Il Calderone di Severus

Alaide - Winterreise, Genere: Introspettivo, Drammatico- Tipologia: Long - Rating: per tutti - Avvertimenti: AU - Epoca: Post 7 anno - Personaggi: Severus, Personaggio Originale, Harry- Pairing: Severus/Pers. Originale

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view post Posted on 6/11/2022, 12:22
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Titolo: Winterreise (Viaggio d’inverno)
Autore: Alaide - giugno 2010 / agosto 2022
Bera-reader: /
Tipologia: Long-fiction
Rating: Per tutti
Genere: Introspettivo, Drammatico, Mistero
Personaggi: Severus Piton, Harry Potter, Hermione Granger, Personaggio Orignale (diversi)
Pairing: Severus/Personaggio Originale
Epoca: (solo per le fic di HP) – post settimo libro
Avvertimenti: AU
Riassunto: Era stato certo di essere arrivato alla fine e si era preparato ad esalare il suo ultimo respiro, a veder giungere a compimento il suo viaggio solitario.
Invece la vita - la sua buona sorta avrebbe potuto dire qualche sprovveduto – aveva avuto un’idea diversa.
Ed ora viveva.

Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. La trama di questa storia é invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.

Nota: La storia trae spunto da un ciclo di Lieder (si tratta di un genere musicale diffuso nelle nazioni di lingua tedesca soprattutto nel XIX secolo, dove una poesia o un ciclo di poesie come in questo caso, sono musicate da un compositore. Si tratta di composizione generalmente previste per pianoforte e voce) di Franz Schubert su testo di Wilhelm Müller, intitolato Winterreise (1827), composto da 24 poesie. Ogni capitolo porterà il titolo della poesia in questione ed una citazione – integrale o frammentaria (nel qual caso sarà indicato in nota quali versi ho preso in considerazione) della poesia. Il testo sarà fornito in tedesco con traduzione in italiano.
L’idea di legare Winterreise ad una storia che vedesse come protagonista Severus mi è venuta alla mente ascoltando dal vivo il suddetto ciclo di Lieder l’anno scorso, ma l’idea è stata messe in un angolino, fino a che non è comparsa questa sfida che, per me, ha un valore doppio perché è la prima volta che scrivo di Severus.
Un’ultima annotazione, poi taccio. Nel corso del racconto vi saranno diversi riferimenti operistici, dovuti alla professione di uno dei personaggi originali che è cantante d’opera. Ho tentato di inserire soltanto riferimenti che potessero aver interesse per la trama stessa. In alcuni casi darò un piccolo accenno di trama nelle note a piè pagina.

Storia partecipante alla Sfida n.9 FF: Se Severus non fosse mai morto

senonfossemaimortomini



Indice:



Capitolo I. Gute Nacht (Buonanotte)
Capitolo II. Die Wetterfahne (La banderuola)
Capitolo III. Gefrorene Tränen (Lacrime di ghiaccio)
Capitolo IV. Erstarrung (Congelamento)
Capitolo V. Der Lindenbaum (Il Tiglio)
Capitolo VI. Wasserflut (Flutti d'acqua)
Capitolo VII. Aus dem flusse (Sul fiume)
Capitolo VIII. Rückblick (Sguardo indietro)
Capitolo IX. Irrlicht (Fuoco Fatuo)
Capitolo X. Rast (Sosta)
Capitolo XI. Frühlingstraum (Sogno di primavera)
Capitolo XII. Einsamkeit (Solitudine)
Capitolo XIII - parte I. Die Post (La posta)
Capitolo XIII - parte II. Die Post (La posta)
Capitolo XIV. Die greise Kopf (La testa bianca)
Capitolo XV. Die Krähe (La cornacchia)
Capitolo XVI. Die Leszte Hoffnung (Ultima speranza)
Capitolo XVII. Im Dorfe (in paese)
Capitolo XVIII. Der stürmische Morgen (La mattina tempestosa)
Capitolo XIX. - parte I. Täuschung (Illusione)
Capitolo XIX. - parte II. Täuschung (Illusione)
Capitolo XX. - parte I. Der Wegweiser (Il segnale stradale)
Capitolo XX. - parte II. Der Wegweiser (Il segnale stradale)
Capitolo XX - parte III. Der Wegweiser (Il segnale stradale)
Capitolo XX - parte IV. Der Wegweiser (il segnale stradale)
Capitolo XXI - parte I. Das Wirtshaus (La locanda)
Capitolo XXI - parte II. Das Wirsthaus (La locanda)
Capitolo XXI - parte III. Das Wirsthaus (La locanda)
Capitolo XXII - parte I. Mut (Coraggio)
Capitolo XXII - parte II. Mut (Coraggio)
Capitolo XXII . parte III. Mut (Coraggio)
Capitolo XXIII. - Parte I. Die Nebensonnen (Gli altri soli)
Capitolo XXIII - parte II. Die Nebesonnen (Gli altri soli)
Capitolo XXIV. Der Leiermann (Il suonatore d'organetti)
Epilogo

Edited by Alaide - 8/11/2022, 11:33
 
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view post Posted on 6/11/2022, 12:46
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Capitolo I

Gute Nacht



Ich kann zu meiner Reisen
nicht wählen mit der Zeit,
muss selbst den Weg mir weisen
in dieser Dunkelheit.

(Io non posso del mio viaggio
scegliere il tempo,
devo io stesso trovarmi un sentiero
in questa oscurità.)1


Gran Bretagna, 27 novembre 2001


Pioveva.
La pioggia tintinnava incessantemente, trasportata dal vento impetuoso e gelido che proveniva dalla Manica. La gente si affrettava, ricurva per le intemperie, a raggiungere il luogo di lavoro o la propria abitazione.
Soltanto una figura rimaneva immobile di fronte alla scalinata che portava alla facciata classicheggiante della Tate Britain, lasciando che l’acqua ed il vento la colpissero, inzuppando il cappotto, mentre le gocce colavano dal solido ombrello scuro. La mano sottile e delicata che reggeva il manico dell’ombrello era anch’essa bagnata e la giovane donna si disse che avrebbe fatto meglio a muoversi se non voleva prendersi una brutta infreddatura.
Scosse leggermente il capo, prima di camminare rapidamente. Raggiunto finalmente il riparo offerto dall’ingresso del museo, chiuse l’ombrello e rimase per qualche istante ad osservare lo spiazzo battuto dalla pioggia e dal vento, dicendosi che forse era un’immagine del genere che diversi compositori avevano avuto in mente quando avevano deciso di riprodurre musicalmente tempeste e temporali.
Lasciò cadere qualche sterlina nella cassa per le donazioni, poi, dopo aver lasciato cappotto e ombrello al guardaroba, si diresse con passo deciso alle sale dove erano custoditi i dipinti Preraffaelliti.
Prese ad osservarli uno ad uno, in cerca di ispirazione e di comprensione. Forse era un’idea sciocca, ma le sembrava che avrebbe potuto trovare una lettura sensata di Elsa von Brabant, l’infelice protagonista del Lohengrin di Wagner, tra i volti, a volte inquietanti, delle donne dipinte da Gabriel Dante Rossetti, John Everett Millais e Edward Burne-Jones.
La giovane donna scosse leggermente il capo, mentre fissava la tela di Rossetti e la figura femminile dai capelli rossicci che teneva tra le mani un melograno, però in Proserpina non c’era quel candore che caratterizzava l’eroina di Wagner.
Ma Elsa era veramente candida e pura? Oppure era ben più contorta di quanto apparisse? La giovane donna ripensò rapidamente alla vicenda della protagonista dell’opera: una fanciulla accusata ingiustamente di fratricidio a cui appare in sogno un cavaliere destinato a proteggerla dai suoi interrogatori. Da quel momento Elsa è certa che l’uomo sognato sarebbe giunto a difenderla dalla falsa accusa. Ed effettivamente il protettore arriva miracolosamente su una navicella guidata da un cigno, l’ha salvata, sconfigge in duello il suo accusatore e le dichiara il suo amore, ponendo, come unica condizione, che la fanciulla non gli chieda mai chi sia, da dove venga e quale sia la sua stirpe. Elsa accetta il patto, ma lo infrange durante la prima notte di nozze, spinta dalle proprie insicurezze e dalle parole insinuanti della perfida Ortrud – la moglie del suo accusatore – perdendo così il suo amato, a cui pone le domande proibite. Giunge a sapere che egli è Lohengrin, figlio di Parsifal, cavaliere del Graal, ritrova anche il fratello che Ortrud aveva trasformato in cigno, ma, alla partenza del cavaliere, disperato, Elsa muore di dolore.
Dunque, si chiese la giovane donna, una fanciulla che per debolezza – perché lei non riusciva a chiamarla semplice curiosità – sacrificava il proprio amore, non era forse ben differente da una fanciulla innocente, vittima delle infide parole di Ortrud? O almeno quella era la sua opinione, per quanto l’idea di un soprano al suo debutto nel ruolo potesse valere.
Si spostò dal quadro, muovendosi per la sala deserta, se non per la presenza di un uomo seduto di fronte ai dipinti appesi sulla parete opposta della sala.
La giovane donna gli lanciò un’occhiata distratta, per poi continuare ad osservare le tele. Mentre il tempo scorreva lento, notò quanto fosse faticoso trovare il volto di una giovane donna che rappresentasse qualcuno che prova la massima fiducia in un uomo apparsole in sogno e che poi non riesce a fidarsi di lui, una volta che questi è arrivato e l’ha salvata. Un comportamento irrazionale e contrario alla logica comune, si disse il soprano, ma la logica comune, naturalmente, non prevedeva che un cavaliere giungesse su una navicella guidata da un cigno, né che il suddetto cigno si rivelasse essere un bambino trasformato in animale da Ortrud, una donna dotata di poteri magici e dedita al male. Ma in fondo il comune buonsenso non prevedeva nemmeno che la magia esistesse.
D’altronde l’opera era ben poco logica e la giovane dovette dar ragione a Tristan che, scherzando, le aveva ripetuto diverse volte che lei, così speculativa e razionale, non era per nulla tagliata per essere una folle sul palcoscenico.
Il soprano scosse il capo, quasi con rabbia, sforzandosi di osservare con attenzione il volto misterioso della Lady of Shalott2, ma la sua mente non poteva far altro che soffermarsi sul pensiero di quello che era accaduto esattamente un anno prima.
Tutti i suoi sforzi per mantenersi impegnata, per pensare al suo prossimo debutto nel ruolo di Elsa, per concentrare la propria mente su qualcos’altro si stavano rivelando vani. Forse sarebbe dovuta andare nella casa del Kent ed osservare il volto silenzioso e triste di sua madre, udire lo sfogliare frenetico del padre, sentire i discorsi futili della cognata e le parole che sarebbero uscite dalle labbra di Gawain.
O, peggio, vedere gli sguardi interrogativi di Rebecca, che avrebbe domandato perché lo zio se n’era andato per sempre l’anno precedente.
La giovane donna lanciò una rapida occhiata alla pioggia che picchiettava con insistenza contro una delle finestre che davano luce alla sala. Tristan avrebbe detto che non era un caso se quel giorno pioveva, ma egli era dotato di una fantasia di gran lunga più sviluppata della sua. E di una maggiore sensibilità. Probabilmente, si disse, dopo un attimo di riflessione, per quanto potesse sembrarle strano un pensiero del genere, il fratello era più lucido di quanto non avesse mai pensato. In fondo aveva sempre visto in lui un’anima poetica, nata forse nel secolo sbagliato, la cui forte sensibilità aveva finito per sommergerla.
Ma pensando al suo gesto finale, si era spesso interrogata sulla questione. Quanta lucidità ci voleva per fare quello che Tristan aveva fatto? Non aveva forse scientemente scelto la propria strada, come tutti gli altri esseri umani? Una scelta logica o illogica? Lei non poteva di certo stabilirlo, ma pur sempre una scelta meditata in solitudine. Era convinta infatti che ogni decisione, non importava quante circostanze esteriori vi fossero, era qualcosa che veniva meditato in solitudine, unicamente dalla propria mente – dal proprio cuore avrebbe detto Tristan –, nel momento in cui ci si muoveva lungo il cammino inintelligibile della propria vita.
Da solo Tristan aveva scelto la sua strada, si disse, mentre si sedeva, forse per meglio osservare uno dei quadri che le stavano davanti, senza essere disturbata dalle luci, forse per ritrovare la calma necessaria per ritornare a concentrarsi su Elsa von Brabant.
Fu in quel momento che si accorse che l’uomo che aveva notato distrattamente, mentre ancora meditava sulla protagonista femminile di Lohengrin, non si era mosso. Non riusciva a calcolare quanto tempo fosse trascorso da quando l’aveva intravisto, ma era sicuramente un tempo lungo per qualcuno intento a visitare un museo. Lei aveva speso diversi minuti davanti ad ogni dipinto nel tentativo di trovare una somiglianza, anche solo gestuale, tra quelle donne ed Elsa, ma quell’uomo dai capelli neri non si era spostato di lì. Forse era semplicemente un qualche esperto di Storia dell’Arte che stava per scrivere un libro rivelatore sui Preraffaelliti, ma in tal caso non sarebbe stato più logico vederlo prendere appunti e non semplicemente rimanere immobile a fissare uno dei quadri di fronte a sé? D’altronde, non v’era nessuna legge che stabiliva che una persona intenta a fare una ricerca dovesse per forza di cose scrivere forsennatamente.
Distolse rapidamente lo sguardo, dandosi della sciocca. Qualsiasi fosse la ragione che portava quell’uomo ad essere lì, non era di certo affar suo. Eppure, si sentiva incuriosita, forse semplicemente perché v’era qualcosa di insolito.
Oppure era perché aveva un che della figura del Wanderer3 .
Pensiero assurdo, si disse.
Il Wanderer, perso nel mare di nebbia, volto verso l’infinito indefinibile, e il Wanderer di Schubert, rivolto verso il proprio cammino, dove trova e cerca la morte, durante un viaggio nell’inverno dell’anima, erano figure della fantasia romantica e di certo lontane da qualsiasi forma di realismo.
O, forse, erano ben più reali di quanto non credesse.
La giovane donna trasse un lieve sospiro, prima di analizzare i quadri che le stavano di fronte, cercando di tornare a focalizzarsi su Elsa von Brabant.
Era mai possibile che quella figura che reggeva un giglio avesse qualcosa a che fare con la giovane duchessa di Brabante? V’era in quell’atteggiamento dimesso, in quel volto malinconico chino verso il suolo, qualcosa del personaggio wagneriano, nel momento in cui, poco dopo aver ritrovato il fratello, muore d’amore? Sicuramente nell’immaginario comune Elsa era innocente e pura, ed il giglio era simbolo di purezza, ma, ad un’analisi più approfondita, il personaggio risultava veramente così innocente?
Dei passi improvvisi interruppero le meditazioni della giovane donna, facendole alzare il capo. Si aspettava di vedere la sagoma dell’uomo, seduto poco distante da lei, allontanarsi dalla sala; invece, egli era ancora immobile intento ad osservare, con ogni probabilità, lo stesso dipinto che l’aveva appena colpita.
«Fortunatamente ti ho trovata, Ygraine» disse una voce alle sue spalle. La giovane donna si voltò e incontrando il volto bonario della sua pianista. «Quando non ti ho vista arrivare per provare, mi sono preoccupata. Tuo fratello mi ha detto che ti avrei trovata qui.»
«Ti prego di perdonarmi, Jane» rispose Ygraine, dicendosi che l’ansia di trovarsi qualcosa da fare quel giorno le aveva fatto dimenticare che aveva già di che tenere la mente occupata. «Credo di aver sbagliato a segnare l’ora nella mia agenda. Fortunatamente mancano ancora alcuni giorni al concerto.»
L’altra donna annuì e a Ygraine parve che stesse accettando fin troppo facilmente le sue parole di scusa, considerando che Jane sapeva perfettamente cosa fosse accaduto quel giorno. Era stata presente al funerale di Tristan, che conosceva da anni, da quando, tempo prima, si erano incontrate al conservatorio.
La giovane donna si alzò dal divanetto, grata all’amica per non aver voluto intavolare un discorso sul fratello morto suicida. Mentre seguiva la pianista all’esterno della sala, passò davanti all’ultimo quadro che aveva osservato, leggendone titolo e autore, ripromettendosi di informarsi maggiormente su quell’opera di Dante Gabriel Rossetti.
Il rumore, prodotto dalle scarpe di Jane, la precedette all’esterno di quella lunga sala, colma di quadri enigmatici. Si voltò un istante, quando fu sulla soglia, e notò che l’uomo non si era mosso, come se non si fosse nemmeno accorto di quello che stava accadendo intorno a lui.
Soltanto il rumore della pioggia pareva riempire lo spazio ampio e semideserto, dopo che la giovane donna si fu allontanata. Il ticchettio delle gocce, portate dal vento furioso di quella giornata di fine novembre, si faceva sempre più insistente e la luce che penetrava dall’esterno sempre più scarsa e cupa.
Cupa come un viaggio solitario, come quella strada oscura che era la vita. In fondo, si disse l’uomo, che diversità c’era tra le tenebre e la vita – la sua vita, si corresse –, una vita che gli apparteneva ancora per un caso fortuito di cui avrebbe fatto volentieri a meno?
Le motivazioni della sua sopravvivenza rimanevano un mistero. Non era tanto il perché fosse ancora in vita – per quello vi erano delle chiare risposte negli archivi del San Mungo –, quanto piuttosto per quale motivo la morte non l’avesse preso con sé nel momento in cui poteva farlo. Era una domanda che vorticava nella sua mente, sovrapponendosi ed intrecciandosi con ricordi e rimorsi impossibili da rimuovere anche solo per un istante.
Una domanda alla quale non riusciva a trovare risposta, perché forse non ve n’era una.
Eppure, questo non gli impediva di riflettere sulla questione. D’altronde sarebbe stato da sciocchi non farlo, anche se, alla fine, si tornava sempre al punto di partenza, a quella ricerca di una motivazione che era impossibile trovare. Forse avrebbe dovuto accontentarsi di sapere che era sopravvissuto, quando era stato certo di morire, quando aveva visto la fine, la meta ultima della vita di ogni uomo – una meta che era certo di raggiungere una volta finito il suo scopo – avvicinarsi inesorabilmente.
Invece non era stato quello il momento in cui il suo cammino aveva avuto fine, per quanto lui avesse potuto desiderarlo o darlo per scontato. O pensare che fosse veramente giunto. Percepirlo. Quasi sfiorarlo.
Sfiorarlo, appunto.
Non aveva ancora raggiunto il porto e non poteva pronosticare quando questo sarebbe successo.
In definitiva non stava a lui scegliere il tempo per il viaggio, o meglio, per la sua fine. Ma non si intraprendeva forse un viaggio sapendo che questo arriverà al termine? Non si viveva forse sapendo che si andrà incontro alla morte? E così come non si poteva scegliere l’inizio del viaggio, non era dato al viaggiatore di sceglierne la fine.
O per lo meno non era dato a lui sceglierne il tempo.
V’era chi lo faceva, questo era un dato di fatto, ma il suicidio era una strada che non aveva mai preso in considerazione. Nemmeno nei momenti più disperati aveva pensato di rivolgere un’arma o un veleno contro sé stesso. Morire poteva forse dire trovare la pace, per quanto v’erano momenti in cui ne dubitava con tutto sé stesso. Le sue colpe erano troppo gravose perché la morte potesse pacificarlo. Eppure, la morte poteva veramente voler dire la fine di tutto.
Della sofferenza della colpa e del rimorso.
Qualcuno avrebbe potuto vedere in questo un’ottima ragione per porre fine alla propria vita.
Eppure, non aveva mai preso in considerazione la possibilità di suicidarsi.
Semplicemente era impensabile, si disse, mentre osservava con maggiore attenzione quella tela che lo rinviava a ricordi persi nel tempo, voler fuggire volutamente dalle proprie colpe. Perché, in fondo, quello poteva significare, per lui, il suicidio.
Ed era qualcosa che non poteva e voleva fare.
O forse, per una qualche motivazione, a lui stesso incomprensibile, non voleva ancora morire, per quanto non vedesse davanti a sé nessuna ragione per poter vivere.
L’unica cosa di cui era assolutamente certo, si disse, mentre i suoi occhi si perdevano ad osservare il volto dell’effigiata, era che tre anni prima era stato sicuro che l’ultima cosa che avrebbe potuto vedere in vita sua sarebbero stati gli occhi di Lily.
Aveva creduto che l’ultimo suo gesto sarebbe stato contemplare il verde dello sguardo di Lily.
Ed anche, in quel momento, portando i propri occhi neri sugli occhi della donna del quadro Babbano che stava di fronte a lui, incontrò il verde degli occhi di Lily, per quanto, ancora una volta, proprio com’era avvenuto nella Stamberga Strillante, quello sguardo non appartenesse realmente a lei.
Con gli occhi ancora incatenati a quelli malinconici e dolci del quadro, vedeva il cammino che gli rimaneva da percorrere, confondersi imperscrutabile nel verde stesso di quegli occhi.
O nella cupezza del cielo tempestoso di quel giorno di fine novembre.



