Severus osservò gli occhi sinceri della donna e cercò di afferrare quelle parole assolutorie. Lottò con sé stesso per accettare il perdono, almeno in quell’occasione, almeno quella volta. Sapeva razionalmente che Ygraine aveva ragione, che lui non aveva nessuna responsabilità nelle scelte di Gawain Ainsworth, ma non riusciva ad eliminare del tutto il timore di essere sul punto di distruggere una delle cose migliori che gli fosse mai capitata, di poter, un giorno, fare qualcosa che gli avrebbe fatto perdere l’affetto di Rebecca, di arrivare a ferire Ygraine e di riuscire, in qualche modo, a scalfire la sua incrollabile fiducia.
Aveva semplicemente paura.
Non aveva mai provato nulla di simile a quello che sentiva per Rebecca. O, forse, non aveva mai voluto provarlo, nemmeno con i ragazzi di Serpeverde che più gli parevano in difficoltà. Quando aveva potuto, li aveva aiutati, da lontano, guidandoli con consigli pronunciati con freddezza o sarcasmo, ma non aveva mai osato provare alcun sentimento paterno per nessuno di loro.
Le sue mani erano sporche di sangue e si sarebbero sporcate di altro sangue, quando sarebbe dovuto tornare al servizio dell’Oscuro Signore, per compiere il suo dovere, per tentare inutilmente di espiare. E per quello non aveva mai potuto nemmeno lavorare apertamente per impedire ad altri ragazzi della sua o di altre case di compiere il suo stesso imperdonabile errore.
«Sei una brava persona, Severus», la voce della giovane donna era poco più di un sussurro gentile, nel silenzio della stanza.
E fu come se la giovane donna gli avesse appena detto che lo stava perdonando per tutte le sue imperdonabili colpe.
E fu come una pugnalata, perché non credeva di meritare quelle parole, di meritare il dolce dono del perdono.
«Sai che non è vero, Ygraine.»
«Invece lo sei, altrimenti non ti saresti mai preso cura di Rebecca come hai fatto oggi, né come hai fatto il giorno in cui è andata a casa tua. Nulla ti obbligava a cucinare insieme a lei, né a frapporti tra lei e Gawain oggi, né a parlare con mio fratello e a convincerlo a farci venire qui per qualche giorno.»
«Perché continui ad ignorare che sono un mostro, che ho portato morte e distruzione con le mie mani? Che ho deciso di essere marchiato in questo modo perché le mie mani diventassero le mani di un assassino?»
Voleva che Ygraine vedesse il simbolo indelebile della sua colpa, per quanto il Marchio Nero fosse ormai diventato una nera cicatrice sul suo avambraccio sinistro e la sua forma non fosse più del tutto leggibile.
Stese il braccio verso la giovane donna, dopo aver scoperto il grumo nero che aveva tanto desiderato nella sua gioventù e che tanto aveva odiato nella sua vita di adulto. Ygraine non indietreggiò, ma non credeva nemmeno che l’avrebbe fatto.
Non si aspettava però che sfiorasse l’ombra sbiadita del Marchio Nero con una mano, piccola e delicata.
E pura.
Con l’altra gli prese la mano destra e la sollevò delicatamente, come se la volesse osservare.
«Lo sono state, quando ti sei sentito potente nel togliere una vita, ma sono trascorsi anni da allora e tu non sei più quel ragazzo.»
«Sai perfettamente che ho ucciso anche dopo, che…»
«Io non vedo le mani di un assassino, ma quelle della persona che ha offerto conforto a Rebecca oggi, che ha offerto conforto a me nella casa di Tristan e che ha curato i nostri lividi nel salotto dei miei genitori, con un unguento che devi aver prodotto tu stesso», le mani di Ygraine sembravano incredibilmente pure, una nella sua mano destra e l’altra posata sul suo avambraccio sinistro. E in quel momento, si rese conto di non aver permesso a nessun altro, se non alla donna e alla nipote, di toccarlo così a lungo. Non si era mai sentito a suo agio, forse perché i primi ricordi che aveva delle mani di qualcuno, erano quelli di suo padre che lo picchiava sotto lo sguardo indifferente di sua madre. «E il Marchio non è soltanto il simbolo di quello che sei stato quando hai scelto di unirti all’Oscuro Signore, ma soprattutto di ciò che hai fatto per espiare quella scelta. Quando ti guardo non vedo un mostro, Severus, ma una brava persona.»
L’uomo non disse nulla. Non riusciva a ribattere alle parole della giovane donna, che, mai come in quel momento, gli stava offrendo il perdono. Era come se le sue mani pure stessero lavando il sangue presente sulle sue mani colpevoli. Era come se stessero purificando l’orribile simbolo della sua colpa.
E, per qualche breve istante, rimase immobile ad assaporare quella sensazione e, per qualche breve istante, credette che, forse con il tempo avrebbe potuto raggiungere il perdono che tanto agognava.
Ma quando posò lo sguardo sulla mano candida di Ygraine posata sul suo avambraccio non poté fare a meno di chiedersi se non stesse sporcando quella purezza con il sangue che aveva sparso da quando aveva deciso di essere marchiato.
Si scostò bruscamente dalla giovane donna e non appena le ebbe dato le spalle avrebbe voluto tornare indietro per sentire anche solo per un altro breve momento il perdono che gli veniva offerto senza chiedergli nulla in cambio.
«Ti sbagli, Ygraine», affermò, senza osare voltarsi, mentre copriva rapidamente il braccio. «Non sono altro che un patetico esemplare di essere umano che non ha saputo far altro che accumulare scelte orribilmente sbagliate e distruggere quel poco che di buono gli sia mai capitato.»
Sentì i passi della giovane avvicinarsi a lui, ma continuò a rimanere voltato verso uno strano albero genealogico fatto di lettere dell’alfabeto latino e greco mescolate in maniera incomprensibile. Temeva che, se si fosse girato verso di lei, avrebbe letto la delusione nei suoi occhi nocciola o forse li avrebbe visti feriti dal suo allontanamento e dalle sue parole brusche.
«Severus, perché continui ad odiarti?»
Ygraine avrebbe voluto che l’uomo si girasse verso di lei, che la guardasse. E avrebbe voluto abbracciarlo per potergli offrire il suo amore silenzioso, ma rimase ferma dov’era a pochi passi da lui.
«Come potrei non odiarmi?» la voce di Severus era ancora dura, come lo era stata pochi momenti prima. «Come potrei non disprezzare le mie mani coperte del sangue delle persone che ho assassinato e di quelle che ho dovuto lasciar morire? Come potrei non biasimarmi per aver scelto di farmi incidere il Marchio Nero? Come puoi anche solo pensare che io sia una brava persona, Ygraine, quando non lo sono mai stato?»
L’uomo si girò verso la giovane donna, che si trovava a pochi passi da lui, il volto illuminato dalla luce elettrica, stranamente ovattata della stanza. Non aveva mai detto nulla del genere a nessun altro, ma a nessun altro aveva mai confessato ogni cosa della sua vita come aveva fatto con lei e nessun altro gli aveva mai detto che lo riteneva una brava persona.
Già da tempo sapeva che qualsiasi maschera era crollata con Ygraine e Rebecca, ma non gli fu mai evidente come in quel momento, in cui stava mettendo a nudo la disperazione della sua anima, che era stata, forse, accentuata da quello che era accaduto a Rebecca.
«Invece lo sei stato, Severus, dal momento in cui ti sei accorto della gravità dell’errore che avevi commesso. Poche persone hanno la forza di ammettere i propri errori, anche i più insignificanti, ma tu hai compreso e non ti sei fermato alla comprensione, ma sei riuscito a trovare un modo per rimediare, anche se questo ha significato percorrere un cammino solitario, difficile e doloroso. Ed è per questo che so, senza alcuna ombra di dubbio, che sei una brava persona, che non hai ragione per continuare a odiarti e che il sangue che vedi sulle tue mani è stato da tempo lavato.»
Le parole di Ygraine erano come un balsamo, come una preziosa e rara pozione che avrebbe potuto guarire anche la sua anima spezzata.
E forse poteva sperare di riuscire in parte a perdonarsi, perché sapeva – e lo ammetteva solamente in quel momento – che non era mai riuscito a trovare il perdono che agognava perché lui era il primo a non riuscire a perdonare nessuna delle colpe che aveva commesso.
«Ygraine…», si interruppe incerto. Per un istante avrebbe voluto sfiorarle una mano, per riprovare la sensazione di perdono di pochi istanti prima, ma non lo fece, timoroso di macchiare la purezza della giovane. «Non avrei dovuto…», le parole gli mancarono nuovamente. Avrebbe voluto ringraziarla per il perdono che ogni volta gli donava, per le parole gentili che gli rivolgeva e per la sua fiducia profonda. «… non avrei dovuto caricarti di questo peso, Ygraine, non adesso, non oggi… Rebecca dovrebbe essere il nostro unico pensiero.»
«E sono certa che lo sia. Se non lo fosse non saresti qui, Severus», mormorò la giovane donna facendo un passo verso di lui. «Sono felice che tu abbia parlato con me, così come sono felice di averti parlato di mio fratello tempo fa. Sei il mio più caro amico e sarei una ben misera amica se rifiutassi di ascoltarti.»
L’uomo osservò gli occhi nocciola di Ygraine e vi lesse l’amicizia di cui parlava e per un istante la immaginò al posto di Lily davanti all’ingresso della sala comune di Grifondoro ed ebbe la certezza che lei lo sarebbe stata a sentire, che non gli avrebbe chiuso la porta in faccia, come aveva fatto una ragazza che credeva gli fosse stata amica.
Sapeva che presto o tardi avrebbe dovuto fare i conti con quei pensieri, che avrebbe dovuto riesaminare tutto il suo rapporto con Lily, ma non era quello né il tempo, né il luogo.
Allungò esitante una mano fino a che non afferrò quella di Ygraine, sperando di riuscire a comunicarle con quel gesto la sua gratitudine, e vide un lieve sorriso sulle labbra della giovane donna.
E si sentì confortato da quel contatto fisico che per molte altre persone poteva sembrare banale, ma lui aveva sempre evitato il più possibile di toccare gli altri, forse perché aveva paura di essere respinto, forse perché era rimasto in lui un rimasuglio del bambino timido e introverso che aveva parlato con Lily nel parco.
«Ygraine…»
La porta si aprì di scatto, interrompendolo, e forse era un bene, perché non aveva alcuna idea di come riuscire a ringraziare a parole la giovane donna. Sulla soglia c’era il padre del soprano con la vestaglia malamente allacciata sopra il pigiama.
«Rebecca chiede di lei, signor Piton.»
Severus annuì soltanto, prima di lasciare andare la mano di Ygraine e seguire il signor Ainsworth fuori dalla stanza.
«Si è svegliata pochi istanti fa ed è entrata in camera nostra in preda al panico perché non riusciva a trovarla.»
Severus non disse nulla, ma poteva immaginare quello che era accaduto. Rebecca doveva aver avuto un incubo ed ora era sola e spaventata perché lui aveva scelto proprio quella sera per parlare con Ygraine. Eppure, sapeva che non avrebbe potuto fare diversamente e si disse che non doveva rimproverarsi per quello, che, almeno quella volta, doveva lasciar andare qualsiasi senso di colpa provasse.
E si rese conto di riuscirci.
Non aveva abbandonato la bambina e quelle parole nello studio del signor Ainsworth erano nate unicamente dalla colpa che provava nei confronti di Rebecca stessa, una colpa che, se ne rendeva conto in quel momento, non aveva alcun motivo di esistere.
E, mentre si avvicinava alla soglia della camera della bambina, gli parve che il peso che gli gravava sulle spalle si stesse alleggerendo, che, forse, stava imparando a perdonarsi, per quanto dubitasse di riuscire a farlo con le colpe ben più gravi che aveva commesso.
Rebecca era seduta sul letto e sembrava sperduta, ma non appena lo vide gli sorrise e gli fece segno di avvicinarsi.
«Ho sognato che papà mi voleva portare via da te.»
Severus osservò la bambina, dopo essersi seduto sul letto, chiedendosi come risponderle, senza dirle la cruda verità e senza mentirle. Gawain Ainsworth avrebbe potuto impedirgli di avvicinarsi a Rebecca ed era certo che lo avrebbe fatto, non appena quei pochi giorni che era riuscito ad ottenere sarebbero trascorsi. Ma quelle parole non erano adatte a quella sera.
«Rebecca…»
«Può farlo, non è vero? Il nonno mi ha detto che non è possibile, ma papà o mamma possono… loro…»
«Sì, è in loro potere farlo.»
Non poteva dire nulla di diverso. Rebecca aveva già capito da sola la verità e lui non le avrebbe mentito, non avrebbe tentato di consolarla donandole una finta speranza che sarebbe stata subito infranta.
«Ma io non voglio che lo facciano.»
«Nemmeno io, Rebecca.»
Era stato stranamente facile dire quelle parole, esprimere quel sentimento, quell’attaccamento alla bambina. Forse, alla fine, lui e Rebecca condividevano in parte le stesse paure, forse entrambi temevano di essere separati per sempre.
«E se lo faranno… riuscirò anche solo a vederti?»
«Farò quanto è in mio potere perché accada.»
E sapeva perfettamente dove poter incrociare la bambina. Era già stato altre volte alla scuola di Rebecca e lì aveva la possibilità di tenersi in disparte. Avrebbe anche potuto far sapere alla bambina, tramite Ygraine, dove guardare. Sarebbe stato un ben misero sostituto, ma non c’erano molte altre soluzioni, se non pensare a degli incontri casuali. Avrebbe forse potuto dire ai genitori di Ygraine di aiutarli, ma non voleva che quelle persone gentili iniziassero a mentire al loro stesso figlio.
«È tutta colpa mia.»
«Rebecca…»
«Ho detto il tuo nome… ho rovinato tutto e…»
«Non hai nessuna responsabilità in quello che è accaduto», mentre parlava all’uomo non sfuggì l’ironia della situazione, il modo in cui stesse dicendo alla bambina parole molto simili a quelle che Ygraine gli aveva rivolto pochi minuti prima. «Quel sotterfugio non sarebbe durato ancora a lungo e, forse, non avremmo mai dovuto metterlo in pratica.»
«Però sono stata io a parlare. Se non avessi detto il tuo nome… non mi lasceranno mai fare le lezioni di disegno con te.»
La bambina si rannicchiò contro Severus e si chiese se non esistesse un modo per rimanere sempre con lui. Quando si era svegliata, era corsa nella stanza dove i nonni avevano ospitato l’uomo e, quando non l’aveva visto, aveva avuto una paura orribile. Adesso, mentre lo abbracciava, si ricordò che c’era una borsa appoggiata sul letto, ma in quel momento aveva avuto paura, anche se non aveva senso, perché Severus le aveva detto che sarebbe rimasto quella sera e lui non infrangeva mai le promesse.
«Sì, sei stata tu a parlare, Rebecca, ma nulla di quello che è accaduto con i tuoi genitori è colpa tua.»
Rebecca si allontanò un istante da Severus per poterne osservare il volto serio e seppe che quella era la verità, perché l’uomo non le aveva mai mentito.
E lei gli voleva bene per quello.
Gli sorrise appena.
«Rimarrai con me ancora un po’?»
Dalla soglia, Ygraine osservò Severus annuire. Rebecca si staccò da lui e andò a prendere un libro dal comodino. E quando l’uomo iniziò a leggere, con la bambina accoccolata contro, la giovane donna si allontanò in punta di piedi.



Londra, 9 marzo 2002


Gawain Ainsworth non riusciva a comprendere se fosse felice all’idea che il giorno successivo Rebecca sarebbe tornata a casa.
Non sapeva nemmeno cosa pensare della conversazione che aveva avuto con la madre il giorno del compleanno di Rebecca. Anche lei aveva accettato la magia e aveva deciso di appoggiare la nipote. Gli aveva chiesto spiegazioni, ma, quel giorno, la mente della mamma gli era sembrata avvelenata da quello che dovevano averle detto la sorella e Piton.
O, almeno, era quello che aveva voluto pensare.
Ma in quel momento, mentre aspettava che Margaret tornasse a casa, riusciva a pensare soltanto che il giorno dopo sarebbe arrivata in casa sua una bambina che né lui né sua moglie riuscivano a riconoscere.
Si avvicinò alla finestra e, per un istante, gli parve di vedere un segnale stradale che indicava una biforcazione, un’immagine assurda e del tutto illogica, ma sapeva di dover compiere delle scelte.
E di averne fatte di atroci.
Per quanto avesse voluto dirsi che erano state le circostanze a portarlo a picchiare Rebecca, era cosciente che quel gesto lo aveva compiuto liberamente, che avrebbe potuto agire in maniera completamente diversa.
Quando sentì aprirsi la porta, si voltò verso la moglie che aveva in mano le borse della spesa.
«Cosa faremo domani?»
Non le diede nemmeno il tempo di sistemare gli acquisti, ma quella domanda lo tormentava da quando Rebecca era uscita da quell’appartamento in braccio a Piton.
«Non lo so.»
Margaret ripose il latte in frigorifero, prima voltarsi verso il marito. Sapeva che dovevano parlarne. Avevano entrambi evitato il discorso durante i giorni precedenti e nessuno dei due aveva detto nulla il sei. Rebecca aveva compiuto nove anni e aveva festeggiato il compleanno con i nonni, Ygraine e, con ogni probabilità, Piton. Era stata gelosa di tutti loro quel giorno, ma in quel momento si rendeva conto che a creare quella situazione erano stati loro.
Come aveva detto quel maledetto mago.
Le costava ammettere che l’uomo aveva avuto ragione in ogni singola parola che aveva pronunciato, ma era la pura e semplice verità.
«Non so… non sono sicuro di riuscire ad agire in maniera diversa con lei.»
La donna osservò il marito, che la stava aiutando a sistemare la spesa, con gesti quasi meccanici. Non sapeva come dirgli che lei era certa di non essere in grado di agire in maniera diversa. Il giorno prima aveva provato ad immaginarsi Rebecca tra qualche anno, quando sarebbe andata – a detta di Ygraine – in quella scuola di magia in Scozia, e a cercare di capire che rapporto avrebbe potuto avere con la figlia ed era giunta alla sola conclusione che non sarebbe mai stata in grado di non aver paura di lei, di quello che avrebbe potuto fare.
Non sapeva nemmeno se sarebbe riuscita ad amare ancora la bambina.
Non sapeva nemmeno se l’amava ancora in quel momento.
«Cosa provi per lei, Gawain?»
L’uomo alzò lo sguardo dall’insalata che teneva in mano e fissò il volto della moglie. Fino a qualche giorno prima avrebbe risposto con assoluta certezza che amava sua figlia. In quel momento, però, non ne era così sicuro.
Non aveva idea di come potesse affermare di amarla dopo quello che aveva fatto.
Non l’aveva nemmeno mai cercata in quei giorni, non aveva nemmeno telefonato alla madre per chiederle notizie di Rebecca.
Non gli era neanche venuto in mente di informarsi su Ygraine.
Forse la sorella era stata a Londra in quei giorni, a teatro, ma non aveva mai nemmeno immaginato di poter parlare con lei.
Guardò il primo disegno che Rebecca aveva fatto con Piton, appeso sul frigorifero. Sapeva di amare ancora la figlia, ma non abbastanza per vincere le sue paure e per accettare che non fosse come tutti gli altri. Non voleva che la sua bambina fosse diversa, che quella sua maledizione lo portasse a mentire con tutti quelli che conosceva, con i colleghi e gli amici.
Temeva di giungere a odiarla un giorno, di continuare a picchiarla o di abbandonarla alla freddezza che Margaret aveva dimostrato nei suoi confronti.
Di picchiare ancora Ygraine che aveva tentato di farlo smettere.
Nemmeno la certezza che Piton sarebbe venuto a sapere quello che aveva fatto gli faceva credere che sarebbe riuscito a controllarsi.
«Non lo so, Margaret. O, forse, so con certezza che non potrò mai comprendere il mondo a cui appartiene.»
Sua moglie annuì.
Misero a posto quel che rimaneva, in silenzio, poi andarono in salotto.
E a Gawain parve di vedere di nuovo due segnali stradali. Se li immaginò, uno che gli diceva di mantenere le cose come stavano, di andare a prendere Rebecca nel Kent il giorno dopo; l’altro che gli diceva di prendere una decisione totalmente diversa.
Osservò con attenzione il volto della moglie.
E seppe quale scelta compiere.

 
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Capitolo XXI

Das Wirsthaus



Sind denn in diesem Hause die Kammern all' besetzt?
Bin matt zum Niedersinken, bin tödlich schwer verletzt.
(Sono tutte occupate le camere, in questa casa?
Sono spossato, non mi reggo più, sono mortalmente ferito.)


Gran Bretagna 11 – 12 marzo 2002


Il treno verso Londra avanzava lentamente attraverso la campagna, ma Ygraine non riusciva a pensare ad altro che all’incontro che le aveva richiesto il fratello. Di fronte a lei, era seduto Severus che l’avrebbe accompagnata subito dopo a teatro e che aveva accettato con grazia il suo rifiuto a viaggiare ancora con quel metodo magico, a meno che non fosse assolutamente necessario.
Rebecca era rimasta nel Kent con i suoi genitori, per quanto avesse salutato l’uomo come se temesse di non vederlo più. Durante quei giorni, aveva notato come l’attaccamento della bambina per Severus era cresciuto a dismisura e Ygraine temeva quello che sarebbe accaduto quando Gawain e Margaret avrebbero deciso di avere di nuovo Rebecca a casa, per quanto non lo avessero fatto il giorno che avevano concordato di andarla a prendere, adducendo una motivazione quanto mai oscura.
Probabilmente, però, il fratello voleva parlare del ritorno di Rebecca a casa e credeva che avesse scelto una caffetteria per evitare scenate o qualsiasi riferimento alla magia.
«Rimarrai con me, mentre parlo con Gawain e Margaret?»
«Credi che sia saggio?»
Ygraine osservò il volto del mago e tentò di trarre forza dalla sua calma, di non sentirsi così tremendamente incerta di fronte alla prospettiva di incontrare il fratello. Era, altresì, certa che non sarebbe mai riuscita ad affrontare Gawain da sola, che avrebbe avuto bisogno di sentire accanto a sé la presenza dell’uomo che, in quei giorni, era riuscito a donare tranquillità a Rebecca.