***



Pioveva.
L’acqua sembrava non voler smettere di cadere su tutta l’Inghilterra. Bagnava ogni essere vivente che, in quella cupa notte di fine novembre, si avventurava all’esterno della sua abitazione; bagnava ogni casa di Mago o di Babbano. Ed il vento sibilava furibondo, facendo gemere gli alberi e sbattere qualche finestra lasciata aperta.
La pioggia ticchettava impetuosa sulla cabina del telefono che dava ingresso al Ministero della Magia, su Diagon Alley, deserto e ricostruito rapidamente dopo la fine della guerra, su Westminster, sul Tamigi e sulla Torre di Londra. Le fini gocce cadevano anche contro le finestre buie e silenziose di una casa georgiana come tante della città, tenendo desta Ygraine Ainsworth.
Forse non era nemmeno la pioggia battente ad impedirle di dormire, né ben che meno il pensiero del recital che avrebbe affrontato il sei dicembre, né il prossimo debutto in Lohengrin, anche se le sarebbe piaciuto crederlo.
Forse le sarebbe bastato pensare alla musica, cantare una qualche aria – magari non una delle più drammatiche del suo repertorio –, ma di certo i vicini non avrebbero gradito e men che meno suo fratello che la ospitava per tutto il tempo delle prove e delle rappresentazioni.
In quel giorno le sembrava di star perdendo di vista la sua abituale ragionevolezza, ma forse era qualcosa di naturale. Anzi, sua madre le avrebbe detto che era comunque assolutamente ragionevole. Suo padre l’avrebbe guardata con occhi tristi, mentre cercava una risposta al lutto che l’aveva colpito in un poema arturiano. Non erano poi così dissimili lei e papà, si disse. Era certa che l’uomo avrebbe cercato conforto nei suoi amati poemi medievali, così come lei aveva cercato una fuga nella musica.
Non si comportavano così, di solito.
Ma quella non era una giornata come tutte le altre, o meglio, lo era stata fino all’anno precedente, quando, in una notte illuminata dalle stelle e da un quasi impercettibile falce di luna4, Tristan aveva rivolto contro di sé un coltello trovato in cucina. Forse era stato proprio a quell’ora che il fratello aveva deciso, nella solitudine del suo piccolo appartamento, di uccidersi. O meglio, si corresse Ygraine, rigirandosi nel letto, di compire l’atto decisivo di una scelta che doveva aver già preso da tempo.
Eppure, non v’era stato nulla nel comportamento di Tristan qualcosa che avrebbe potuto far pensare che stesse dando il suo addio alla vita. O forse, c’era stato, ma lei non se n’era resa conto. A posteriori, forse, avrebbe anche potuto dire di aver notato dei segni, ma sarebbe stato totalmente inutile.
Lo stato di prostrazione psicologica in cui versava Tristan era qualcosa di cui era necessario accorgersi subito, non quando i fatti si erano già prodotti.
Quei pensieri, che la stavano conducendo verso strade che non voleva affrontare, furono interrotti dall’aprirsi furtivo della porta della sua stanza e dai successivi passetti che sfiorarono il pavimento.
«Rebecca, dovresti essere a letto da diverso tempo, ormai. Domani devi andare a scuola» mormorò Ygraine, mettendosi seduta, mentre la nipote, la cui figurina era appena visibile grazie alla luce dei lampioni che penetrava tra i tendaggi, si avvicinava a lei.
«La pioggia ed il vento mi impediscono di dormire, zia» biascicò la bambina, mettendosi a sedere sul materasso. «E papà e mamma dormono.»
«E cosa ti lasciava pensare che io fossi sveglia?» domandò Ygraine, mentre la pioggia sembrava aumentare di intensità.
«Oh… zia, anche se dormivi, non mi avresti detto niente. Invece papà si sarebbe arrabbiato» mormorò Rebecca, sgusciando sotto le coperte.
«Gawain vuole che ti comporti come una bambina grande» affermò la giovane donna, dicendosi che era insito nel fratello irritarsi per qualcosa che sconvolgeva anche minimamente il suo quieto vivere e le sue abitudini.
Ricordava che una volta sua madre aveva detto che Gawain non sarebbe mai stato un artista ed Ygraine aveva dato ragione alla donna, anche se la mamma non aveva mai pensato che lei potesse calcare il palcoscenico.
«Ma io sono grande» protestò la bambina. «Ho otto anni.»
«Hai ragione, Rebecca, sei grande», bisbigliò Ygraine, scompigliando i capelli castani della nipote. «Ma la prossima volta puoi pensare a qualche storia divertente. Magari ti addormenti, ma se non riesci puoi sempre venire qui.»
«Però tu non sei sempre qui, zia», disse la bambina, scuotendo il capo contrariata. «E a me piacerebbe tanto venire a sentirti cantare sempre e non vedo l’ora che sia il giorno del tuo concerto. Nonna mi ha comprato un biglietto. E poi c’è quell’opera, quella che hai già cantato, quando io ero tanto piccola… e quella nuova… Lonhengrin, o qualcosa del genere… ha una bella storia, zia?»
«Io la trovo bella, Rebecca. Forse ti piacerà. Lohengrin è un cavaliere...»
«Allora ci saranno dei duelli?» domandò la bambina, interessata. «E anche una bella principessa che si innamora di lui?»
«Ti dovrai accontentare di una duchessa» rispose Ygraine, cercando di dare un tono leggero alle sue parole «Ci sarà anche un duello, nel primo atto.»
«Ma finisce bene o male, zia?» la incalzò Rebecca, impedendole di aggiungere qualcosa d’altro.
«Male» disse soltanto la giovane donna.
«Oh, tutte le opere che hai cantato finiscono che qualcuno muore» commentò la bambina. «Ed in questa cosa succede?»
«La storia è complessa, Rebecca» disse Ygraine, sorridendo al commento della nipote. «Ti prometto che domani te la racconterò.»
«E mi farai sentire anche un pezzo?» domandò la piccola, trattenendo a stento uno sbadiglio.
«Certamente, Rebecca. Ma ora dormi.»
La bambina annuì, augurando, bofonchiando, la buona notte alla zia.
«Buona notte, Rebecca» rispose di rimando la giovane donna.
Dopo qualche minuto, il respiro regolare della bambina addormentata fu udibile tra il ticchettio della pioggia. Ygraine, dal canto suo, rimase sveglia, chiedendosi se quella notte avrebbe mai avuto fine e, mentre la domanda le si presentava alla mente, le parve che la pioggia scrosciasse in maniera quasi cullante. La giovane donna tornò a coricarsi, cullata dalla tiritera malinconica prodotta dalle gocce d’acqua che cadevano su tutta Londra, su tutta l’Inghilterra, bagnando abitazioni, giardini, alberi e piazze. Cadeva violentemente tra i sibili del vento su ogni casolare, su ogni villaggio e su ogni quartiere.
E pioveva sul grigiume di Spinner’s End, che nemmeno l’acqua poteva lavare. Tutto pareva dormire, mentre ogni goccia picchiettava contro finestre, tetti e strade. Nessuno si avventurava all’esterno, ma v’era chi vegliava. Una madre sfinita da una giornata di lavoro che tentava di quietare il figlio piangente. Un senzatetto nascosto dietro una catapecchia semiabbandonata.
Un uomo solitario con un libro aperto davanti.
Un libro le cui pagine venivano sfogliate lentamente, mentre i minuti passavano inesorabili e lenti, senza che gli occhi neri del lettore sembrassero dare segno di affaticamento, nemmeno quando la notte aveva ormai superato la sua metà.
Il sonno sarebbe presto o tardi arrivato, com’era naturale che fosse, si disse Severus Piton, ma non sarebbe mai stata una buona notte.
Ma da quando le sue notti erano buone?
Domanda retorica e tutt’altro che intelligente.
All’esterno la pioggia continuava a ticchettare persistente e aritmica, portata dal vento, un suono che aggiungeva un corollario ad una notte come tante altre, una notte che sembrava l’esatta ripetizione di tutta una lunga serie di notti che aveva vissuto da che si era ritrovato vivo.
V’era qualcosa di tremendamente ironico nel fatto che, in quel momento, in cui si trovava ad essere impensabilmente libero da ogni vincolo, si sentiva quanto mai vincolato. Ed era proprio nelle ore notturne che il vincolo invisibile dei ricordi e del passato sembrava afferrarlo con maggior forza, impedendogli quasi di concentrarsi su quanto stava leggendo.
Mentre le gocce di pioggia vorticavano scendendo dal cielo, imperturbabili, bagnando tutto senza distinzioni, l’uomo si rendeva pienamente conto che il suo passato l’avrebbe afferrato con sempre maggior forza ogni giorno che passava, perché, in quei giorni, che un altro avrebbe potuto definire di libertà, aveva un tempo pressoché illimitato per riflettere, per rivivere ogni momento.
Forse era per quello che la morte l’aveva rifuggito, rigettato.
Poteva essere che la sinistra mietitrice fosse dotato di un macabro senso dell’umorismo ed amasse giocare con la vita delle persone, evitando di prendere con sé chi pareva desiderarlo.
O chi era certo di essere arrivato alla fine.
Ed egli aveva avuto in effetti l’idea di aver riconosciuto la meta, nella Stamberga Strillante. Era sembrato così chiaro. La morte era apparsa così vicina che avrebbe potuto toccarla e vederla, qualsiasi fosse la sua immagine.
Era stato certo di essere arrivato alla fine e si era preparato ad esalare il suo ultimo respiro, a veder giungere a compimento il suo viaggio solitario.
Invece la vita - la sua buona sorta avrebbe potuto dire qualche sprovveduto – aveva avuto un’idea diversa.
Ed ora viveva.
Respirava come ogni altro essere vivente, vedeva i giorni trascorrere lentamente, uno dopo l’altro come accadeva ad ogni uomo, osservava il cammino davanti a sé srotolarsi ora dopo ora e la meta finale avvicinarsi.
E si voltava indietro – più di quanto non guardasse avanti, ammise – alla parte del viaggio già percorsa – lunga o corta, non poteva saperlo – colma di scelte e decisioni, di responsabilità enormi che gli gravavano sulle spalle. Un tratto di strada che era sempre nella sua mente, pensiero indelebile nella veglia come nel sonno.
Ed era presente anche in quel momento in cui il vento scuoteva ogni cosa e tutto si bagnava di un’acqua che in una qualche leggenda avrebbe potuto avere un effetto purificatore, ma v’erano macchie che nemmeno l’acqua più pura poteva cancellare.
Severus si alzò, lasciando il libro aperto, e si avvicinò alla finestra su cui l’acqua, cadendo, segnava dei sentieri sul vetro.
L’inverno stava arrivando.
Eppure, questo non voleva dire nulla.
In fondo era da tempo che viaggiava nell’inverno profondo costituito dalla sua vita e dalle sue scelte. E quell’inverno, colmo di rami rinsecchiti e spezzati come le sue colpe, si protraeva da ben prima che Nagini lo mordesse, ben prima che le sue mani si macchiassero del sangue di Silente, da ben prima che Lily morisse, forse da ben prima che il Marchio Nero fosse impresso sul suo avambraccio sinistro.
Ed era in quell’inverno dell’anima che, perduto lo scopo che, fino al momento in cui aveva creduto di morire, lo aveva in un certo senso guidato, avrebbe dovuto trovare una strada, un cammino solitario, ma pur sempre un cammino, di cui però non riusciva ad intravedere la linea davanti a sé.
Eppure, una strada alla fine avrebbe scelto.
Anche se non gli era dato conoscerne il momento, se non quando avrebbe compiuto una scelta che l’avrebbe fatto svoltare per un sentiero accidentato.
Rimase ancora per qualche istante immobile accanto alla finestra, ombra scura, nella cupezza di quella tempestosa notte di novembre, poi si staccò dai vetri sferzati dall’acqua che cadeva dal cielo.
Mentre tornava al suo libro in attesa che il sonno lo cogliesse, la pioggia si affievolì leggermente ed un breve ed effimero raggio di luna si fece strada tra le nubi. Illuminò per qualche istante il suo percorso, per essere inghiottito poco dopo dalle nuvole nere che lottavano tra loro nel cielo oscuro.