E a lei.
«Non sono certa di riuscire a rimanere sola con Gawain e Margaret.»
L’uomo notò che il volto di Ygraine esprimeva incertezza, che la giovane donna era, forse, sconfortata di fronte a quello che sarebbe potuto accadere tra lei e il fratello e di certo non poteva darle torto, considerando quello che era accaduto a casa dell’uomo.
Osservò il cielo nuvoloso al di fuori del finestrino del treno, che pareva quasi voler preannunciare un incontro burrascoso.
Anche Rebecca stava osservando le nuvole al di là dei vetri del salotto dei nonni. Sapeva che avrebbe dovuto allontanarsi, che Severus e la zia sarebbe tornati soltanto nel tardo pomeriggio, ma non riusciva ad allontanarsi da lì. Forse sarebbe dovuta andare con loro, insistere affinché la portassero a Londra, ma aveva seguito il consiglio dei nonni ed era rimasta con loro nel Kent.
«Rebecca, ti andrebbe di venire con me alla libreria?»
La bambina scosse il capo. Se fosse andata con la nonna, quando Severus e la zia fossero tornati non avrebbero saputo dove trovarla.
«Forse potresti andare dal nonno. Sta studiando un nuovo manoscritto, che ha delle bellissime miniature.»
«Ma…»
«Rebecca, il signor Piton e Ygraine torneranno prima che tu te ne accorga.»
Mary Ainsworth aveva notato che la nipote non si era allontana dalla finestra da quando il mago e la figlia erano partiti mezz’ora prima. Doveva trovare il modo di parlare con entrambi di quello che stava accadendo. Sapeva perfettamente da sola che Rebecca aveva paura di essere abbandonata, che, dopo quello che avevano fatto Gawain e Margaret, temeva che anche altri adulti iniziassero a non amarla più.
Non credeva nemmeno che il figlio non volesse più bene a Rebecca, ma che non riuscisse ad accettarla, il che era anche peggio.
Aveva provato a parlare con lui e Margaret, ma entrambi parevano non voler ammettere in cosa avessero sbagliato e sembravano non riuscire nemmeno a comprendere che l’unico modo che avevano per non perdere definitivamente la figlia era accettare il fatto che fosse una strega. Era un concetto che anche lei trovava difficile da afferrare, ben più di quanto non lo fosse per Alfred o Ygraine, ma non poteva ignorare che era quella la natura di Rebecca e che, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto far nulla per cambiare quella realtà.
«Lo so, nonna. È che se rimango qui, quando torneranno mi troveranno subito.»
Mary si mise accanto alla nipote, sperando che Gawain non facesse nulla di insensato, ma aveva paura che così non fosse. Il figlio odiava il signor Piton o, meglio, era geloso del rapporto che Rebecca aveva instaurato con il mago, un rapporto che era così profondo unicamente a causa del modo in cui Gawain si era comportato con la figlia.
Lo aveva notato perfettamente fin dalla sera in cui Ygraine era comparsa all’improvviso con quello sconosciuto. La bambina si affidava completamente a lui e lei era certa che quello che le aveva detto Gawain, circa un possibile passato criminale dell’uomo, fosse unicamente un’esagerazione per mettere in cattiva luce la nuova figura paterna della figlia.
«Possiamo mandare un messaggio a zia Ygraine e dirle che sei con il nonno e che poi sarai alla libreria, quando il nonno partirà per andare a Canterbury per parlare con dei colleghi filologi.»
«Hai ragione, nonna, però devi farlo tu. Non posso mandare Hoffmann a Londra, perché a teatro potrebbero chiedersi come mai un gufo sta portando un messaggio.»
Sul volto di Rebecca era comparso un sorriso e Mary si sentì felice per quello, per quanto non volesse veramente pensare al rapace notturno che si trovava in camera della nipote, probabilmente intento a dormire. Era arrivato il giorno del compleanno di Rebecca, per tramite del signor Piton che si era recato a Londra a prenderlo.
A voler essere sincera con sé stessa, non voleva nemmeno pensare troppo spesso che la nipote fosse in grado di compiere delle magie o, forse, a renderla più inquieta era la presenza di un intero mondo parallelo, dotato di un suo sistema politico e di sue particolari leggi. Il signor Piton sembrava una persona perfettamente ragionevole, ma non era certa che tutti i maghi fossero come lui.
Dopo aver salutato la nipote e il marito, rimase ad osservare i nuvoloni che coprivano il villaggio, quasi a voler comprendere cosa significasse realmente essere una delle poche persone non magiche ad essere a conoscenza dell’esistenza della magia. Forse avrebbe dovuto parlarne con Ygraine che pareva essere completamente a suo agio con il mago e doveva esserlo stata fin da subito, da prima di innamorarsi di lui.
Si incamminò a passo veloce verso la piccola libreria del paese, mentre le nuvole si facevano se possibili più cupe e così erano anche a Londra, pronte com’erano a far cadere una pioggia che si preannunciava gelida.
Anche i vetri della sala da tè scelta da Gawain e Margaret sembravano grigi, notò Ygraine, quando vi si avvicinò al fianco di Severus. Fu l’uomo ad aprire la porta e di questo gli fu grata perché non era per nulla certa di essere in grado di entrare nel locale, se fosse stata da sola. Il fratello e la cognata erano già seduti, notò subito, e si sentì sopraffare dall’insicurezza al punto che fu tentata di afferrare il braccio di Severus, per ricevere una parvenza del coraggio di cui l’uomo aveva dato silenziosamente prova per tutta la guerra magica.
Ma non lo fece.
Non credeva che il mago l’avrebbe respinta, non dopo la sera trascorsa nello studio di suo padre, ma era certa che non avrebbe fatto una buona impressione al fratello.
Trasse un respiro, prima di avvicinarsi al tavolo, mentre alcune gocce iniziavano a cadere contro i vetri della sala da tè.
«Credevamo venissi da sola.»
Ygraine non commentò la frase della cognata, che non l’aveva nemmeno salutata, così come non lo aveva fatto il fratello. Si sedette, insieme a Severus che era rimasto, come lei, in silenzio. Ordinarono entrambi un tè, mentre la tensione intorno al tavolo pareva aumentare a tal punto che Ygraine si stupì di non avere gli occhi di tutto il locale su di sé.
«Abbiamo preso una decisione», la voce di Gawain era stranamente professionale, quasi fosse intento a parlare con un cliente. «Margaret ed io ci trasferiremo negli Stati Uniti.»
«E Rebecca?»
Si era preparata a lottare per permettere alla nipote di avere almeno un contatto con il Mondo Magico, ma non si era aspettata nulla del genere. Se il fratello fosse andato al di là dell’Oceano, la bambina ne sarebbe stata distrutta. Si voltò per un attimo verso Severus, ma il volto dell’uomo sembrava totalmente impassibile. Non poteva però vederne gli occhi che stavano fissando Gawain e Margaret.
«Perché dovrebbe essere un problema?»
«Non hai pensato ai nostri genitori? È la loro unica nipote.»
«Ma tu vorresti dire qualcosa d’altro, non è vero Ygraine? O forse lo vorrebbe dire lei, Piton? Il vero problema non sono i nostri genitori, ma il fatto che, se Rebecca dovesse venire con noi, non avrebbe più nulla a che fare con nessuno di voi due», la voce di Gawain aveva perso la calma di prima e alla giovane donna non piaceva il modo in cui pronunciava il nome di Severus, con rabbia mista a qualcosa di molto simile alla gelosia. «Sono venuti a parlarci due di quei poliziotti ieri, un uomo e una donna, perché volevano parlare con te e, quando non ti hanno trovato, hanno voluto sapere se già vi conoscevate quando è morto Tristan.»
«Come si chiamavano?»
Ygraine si voltò verso Severus che aveva parlato per la prima volta. Il suo tono di voce e il suo volto tranquillo le diedero la speranza che forse sarebbe riuscita a far ragionare il fratello e la cognata.
«Thomson e Green. Ci hanno anche chiesto dove fossi andata, ma abbiamo detto loro che non lo sapevamo e non per te o per l’assassino con cui ti ostini ad accompagnarti, ma per rispetto verso i nostri genitori.»
Severus avrebbe riflettuto in seguito su quell’informazione, che sembrava circoscrivere a quei due Auror i possibili sospetti. In quel momento gli interessava di più comprendere pe quale motivo Gawain Ainsworth avesse cambiato improvvisamente argomento, invece di continuare a palare della possibile trasferta negli Stati Uniti.
Per Rebecca sarebbe stata una decisione orribile.
E lo sarebbe stata per Ygraine.
E per lui.
«Gawain, ti sono grata perché non hai detto loro nulla», disse la giovane donna. Severus notò il modo in cui tormentava il tovagliolo con una mano, mentre cercava di mostrarsi calma e forse poteva ingannare il fratello, ma nulla nel suo atteggiamento denotava reale tranquillità. «Però, non credo che portare Rebecca negli Stati Uniti sia una buona idea. La sradicheresti dalla vita che ha sempre conosciuto.»
«Questo lo sappiamo perfettamente, Ygraine», la voce di Margaret era poco più di un sussurro. «Per questo lei non verrà con noi.»
Ygraine sobbalzò alle parole della cognata, facendo oscillare la tazza da tè. Alcune gocce caddero sul tavolo, ma non ebbe nemmeno la forza di asciugarle con il tovagliolo.
«Margaret… cosa…?»
«Quello che hai sentito. Rebecca non verrà con noi. Dovresti esserne contenta.»
«La volete abbandonare?»
Severus sentì il panico nella voce di Ygraine. O, forse, non si era preparata per quella eventualità. Avevano immaginato altri scenari in cui Gawain e Margaret si sarebbero dimostrati inflessibili.
«Credevo che ti mostrassi contenta della nostra scelta o che lo facesse il tuo accompagnatore», la voce di Margaret era piatta.
«Pensate davvero che possa gioire per questo? Ho sempre e solo desiderato che tra voi e Rebecca non accadesse nulla di quello che è avvenuto.»
«E ti fa sentire meglio affermare qualcosa del genere?» Gawain non sapeva nemmeno perché si stesse comportando così con la sorella. Avevano deciso di lasciare l’Inghilterra e di affidare la bambina a Ygraine proprio per l’amore che ancora provavano per Rebecca, perché sapevano entrambi che non sarebbero mai riusciti ad accettare la magia e che così facendo avrebbero potuto distruggere la bambina. Eppure, non riusciva a togliersi dalla testa che tutto quel disastro fosse dovuto alla sorella e al mago che le sedeva silenzioso accanto. «Immagino che tu senta di avere la coscienza perfettamente a posto, che ti senta superiore a noi perché non provi alcun timore di fronte a quello che Rebecca potrebbe fare.»
«Gawain…»
«Credo che sia meglio attenerci ai fatti, signor Ainsworth», Severus interruppe bruscamente Ygraine. Non voleva che il fratello potesse, se possibile, ferirla più di quanto non avesse già fatto. «Avete detto che affiderete Rebecca a Ygraine. Ho sempre creduto che fosse impossibile rinunciare alla patria potestà.»
«Non vi dovete preoccupare del punto di vista legale», spiegò Gawain, con voce che a Severus parve più tranquilla del tono che aveva usato con la giovane donna pochi istanti prima. «Ho trovato un modo per mettere tutto nero su bianco in perfetta regola. Tra qualche giorno ti chiamerò, Ygraine, e non dovrai far altro che firmare delle carte.»
«Lo direte voi a Rebecca, non è vero?»
«No», disse Margaret con voce secca. «Sono certa che tu saprai spiegare la situazione meglio di noi. D’altronde sei stata così certa fin da subito circa cosa fosse meglio per nostra figlia.»
«Non credete che Rebecca…»
«Sai, Ygraine, credo che tu sia soltanto un’ipocrita», la voce di Gawain era di nuovo secca. Severus sentì la mano di Ygraine afferrargli il braccio, quasi come se avesse paura di cadere. O, forse, non voleva far nulla di avventato.
«E tu sei un vigliacco, Gawain.»
La voce di Ygraine era tesa, ma, dal modo in cui gli stava stringendo il braccio, era certo che fosse arrabbiata e ferita.
«Credi veramente che sia facile allontanarci da Rebecca?»
«Non ho mai detto questo, Gawain. Non riesco nemmeno ad immaginare che cosa tu stia provando in questo momento, ma ritengo che sarebbe più saggio se parlassi con tua figlia, che le spiegassi.»
«Non c’è nulla da spiegare», a parlare era stata Margaret. Ygraine sapeva soltanto che non stava urlando perché aveva accanto a sé Severus. Le parole del fratello l’avevano ferita ed era arrabbiata come non lo era stata da tempo. Credeva che la scelta di Gawain fosse dolorosa, ma non riusciva ad impedirsi di pensare che si stesse comportando come un vigliacco, lasciando a lei il compito di annunciare a Rebecca che i suoi genitori l’avrebbero abbandonata. «Abbiamo riflettuto a lungo e questa è l’unica soluzione possibile.»
Ygraine non ribatté nemmeno, chiedendosi se non dovesse andarsene. Lasciò andare il braccio di Severus, che sedeva al suo fianco e che stava fissando il fratello e la cognata. Si aspettò quasi che Gawain aggiungesse qualcosa alle parole di Margaret, che dicesse, almeno, che amava ancora Rebecca e che per questo era disposto a rinunciare a lei, ma il fratello non disse una parola. Si alzò dal tavolo ed uscì, ribadendo unicamente che l’avrebbe contattata quando sarebbe stato necessario firmare le carte.
«Come posso… Rebecca ne sarà ferita. So che mio fratello e mia cognata le hanno già procurato dolore, ma questo…»
La voce della donna era spezzata e Severus notò che sembrava quasi persa, mentre fissava il punto in cui erano stati seduti il fratello e la cognata. Le parole di Ygraine erano fin troppo vere, purtroppo, per quanto credesse che, in definitiva, Ainsworth avesse fatto la scelta migliore. Non riusciva a comprendere il motivo che l’aveva portato a prendere quella decisione, ma era certo che Rebecca sarebbe stata meglio cresciuta dalla giovane donna, per quanto il compito che spettava al soprano non sarebbe stato per nulla facile.
Al di fuori la pioggia cadeva più fitta, mentre dall’altra parte della strada un suonatore d’organetti osservava i vetri della sala da tè, chiedendosi cosa stesse accadendo. Aveva almeno fatto bene a decidere di seguire il fratello della Babbana, dato che questa sembrava essere improvvisamente scomparsa da Londra. Ma adesso l’aveva ritrovata ed era, come sempre, insieme a Piton.
Doveva unicamente riferire che Ygraine Ainsworth era ancora incredibilmente legata a quel maledetto assassino. Lo poteva vedere benissimo da dove si trovava quando uscirono insieme dal locale. Camminavano uno accanto all’altro e lui si chiese per quale motivo la giovane donna non fosse disgustata da Piton. Sapeva che era stata messa in guardia da lui, che le era stato detto che era un assassino, durante gli interrogatori, ma, invece di allontanarsi da lui, pareva farsi sempre più vicina.
E quel particolare non aveva affatto senso, si disse il suonatore di organetto, muovendosi in direzione opposta alla coppia. Avrebbe riferito quello che aveva appena visto, con la consapevolezza che presto avrebbero agito, per quanto lui non fosse del tutto convinto del piano messo a punto nelle settimane precedenti.
La pioggia continuò a cadere per tutta la giornata e ancora pioveva quando Ygraine tornò nel villaggio del Kent. Era certa di aver seguito le prove in maniera distratta, anche se nessuno le aveva fatto notare nulla e durante il viaggio di ritorno era stata silenziosa, per quanto si fosse sentita più tranquilla con la presenza rassicurante di Severus al suo fianco.
Ma, in quel momento, mentre si avvicinava alla porta della libreria della mamma, si sentiva incredibilmente nervosa. Non aveva idea di come procedere, di come parlare con Rebecca di quello che avevano deciso i suoi genitori.
«Nonna, sono tornati.»
Rebecca era seduta dietro al tavolo su cui era sistemata la cassa, ma non appena entrarono scese e corse loro incontro. Stava sorridendo e Ygraine temeva il momento in cui avrebbe spento quel sorriso perché, nonostante tutto quello che era accaduto a Londra, era certa che la bambina potesse rimanere ulteriormente ferita da dei genitori che l’abbandonavano senza nemmeno avere il coraggio di dirle le cose come stavano.
«Devo parlare con la nonna», decise di dire. «Perché intanto non vai a casa con Severus?»
Era una delle poche cose di cui aveva parlato in treno. Doveva discutere dell’accaduto con i suoi genitori e sapeva che mamma sarebbe stata la scelta ideale in un caso come quello, anche se papà non fosse stato impegnato con dei colleghi a Canterbury.
La bambina annuì e Ygraine rimase silenziosa mentre Rebecca indossava il cappottino e prendeva per mano Severus.
«Cos’è accaduto a Londra?»
Mamma la stava guardando con preoccupazione e aveva girato il cartellino su chiuso, per quanto mancassero ancora due ore alla chiusura del negozio. Ygraine trasse un respiro, prima di riferire ogni cosa alla madre. Non osò nemmeno guardarla in volto quando le disse che Gawain e Margaret avevano deciso di abbandonare la figlia a causa delle loro paure.
«Quando verranno a parlarne con Rebecca?»
«Non lo faranno, mamma. Mi chiameranno per firmare delle carte, ma hanno detto che devo essere io a parlare con mia nipote. Non so cosa dirle? Sai che abito in Francia e non sono riuscita a trovare una soluzione per rimanere in Inghilterra. I contratti sono già firmati da tempo e…»
«Sono certa che a Rebecca piacerà la Francia, che si adatterà dopo un primo momento di sconforto. Tu vuoi bene alla bambina e lei ti è affezionata e, forse, per quanto ritenga che Gawain dovrebbe parlare personalmente con lei, questa è la soluzione ideale.»
Mary osservò il volto pallido della figlia. Sapeva che era preoccupata, ma, da quando aveva parlato con il figlio, aveva riflettuto a lungo su quale potesse essere la soluzione migliore per Rebecca e aveva quasi sperato che Gawain rinunciasse a lei. Era un pensiero orribile, ma non era riuscita a riconoscere suo figlio in quell’uomo colmo di rancore. Sapeva che il figlio maggiore non aveva mai amato l’arte come Ygraine o la speculazione e la creatività come Tristan, ma aveva sempre creduto che Gawain assomigliasse di più a lei, che fosse semplicemente concreto. Invece, si era rivelato incapace di accettare la natura di Rebecca, non aveva nemmeno tentato di aiutarla ed aveva finito per nuocerle.
«Lo spero anch’io, mamma.»
«Vuoi che venga con te?»
«No. Credo che sia meglio che le parli da sola.»
Ygraine abbracciò la donna, prima di uscire dal negozio. Mentre la pioggia cadeva fitta sul suo ombrello tentò di fare tesoro delle parole della madre, ma temeva di ferire involontariamente la nipote. Quando raggiunse la casa dei genitori, rimase immobile per qualche istante, prima di entrare. Rebecca e Severus erano in salotto e la bambina stava raccontando all’uomo quello che aveva fatto, come faceva ogni giorno, quando il mago le raggiungeva, nel corso della giornata, dopo aver lasciato la casa di Spinner’s End. Ygraine sapeva che la nipote avrebbe voluto che Severus si fermasse ogni sera a dormire nella casa dei nonni, che rimanesse con loro ogni istante, ma l’uomo l’aveva convinta che non poteva imporsi sui nonni. D’altronde, Ygraine sapeva che quelle parole nascondevano unicamente la consapevolezza che occorreva abituare Rebecca all’assenza dell’uomo, che, anche con quella nuova soluzione, non sarebbe stato presente ogni ora del giorno e della notte nella vita della bambina.
E nella sua.
«Rebecca», mormorò, andando a sedersi su una delle poltrone del salotto. «Oggi, Severus ed io abbiamo parlato con i tuoi genitori.»
«Vogliono portarmi via?»
«No», disse la giovane donna, lanciando un’occhiata a Severus che era seduto accanto a Rebecca. «Gawain e Margaret hanno deciso di affidarti a me.»
Non riuscì a dire altro, né a dare altre informazioni. Non aveva alcuna intenzione di riferire ogni parola avessero detto il fratello e la cognata, né voleva mostrare la rabbia che ancora provava nei loro confronti, per come stavano scaricando ogni responsabilità su di lei, per come avevano trattato Rebecca da quando avevano scoperto che era una strega. Per un istante si chiese come avesse fatto Severus a non colpirli con la magia, ma l’uomo era una persona migliore di lei, probabilmente.
«E dove vivremo, zia?»
Severus aveva notato che Rebecca era diventata unicamente pensosa. Non sembrava sconvolta per quello che stava accadendo, ma, forse, era quello che aveva sperato mentre i giorni trascorrevano tranquilli nella casa degli Ainsworth. Oppure, non aveva ancora afferrato a pieno le parole della zia, per quanto l’uomo fosse convinto che Rebecca sapesse perfettamente cosa implicassero.
Ygraine era, invece, decisamente nervosa, ma sapeva perfettamente che cosa la rodesse. Ne avevano parlato brevemente, mentre andavano verso Covent Garden ed era consapevole che la giovane donna non sapeva come affrontare quella parte del discorso con la nipote. Gli era parso quasi che il soprano si sentisse in colpa, per quanto non ne avesse alcun motivo. La responsabilità di tutto gravava sulle spalle di Gawain e Margaret e non certo su di lei, né sulle sue scelte di carriera.
E nemmeno su di lui.
Gli unici colpevoli in quella triste vicenda erano i genitori della bambina e Severus credeva che perdere la figlia fosse la giusta punizione per come si erano comportati. Con il tempo avrebbero potuto accorgersi di essere rimasti completamente soli nel loro mondo asettico ed allora la loro esistenza sarebbe stata quasi peggiore di quella che avrebbero potuto vivere nella cella in cui avrebbero meritato di stare.
«Rebecca, so che sarà difficile, ma dovremo trasferirci in Francia. Non subito, ma verso i primi di maggio.»
«Non voglio andare via di qui.»