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[1] Wilhelm Müller, Gute Nacht (buona notte), seconda strofa versi 1-4.

[2] Tela di John William Waterhouse. Tutti i dipinti citati in precedenza e che saranno citati successivamente fanno effettivamente parte delle collezioni della Tate Britain, come ho verificato sul sito della medesima. L’unica libertà letteraria che mi sono presa, riguarda la loro effettiva esposizione in sala, in quanto l’esposizione viene effettuata a rotazione, quindi non posso sapere quali quadri si trovavano effettivamente esposti nella galleria nel novembre del 2001. La descrizione del museo è il più fedele possibile alla realtà, anche se può benissimo essere che i miei ricordi mi ingannino, soprattutto sulla presenza delle finestre in quella data sala. Se questo dovesse risultare errato, si tratterebbe allora di una nuova licenza poetica.

[3] Il termine Wanderer è stato volutamente mantenuto in tedesco, perché è parola in parte intraducibile in italiano. Letteralmente Wanderer significava Viaggiatore, ma la parola Wanderer, usata nel romanticismo e tardo-romanticismo tedesco, assume i connotati di un Viaggio compiuto nell’anima, piuttosto che di un viaggio reale. Vi è inoltre nel Wanderer romantico, una sorta di impossibilità alla quiete, al non viaggiare. Il Wanderer è quasi un essere destinato ad affrontare il Viaggio. È inoltre un Wanderer il protagonista del ciclo di Lieder che ha dato ispirazione al racconto.

[4] Le fasi lunari per l’anno 2000 sono dedotte dal calendario perpetuo. Allo stesso modo sono stati rivelati giorni della settimana e fasi lunari dell’anno 2001.
 
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view post Posted on 6/11/2022, 13:04
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Capitolo II

Die Wetterfahne



Der Wind spielt drinnen mit den Herzen
Wie auf dem Dach, nur nicht so laut

(Il vento gioca dentro con il cuore
Come sul tetto, solo non così forte.[1])