Severus notò che Ygraine era impallidita. Il tono di voce di Rebecca era improvvisamente prossimo alle lacrime, ma c’era anche qualcosa di molto simile alla rabbia che forse aveva ferito la giovane donna per quanto non lo desse a vedere.
«Rebecca… non ci sono altre soluzioni… io…»
«Non mi vuoi bene nemmeno tu», la bambina si era alzata in piedi e stava scuotendo il capo. «Non…»
Rebecca non finì la frase, ma corse fuori dalla stanza, ignara del volto pallido della zia e del modo in cui si stava tormentando le mani. Erano soli in salotto e, per diversi istanti, il silenzio li avvolse completamente.
«Avrei dovuto essere più delicata nel dare la notizia.»
«Non sarebbe cambiato nulla», l’uomo sentì lo sguardo di Ygraine su di sé. Gli occhi nocciola erano tristi e, per un motivo che non si sapeva spiegare, avrebbe voluto trovare il modo di eliminare quella tristezza, di evitare di leggervela ancora in futuro. «Andrò a parlare con lei.»
«Grazie.»
Severus annuì soltanto. Per quanto non fosse la prima volta che si trovava di fronte alla gratitudine di Ygraine, non sapeva ancora come reagire, né quali parole dire. Non gli fu difficile trovare Rebecca, rannicchiata sul suo letto, davanti al quale aveva voluto appendere il disegno che lui le aveva regalato per il suo compleanno. La bambina stava piangendo.
«Mi odia adesso?»
La voce era flebile e tremante. Rebecca lo stava guardando con gli occhi velati di lacrime, non ancora versate. Severus si sedette sul bordo del letto.
«No», non disse altro. Non credeva nemmeno che Ygraine potesse odiare qualcuno. Non aveva mai provato il ben che minimo disgusto nei suoi confronti e non pareva detestare nemmeno suo fratello. Era arrabbiata con lui, di questo si era reso conto quel giorno, ma aveva notato anche una certa tristezza, come se stesse rimpiangendo il Gawain che aveva conosciuto un tempo e che aveva amato.
«Perché mi vuole portare via?»
«Dove doveva andare tua zia dopo aver cantato a Londra?»
«In Italia, ma… ha rinunciato?»
L’uomo annuì soltanto. Severus ricordava perfettamente la telefonata della giovane donna al suo agente. Era stata la prima cosa che aveva fatto appena uscita dalla sala da tè. Aveva deciso di annullare il suo impegno a Bologna per non scombussolare la vita di Rebecca.
«L’ha fatto per me?»
«Tua zia è molto preoccupata per quello che è accaduto, Rebecca, e ha riflettuto molto su come riuscire a prendersi cura di te. Credo, d’altronde, che tu capisca che non può rinunciare al suo lavoro.»
«Non voglio che lo faccia, ma… non potrebbe rimanere in Inghilterra?»
Rebecca aveva paura di leggere la delusione negli occhi di Severus, che l’uomo pensasse che si stava comportando come una bambina piccola e ingrata. Era stata cattiva con zia Ygraine e adesso non sapeva cosa fare.
«Tutti i suoi prossimi contratti sono sul continente.»
La bambina cercò di cacciare indietro le lacrime, ma fallì miseramente. Non sapeva nemmeno perché stesse piangendo, forse perché temeva che la zia non l’avrebbe più voluta considerando come si era comportata o perché temeva di aver deluso Severus e non voleva che l’uomo fosse deluso da lei. Quando sentì la mano del mago posarsi lieve e incerta sulla sua spalla riuscì unicamente a piangere di più.
Si mosse appena e lo abbracciò. Non aveva nemmeno bisogno di dire nulla o che lui dicesse nulla. Le bastava che le tenesse le braccia attorno, come stava facendo in quel momento.
«Credi che la zia mi perdonerà?»
Severus sentì che le lacrime si stavano quietando e che la voce della bambina non era spezzata dai singhiozzi.
«Sono certo di sì.»
Ed era certo che quella non fosse una menzogna pietosa. Ygraine non avrebbe mai rifiutato il perdono a Rebecca, di questo era più che sicuro, considerando come fosse riuscita ad offrire il perdono anche a lui che aveva commesso crimini atroci. In quel momento la bambina gli ricordava quasi il sé stesso più giovane, nei momenti subito successivi all’insulto che aveva scagliato contro Lily in un momento di frustrazione e si sentì ancora più certo che la bambina avrebbe ricevuto il perdono che la Grifondoro gli aveva negato. Ygraine aveva un animo più pronto al perdono, più luminoso, forse, di quanto lo fosse mai stato quello di Lily e, improvvisamente, si chiese quante altre piccole cose Lily non gli avesse mai perdonato, quanto fosse stata realmente salda l’amicizia della ragazza per lui, quando avesse iniziato a vacillare.
«Mi accompagnerai dalla zia?»
«Certo.»
La bambina gli sorrise, quando si staccò da lui. Gli prese la mano, mentre tornavano al pianterreno della casa degli Ainsworth. Ygraine era ancora seduta dove l’avevano lasciata, il volto pallido, che le si illuminò di un sorriso non appena vide Rebecca.
«Mi dispiace, zia. Io non volevo…»
«Non ti devi preoccupare, Rebecca», disse la giovane donna, dopo essersi alzata e inginocchiata davanti alla nipote. «So che si tratta di un cambiamento difficile per te e che dovremo adattarci entrambe nei prossimi mesi.»
«Ma Severus potrà venirci a trovare, vero?»
«Naturalmente, Rebecca», mormorò la giovane donna, alzandosi in piedi e mettendo una mano sulla spalla della bambina, che non aveva lasciato andare l’uomo.
«Verrai, vero, Severus?»
L’uomo osservò gli occhi di Ygraine colmi di una fiducia che sembrava farsi ogni giorno più profonda e quelli pieni di affetto di Rebecca e annuì.
Quando Mary e Alfred Ainsworth rincasarono, trovarono la bambina e i due adulti intenti a parlare tranquillamente, per quanto la donna si accorse di una certa tensione nella figlia, che sembrò aumentare dopo che il signor Piton si congedò da loro, con la promessa di tornare il pomeriggio successivo.
Tutto sembrò tranquillo durante la cena e Rebecca non fece alcun cenno a quello che Ygraine doveva averle detto, ma la bambina era impaurita. Era terrorizzata dall’idea che anche la zia potesse abbandonarla un giorno o, forse, si disse, mentre cercava di prendere sonno, temeva che i genitori cambiassero idea, che decidessero di volerla portare con loro oltre l’Oceano.
Si alzò in piedi e andò nella camera dove dormiva la zia che stava ancora leggendo. Si intrufolò nel suo letto, rannicchiandosi contro di lei e si sentì più tranquilla quando la zia l’abbracciò.
Poco prima di addormentarsi la bambina si chiese se non potesse sperare che Severus e la zia decidessero di vivere insieme. In quel modo sarebbe rimasta sempre insieme alla sua nuova mamma e al suo nuovo papà.
Il giorno dopo il cielo era più sereno, per quanto fosse attraversato da nuvole bianche portatrici di vento.
E così era il cielo sopra Londra, ben visibile dall’appartamento di Jane Stanton, dove la pianista lasciò risuonare a lungo le ultime note.
«Sarai una splendida Elsa, Ygraine.»
La giovane donna chiuse lo spartito, mentre Jane rimase seduta al pianoforte, dopo che avevano rivisto alcuni passaggi, seguendo le indicazioni che il direttore aveva dato il giorno precedente e che la giovane donna sapeva di aver appuntato in maniera quasi automatica sullo spartito.
«Lo spero, Jane.»
Sapeva di aver risposto in maniera distratta, per quanto, mentre cantava fosse riuscita a ritrovare l’abituale passione. In quel momento, invece, riusciva unicamente a pensare a quello che sarebbe potuto accadere se l’uomo non fosse giunto in casa del fratello quel giorno e se non fosse riuscito a convincere Gawain e Margaret a farle andare dai suoi genitori. Era certa che erano state le parole che Severus aveva detto al fratello e alla cognata a dare il via alla riflessione che li aveva portati ad affidare Rebecca a lei.
«Vuoi rivedere qualche altro passo?»
«No, Jane. Se per te va bene tornerò prima dell’ante-generale.»
Passata la rabbia che aveva provato il giorno prima di fronte al rifiuto di Gawain di vedere nuovamente Rebecca, le pareva che il fratello avesse fatto la scelta migliore per la bambina. Non sapeva cosa stesse provando in quel momento Gawain, ma voleva sperare che fosse stata una scelta dettata dall’affetto per la bambina e non dall’odio che forse, con il passare dei giorni, se non avesse preso quella decisione, sarebbe giunto a provare per Rebecca.
«Le prove sono il 24, giusto?»
«Esatto. Forse potremmo vederci due giorni prima.»
«Hai già pensato se vuoi ripassare il ruolo di Mélisande prima della tua partenza per l’Italia?»
Ygraine osservò per qualche istante Jane, cercando di capire cosa dire alla pianista. Sapeva che non poteva spiegarle il motivo della scelta di Gawain e si chiese se fosse logico rivelarle che il fratello le aveva affidato Rebecca. Jane le avrebbe sicuramente chiesto la causa del comportamento di Gawain e lei non sarebbe mai riuscita ad inventare una buona motivazione.
«Ho annullato l’impegno a Bologna.»
«Per quale motivo?»
«Ho cantato troppo prima di questo Lohengrin e sento le corde vocali affaticate. Forse non avrei dovuto accettare di cantare quelle due recite di Otello
«Immagino che Olivier non sia per nulla contento della tua decisione.»
Ygraine annuì, sentendo nominare il suo agente. A quanto pareva Jane aveva creduto alle sue parole, ma non aveva nemmeno alcun motivo per non crederle, considerando che il suo foniatra le aveva sempre raccomandato di non sforzare troppo le corde vocali, se non voleva avere una carriera fulminea. Aveva sempre cercato di dosare con cura gli impegni, ma non sarebbero state due recite di Otello in mezzo ad una pausa tra Comtes e Lohengrin a causarle dei problemi seri.
«Gli ho promesso di fare qualche recital in più la prossima stagione.»
Non disse che gli aveva chiesto di rivoluzionare tutto il suo calendario, con l’eccezione dei tre titoli che aveva in programma in Francia per la stagione successiva. Si era ripromessa, quando aveva deciso di intraprendere quella professione, che, se mai avesse avuto una famiglia, non le avrebbe anteposto la sua carriera. Avrebbe semplicemente diminuito gli impegni, come aveva deciso di fare non appena aveva lasciato la sala da tè dove aveva incontrato Gawain e Margaret.
«Se vuoi possiamo concludere con un Lied, come facciamo sempre.»
Ygraine annuì, prima di frugare tra alcuni spartiti e consegnare a Jane una dolce mélodie di Debussy.
La voce della giovane donna era ben udibile in altre parti del palazzo dove abitava la pianista e la vicina del piano di sopra si era messa in ascolto, come le piaceva sempre fare.
E la voce di Ygraine era udibile anche nella strada, dove Severus era appena giunto per riaccompagnare la giovane donna nel Kent, ma alle parole in francese si sovrappose improvvisamente una melodia più stridente, proveniente dall’altra parte della strada. Dalla vetrina del negozio davanti a cui si era posizionato vide il suonatore di organetti che stava soffocando il canto luminoso di Ygraine con le sue note dissonanti, quelle note che sapevano di morte.