Gran Bretagna, 30 novembre 2001




La pioggia aveva lasciato l’Inghilterra e la sua capitale da un giorno soltanto, ma il vento ancora urlava furioso, facendo scuotere tutto quello che trovava sul suo cammino: i rami rinsecchiti degli alberi, gli aghi degli abeti che cadevano in terre turbinando, le insegne dei pub di campagna e le banderuole sui tetti delle case.
Il vento soffiava lungo il Tamigi, incessante, violento e freddo. Le persone camminavano piegate in due dalla forza della natura. Ygraine Ainsworth osservava una madre alle prese con due bimbi troppo turbolenti, dalle finestre della casa della sua pianista. Jane stava voltando le pagine dello spartito, fermandosi solo nel momento in cui trovò il foglio che stava cercando.
«Ti vedo distratta, oggi» interloquì, rivolta al giovane soprano.
«Stavo osservando il vento, Jane» rispose Ygraine. «Ed interrogandomi circa quello che batte alla porta di Desdemona.[2] »
«Sempre immersa nella musica, proprio come Antonia [3] » disse la donna, sorridendo appena.
«Credo che non vi sia persona più distante di me da Antonia, per quanto ami cantare quel ruolo. Non fraintendermi, amo cantare, ma non anteporrei mai il canto all’uomo che amo oppure o alla mia famiglia. Forse è questa distanza dal personaggio dipinto da Offenbach che mi ha spianta ad accettare di prender parte alla produzione dei Contes d’Hoffmann, nelle recite di gennaio. Trovo stimolante cercare di comprendere la mente di una fanciulla che antepone la musica ed il canto a tutto, all’affetto figliale e all’amore per Hoffmann, fino a morirne. Ma in fondo Antonia è l’amante della musica e sono convinta che, alla fine, avrebbe cantato anche senza l’intervento del Dottor Miracle.»
«Eppure, non puoi negare che in Antonia faccia leva anche la presenza della madre. In fondo, il fatto che in Antonia sembri rivivere la madre morta nello stesso modo, è ribadito più volte nel corso dell’intero atto. E non dovresti sottovalutare il prendere nuovamente vita della donna.»
«La figura materna è sicuramente fondamentale e credo fermamente che l’amore assoluto per la musica di Antonia sia dovuto anche alla madre morta, ma è nell’anima di Antonia che vive la musica stessa e credo che, ad un certo punto, la ragazza vada a sovrapporre la madre alla musica e quando dice son âme m’appelle sia dell’anima della musica piuttosto che di quella della madre che parli. Ma, in fin dei conti, ritengo che tutto avvenga nella mente di Antonia, anche il risvegliarsi del ritratto della madre… è dentro di lei, qualcosa che solo lei vede e sente, suggestionata dalle parole di Miracle e dalla sua sovrapposizione della madre con la musica.»
«In questo modo, Ygraine, neghi totalmente l’elemento fantastico e magico presente nell’atto di Antonia» ribatté Jane, spianando lo spartito con una mano.
«Cerco di cercare unicamente una spiegazione logica al comportamento di Antonia» affermò Ygraine «Non nego che nel libretto vi sia scritto che il ritratto della madre di Antonia parli, né che questo evento dia ulteriore fascino all’atto, ma allo stesso tempo credo che il personaggio di Antonia debba trovare delle motivazioni forti ed interiori per il suo comportamento, altrimenti rischia di essere troppo simile ad una banderuola in preda ai venti, priva della capacità di scelta, divisa tra il padre e Miracle. Invece Antonia è qualcuno che sceglie. Certo, non sembra sapere che il canto le sia mortale, ma questo non la fermerebbe. Semplicemente sceglie la via che preferisce: la musica. Perché è l’anima della musica che la investe e la chiama. Se pensi inoltre al racconto di Hoffmann [4], questo appare ancora più chiaro. Quando Antonia muore, il violino si spezza, quasi che l’anima della fanciulla sia racchiusa all’interno dello strumento che più di tutti rappresenta la musica e il suo lato misterioso.»
Ygraine si aspettò quasi che Jane ribattesse e che intavolassero una lunga discussione sulla musica e sull’interpretazione di un personaggio, come erano solite fare in più di un’occasione, ma la pianista la stava semplicemente osservando, con un’espressione che la giovane donna non riuscì a decifrare. Sembrava quasi che la pianista volesse studiarla e valutarla. Oppure, più realisticamente non aveva voglia di portare avanti un’estenuante discussione sulla figura di Antonia, che avevano già affrontato in altre occasioni.
«Vuoi rivedere qualcosa di Antonia? O preferisci cantare i brani che hai scelto per il concerto?» domandò la pianista, guardando lo spartito che aveva davanti a sé.
«Il concerto. Per Les Contes d’Hoffmann è ancora presto, considerando che le prove in teatro inizieranno tra una ventina di giorni. Credo che potrei ricominciare a rivedere la parte dopo il recital. E poi concentrarmi maggiormente su Elsa che è un ruolo nuovo» rispose Ygraine, senza riuscire a capire se essere contenta del fatto che Jane aveva interrotto la conversazione su Antonia oppure se esserne felice, considerando che trovava quanto mai improbabile il paragone tra il personaggio di Offenbach e sé stessa.
La pianista annuì ed attaccò le prime note di Meine Ruh ist ihn[5] di Schubert, poi la voce della giovane si unì al pianoforte, cantando il dolore e la desolazione di Gretchen all’arcolaio, la sua consapevolezza di aver perso, a causa di Faust, per sempre la propria pace.
Ed intanto il vento soffiava violento, mentre Ygraine dispiegava il suo canto, cercando di dare vita alla fanciulla disperata ed ai suoi ricordi. Jane si voltava di tanto in tanto verso la cantante, osservando il volto che assumeva una piega malinconica, che pareva contrastare con la desolazione che emergeva dalla voce, non bellissima, ma intensamente partecipe, del soprano.
Il vento impetuoso e freddo si mescolava, con i suoi ululati ed i suoi sibili, al canto e alla musica. E, tra il traffico ed i rumori della città, si fece strada anche la voce di Ygraine ed il dolore di Gretchen, prima che si perdesse tra gli altri suoni, morendo per la lontananza.
Tutto, anche la musica, pareva piegarsi di fronte alla forza della natura: ogni arbusto rinsecchito, ogni ramo privo di foglie, ogni uomo che vagava per strada.
Ed anche chi rimaneva al sicuro nella propria casa, sembrava risentire della forza del vento e della sua furia che si abbatteva senza requie sulle case, facendo scuotere e roteare le banderuole sui tetti in ogni angolo d’Inghilterra, dalla capitale a qualche piccolo villaggio sperduto, ai sobborghi industriali di qualche grande città, a Spinner’s End.
Una banderuola spezzata girava impazzita sull’abitazione a fianco di quella in cui abitava Severus Piton. L’uomo aveva alzato da poco lo sguardo dal foglio di pergamena su cui stava scrivendo e, per una qualche casualità, si era posato sulla vecchia banderuola, che aveva la più banale delle forme: un galletto che aveva visto tempi migliori.
Forse v’era una qualche assonanza tra il suo stato attuale e quell’oggetto vecchio e rotto. In quel momento gli pareva di essere in preda ai venti, una banderuola senza più uno scopo, senza più un luogo dove vivere se non quella casa popolata da ricordi dolorosi.
Eppure, osservando il vento che giocava con quella banderuola arrugginita, si chiese se non sarebbe stato ben più logico morire quando sembrava che la morte l’avesse infine trovato.
Forse allora il vento avrebbe smesso di giocare con il suo cuore.
Un’immagine assurda, ma forse realistica.
L’uomo scosse leggermente il capo. Forse sarebbe stato meglio dire che il vento giocava con la sua mente e con i suoi ricordi, con la sua anima. Un gioco incessante, che non gli lasciava tregua, in nessun momento del giorno e della notte. E forse il vento nella sua mente era meno violento di quello che imperversava fuori dalla casa, ma se il tempo sarebbe presto cambiato, diventando magari tranquillo e sereno, quell’insieme di ricordi, di sensi di colpa e di rimorsi, avrebbe sempre soffiato nella sua mente fino a che la morte, a cui era scampato, non sarebbe venuta a reclamarlo.
E allora forse avrebbe trovato pace, sempre che questo fosse possibile per chi aveva le mani lorde di sangue innocente.
Per lo meno, però, la morte avrebbe messo fine a quel vento, sempre ammesso che all’Inferno – sempre che questo esistesse – non fosse stata studiata una pena apposita per lui e si fosse trovato per l’eternità ad essere in preda a quel vento terribile che gli investiva la mente.
Una pena più che meritata, aggiunse tra sé.
Scosse leggermente il capo, tornando ad osservare la banderuola ed il vento che la scuoteva, un vento che nel passato aveva scosso altri alberi ed un altro luogo in Inghilterra, un momento in cui, banderuola scossa dai venti, si era rivolto a Silente, in un tentativo disperato e disgustoso – come aveva detto lo stesso preside – di salvare Lily.
Ed i ricordi cominciarono ad affluire in massa, mischiati gli uni agli altri, impetuosi e violenti come il vento che imperversava al di fuori, così impetuosi che avrebbero potuto piegare e schiacciare un altro uomo, ma che Severus sopportò rimanendo eretto, sebbene il loro peso lo colpisse violentemente.
Il tempo iniziò a scorrere, gravido di sensi di colpa, di ricordi, di rimorsi e di ferite impossibili da rimarginare.
Ed il vento all’esterno continuava a soffiare facendo gemere la banderuola ed il cuore di Severus.
Non seppe per quanto tempo rimase lì, immobile, in piedi, osservando il vento ed analizzando il suo cuore. Tornò a scrivere, concentrandosi sulla ricerca che stava portando avanti. Forse vi sarebbe stato un tempo in cui essere immerso nella pura ricerca di conoscenza avrebbe potuto donargli una certa soddisfazione, ma in quel momento di riflessione gli pareva che fosse un modo come un altro per tirare avanti.
Un pensiero cinico, forse.
O piuttosto disilluso.
Rialzò lo sguardo dal foglio, dove aveva aggiunto altre parole, per ritornare a guardare la banderuola che stava cigolando sotto le sferzate del vento.
Ed in quel momento la strada che doveva ancora percorrere gli parve quanto mai incerta, non nel senso più comune del termine, ovviamente, perché forse, non era mai stato così certo della sicurezza fisica della sua vita, ma, come non mai vedeva perdersi uno scopo. Era vissuto per espiare le sue colpe e per proteggere il figlio di Lily, con la certezza che aumentava di anno in anno che sarebbe morto nella battaglia decisiva.
Ed ora che si ritrovava vivo, e libero dal suo scopo, non riusciva a trovare una strada, un cammino se non quello del rimorso.
E forse era quello il cammino che avrebbe dovuto intraprendere, che aveva già intrapreso.
Forse era l’unico cammino possibile, l’unica strada che la sua vita poteva imboccare, mentre il vento avrebbe continuato imperterrito a giocare con il suo cuore, la sua mente ed i ricordi dolorosi.
E con il rimorso.
Il vento continuava ad infuriare, scuotendo ogni cosa, scoraggiando anche gli uccelli più temerari a volare. Soltanto un corvo spennacchiato osò affrontare le intemperie, spiccando il volo da una vecchia quercia che resisteva, non era chiaro come, nel grigiume di Spinner’s End. Ma il volatile era troppo debole per poter far un grande tragitto, fermandosi poco dopo e lasciando che le nuvole continuassero a veleggiare veloci nel cielo cupo e furibondo, che copriva tutta l’Inghilterra.
Se il corvo avesse avuto la forza di percorrere numerosi chilometri, avrebbe potuto incrociare un gufo che si era slanciato ad ali spiegate, vincendo la forza della corrente, da una finestra, con il suo messaggio attaccato alla zampa.
Due occhi verdi, dietro un paio di occhiali tondi, l’osservarono fino a che non lo persero di vista.
«Hai spedito la lettera?» domandò una voce alle spalle dell’osservatore. Il giovane annuì soltanto. «Non verrà, Harry.»
«Lo so, Hermione» constatò il ragazzo, voltandosi verso l’amica che stava seduta su una sedia, osservandolo.
«Allora perché continui a persistere?» domandò la giovane, aggrottando leggermente le sopracciglia.
«Forse un giorno verrà» mormorò l’altro di rimando. «Voglio parlargli.»
«Ne sei veramente sicuro?» chiese Hermione, scettica. «Se volessi veramente parlare con il Professor Piton, saresti andato a casa sua, insistendo fino a che non fossi riuscito a dirgli anche solo una parola. Invitarlo per Natale, sapendo che non verrà, è un modo per tentare di trovare un appiglio, quando tu stesso rifuggi un confronto. Avresti potuto andargli a parlare fin da subito, quando si è risvegliato dopo il lungo coma, ma non l’hai fatto.»
«Era troppo presto» si difese debolmente Harry, risistemandosi nervosamente gli occhiali sul naso.
«Ma adesso, Harry? Sono trascorsi tre anni.»
Hermione osservò l’amico riavvicinarsi alla finestra, quasi volesse interrogare il vento che imperversava al di fuori. La giovane si disse che non era di certo la bufera che poteva concedere delle indicazioni, ma unicamente la mente ed il cuore di Harry. Era convinta che vi fossero motivazioni profonde al suo agire, ma si chiedeva se egli ne fosse consapevole o se, al contrario, le cause fossero perse in mezzo ad altri mille pensieri.
«È troppo presto, Hermione» affermò improvvisamente Harry, con una nota desolata nella voce. «Forse sarà sempre troppo presto. Cosa posso dirgli? Scusi, professore, se ho sempre pensato il peggio di lei? Oppure: sa lei è l’uomo più coraggioso che abbia mai conosciuto? Il problema è che lui credeva di star morendo quando mi ha dato quei ricordi. Io pensavo che fosse morto quando ho lasciato la Stamberga Strillante. Ed ora non so cosa fare se non mandargli una lettera che so resterà inascoltata. Non sai nemmeno quante volte mi sia preparato le parole che vorrei dirgli e quante volte mi sia detto: adesso vado a parlargli. Ma non ci riesco» il ragazzo fece una pausa, prima di riprendere, la voce ancora più desolata di prima. «Forse sono un vigliacco. E che ho accusato lui di esserlo. L’anno prossimo diventerò un Auror a tutti gli effetti e, in realtà, non sono altro che una banderuola in preda ai venti. Non sono nemmeno in grado di andare da Severus Piton e dirgli grazie. E chiedergli perdono.»
Hermione non disse nulla durante lo sfogo dell’amico. Era qualcosa che si aspettava da tempo, come se dentro ad Harry vi fosse una bolla di sapone che presto o tardi sarebbe esplosa. C’era qualcosa che lo tormentava ed in quell’ultimo giorno di novembre stava venendo dolorosamente a galla.
E lei si sentiva assolutamente inutile ed impotente, come se il vento la stesse sballottando da una parte all’altra, senza permetterle di trovare una risposta ai dubbi dell’amico.
Non sapeva cosa dirgli, se non delle frasi che, seppur sincere, le sembravano unicamente di circostanza.
«Tu hai almeno avuto il coraggio di ringraziarlo, quando si è svegliato. Io…»
«Io sono molto meno coinvolta di te Harry» lo interruppe nervosamente Hermione «Non è a me che ha dato i suoi ricordi. Non sono la figlia di Lily Evans. Sono semplicemente una componente del Mondo Magico, una sua ex alunna, che ha fatto il suo dovere e l’ha ringraziato. Ti assicuro che ho balbettato rapidamente e sono uscita altrettanto rapidamente, nemmeno mi avesse rivolto una domanda impossibile a rispondersi.» Hermione tentò di abbozzare un sorriso che Harry, ancora rivolto verso la finestra, non vide. «Non farti una colpa se non sei andato da lui. Forse tutto quello che c’era da dire è stato detto nei ricordi che ti ha lasciato e nelle parole che tu hai detto a Voldemort nel momento finale. A volte parlare non è più necessario, Harry. O realmente desiderato.»
Il giovane si voltò verso l’amica osservandola per qualche istante. Non riusciva raccapezzarsi nei suoi pensieri. Erano troppo confusi, forse perché una parte di lui, che mise rapidamente a tacere, gli diceva che, in fondo, Hermione aveva ragione. Eppure, gli pareva quanto mai assurdo che, dopo tutto quello che aveva scoperto, avesse semplicemente non più desiderio di parlare con Piton. Era qualcosa che voleva e doveva fare. Era il momento che gli sfuggiva, quasi avesse di fronte a sé innumerevoli strade che gli indicavano “Severus Piton” e lui non riuscisse ad imboccarle.
«Eppure, è qualcosa che devo fare, Hermione, se non altro per ringraziarlo e ci sono fin troppe cose che vorrei dirgli, ma che non mi sento pronto a fare» si interruppe, pensando velocemente, come se la rapidità nel riflettere potesse portargli una qualche improvvisa risposta «Forse sono spinto da tutta una serie di sensi di colpa. Forse credo che, se fossi stato più attento, mi sarei potuto accorgere di qualcosa, intuire almeno parte della verità. Invece sono stato un totale cieco. E anche dopo la fine della guerra, sembra che lo sia rimasto. Avrei dovuto fare di più. Certo, il suo nome è stato riabilitato, ma mi pare di non aver fatto abbastanza. Non ho nemmeno lottato ed insistito perché il Ministero gli conferisse l’Ordine di Merlino. Avrei dovuto…»
«Non avresti potuto farci nulla, Harry» lo interruppe nuovamente Hermione. «Non credo che un tuo intervento avrebbe potuto cambiare le cose. Al Mondo Magico non serve un eroe complesso come il professor Piton, ma un eroe come te, molto più semplice e confortante. Ed è per questo che il Ministero e l’informazione hanno evitato di porre l’accento su quello che il professore ha fatto. Non importa, Harry, quanto tu od io lo possiamo considerare uno degli uomini più coraggiosi che abbiamo mai conosciuto. Al Mondo Magico non serve far diventare un simbolo della guerra una figura scomoda come il professor Piton. Avrebbe riportato alla luce fantasmi che non sono ancora sopiti. In fondo, hanno voluto vedere il solo eroe della guerra in te, perché sei un simbolo di gran lunga più tranquillizzante.»
«Eppure, questo non spiega perché non gli abbiano conferito l’Ordine di Merlino. Era unicamente un gesto dovuto.» ribatté Harry, irritato.
«Invece rientra nel mio discorso, Harry, per quanto sia difficile da accettare, ma temo che non si sia presa la decisione auspicabile, perché, in fondo, vi è forse ancora chi non crede alla verità, nonostante tutto. La gente crede a quello che vuole credere e lo sappiamo perfettamente anche noi» Hermione si interruppe per qualche lungo istante. «E di certo se il professor Piton avesse preso un’onorificenza, ci sarebbero state delle rimostranze, ci sarebbe stato chi avrebbe pensato che il Ministero non sia meritevole di fiducia perché premia qualcuno che non merita di essere premiato. Ed il Ministero, mai come ora, ha bisogno della fiducia del Mondo Magico e, allora, non importa se il professor Piton meriterebbe più di chiunque altro l’Ordine di Merlino e la più grata considerazione di tutti noi. Credo che la maggior parte degli abitanti del Mondo Magico stia facendo notevoli sforzi per dimenticare la guerra. E quale modo migliore che dimenticarsi dell’esistenza di qualcuno come il professor Piton? Che spingere il pensiero della sua esistenza nell’oblio? In fondo conduce una vita ritirata. Non insegna più. Abita in un quartiere di una cittadina industriale e non si fa vedere mai, o quasi. Non è giusto, lo so, Harry» aggiunse, parlando prima che l’amico potesse ribattere «Ma è semplicemente quello che la gente vuole vedere. Pensa a quanto velocemente hanno restaurato Hogwarts e Diagon Alley, cancellando ogni segno della guerra. È legato al discorso che ho fatto io. Si vuole solo dimenticare. Un conto è festeggiare la fine della guerra, onorandoti come un eroe, altro sarebbe prendere in considerazione una figura che porta in sé anche i lati più oscuri di una guerra che si vuole unicamente dimenticare.»
Harry scosse leggermente il capo, come per scacciare le parole di Hermione, mentre rifletteva attentamente. Non voleva prendere in considerazione un quadro così desolante del Mondo Magico. Anche solo il pensiero che si volesse semplicemente dimenticare quello che era accaduto, gli pareva strano e terribile, forse perché sapeva che lui non avrebbe mai dimenticato.
O forse, come diceva Hermione, si vedeva solo quello che si voleva e si fingeva, quindi, di poter dimenticare, quando questo era impossibile, nella realtà dei fatti.
Ed allora le parole dell’amica gli parvero quanto mai vere e pesanti come il piombo o violente come il vento che imperversava al di fuori.