Il suonatore mise a tacere l’organetto prima che il soprano smettesse di cantare. Severus lo vide incamminarsi lungo la strada, tra l’indifferenza dei passanti. Forse avrebbe potuto seguirlo, ma aveva notato, l’unica volta che aveva tentato di farlo, che il suonatore di organetti sceglieva luoghi affollati di Babbani, rendendo impossibile avvicinarlo senza allertare gli Auror, tra i quali si celava l’assassino della Tate Britain.
Rimase quindi immobile, ad ascoltare la voce di Ygraine spegnersi dolcemente, come aveva fatto le altre volte in cui l’aveva aspettata fuori dall’appartamento della pianista. Eppure, quando il soprano lo raggiunse in strada e gli rivolse un lieve sorriso, non riuscì a togliersi dalla mente il suono dell’organetto che soffocava il canto della giovane donna.

 
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view post Posted on 7/11/2022, 16:47
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Capitolo XXI - Parte II
Das Wirsthaus



12 – 22 marzo 2002


L’immagine del suonatore d’organetti che pareva sovrastare la voce di Ygraine lo accompagnò anche quando si ritrovò nella sua casa di Spinner’s End, al punto che lasciò perdere la lettera che stava scrivendo e che avrebbe inviato ad un centro di studi specializzato nella ricerca e nel miglioramento di pozioni.
Sapeva che era razionalmente assurdo, ma c’era qualcosa di strano in quell’improvvisa apparizione del suonatore di organetto, così come era strano il fatto che Micheal Green ed Emily Thomson si fossero recati nell’appartamento di Gawain e Margaret per interrogare Ygraine su un tema che sembravano aver escluso poco tempo prima.
Fuori dalla finestra il crepuscolo aveva iniziato ad avvolgere l’Inghilterra, lasciando che le stelle e la luna illuminassero il cielo di marzo. Cercò di scrollarsi di dosso quella sensazione di pericolo imminente, ma sentiva unicamente risuonare le note dell’organetto e a non sentire più la voce di Ygraine.
Rimase immobile, prima di alzarsi in piedi, riflettendo attentamente sui sospetti relativi ai tre Auror, perché sapeva che il pericolo veniva da lì. Uno di loro aveva già fatto in modo che Ygraine venisse assalita nel suo camerino il mese precedente e poteva colpirla di nuovo. Severus aveva posto delle protezioni intorno alla casa degli Ainsworth nel Kent, ma sapeva che non poteva essere sempre accanto a Ygraine. Era con lei alle prove, l’accompagnava a Londra, ma l’assassino avrebbe potuto coglierla in un momento in cui la giovane era da sola.
Era un’eventualità con cui sapeva di dover fare i conti. La magia poteva molte cose, ma non l’impossibile.
L’unica consolazione era che non parevano interessati a colpire Rebecca, che almeno non volevano vendicarsi su una bambina che aveva già troppo sofferto.
Eppure, la musica del suonatore d’organetti gli parve, mentre ci ripensava, ancora più funesta del solito. Non credeva che l’uomo fosse l’assassino della Tate, quanto piuttosto il complice dell’Auror, qualcuno che era intimamente legato ai Berenger e per questo aveva deciso di collaborare con l’assassino. C’era un nome che gli ronzava nella mente da quel pomeriggio, ma sperava con tutto sé stesso di sbagliarsi.
D’altronde, non era sul suonatore che doveva concentrarsi quanto piuttosto sui tre Auror e, in particolar modo, sui due che si erano recati nell’appartamento di Gawain, che aveva, almeno avuto il buon senso di non rivelare dove si ritrovasse la sorella. Potter non doveva nemmeno esserne al corrente, dal momento che gli aveva detto che lo avrebbe informato di ogni mossa sospetta dei suoi superiori e non aveva alcun motivo per dubitare del ragazzo.
Prese la bacchetta ed evocò il suo Patronus. Rimase per qualche istante in silenzio, osservando il muso della cerva, mentre le riferiva il messaggio da portare al ragazzo. Avevano concordato di utilizzare quel modo di comunicare e di farlo, a meno che non si presentasse un’emergenza, al crepuscolo, quando il ragazzo era certo di essere rientrato a casa dal Ministero. Come Apprendista Auror non gli venivano affidati incarichi durante la notte.
Si rimise a sedere e riprese in mano la lettera che aveva iniziato, cercando di raccogliere le idee da mettere nero su bianco, ma l’unica cosa a cui riusciva a pensare era la voce di Ygraine che veniva soffocata dalla musica del suonatore di organetto.
Il cielo si era fatto nuvoloso e la luna era quasi scomparsa e, così, era anche a Londra, mentre Harry ascoltava allarmato il messaggio di Piton. Non aveva alcuna idea di quello che avevano fatto Micheal ed Emily e si disse che li avrebbe osservati con maggiore attenzione, proprio come suggeriva l’uomo. Avrebbe dovuto non tralasciare nemmeno Cristopher, per quanto gli sembrasse che il suo supervisore fosse quello più facile da escludere.
Si sistemò gli occhiali sul naso, mentre ripensava, non appena era sparito, al Patronus di Piton e si rese conto solo in quel momento che c’era qualcosa di strano nella cerva argentea. La forma gli sembrava più instabile di quella che aveva visto anni prima nella foresta di Dean. Era come se ogni tanto una zampa si dissolvesse o sparisse e, in un’occasione, poco prima che il Patronus sparisse, gli era parso di veder spuntare due ali dai suoi fianchi.
Non sapeva nemmeno cosa pensare di quei cambiamenti – sempre che non se li fosse immaginati alla luce tenue della stanza –, né se dovesse in qualche modo menzionarli a Piton se lo avesse incontrato nei prossimi giorni, anche se con ogni probabilità era del tutto inutile, considerando che all’uomo non sfuggiva mai nulla.
D’altronde, si disse, non era nemmeno una questione importante, non come osservare Micheal ed Emily e cercare di capire chi di loro due avesse ucciso quei Babbani al museo. Il ragazzo scosse leggermente il capo, ricordando a sé stesso, di mantenere l’attenzione anche su Cristopher come gli raccomandava di fare Piton.
E durante i giorni successivi, li osservò con attenzione. C’era qualcosa di strano nel comportamento di Micheal. Sembrava quasi che stesse nascondendo qualcosa, che non volesse confidarsi con Cristopher o con Emily. Harry notò che parlava sempre più di frequente del caso e di come fosse necessario interrogare la signorina Ainsworth, di come fosse certo che la giovane donna stesse nascondendo qualcosa.
Il ragazzo si chiese se non fosse effettivamente Micheal l’Auror coinvolto in quel duplice omicidio, per quanto non riuscisse a vedere alcuna reale prova in merito. Il pomeriggio del ventidue marzo, Harry uscì dal Ministero della Magia deciso a fare chiarezza sui suoi dubbi, prima di contattare Piton e parlarne con lui. Lui e Hermione si sarebbero incontrati di lì a poco e si chiese se non dovesse confidarsi anche con lei. L’amica non era coinvolta nel caso e forse poteva offrire un punto di vista diverso dal suo o anche da quello di Piton.
Il sole illuminava la città, mentre una leggera brezza faceva gemere alcuni tigli e un suonatore d’organetto male in arnese trascinava il suo strumento senza un’apparente meta. E il sole illuminava una via di Londra e la stanza di un appartamento dove si trovava un pianoforte che luccicava colpito da alcuni raggi.
Ygraine sorrise appena, mentre osservava dalla finestra dell’appartamento di Jane, Rebecca e Severus allontanarsi insieme. Chi non li avesse mai conosciuti li avrebbe potuti scambiare per un padre e una figlia, per quanto nessuno dei tratti della nipote la facesse assomigliare all’uomo, ma l’affetto che li legava era quello di un genitore e della sua bambina. Ygraine era certa che quel legame sarebbe rimasto saldo anche quando lei e Rebecca si fossero trasferite in Francia, così come era certa che avrebbe continuato ad amare Severus e a offrirgli la sua amicizia e la sua fiducia.
«Sembri distratta, Ygraine», Jane le si era avvicinata, mentre lei osservava il cielo luminoso di quel giorno di marzo. Rebecca e Severus non si vedevano più e per un istante prese in considerazione l’idea di posticipare lo studio con l’amica e di passare il pomeriggio con loro. «Chi era quell’uomo con Rebecca?»
«Un amico», Ygraine non aggiunse altro e sperò che la pianista lasciasse cadere l’argomento. «Potremmo rivedere il duetto con Ortrud del secondo atto? Ieri il direttore mi ha chiesto di evidenziare maggiormente queste parole.»
Mentre parlava, armeggiò con lo spartito per canto e piano su cui aveva cerchiato in rosso i passaggi indicati dal direttore d’orchestra.
«Certo», rispose Jane, andando a sedersi al pianoforte, per poi svogliare sullo spartito. «Ti va bene iniziare da qui?»
Ygraine annuì. Aspettò che Jane suonasse poche note prima di attaccare, cercando di seguire le indicazioni del direttore. Le piaceva come emergeva di più l’idea che Elsa fosse mossa dalla paura di perdere l’uomo di cui era innamorata, lasciando presagire che, nel suo timore, lo avrebbe realmente perso, perché dubitava di lui.
E mentre cantava si rese conto di non riuscire a comprendere del tutto quel personaggio e quei suoi dubbi. Non era tanto il timore della perdita che la faceva sentire lontana da Elsa, quanto piuttosto il modo in cui giungeva a non fidarsi dell’uomo che amava. O, forse, la protagonista dell’opera non amava realmente Lohengrin, ma l’idea che di lui si era fatta e per questo, nel momento in cui si trovava davanti il cavaliere del cigno non era riuscita ad affidarsi realmente a lui.
Forse, mesi prima, avrebbe potuto essere più in sintonia con il personaggio, ma in quel momento si sentiva distante anni luce da lei. L’amore per Severus non sarebbe mai esistito senza la fiducia che aveva provato fin da quando aveva lasciato Rebecca da sola nella sala del museo accanto a lui. Si chiese se fosse stato proprio da quella fiducia che si era così rapidamente alimentato l’amore che provava per lui, ma non seppe darsi una risposta.
E probabilmente, non era nemmeno importante trovarla.
«Vorrei rivedere anche una parte del terzo atto. Non credo di riuscire molto bene nel passaggio in cui Elsa pone le domande a Lohengrin.»
Mentre la pianista iniziava a suonare, il sole illuminò vivacemente la stanza e il sole splendeva al di fuori dell’appartamento di Jane, e si posava sui rami ancora spogli dei tigli e sui vialetti di un parco.
Rebecca sedeva tranquilla su una panchina, accanto a Severus. Si sentiva decisamente meglio quel giorno. Aveva ormai accettato che lei e la zia sarebbero andate in Francia, forse perché sapeva che l’uomo le sarebbe andate a trovare. Si sentiva ancora triste perché i suoi genitori non la volevano più, ma era certa che la zia sarebbe stata perfetta, perché lei l’amava anche se era una strega, così come l’amavano i nonni.