Londra, 3 dicembre 2001



Dopo due giorni di tregua, in cui il pallido sole di dicembre aveva fatto capolino tra le nuvole grigie che sovrastavano la capitale, il vento aveva ricominciato a soffiare furibondo, in una giornata dal cielo screziato di grandi nubi bianche che si inseguivano velocemente.
Severus Piton camminava, colpito dal vento impetuoso, lungo la strada che portava alla Tate Britain e, mai come in quel momento, gli parve che il vento giocasse con il suo cuore, come faceva con i rami degli alberi. V’era qualcosa di assurdo – e di tremendamente logico – nel tornare in quel museo Babbano, a perdersi negli stessi ricordi opprimenti e indelebili che lo investivano nella sua dimora, a meditare, proprio come nella squallida casa di suo padre, sul suo passato, sulle colpe che, incancellabili, gravavano sulle sue spalle. O forse, vi erano motivazioni profonde e sensate a spingerlo.
Sapeva che si recava fin là per il quadro. Era un pensiero dannatamente ovvio, si disse, mentre una folata più violenta gli frustò quasi il volto. Non poteva negare – e non avrebbe in tutta sincerità nemmeno voluto – che era quel dipinto raffigurante una donna che non era Lily, ma che aveva gli occhi di Lily, i capelli di Lily ed il nome di Lily, sebbene leggermente variato, a spingerlo ad uscire dalla casa di Spinner’s End, dove, due giorni prima aveva trovato la lettere che Potter si ostinava a inviargli ogni anno per invitarlo per il Natale, quasi non si rendesse conto che lui non aveva alcuna intenzione di parlare con il ragazzo, men che meno quando si trattava con ogni probabilità di ripercorrere i ricordi che lui stesso gli aveva donato.
Era qualcosa di impossibile da considerare e che avrebbe portato con sé altri pensieri, che già ronzavano nella sua testa e si univano al vento che giocava nella sua mente.
Scacciò rapidamente dalla mente il pensiero del foglio di pergamena che quel gufo infreddolito gli aveva recapitato. E si ritrovò risucchiato ancora una volta dall’idea di poter vedere il quadro, quegli occhi immobili, quella figura immota, che non poteva fissarlo come se fosse viva e che non poteva distogliere lo sguardo, in un modo che sembrava rendere unicamente più dolorosa e tangibile la realtà.
La perdita.
E la colpa.
La parte di foto che aveva strappato a Grimmauld Place era troppo viva, sorridente e lontana. Sembrava un pensiero strano, ma quella Lily reale, la vera Lily, che si muoveva in una foto magica, pareva più distante della donna del quadro che chinava il capo in un gesto quasi di intercessione, un’intercessione che egli, con il suo carico di colpe, non poteva avere, né sperare di avere, perché – ed era lui stesso il suo primo giudice – non v’era alcuna speranza di perdono.
Oppure, semplicemente, il dolore di fronte alle due immagini era diverso.
La foto rendeva più cocente l’idea che Lily fosse morta, mentre il quadro, nella sua immobilità, rendeva più forte, in maniera inaspettata, forse perché era in un qualche modo legato ad un ricordo effettivamente vissuto, la perdita di tutto: dell’innocenza – ammesso che lui fosse mai stato innocente, – di Lily, di uno scopo, della pace, una parola che non legava con la sua vita, con quello che lui stesso aveva fatto.
E gli occhi di Lily, immobili, lo fissavano costantemente, lo guardavano ed egli poteva perdersi in quel verde intenso che portava con sé la sua vita, le sue scelte, il sangue innocente che gli aveva lordato l’anima.
Fu in quel momento che sentì una voce femminile portata dal vento cantare, in francese, una melodia triste e colma di dolore, di senso di perdita, quella stessa perdita che contraddistingueva il suo futuro, e il suo passato. Le parole gli giunsero improvvisamente chiare e terribili e cariche di ricordi.
Connaisez-vous la blanche tombe,
Où flotte avec un son plaintif
L’ombre d’un if?

Quella tomba bianca, evocata da quella musica colma di perdita e dolore, divenne nella mente di Severus la tomba di Silente. E quel pensiero portò con sé il ricordo reale ed indelebile della notte in cui lui stesso aveva ucciso colui che aveva avuto fiducia in lui.
Ma la melodia continuava a dispiegarsi e con essa nuove parole, colme di dolore e di lutto.
Sur l’if une pâle colombe,
Triste et seule au soleil couchant,
Chante son chant:
Un air maladivement tendre,
A la fois charmant et fatal,
Qui vous fait mal

Mai come in quel momento le parole portate dal vento gli fecero male. Il dolore della morte che egli aveva dato, il dolore dei ricordi. Ed il rimorso fatale come poteva esserlo il canto di quella colomba, invocata dalla musica.
Et qu’on voudrait toujours entendre;
Un air comme en soupire aux cieux
L’ange amoureux.
On dirait que l’âme éveillée
Pleure sous terre à l’unisson
De la chanson,
Et du malheur d’être oubliée
Se plaint dans un roucoulement
Bien doucement.
Sur les ailes de la musique
On sent lentement revenir
Un souvenir.
Une ombre, une forme angélique,
Passe dans un rayon tremblant,
En voile blanc.
[6]
E la tomba bianca si trasformò rapidamente nella figura di Lily, in quello spirito angelico velato di bianco, quasi che la donna, dalla sua tomba, chiedesse di non essere dimenticata, come se questo fosse possibile. La sua immagine era assolutamente impressa nei suoi pensieri.
Così come la colpa.
Non v’era un solo ricordo, nella sua mente, che potesse essere dimenticato, nulla che potesse andare nell’oblio, perché Severus non l’avrebbe mai permesso, perché era la sua strada.
Il ricordarsi.
Ed il rimorso.
Solo allora si rese conto di essersi fermato ad ascoltare, colpito, probabilmente da quell’immagine, da quei versi che evocava la tomba bianca, catturato, forse, da quella musica che, come una tortura sussurrata su una melodia dolorosa, rievocava in maniera terribile il peso delle sue colpe ed i ricordi più dolorosi. Scosse leggermente il capo, mentre i suoi pensieri si muovevano in subbuglio, poi riprese a camminare, tra le folate che alzavano la polvere lungo la strada e facevano ondulare come impazziti i suoi capelli.
Un corvo appollaiato su un ramo scosso del vento, rimase immobile, come se stesse osservando quell’essere umano che si muoveva tra le intemperie, con il piglio di chi era abituato a trovarsi in situazioni ben peggiori e di gran lunga più precarie. Poi il nero volatile, quasi volesse imitare Severus che si stava allontanando dal suo campo visivo, spiccò un volo malfermo e lottò contro le correnti d’aria che sembravano arrivare da ogni dove, costringendolo a desistere e a posarsi sul ramo di un albero poco distante e vicino al davanzale di una delle abitazioni che prospettavano sulla via.
Gli occhi scuri del volatile parvero fissarsi su quanto avveniva al di là della finestra, dove una donna suonava, seduta ad un pianoforte a muro, e un’altra, dai capelli raccolti in una treccia che le sfiorava la vita, cantava una melodia triste e colma di dolore, di senso di perdita, senza quasi seguire le note dello spartito che stava aperto, su un leggio, davanti a lei, dispiegando il suo canto, fino a quando non giunse alle ultime note, chiudendo il brano con un pianissimo doloroso. Jane, poco dopo, con tocco leggero e quasi impercettibile, fece risuonare gli ultimissimi accordi della mélodie di Berlioz, voltandosi ad osservare Ygraine, che pareva totalmente compartecipe del dolore espresso nelle parole e nella musica. Ma fu un’impressione breve. Nell’attaccare l’ultimo brano del ciclo, il giovane soprano parve come rivitalizzarsi, mentre evocava la fantastica barca e l’isola sconosciuta, della mélodie che chiudeva il ciclo [7] .
«Credo che per oggi possa bastare» disse Ygraine, pochi istanti dopo la chiusa del ciclo di Berlioz. «Non sono totalmente certa della mia interpretazione della penultima mélodie. Forse è troppo esagerata, a volte, nel sottolineare il clima di desolato dolore.»
«Sei troppo critica, Ygraine» le saltò quasi nella voce Jane. «Ho trovato perfetta e terribilmente toccante la tua interpretazione. Era come se tu fossi veramente nel cimitero, davanti alla tomba bianca di qualcuno che si è amato e perso. Stai facendo un ottimo lavoro per questo recital e sai che non lo dico per compiacerti.»
Ygraine annuì stancamente. Jane sapeva essere terribilmente critica quando voleva, anche in maniera atroce, ed era qualcosa che apprezzava. In fondo la sua pianista la spronava a migliorarsi e a studiare sempre con cura ogni aspetto della sua interpretazione. Se poteva farle un appunto era che non fosse troppo attenta ai problemi più sottilmente psicologici dei personaggi evocati, anche solo per qualche istante, dalle note.
«Se non vado errata, andremo alla Tate Britain. Sono curiosa di vedere quel quadro che credi ti possa aiutare per comprendere meglio Elsa von Brabant. Com’è che si intitola?» domandò la pianista, alzandosi dallo strumento, dopo averne abbassato con cura il coperchio.
«Sancta Lilias Ed è un dipinto di Dante Gabriel Rossetti. Mi sono informata. Si rifà ad un poema del XIX secolo, in cui Lilias, una donna morta, si strugge dall’oltretomba per l’uomo che l’ama. Nel quadro pare che lo sguardo della santa porti con sé una sorta di senso di perdono. In proposito andrebbe letto il colore degli occhi originale, ritrovato in seguito ad un restauro avvenuto nel 1970, che si distacca da quello reale degli occhi della modella. [8] »
Mentre Ygraine parlava, le due donne si erano infilate il cappotto ed erano scese dalle scale dell’edificio, fino a giungere sulla soglia. Il vento le investì in pieno, mentre iniziavano a camminare, dirigendosi verso la vicina Tate Britain. La sciarpa che il soprano aveva avvoltolato con cura intorno al collo, svolazzava mossa dalle folate che le investivano, mentre le nuvole bianche lasciavano spazio ad enormi e minacciose nubi nere, portatrici di pioggia.
«Ma cosa ha a che fare con Elsa?» domandò la pianista incuriosita.
«La leggenda nulla, ma è l’atmosfera del quadro che ha qualcosa della donna pura e colpevole allo stesso tempo che è in definitiva Elsa, la dolce sposa di Lohengrin. E l’atteggiamento della donna dipinta sembra adattarsi bene alla giovane duchessa del Brabante, con tutte le sue contraddizioni, con le sue fragilità che la portano a infrangere il divieto, a perdere per sempre Lohengrin, a morire di dolore e amore. Credo che possa essere un buon punto di partenza per poter analizzare meglio il personaggio che è così incredibilmente complesso» Ygraine fece una breve pausa. «Crede a Ortrud, perché ha troppa paura di perdere Lohengrin e non comprende che infrangendo il divieto, lo perderà veramente. Non comprende nemmeno che lui, per lei, è disposto a rinunciare a tutto, per quanto lui glielo dica esplicitamente, perché la paura è troppo forte. Ecco, questa ridda di sensazioni l’ho intravista in quel quadro, in quella donna dal volto chino perché osserva il suo amato dal cielo. Ma il volto chino è anche sintomo di pentimento. Non è lo scopo del dipinto, certo, ma sembra che in Sancta Lilias convivano purezza e colpa, in maniera assolutamente coerente, proprio come in Elsa.»
Jane annuì, preferendo rimanere in silenzio. A volte le pareva che Ygraine volesse scavare troppo in profondità nell’animo dei personaggi d’opera, ma era in fondo quello che la rendeva un’interprete così eccezionale, così sensibile, per quanto quella sensibilità non sembrasse accompagnarla nella vita reale, ma soltanto nella sua carriera.
Poco tempo dopo raggiunsero il museo e il riparo dal vento che offriva. Quando entrarono cominciarono a cadere le prime gelide gocce di pioggia. Il soprano si affrettò verso la sala dove era esposta Sancta Lilias, ma si bloccò sulla soglia, quando vide che, seduto davanti a quel quadro, c’era lo stesso uomo che aveva notato l’ultima volta che vi aveva messo piede, il giorno dell’anniversario della morte di Tristan.



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[1] Wilhelm Müller, Die Wetterfahne (la banderuola), terza strofa, vv. 1-2

[2] Ygraine fa riferimento alla trasposizione dell’Otello di Shakespeare ad opera di Giuseppe Verdi ed, in particolar modo, all’ultimo atto.

[3] Jane fa riferimento alla protagonista del secondo atto de Les Contes d’Hoffmann di Offenbach (1881), dedicato per l’appunto alla figura di Antonia, una delle tre donne che il poeta ama e perde nel corso della narrazione dei suoi amori (la prima è Olympia che si rivela essere in realtà un automa e non già la fanciulla creduta dal poeta; la seconda è Antonia; la terza è Giulietta, una prostituta che, per interesse, venderà il riflesso di Hoffmann al “diavolo”). In tutti e tre gli episodi è presente una figura demoniaca che causa la perdita della donna amata (è Coppelius che rompe Olympia; il Dottor Miracle che causa la morte di Antonia; Dappertutto che utilizza l’anima dannata di Giulietta).
Nel caso dell’atto di Antonia, il protagonista è innamorato di una ragazza che ama alla follia il canto. Ma il padre di lei le vieta di cantare perché egli sa che la figlia è afflitta dalla stessa malattia che gli ha portato via la moglie: se Antonia canterà ancora, morrà. Hoffmann fa cantare inconsapevolmente Antonia, per poi scoprire, in un drammatico dialogo tra il padre della giovane e il dottor Miracle del male che affligge la fanciulla, la quale promette di rinunciare per sempre al canto. Il Dottor Miracle vive con lo scopo di far cantare Antonia, scopo che raggiunge, donando vita al ritratto della madre della fanciulla che parlando, incita la figlia a cantare proprio come faceva lei, quasi l’anima materna chiamasse quella della figlia. Antonia tenta vanamente di resistere, ma il suo amore per il canto è troppo forte. Intona la canzone d’amore che Hoffmann aveva composto per lei e muore tra le braccia del padre sopraggiunto troppo tardi.


[4] L’atto di Antonia è tratto – pur con delle modificazioni, come l’inserimento della figura del dottor Miracle – dal racconto di E.T.A. Hoffmann, Il consigliere Krespel.

[5] Il titolo significa “La mia pace è perduta” ed è tratto dal Faust di Goethe.

[6] Théophile Gautier, Au cimetière: clair de lune (strofe 1-4). Testo musicato da Hector Berlioz, in una raccolta di mélodies, intotolata Les nuits d’été.
Riporto qui la traduzione: “Conoscete la bianca tomba, / dove fluttua con il suo suono lamentoso / l’ombra di un tasso?/ Sul tasso una pallida colomba, / triste e sola al tramonto, /canta il suo canto: //un’aria morbosamente tenera, / alle volte affascinante e fatale, / che vi fa male /e che si vorrebbe sempre sentire; / un’aria come la sospira al cielo / l’angelo innamorato. // Si direbbe che l’anima risvegliata / pianga sotto terra all’unisono / della canzone, / e della sventura di essere dimenticata / si lamenta in un sospiro / assai dolcemente. // Sulle ali della musica / si sente ritornare lentamente / un ricordo. / Un’ombra, una forma angelica, / passa in un raggio tremante, / velata di bianco.”

[7] Si tratta di L’île inconnue, sempre su testo di Théophile Gautier e musica di Hector Berlioz.

[8] Si tratta di un dipinto del 1874, incompleto. Le informazioni sono state dedotte dal sito della Tate Britain (cfr. qui ). L’unica mia invenzione riguarda il restauro del 1970 ed il “vero” colore degli occhi del quadro. Mi sono dovuta prendere una licenza poetica, perché la donna del quadro non ha gli occhi verdi.
 
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view post Posted on 6/11/2022, 16:29
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Capitolo III

Gefrorne Tränen



Gefrorne Tropfen fallen
Von meinen Wangen ab:
Ob es mir denn entgangen
Dass ich geweinet hab‘?[…]
Und dringt doch aus der Quelle
Der Brust so glühend heiß,
Als wolltet ihr zerschmelzen
Des ganzen Winters Eis!

(Lacrime di ghiaccio cadono
Dalle mie guance:
forse non mi sono accorto
che stavo piangendo? […]
E sgorgate dalla fonte
Del petto così ardentemente calde,
come se voleste sciogliere
il ghiaccio di tutto l’inverno!) [1]