Osservò per un istante l’uomo e sorrise appena. Le piaceva stare con lui e, quando sarebbe andato a trovarle in Francia, era certa che avrebbero passato molto tempo insieme. Forse avrebbe dovuto dire alla zia di cercare una casa in cui Severus potesse lavorare alle sue pozioni, così lei avrebbe potuto chiedergli di aiutarlo. Riusciva quasi ad immaginarsi china su un calderone accanto all’uomo, mentre la zia li osservava con un sorriso dall’altra parte della stanza, con una partitura in mano.
Le sarebbe piaciuto vivere con zia Ygraine e Severus. Credeva anche che all’uomo piacesse la zia ed era certa che alla zia piacesse il mago. Però non sapeva come funzionassero le cose tra gli adulti. Forse, una delle volte in cui l’uomo sarebbe andati a trovarle avrebbe deciso di fermarsi e vivere con loro perché era la cosa più logica da fare.
Ma, in quel momento, doveva accontentarsi di quei giorni e di quelli che avrebbe vissuto con lui in Francia durante le sue visite.
Si fece più vicina al mago, che sedeva silenzioso al suo fianco, fino a quando non si rannicchiò contro di lui, come le piaceva fare quando erano insieme. Si sentì ancora più tranquilla quando Severus la abbracciò. Non sembrava nemmeno più titubante, come le altre volte. Forse gli aveva insegnato come si facesse.
Ed era un pensiero molto triste, perché se Severus non sapeva come si abbracciava voleva dire che nessuno gli aveva mai voluto veramente bene, prima di lei e la zia.
«Qualche giorno fa zia Ygraine è andata a firmare le carte dove c’è scritto che vivrò con lei fino alla mia maggiore età.», gli disse, cercando di non piangere, anche se la bambina non sapeva se quelle lacrime fossero per l’uomo che ormai considerava come un padre e a cui aveva insegnato come si facesse ad abbracciare o per lei e per i genitori che aveva perso per sempre. «Credi che mi vorranno rivedere un giorno?»
La voce della bambina era ovattata, ma a Severus non sfuggì il lieve tremito che aveva accompagnato le ultime parole.
«Non lo so, Rebecca», le disse, anche se immaginava perfettamente quale potesse essere la risposta.
Sperava sinceramente che Gawain e Margaret Ainsworth non avessero più nulla a che fare con lei. Con Ygraine, la bambina sarebbe stata più al sicuro e avrebbe vissuto accanto ad una persona che accettava completamente l’esistenza del Mondo Magico. Avrebbero avuto anche il supporto dei nonni paterni, che non parevano nutrire nessun pregiudizio, per quanto Mary Ainsworth fosse più titubante del marito. Invece, il padre di Ygraine non perdeva occasione per porgli delle domande sulla letteratura magica medievale.
«Io e la zia stiamo scegliendo la nuova casa in Francia. Ha detto che il suo vecchio appartamento a Digione non va bene. Non abbiamo ancora deciso dove abitare. Però sceglieremo una casa grande, con una stanza per gli ospiti, così tu non dovrai andare in albergo, quando ci verrai a trovare. Ci accompagnerai quando ci trasferiremo?»
«Tua zia cosa ne pensa?»
«Lei è d’accordo», disse Rebecca, anche se non aveva chiesto nulla a zia Ygraine, ma era sicura che anche a lei sarebbe piaciuto se Severus le avesse accompagnate.
Era certa che anche all’uomo avrebbe fatto piacere andare con loro.
«Allora, verrò.»
La bambina si staccò da lui e gli sorrise, di un sorriso felice e solare come quelli che gli aveva rivolto prima che i genitori la ferissero così profondamente. L’uomo si disse che era quasi un miracolo se Rebecca aveva conservato la capacità di sorridere. Ygraine gli aveva detto che era per merito suo, ma lui non lo credeva. Se c’era una presenza positiva nella vita della bambina era proprio la giovane cantante e non di certo un uomo dall’animo spezzato qual era lui.
«Possiamo andare al museo dove ci siamo incontrati, mentre aspettiamo di andare a recuperare la zia?»
«Ne sei certa, Rebecca?»
«Sì, mi farebbe veramente piacere.»
La bambina stava ancora sorridendo quando si alzarono dalla banchina. La piccola gli prese subito la mano, come ormai faceva sempre. Mentre camminavano si rese conto che si era ormai abituato a quella sensazione, a sentire la mano di Rebecca nella sua, a comportarsi con lei come avrebbe fatto con una figlia.
C’era stato un tempo, quando era stato un ragazzo colmo di sogni, in cui si era immaginato come il padre di una bambina in tutto e per tutto simile a Lily. All’epoca non si era reso conto dell’irrealizzabilità di quel sogno e, più tardi, aveva distrutto qualsiasi possibilità di poter avere dei figli perché nessuna donna avrebbe mai potuto amarlo.
Eppure, in quel momento, poteva chiamare, se pur soltanto nei suoi pensieri, Rebecca figlia e non riusciva nemmeno a sentirsi in colpa mentre lo faceva e sapeva che fino a pochi giorni prima quello sarebbe stato il primo sentimento che avrebbe provato, perché avrebbe potuto macchiare l’animo puro con il suo spezzato dalle vite tolte e da quelle che non era riuscito a salvare.
Sapeva che era unicamente per merito di Ygraine e delle parole che gli aveva detto nello studio di suo padre, il giorno in cui le aveva portate via dall’appartamento di Gawain.
Mentre saliva le scale della Tate Britain, tenendo per mano la bambina, che gli parlava e sorrideva tranquilla, gli sembrava di essere finalmente riuscito a fare qualcosa di buono nella sua vita, quando era intervenuto per proteggerla da Gawain e Margaret ed era riuscito ad ottenere quei pochi giorni a casa dei nonni di Rebecca durante i quali i genitori della bambina avevano maturato la decisione di affidarla a Ygraine.
Ma lui aveva ricevuto in cambio più di quanto non avesse dato, più di quanto non meritasse.
Aveva l’affetto di Rebecca e l’amicizia sincera della giovane donna, e la fiducia di entrambe.
Ygraine gli aveva donato più volte il perdono e questa volta voleva provare a perdonare sé stesso, per quanto temesse di non esserne in grado, di non riuscire a lasciar andare completamente il rimpianto e il senso di colpa per il male che aveva fatto. Però, forse, poteva, se non perdonarsi, almeno vivere pienamente quella seconda possibilità che gli era stata concessa. Se l’era ripromesso più volte, ma in quel momento, mentre si fermava con la bambina davanti ad uno dei quadri, era certo di riuscire a farlo, se non per lui, almeno per non deludere le uniche due persone che lo avevano accolto senza alcun pregiudizio.
Quando arrivarono davanti al quadro di Sancta Lilias, Rebecca si fermò, ma Severus non se ne stupì nemmeno. Senza dire una parola si sedettero entrambi sul divanetto che aveva occupato quasi ogni giorno per tre lunghi anni.
E mentre sedeva accanto alla bambina, rammentò perfettamente quello che lui era stato il giorno di dicembre in cui Rebecca gli aveva parlato per la prima volta e quello che lui era stato il giorno di gennaio in cui aveva accettato l’invito di Ygraine: un uomo che non viveva più, che si trascinava nel presente con il pensiero fisso nel passato, in una vita gelata in un eterno inverno.
Si rese conto di non essere più quell’uomo, per quanto fosse cosciente che la sua mente andava ancora spesso al passato e che a volte gli pareva ancora di vivere in un eterno inverno, ma gli sembrava, mentre sedeva accanto alla bambina davanti al quadro che raffigurava un simulacro di Lily, che in parte quell’inverno si stava sciogliendo e sapeva perfettamente che doveva quel ritorno alla vita unicamente alla bambina e a Ygraine.
«Perché quel quadro ti piace tanto?»
La voce di Rebecca era un sussurro lieve, ma lo distolse da quei pensieri. Portò lo sguardo sul dipinto, rendendosi conto soltanto in quel momento di non averlo osservato realmente da quando si era seduto.
Lo guardò con attenzione e si accorse che non c’era molto che assomigliasse veramente a Lily in quella figura, se non il colore dei capelli e degli occhi. La donna raffigurata aveva lo sguardo più simile a quello di Ygraine, colmo di un perdono che, se ne rendeva ormai conto, la Evans non gli avrebbe mai concesso, nemmeno se fosse sopravvissuta a quella notte di Halloween di tanti anni prima.
«Mi ricordava una persona morta da tempo», spiegò a Rebecca.
Era la semplice verità e la bambina non aveva di certo bisogno di conoscere quanto valore avesse dato, fino a qualche mese prima, a quel dipinto, di cosa vi avesse cercato, di come avesse sprecato il suo tempo a torturarsi con la mente volta al passato.
«E te la ricorda ancora?»
«Non più. Però rimane un bel quadro.»
Anche quello era vero, si disse Severus, mentre si alzava dal divanetto e riprendeva a camminare tenendo per mano Rebecca. Mentre usciva dalla sala, lanciando un’ultima occhiata a Sancta Lilias, si rese conto che quel dipinto non era più un simbolo delle sue colpe e dell’impossibilità di poter raggiungere il perdono, ma, piuttosto, della vita che gli si dipanava davanti, di quello che poteva raggiungere se fosse riuscito a non odiarsi, a non giudicarsi in maniera così inflessibile.
Mentre usciva dal museo si chiese se perdonarsi non significasse anche rianalizzare il suo passato. Nulla avrebbe cancellato il male che aveva fatto, lo sapeva, e nulla avrebbe potuto fargli dimenticare di aver volutamente scelto di dannarsi quando si era presentato per la prima volta davanti all’Oscuro Signore.
Però, forse, sarebbe riuscito ad accettare di aver tentato di porre rimedio a quella scelta orribile, di accettare la verità dietro alle parole che Ygraine gli aveva detto nello studio del padre, per quanto era certo che non sarebbe mai riuscito a credere di essere una brava persona come invece pensava la giovane donna.
Il sole illuminava il cammino dell’uomo e della bambina e il sole illuminava il pianoforte e le dita della pianista che si muoveva rapide ed eleganti su di esso.
Quando Ygraine chiuse lo spartito la pendola di Jane segnava venti minuti alle quattro, l’ora in cui sarebbe scesa dalle scale e avrebbe incontrato Severus e Rebecca.
«C’è qualcosa di nuovo nel tuo approccio al personaggio», constatò Jane, mentre osservava attentamente lo spartito. «Sei così sensibile sulla scena, Ygraine.»
«Jane…»
«L’ho sempre trovato incredibile», continuò la donna quasi non l’avesse sentita. «Hai una dote straordinaria nell’aderire alla parola scenica, nello scavare nell’intimo dei personaggi che canti. Eppure, sai essere cieca nella vita reale. Comprendi Elsa o Desdemona, ma non hai mai capito realmente Tristan.»
«Di cosa stai parlando, Jane?»
La pianista la stava fissando in maniera diversa da come era solita fare. Il volto di Jane era generalmente gentile e bonario, ma in quel momento sembrava colmo di rabbia repressa e di disprezzo.