Gran Bretagna, 3 dicembre 2001



Sulla cittadina industriale in cui si trovava Spinner’s End pioveva, acqua ghiacciata e gelida, che rendeva l’asfalto scivoloso. Era un tempo infame e, per qualche istante, Harry si chiese per quale motivo avesse scelto proprio quel giorno per recarsi presso l’abitazione di Severus Piton.
A dire il vero non aveva nemmeno pensato di andare fin lì, quella giornata di dicembre.
Era stata una sensazione a spingerlo a prendere quella decisione. Qualcosa di assolutamente repentino e non meditato. Gli erano tornate alla mente le parole di Hermione, quel suo dirgli che, se avesse voluto veramente parlare con Piton, avrebbe dovuto andare a casa sua, a cercarlo, nel tentativo di farlo uscire dall’abitazione in cui si era rintanato, da quando era stato giudicato sicuramente fuori pericolo, nel tentativo di poter chiedergli perdono.
Aveva compreso che Hermione aveva ragione. Per tutto quel tempo aveva sempre rimandato, trovando delle scusanti per non affrontare faccia a faccia Piton, ma il tempo era venuto ed il ragazzo sapeva che non poteva più tirarsi indietro. Non sarebbe stato giusto nei confronti dell’uomo e di sé stesso. Era qualcosa di cui si rendeva pienamente conto. Se non voleva vivere con la certezza di aver sprecato quel tempo prezioso, fuggendo dalla possibilità di poter parlare con Piton, non poteva far altro che agire.
Quel pomeriggio gli era come capitato davanti il cartello che, nel cammino della sua vita, gli indicava “Severus Piton” in maniera chiara e precisa, come uno di quei segnali stradali che, visto da lontano, ti invita a seguirlo.
E lui l’aveva fatto, agendo d’impulso, timoroso forse di meditare troppo a lungo sulla sua risoluzione, quasi che temesse che, come era apparsa, si volatilizzasse.
La pioggia cadeva insistente sull’ombrello, sull’asfalto, sulle abitazioni squallide di Spinner’s End, sulle poche persone che si avventuravano fuori dall’uscio di casa, quando Harry si ritrovò a pochi passi dalla porta della dimora di Piton.
E si immobilizzò.
Non riusciva a raggiungerla, né a tornare indietro.
Rimaneva semplicemente lì, immobile, sotto l’acqua, incapace di percorrere i pochi passi che lo separavano dall’abitazione dell’uomo con cui desiderava disperatamente parlare, e dal quale rifuggiva altrettanto disperatamente, a quanto pareva. Il giovane trasse un lieve sospiro, proprio mentre una saetta solcava il cielo reso cupo dalle nubi. Forse fu quell’evento meteorologico a farlo muovere. Si avvicinò con passo deciso alla porta di casa e bussò. Una. Due. Tre volte. Poi ritrasse la mano e la ficcò in tasca.
Piton non c’era o, più probabilmente, non voleva aprire ed Harry non era così sciocco da fare irruzione nella casa dell’uomo, senza essere invitato ad entrare.
Forse avrebbe tentato un altro giorno. Doveva – e voleva – provare ancora, si disse con una certa cocciutaggine. Diede le spalle all’abitazione, voltandosi però subito indietro per osservarla meglio. Nessuna luce rischiarava le finestre. Quindi poteva esserci più di una speranza nel futuro. Piton non doveva essere in casa, si disse, ma il suo entusiasmo durò poco. Potevano esserci delle stanze sul retro, delle finestre che lui non vedeva o uno studiolo incassato in qualche meandro della casa.
Scosse il capo, sconsolato. Probabilmente non v’erano speranze. O forse non era ancora il momento. Eppure, desiderava parlare con Piton, ringraziarlo, chiedergli perdono. Aveva acquisito abbastanza buon senso per capire che, se mai l’avesse incontrato, non avrebbe dovuto chiedergli dei ricordi che gli aveva donato, quando aveva pensato di star morendo. Non subito per lo meno. Forse mai. Forse dopo diverso tempo dal primo incontro, sempre che a questo ne seguissero altri.
Ed era sciocco chiedersi quello che sarebbe accaduto e il come, dal momento che non sapeva nemmeno se vi sarebbe stato un inizio.
E mentre Harry pensava, un altro lampo attraversò le nuvole cupe che si stendevano a chiazze su tutta l’Inghilterra, circondando, come in un assedio senza vinti né vincitori, le zone illuminate dal gelido sole di dicembre. Hampton Court riluceva alla luce del sole che stava iniziando ad abbassarsi all’orizzonte, ma sul centro di Londra, così vicino, infuriava la pioggia e l’acqua si abbatteva sui tetti, sulle strade, sullo spiazzo davanti alla Tate Britain, contro i vetri del museo, producendo un ticchettio che riscosse Ygraine da qualsiasi ipotesi potesse fare su quell’uomo che anche quel giorno si trovava davanti a Sancta Lilias. Abbozzò un sorriso in direzione di Jane che la osservava leggermente perplessa poi la guidò verso il dipinto di Rossetti, tenendosi però leggermente in disparte in modo da non disturbare la visuale all’uomo che stava fissando la tela. Mentre spiegava alla pianista le sue ragioni circa la somiglianza tra l’effigiata ed Elsa von Brabant, il cielo si era fatto cupo, buio, quasi che fosse già scesa la notte, mentre i lampi squarciavano l’oscurità e la pioggia cadeva con violenza, picchiando contro i vetri, quasi che volesse entrare all’interno del museo e bagnare tutti loro con le sue gocce ghiacciate.
«Mi sembrano delle considerazioni interessanti» disse Jane, quando il soprano terminò di parlare «Sai già come saranno i costumi?»
«Ho intravisto i bozzetti, nulla di più. Non so ancora quale possa essere l’idea del regista, ma da quel che ho visto pare voler richiamare in qualche modo il medioevo, per quanto non in maniera bozzettistica» spiegò Ygraine, continuando ad osservare il dipinto.
Durante il tempo che aveva speso a spiegare la sua teoria interpretativa a Jane, aveva fatto uno sforzo su sé stessa per non fissare l’uomo che stava davanti a Sancta Lilias. La curiosità circa la presenza di un visitatore, che, per ben due volte, passava il suo tempo davanti ad un solo quadro, era cresciuta prepotente in lei, ma possedeva ancora abbastanza buon senso da comprendere che doveva esimersi dal guardarlo con insistenza. Lei stessa avrebbe provato fastidio ad essere osservata con attenzione da una sconosciuta.
«Nulla di troppo innovativo, quindi» commentò Jane «Temevo che ti avrebbero coinvolta in un Lohengrin ambientato in un futuro postatomico. [2]»
«Quello che mi importa è che vi sia senso nella messa in scena e che il regista scavi nei personaggi» controbatté piuttosto animatamente Ygraine. «V’è così tanto da dire e da scoprire in Elsa e Lohengrin.»
La pianista annuì solamente, senza aggiungere altro. L’ultima cosa che voleva era avviare una discussione circa le ultime tendenze registiche, sulle quali sapeva che lei e il soprano nutrivano idee opposte.
«C’è un tempaccio» constatò Jane, lanciando un’occhiata al di là della finestra, dove la pioggia cadeva con maggior intensità ed i lampi illuminavano a tratti l’oscurità, creando delle striature inquietanti sulle tele «Credo che andrò a casa, a godermi una tazza di tè, al caldo. Questo posto fa venire i brividi. Vuoi venire?»
«No, ti ringrazio. Preferisco attendere di vedere se il temporale si calma» mormorò Ygraine. «Non vorrei prendermi un malanno.»
L’altra donna fece solamente un breve cenno di assenso, lasciando ben preso la giovane sola, in piedi, poco discosta dalla postazione su cui sedeva Severus Piton, il quale non aveva distolto per un solo istante lo sguardo dall’immagine di Sancta Lilias, dai suoi occhi rivolti verso il basso, dal suo volto che sembrava donare il perdono a chiunque lo stesse osservando.
V’era qualcosa di terribile, in realtà, in quell’atteggiamento, forse perché sembrava promettere qualcosa che non sarebbe mai arrivato, si disse l’uomo, mentre un nuovo lampo si spiegava nel cielo, seguito da un tuono feroce che rimbombò sinistramente nella vasta sala. Lily pareva fissarlo dal quadro, immota, illuminata dalle luci e dalle folgori che il cielo dicembrino scagliava sulla terra, mentre la pioggia, batteva contro i vetri, incessante, più simile a ghiaccio che ad acqua, come un pianto gelato, ma ciononostante vivo.
Il pianto del rimorso.
Il pianto dei dannati, che alcuni dipinti, di altra epoca e di altro luogo, rappresentavano.
Il pianto, non espresso, che piaga l’anima ricoperta di colpe impossibili da perdonare, qualsiasi cosa mostrasse il volto raffigurato in quel quadro, congelato anch’esso in un’eterna immagine di perdono.
V’erano momenti in cui l’effigiata cessava di essere Lily, per diventare simbolo di qualcosa che era altro da Lily, pur contenendo in sé Lily.
E di questo Severus era perfettamente cosciente.
L’opera di quell’autore Babbano pareva portare in sé fin troppi significati, essere specchio della sua anima, per quanto ne fosse uno specchio rovesciato e deforme, uno specchio che prometteva perdono e pace. Pareva essere l’esatto rovescio della medaglia. Il contrario della sua stessa anima e, forse proprio per questo, l’espressione più compita del suo più intimo e irrealizzabile desiderio. Era una sorta di dialogo ghiacciato ed immoto tra la sua certezza di non essere in alcun modo meritevole di perdono e la promessa che quel perdono si trovava a pochi passi, su quella tela.
Era come se, ogni volta che veniva in quel museo per guardare gli occhi della Lily fittizia, dipinta decenni prima che Lily nascesse, si svolgesse sempre la stessa scena che si arrotolava in continuazione su sé stessa, senza mai raggiungere un dopo, perché, si disse amaramente Severus, un dopo non esisteva veramente nella sua parvenza di vita.
Un nuovo lampo squarciò, diramandosi in mille direzioni, l’oscurità che avvolgeva quell’angolo di mondo. Ygraine sembrava come immobilizzata ad osservare quelle improvvise lame di luce. La sua attenzione non era più rivolta sul quadro, né su Elsa von Brabant, né sulla musica.
V’era qualcosa in quelle folgori che la raggelava, tanto quanto erano gelate le gocce di acqua ghiacciata che ticchettavano contro i vetri. La giovane donna trasse un sospiro, dicendosi che era quanto mai sciocco ed illogico lasciarsi sconvolgere da un semplice evento naturale, aggiungendo tra sé e sé che era meglio muoversi e cambiare sala, nell’attesa che quel temporale, che pareva non trovare fine, si diradasse.
Fece qualche passo, bloccandosi di colpo, quando l’intera sala piombò nell’oscurità.
«È andata via la luce» disse una voce maschile.
«Bisogna andare a chiamare qualcuno» aggiunse qualcun altro dalla parte opposta.
Poi fu tutto uno scalpicciare di piedi, un mormorare e borbottare, mentre gli addetti pregavano i visitatori di mantenere la calma. Soltanto Severus Piton e Ygraine Ainsworth rimasero immobili, mentre un lampo penetrava nell’oscurità della sala, illuminando chi si stava recando verso l’ingresso.
Pareva quasi che l’oscurità, nei momenti in cui le folgori morivano, si stesse chiudendo come una morsa sui due visitatori, quasi del tutto ignari l’uno dell’altro. Ygraine avvertiva chiaramente la presenza dell’uomo, che tanto l’aveva incuriosita, poco distante da lei, ancora immobile, sul divanetto e, per un istante, sperò che dicesse o facesse qualcosa, che spezzasse l’immobilità, l’oscurità o il silenzio.
Ma era un pensiero sciocco.
Con ogni probabilità quel visitatore così anomalo aveva unicamente dato retta alla custode della sala che aveva detto di stare calmi, dato che ogni cosa sarebbe ben presto tornata nella normalità. In fondo, a che pro correre verso l’uscita, per ritrovarsi immersi nella tempesta? E a che pro lei rimaneva immobile, in piedi, lo sguardo nuovamente rivolto verso la finestra e verso i lampi che squarciavano il cielo ingombro di nubi, talmente scure da far parere che la notte fosse già arrivata da un pezzo?
Avrebbe potuto, semplicemente, sedersi da qualche parte, anche accanto all’uomo. Avrebbe potuto recarsi verso l’atrio di ingresso e attendere lì che la luce tornasse. Avrebbe voluto volgere il pensiero alla musica, canticchiare qualcosa tra sé e sé.
Ma l’unica cosa che riusciva a fare era pensare a Tristan.
E al giorno in cui si era ucciso.
Le sembrava di essere tornata indietro a poco più di un anno prima. Anche allora tuonava e pioveva acqua simile a ghiaccio su Parigi, dove lei si trovava impegnata nei tre ruoli femminili del Trittico [3] di Puccini. A Londra, lo sapeva, c’era sereno e una sottile falce di luna illuminava le prime ore della sera.
A volte si era detta che avrebbe dovuto esser sereno in Francia e piovere in Gran Bretagna. A volte si era detta che lei non avrebbe dovuto essere in Francia, ma in Gran Bretagna.
V’erano momenti in cui riteneva che Tristan non si sarebbe suicidato se lei non fosse partita per vivere sul continente quattro anni fa. Aveva preso casa in Francia, a Digione, per poter affrontare meglio i diversi impegni che l’avrebbero portata a girovagare per mezza Francia e per gran parte della Germania. E l’anno prima aveva atteso con ansia il suo debutto sul palcoscenico dell’Opéra National.
Quella sera di quasi un anno prima, mentre Tristan si uccideva, lei stava cantando il ruolo di Giorgetta. Forse il fratello aveva affondato il coltello da cucina nel suo petto proprio mentre lei era entrata in scena. Forse sua madre, che era andata all’appartamento del figlio per portargli alcuni panni che gli aveva stirato, aveva trovato il cadavere quando lei era uscita alla ribalta per prendere gli applausi, al termine di Tabarro.
Un tuono fragoroso e spaventoso la distolse dai ricordi.
Non voleva pensare a quel giorno, a quella notte. Indietreggiò di un passo, toccando il divanetto su cui era seduto l’uomo, come se l’allontanarsi dalla finestra, seppur di pochissimo, potesse allontanarla dai ricordi.
Si sedette, tentando di fissare la propria attenzione su qualcosa. Su uno dei quadri di fronte a lei, non appena uno dei lampi lo rendesse visibile. Forse proprio quella Sancta Lilias, che tanto le era risultata importante per comprendere Elsa von Brabant, avrebbe direzionato il suo pensiero verso un’altra direzione.
Ma, quando un lampo illuminò la sala, il soprano quasi non vide i quadri che aveva davanti.
Fu quando avvertì qualcuno sedersi che Severus si rese pienamente conto di non essere il solo rimasto nella sala piombata improvvisamente nel buio. Già prima, mentre osservava i lampi illuminare il volto immoto di Sancta Lilias, gli era parso che vi fosse una presenza da qualche parte, ma i suoi pensieri erano indirizzati in un cammino che pareva essere il solo che la sua vita poteva percorrere in quel momento.
V’erano occasioni in cui si rendeva pienamente conto che il suo presente era composto unicamente da un continuo guardare al passato.
E che così sarebbe stato probabilmente anche il suo futuro.
Forse il cammino, che gli si dipanava davanti, era perso nel continuo ripresentarsi del passato, nel continuo affollarsi nella sua mente della colpa e del rimorso. In quel momento, anche se gli occhi erano ancora fissi sulla tela di Rossetti, non stava veramente fissando quell’immagine fittizia di Lily, ma piuttosto osservando sé stesso: il suo passato, il suo presente ed il suo fin troppo probabile futuro [4].
Era come un ripetersi continuo di pensieri, di sensazioni, di memorie che ondeggiavano senza cessa nella sua mente, nella sua anima e nel suo cuore. I lampi ed il tuono, in quel momento, parevano esserne unicamente il migliore accompagnamento, quasi che la furia distruttiva della natura – e quelle lacrime ghiacciate che il cielo versava – corrispondesse alla furia distruttiva del rimorso e della certezza che quel perdono, che la donna dipinta sembrava promettere, non sarebbe mai giunto, perché egli stesso, primo fra tutti, non poteva perdonarsi.
Solo per un istante, mentre un lampo illuminava spettralmente la sala, si voltò verso la persona che si era seduta a pochi pollici di distanza.
Ygraine non si accorse di quel breve sguardo, poiché, mentre la folgore illuminava la sala, il suo sguardo si era posato su un quadro che raffigurava due suore, una rivolta verso lo spettatore, l’altra intenta a scavare una tomba . [5]
Forse fu l’inquietudine che la luce del lampo irradiò sulla tela, forse fu semplicemente il fatto che vi erano raffigurate due religiose o, più semplicemente, fu lo stato mentale in cui si trovava in quel momento, a farla riprecipitare nei ricordi.
Per un istante – o per diversi minuti, questo non seppe dirselo – le sembrò di essere non già a Londra, ma nel suo camerino a Parigi, intenta a passare dagli abiti popolani di Giorgetta a quelli religiosi di Suor Angelica.
Improvvisamente qualcosa di umido le colpì le mani tenute serrate in grembo. Ygraine impiegò qualche istante per tornare alla realtà. Per un istante pensò che stesse piovendo all’interno della sala. Soltanto quando un’altra goccia fredda cadde sulle mani, si rese conto che stava piangendo.
Fu un pensiero che la colpì come uno di quei fulmini che solcavano il cielo dicembrino. Non si era resa conto delle lacrime che aveva iniziato a versare e, per un istante, si chiese se fossero ghiacciate come le gocce di pioggia che battevano contro le finestre. Era un pensiero assurdo in un momento come quello, in cui piangeva per la morte del fratello.
E per la prima volta.
A Parigi non aveva avuto tempo per le lacrime e al funerale era ormai troppo tardi per unirsi ai singhiozzi dei genitori. Ma in quel momento piangeva lacrime che le parvero improvvisamente calde. Non si soffermò a chiedersi perché pochi istanti prima le fossero sembrate gelide. Forse non si rese nemmeno conto di quella contraddizione, forse erano cambiate le lacrime stesse, forse, ed era l’ipotesi più probabile, era la loro fonte, il suo cuore, a donare calore a quel pianto nel momento in cui il suo animo lo percepiva chiaramente, operando una metamorfosi, al punto che Ygraine percepì nelle sue lacrime un calore tale che avrebbe potuto sciogliere quelle ghiacciate che cadevano all’esterno.
Non riusciva a comprendere nemmeno perché piangesse proprio in quel momento. Forse era stata quella sorta di ritorno al passato, forse era semplicemente giunta l’ora per piangere sulla morte di Tristan.
Tirò leggermente su col naso, prima di portare le mani al volto per asciugarsi le lacrime che parevano diradarsi, in un moto contrario a quello della pioggia che cadeva all’esterno.
Prese ad armeggiare con la borsa capiente, che aveva posato ai suoi piedi quando si era seduta. Un lampo illuminò ancora una volta la sala del museo, ma non le fu affatto utile per trovare il fazzoletto che stava cercando tra spartiti e fogli di musica, matite, monete fuoriuscite dal portafogli lasciato aperto, quaderni per annotare appunti durante le prove di Les Contes d’Hoffmann in programma quella sera stessa.
L’unica cosa che quella saetta le permise di comprendere fu che l’uomo era ancora seduto di fronte a Sancta Lilias e, per qualche ragione assolutamente irrazionale, quella presenza le trasmise uno strano senso di sicurezza. Mentre, continuava a cercare nella borsa, le parve che le monete tintinnassero sinistramente tra le gocce di pioggia e il rombare dei tuoni. Poi qualcosa cadde per terra, mentre, ad un nuovo lampo, in tutto e per tutto simile a quello che aveva visto dal camerino di Parigi, quando la maschera di palcoscenico era venuta a dirle che era cercata con urgenza al telefono, nuove lacrime presero a rigarle le guance.
Prese a cercare ancora più freneticamente, forse perché credeva che asciugandosi in maniera definitiva il pianto, anche i ricordi se ne sarebbe andati, forse perché l’ultima cosa che voleva era piangere in un luogo pubblico, per quanto semi-deserto e al buio. Quando, finalmente, le mani toccarono la stoffa del fazzoletto, la giovane donna si sentì improvvisamente più tranquilla.
La sala era ancora nell’oscurità ed i lampi stavano diradandosi, illuminandola meno di frequente, quando iniziò ad asciugarsi le gote con forza. Poi, forse perché la tempesta si stava in parte quietando, forse perché aveva qualcosa di pratico da fare, si calmò, lasciando che i ricordi tornassero a rifugiarsi in qualche meandro della sua mente. Posò la borsa sul divanetto e si chinò a terra, cercando a tentoni quello che doveva essere caduto, stando attenta a non urtare l’uomo. L’ultima cosa che voleva era risultare un problema per il prossimo.
Impiegò meno tempo di quanto pensasse, aiutata da un debole e breve baluginare delle lampade, che non fecero in tempo ad illuminare pienamente la sala. Lo spartito di Les nuits d’été giaceva vicino ai piedi dell’uomo. Ygraine afferrò la parte più vicina a lei, poi, in un rumoreggiare di carta, ripose il ciclo di mélodies nella borsa.
Trasse un sospiro, mentre si rimetteva eretta, attendendo, seduta quietamente, che la luce tornasse e, poco dopo, le lampade si riaccesero, illuminando il museo, una mezz’ora prima dell’orario di chiusura.
Si era fatto tardi, notò il soprano, girandosi di lato ed incontrando per un istante gli occhi neri dell’uomo. Rimase per qualche momento immobile, poi si alzò in piedi e, agguantando saldamente la borsa, uscì rapidamente dalla sala, dicendosi che la ragione di tanta fretta era da ritrovarsi unicamente nel fatto che aveva ben poco tempo a sua disposizione, se voleva arrivare puntuale, o ancora meglio, leggermente in anticipo, al teatro per le prove.
Quando fu uscita, soltanto Severus si trovava ancora nella sala e, forse, era l’unico visitatore di tutto il museo. Aveva provato un senso di fastidio, quando la donna aveva frugato nella borsa, un senso di fastidio che però l’aveva distolto improvvisamente dalle sue riflessioni e dal gorgo profondo che era il suo passato. Poco dopo, un breve baluginare di luci. Il volto di Lily visibile nuovamente per una frazione di secondo. Il passato era tornato a sommergerlo con tutto il rimorso, con tutte le colpe che gravavano sempre e comunque su di lui.
Si era voltato per un attimo, forse per staccare l’attenzione, per quanto la sala fosse tornata ancora una volta nell’oscurità, da quel volto che pareva chiamarlo dalla tela su cui era stato imprigionato in quell’eterno atteggiamento. Fu allora che la luce tornò del tutto. Aveva colto brevemente gli occhi della giovane donna fissi su di lui, poi i suoi passi che si allontanavano frettolosi. Fuori era buio, non più solo a causa delle nubi nere, ma anche della notte che doveva essere scesa da tempo. Nel suo continuo andare a cercare il volto di Lily dipinto da quell’ignaro pittore Babbano, aveva acquisito un istintivo senso del tempo interno al museo stesso e sapeva, pertanto, che presto sarebbe stato chiuso.
Era ora di andarsene, di lasciare quell’immagine di Lily a fissare la sala vuota. Ed allora avrebbe offerto quel perdono irraggiungibile alle ombre e all’oscurità.
L’uomo si alzò in piedi e fece per andarsene, ma urtò qualcosa con i piedi.
A terra stava un foglio di musica, sfuggito con ogni probabilità alla donna che era appena uscita, a passo così rapido che Severus ipotizzò che dovesse già essere in strada da un pezzo. Lo raccattò. Gli occhi si posarono inavvertitamente sulle parole scritte sotto le note, che per lui avevano lo stesso significato che per un Babbano avrebbe avuto un libro di Antiche Rune, della linea accanto alla quale stava scritto Soprano.
E le prime parole lo colpirono come un fulmine ben più violento di quelli che stavano ancora, sebbene con meno forza, attraversando il cielo. Connaisez-vous la blanche tombe.
La tomba bianca.
Silente.
Il passato ritornò impietoso nella sua mente, che, per un attimo, distratta dalla contingenza, pareva averlo posto a tacere. Sembrava che quel giorno fosse destinato a riavvolgersi su sé stesso. Ricordava – o gli sembrava di rammentare, tanto la sua mente aveva vagato tra i ricordi – di aver sentito quelle stesse parole perdersi nell’aria, mentre si recava al museo. Ed in quel momento, quelle stesse parole, ritornavano stampate su quel foglio fitto di note e di annotazioni.
Parole innocue per chi le aveva vergate e per chi le aveva poste in musica.
Parole terribili per lui.
Parole che evocavano il suo passato, pur non conoscendolo, e forse per questo peggiori.
Parole portate dal vento – quello stesso vento che giocava con il suo animo -, parole portate dalla pioggia e dall’oscurità. Lasciate cadere da una mano ignara.
Posò il foglio di musica sul divanetto, lasciando che fossero gli addetti del museo ad occuparsene. Ma quelle parole lo perseguitarono mentre usciva dal museo, tornando nel mondo, in balia degli elementi e, mentre camminava, fu colpito da lacrime di ghiaccio che scendevano fitte dal cielo.