«Hai lasciato che si macerasse nella depressione. Io mi ero accorta che non stava bene, ma ero soltanto l’amica pianista della sorella ed ero certa che tu, Ygraine, l’avresti aiutato. Ma non l’hai fatto. Sei passata da un ruolo all’altro senza mai fermarti a guardare, senza mai ascoltarlo. Immagino che tu non ti sia nemmeno resa conto che io mi fossi innamorata di lui.»
Ygraine indietreggiò di qualche passo, mentre cercava di aggrapparsi alle parole che Severus le aveva detto nell’appartamento di Tristan, quelle parole che, lo sapeva, erano specchio della realtà.
«Hai ragione, Jane, non mi sono mai accorta dei tuoi sentimenti per Tristan e mi dispiace veramente», le parole della pianista la spaventavano e lei voleva unicamente andarsene. «E non puoi nemmeno immaginare quanto mi sia sentita in colpa per quello che mio fratello ha scelto di fare.»
«Sono certa che tu creda di essere dispiaciuta, Ygraine, che tu creda di sentirti in colpa, persino. Sai, ti ho sempre ammirata come artista, ma ti ho odiata, anche, dal giorno in cui Tristan si è suicidato. Eri così sconvolta dopo, quando era troppo tardi», Jane era rimasta ferma, seduta al pianoforte. Ygraine sbatté contro un mobile non lontano dalla sedia su cui aveva posato la borsetta. «Ma eri un’artista eccezionale e non volevo privare il mondo del canto di qualcuno dotato del tuo dono. Ma, poi, ti ho odiata ancora di più.»
Ygraine si voltò e si avvicinò alla sedia, ma improvvisamente si sentì afferrare con forza da Jane. La pianista era più alta di lei e la sua presa era incredibilmente forte, ben diversa dal modo delicato con cui era solita suonare.
«Lasciami andare», mormorò debolmente Ygraine, mentre cercava qualcosa a cui aggrapparsi o un modo per svincolarsi, prendere la borsetta e correre fuori.
«E perché dovrei? Perché così correrai tra le braccia di un assassino che oggi stesso hai chiamato amico?» Jane la strinse con maggior forza.
«Sei una strega?»
Ygraine si chiese se facendola parlare non potesse acquistare il tempo necessario per riuscire a svincolarsi e a correre fuori, sempre che Jane non avesse chiuso magicamente la porta.
«Mia sorella lo era. Mio cognato lo era, i miei nipoti lo erano. Io sono una Magonò. Ho tanta magia quanta ne hai tu, Ygraine, ma almeno so riconoscere un uomo degno da uno indegno.»
«Tua sorella? Ho sempre creduto che fossi figlia unica», la giovane donna non era certa di aver compiuto la scelta più saggia parlando in quel momento, ma l’unico suo scopo era far parlare Jane. Forse sarebbe riuscita a distrarla. Severus aveva spiegato cosa fosse una Magonò e lei poteva lottare contro la pianista ad armi pari.
«Non potevo certo parlarti della mia sorellastra strega. O forse non ti sei nemmeno accorta di quanto ti parlassi poco dei miei genitori?»
«L’ho notato e lo sai perfettamente. Ho provato a parlarne, ma tu hai sempre evitato l’argomento. Credevo avessi un cattivo rapporto con loro, che fossi arrabbiata con tuo padre o con tua madre.»
«Ho semplicemente rispettato lo Statuto di Segretezza. Non potevo di certo immaginare che Rebecca fosse una strega, né potevo immaginare che tu le permettessi di rimanere insieme ad un assassino. Non ti ho mai parlato della mia sorellastra strega, di Mathilde che è morta, uccisa con ogni probabilità dallo stesso uomo che tu stavi osservando con uno stupido sorriso sulle labbra poche ore fa, dalla finestra di questa stanza», Jane aveva pronunciato quelle parole con una voce talmente colma d’odio, da farla rabbrividire. «All’inizio credevo che tu non ti fossi resa conto di che razza di persona vedessi, a che razza di mostro permettessi di parlare con Rebecca. Ero convinta che avresti aperto gli occhi, ma ho visto come lo stavi guardando dalla finestra e so che l’hai fatto entrare nell’appartamento di Tristan. Sei riuscita a corrompere con la sua presenza il luogo in cui tuo fratello è morto. Hai osato fare entrare un mostro del genere nella casa in cui Tristan ha vissuto ed ha sofferto», Ygraine tentò di divincolarsi, ma Jane strinse maggiormente la presa. «Non hai nulla da dire? Nessuna parola di discolpa?»
«Non ho nulla di cui discolparmi», ribatté con forza. «Sono certa che Tristan avrebbe approvato.»
«Non dovresti nemmeno nominare tuo fratello, né credere che approverebbe che tu permetta alla tua innocente nipote di tenere per mano un Mangiamorte. Hai pensato a Rebecca, almeno?»
«So con certezza che mia nipote è in ottime mani», affermò decisa, nonostante sentisse la paura montare sorda dentro di lei. «Severus è una brava persona e nulla di quello che potrai dirmi potrà farmi cambiare idea.»
«Nessuno ormai pensa che lei possa cambiare idea, signorina Ainsworth», Ygraine si sforzò di non rabbrividire, di mostrarsi calma.
Era la voce di uno degli Auror. Non ricordava se Green o Taylor, ma non importava. Sapeva che uno dei responsabili della morte di quelle due povere persone era uno di loro, ma aveva voluto credere che, in quella stanza, ci fosse solo la pianista.
Invece, in quel momento, si sentiva totalmente intrappolata e priva di speranza. Jane era una Magonò e, per quanto fosse palesemente più forte di lei, forse sarebbe riuscita a scappare, forse sarebbe riuscita a farla parlare abbastanza a lungo per permettere a Severus e Rebecca di arrivare, ma l’uomo che aveva parlato alle loro spalle era un mago.
«Mi chiedo una cosa, signorina Ainsworth, e so che anche Jane se lo è chiesto più di una volta. Come ha potuto accettare così placidamente di avere a che fare con un uomo del genere? O forse la eccita l’idea di trovarsi in compagnia di qualcuno che ha le mani sporche di sangue?»
Jane la stava stringendo con più forza in quel momento, mentre lei cercava inutilmente una via di fuga. Forse la sua unica possibilità era tentare di rifugiarsi in un’altra stanza, ma era fin troppo cosciente che un mago poteva aprire tranquillamente qualsiasi porta.
«E voi come potete rimproverarmi, quando avete ucciso due persone innocenti?»
«Non la parte migliore del nostro piano, ma, all’epoca, eravamo certi che lei avrebbe compreso, che Michael potesse essere manovrato meglio e che Piton a quest’ora sarebbe stato condannato. D’altronde, se la comunità magica avesse scoperto che quel maledetto assassino si era macchiato di un omicidio, avrebbe chiesto a gran voce la revisione del vecchio processo. E quella sarebbe stata la sua fine.»
Ygraine avrebbe voluto urlare a Taylor – lo aveva finalmente riconosciuto – e a Jane che nulla di quello che stavano dicendo aveva senso, che nessuna vendetta poteva giustificare la vita di due esseri umani, che non erano nemmeno pentiti di aver ucciso.
«Mi chiedo, Ygraine, come tu possa essere così sconvolta dalle nostre azioni, quando chiami amico un assassino, l’uomo che era presente quando mia sorella è morta. Deve aver visto Mathilde e Hugh morire. Ed i miei piccoli nipoti. Potresti fare delle ipotesti su chi di loro abbia ucciso, su chi di loro abbia torturato.»
Ygraine non rispose subito.
Forse, non ne sarebbe valsa la pena, per quanto Severus le avesse parlato anche di quella notte, quando le aveva detto che sarebbe stato meglio che lui la accompagnasse alle prove a teatro. Avevano anche cercato dei rapporti tra le persone che lei conosceva e i Berenger, ma Jane non portava il cognome della sorella e non aveva mai fatto molti riferimenti alla sua famiglia.
«Severus ha salvato la vita di William e se avesse potuto avrebbe salvato anche tua sorella e gli altri tuoi nipoti», ribatté, per quanto ritenesse che sarebbe stato totalmente inutile, perché Jane e Taylor avevano già emesso la loro sentenza.
«E tu gli hai creduto? Hai prestato fede ad un maledetto assassino, ad un Mangiamorte che ha avuto la capacità di ingannare Harry Potter, che è riuscito a imbastire una menzogna assurda riguardo al suo essere una spia fedele a Silente.»
Ygraine non ribatté alle parole di Jane. Forse avrebbe potuto per guadagnare altro tempo, ma qualsiasi cosa avesse detto l’avrebbe unicamente irritata ancora di più.
«Ti sei ammutolita?»
L’Auror si era portato davanti a lei e a Jane e la stava fissando con un’espressione di calma follia che la fece rabbrividire.
Notò la bacchetta che teneva in mano e fu certa che l’avrebbe uccisa.
E non voleva permetterlo.
Non voleva morire.
Se l’avessero uccisa non avrebbe potuto occuparsi di Rebecca.
Se l’avessero uccisa non avrebbe più rivisto Severus.
Se l’avessero uccisa l’uomo avrebbe potuto finire con l’incolparsi della sua morte.
«Perché dovrei ribattere, quando non mi starete comunque ad ascoltare?»
Era certa di avere la voce spezzata e di stare tremando. Si aspettava di essere raggiunta dallo stesso incantesimo che aveva spento le vite di quelle due povere persone al museo e si chiese se fosse stato così che si era sentito Severus quando l’Oscuro Signore aveva dato ordine al suo serpente di ucciderlo.
Invece, Jane la trascinò con forza fino al pianoforte e le prese la mano sinistra, facendo suonare orribilmente le note gravi della tastiera.
Provò a svincolarsi, ma le mani della pianista furono sostituite da quelle di Taylor che la teneva immobile. Avrebbe potuto usare la magia o, forse, voleva lasciare a Jane l’onore di ucciderla.
Quando la pianista abbassò il coperchio, agì d’istinto e tirò indietro con forza la mano, come aveva fatto tante volte a teatro, dando una gomitata nello stomaco dell’Auror.
«Maledetta puttana.»
Non badò alla voce di Taylor che l’aveva lasciata andare, né al rumore del coperchio che cadeva sui tasti del pianoforte, ma si mise a correre, come mai aveva fatto prima.
Raggiunse la cucina.
Sapeva di aver pochi istanti. Afferrò un coltello, dalla calamita appesa alla parete, poi si avvicinò alla finestra, ma non riuscì ad aprirla. Provò a rompere il vetro, ma era infrangibile.
Si sforzò di non piangere, mentre udiva dei passi alle sue spalle. Si rifugiò sotto il tavolo, rannicchiandosi contro la parete e tenendo ben stretto il coltello, anche se sapeva che sarebbe stato inutile.
E continuò a stringerlo anche quando il tavolò andò in frantumi sopra di lei. Si gettò a terra, coprendosi la testa con le braccia e cercando di ignorare il dolore alla gamba destra dove doveva essersi infilata una scheggia di legno.
Poi Jane l’afferrò per le braccia e la tirò fuori da sotto i detriti del tavolo. Taylor la sovrastava, la bacchetta in mano puntata verso di lei.
E mentre l’incantesimo partiva dalla bacchetta dell’Auror, il coltello cadde per terra e il sole splendeva alto nel cielo e giocava con i rami dei tigli e con i tetti delle case.

 
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