---

[1]Wilhelm Müller, Gefrorne Tränen (Lacrime di ghiaccio), strofa 1 e 3.

[2]Jane fa riferimento al moderno teatro di regia, dandone una visione un po’ passatista, legata alla tradizione, che vuole una precisione oleografica nella messa in scena. Per riassumere l’attuale situazione registica, posso dire che si vedono spettacoli bellissimi (ho ancora stampato nella memoria il Ring des Nibelungen di Parigi, con messa in scena di certo non tradizionale, ma intelligentissima) e spettacoli bruttissimi (non dimenticherò mai un Tancredi (Rossini) che moriva accanto a delle inquietanti montagne di arance).

[3] Si tratta di un’opera di Giacomo Puccini che racchiude tre opere con trame e personaggi differenti, da cui il nome Trittico. I tre titoli sono Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi e si passa dalla tragedia violenta, al dramma con toni più suffusi, alla commedia. Ygraine ha interpretato i ruoli di Giorgetta (ruolo drammatico. Il marito della donna ucciderà l’amante di lei, nascondendone il cadavere sotto il tabarro del titolo), Suor Angelica (ruolo dolcemente drammatico. Si tratta di una suora che, costretta alla monacazione in seguito ad una gravidanza extramatrimoniale, si suicida quando scopre che il figlio, visto una sola volta, è morto), Lauretta (ruolo leggero. Si tratta della figlia di Gianni Schicchi che, alla fine dell’opera, convola a nozze con l’amato Rinuccio).

[4] Per questi passaggi, ho presto spunto da alcune osservazioni di Ida al capitolo II.

[5] Si tratta di The Vale of Rest di John Everett Millais (1858-59).
 
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Capitolo IV

Erstarrung



Ich such’ im Schnee vergebens
Nach ihrer Tritte Spur, […]
Wo find‘ ich eine Blüte,
wo find ich grünes Gras?
Die Blumen sind erstorben,
der Rasen sieht so blass. […]
Mein Herz ist wie erstorben,
kalt starrt ihr Bild darin; […]

(Cerco nella neve invano
Le tracce dei suoi passi […]
Dove trovare un fiore,
dove trovare l’erba verde?
I fiori sono morti,
il prato appare grigio. […]
Il mio cuore è come morto,
la sua immagine è congelata.[1]


Gran Bretagna, 7 dicembre 2001



Londra si risvegliò inaspettatamente imbiancata. Nessun meteorologo aveva previsto la nevicata notturna e nessuno poteva immaginare di vedere le strade imbiancate da una sottile coltre bianca. Nemmeno Ygraine, quando era rientrata a casa, dopo il recital che l’aveva vista protagonista la sera precedente, avrebbe potuto immaginare che le nubi, che solcavano il cielo della capitale, avrebbero lasciato ricadere candidi fiocchi di neve, che, al contatto con l’aria inquinata della grande città, si erano ingrigiti, senza però perdere, nei parchi, grandi e piccoli che punteggiavano Londra, il loro fascino.
Forse fu per quel motivo che la mattina, quando si fu svegliata del tutto, dopo aver bevuto una tazza di tè nero bollente, Ygraine si decise ad uscire, per quanto il suo primo maestro di canto – bravissimo a spiegare i trucchi della giusta tecnica di respirazione, ma assolutamente maniaco in fatto di evitarsi qualsiasi esposizioni ad una temperatura inferiore ai venticinque gradi, per timore di ripercussioni sul rendimento delle corde vocali – l’avrebbe aspramente rimproverata, o nella migliore delle ipotesi, obbligata a girare per le strade con un abbigliamento più simile ad uno scafandro che non a un insieme di cappotto, berretto di lana, sciarpa e guanti.
Un lieve sorriso increspò le labbra della giovane, mentre il ricordo del vecchio maestro di canto si faceva strada in lei. Era stata una figura importante per la sua crescita professionale e artistica e, quando si era ritirato dalla professione, perché troppo vecchio, Ygraine, allora ventitreenne e alle prese con i primissimi passi della carriera, aveva sentito un forte senso di perdita, tanto che, ancora in quei tempi in cui sembrava che il suo cammino di cantante si stesse avviando verso una certa notorietà, consultava il maestro di canto per avere consigli e la certezza di non commettere passi falsi che avrebbero potuto compromettere, forse per sempre, la salute delle sue corde vocali [2].
Si rammaricò, mentre camminava, che Rebecca fosse a scuola e non potesse girovagare con lei, quel venerdì, per le vie di Londra e tentare, una volta raggiunto un giardino o un parco, il gioco che lei ed i fratelli avevano inventato quand’erano piccoli, in occasione di una vacanza natalizia, trascorsa nei pressi di una sperduta biblioteca svizzera, dove papà era andato a visionare un manoscritto medievale che riportava una variante, fino ad allora ignota, delle gesta di Sir Erec.
Non ricordava come fosse iniziato il gioco e di chi fosse stata l’idea, anche se era convinta che l’iniziativa non fosse da attribuire a lei. D’altronde non era importante rammentare la primogenitura di quel gioco di cui i genitori avevano sorriso, quando, alla sera, Tristan si era lanciato in un fantasioso racconto, facendolo apparire simile alle gesta di uno di quei cavalieri di cui il padre aveva narrato loro. Forse erano stati proprio quei racconti a dare loro l’idea, oppure era semplicemente qualcosa scaturito dalla fantasia infantile. Quello che era certo era che ogni giorno di quella vacanza erano stati ore fuori nella neve a studiare le orme lasciate dagli abitanti della località alpina e dai rari turisti.
Era stato divertente immaginare a che tipo di persona potessero appartenere le impronte lasciate nella neve. Il più fantasioso era stato Tristan, che era riuscito, dall’alto dei suoi nove anni, ad inventare racconti, ispirandosi alle loro ipotesi. Era bastata l’orma lasciata da uno stivale dal disegno un po’ particolare perché il fratello immaginasse una vicenda del tutto irrealistica, popolata di cavalieri erranti, maghi e povere principesse in pericolo. A volte, un’impronta femminile era arrivata a far credere loro di veder comparire una di quelle dame pallide e tristi che si trovavano sui libri illustrati del padre, dei vecchi volumi di leggende arturiane risalenti alla fine del XIX secolo. Altre volte ancora le orme di un gruppo di bambini erano diventate quelle di alcuni nani intenti ad accumulare tesori.
Quel gioco era continuato con il tempo, fino a quando Tristan non aveva cominciato l’università, dedicandosi alla filosofia, e lei stessa aveva iniziato a studiare seriamente canto. Gawain aveva abbandonato quei momenti, influenzati dall’andamento dell’inverno, tre anni dopo la vacanza in Svizzera, ritenendolo un gioco troppo sciocco, o forse troppo infantile, per un ragazzo di quattordici anni, o, più semplicemente, al maggiore tra loro, non era mai piaciuto troppo fantasticare. Era sempre stato Tristan a perdersi nei sogni, allontanandosi, a volte, pericolosamente dalla realtà. E crescendo, i racconti legati alle impronte lasciate nella neve, erano diventati sempre più complessi, simili a delle narrazioni ben strutturate che Ygraine, di due anni più giovane del fratello, aveva amato ascoltare intenta, aggiungendo soltanto qualche particolare di tanto in tanto. Era stato affascinante rimanere a udire Tristan immaginare, partendo dalla più banale impronta, storie dalla struttura complessa e dagli esiti impensati, velate sempre da quella vena di malinconia che caratterizzava il fratello, una malinconia dolce e soffusa che, in quel momento, pervase anche Ygraine.
Mentre la giovane donna si prendeva il lusso di camminare senza meta per le strade di Londra, immersa nei suoi pensieri, qualche fiocco sporadico prese a caderle sul capo, lasciando, per qualche breve istante, delle tracce bianche sul cappotto. Si sentiva, dopo diversi giorni colmi di tensione e ricordi dolorosi, stranamente leggera, nonostante la malinconia che la pervadeva, forse proprio a causa del sovvenirle di quei ricordi, che si perdevano dolcemente nel passato.
Quando raggiunse St James’s Park, si concesse di osservare le impronte lasciate sulla sottile coltre di neve, che si stava lentamente infittendo da quando i fiocchi si erano fatti più intensi. Erano anni che non lo faceva, sempre troppo frettolosa per poter godere di un momento come quello, intenta com’era a correre verso le prove, a studiare nuove parti o a prendere treni e aerei per poter raggiungere un nuovo teatro. Forse era stata la buona accoglienza del pubblico la sera precedente, o più semplicemente, la volontà di prendersi un attimo di pausa, ma aveva deciso, di punto in bianco e in maniera ben poco ragionata, di non pensare al prossimo debutto in Lohengrin, né men che meno alle ormai imminenti prove di Les Contes d’Hoffmann.
Improvvisamente si chiese se mai Rebecca avrebbe apprezzato di giocare ad immaginare la vita di chi lasciava le impronte sul terreno, o se la scarsa fantasia di Gawain non l’avesse in qualche modo influenzata.
E, mentre osservava un paio di impronte maschili, senza riuscire però a fare le ipotesi di quando era più giovane – forse, si disse, la sua fantasia era stata uccisa e strangolata dalla razionalità che voleva guidasse la sua vita -, si ritrovò, senza nemmeno rendersene conto, a chiedersi che tipo di orme avrebbe potuto lasciare l’uomo che sembrava essere come ancorato davanti a Sancta Lilias. Un pensiero quanto mai assurdo, si rimproverò, nonostante la naturale dose di curiosità che provava per qualcuno che pareva vivere, come congelato, davanti ad un unico quadro. Eppure, fu un pensiero che l’accompagnò per qualche tempo, facendole ipotizzare che Tristan avrebbe incluso le impronte dell’uomo tra quelle che definiva “orme enigmatiche”. Anzi, era certa che il fratello sarebbe riuscito a costruire un racconto colmo di fantasia per poter caratterizzare quello sconosciuto. E, forse, per qualche gioco del destino, Tristan avrebbe colto anche un solo e minimo sprazzo di verità. Lei invece non faceva ipotesi, forse perché sapeva che qualsiasi cosa avesse pensato, sarebbe stata assolutamente irrealistica e priva di fondamento.
Quelle fantasie cessarono quando i fiocchi, sempre più turbinanti, la costrinsero a tornare verso la casa di Gawain, dove si rintanò sedendosi a leggere davanti alla finestra, osservando la neve cadere sulla città, apparentemente preda di uno strano incantesimo che la faceva apparire come congelata ed immobile.
Un’improvvisa sferzata di vento fece turbinare i fiocchi di neve, e portò con essi un piccolo merlo, dall’aria fragile, che aveva coraggiosamente solcato il cielo freddo di quel giorno di dicembre. Un suo simile, o forse era lo stesso merlo che aveva volato veloce trasportato dal vento per miglia e miglia, si appollaiò su di un ramo, innevato, nei pressi di un corso d’acqua che scorreva lento, là dove non era ricoperto da un sottilissimo strato di ghiaccio.
Sulla neve, che copriva l’erba, erano presenti le poche impronte di chi si era avventurato nei pressi, durante quella fredda giornata. In quel momento però, la visuale del merlo, che spaziava per un buon tratto del terreno lungo il corso d’acqua, era sgombra di qualsiasi essere umano, fino a quando un uomo non sbucò tra gli alberi, camminando lentamente nella neve, lasciando in essa delle orme nette.
L’uomo non sapeva nemmeno per quale motivo si fosse avventurato proprio in quella direzione – o forse lo sapeva benissimo e, per una volta, non voleva sentire la sua mente ripeterselo – in cui, e di questo era più che certo, avrebbe solo rivissuto ricordi terribilmente dolorosi.
V’era stato un tempo in cui riteneva che quel luogo fosse un’oasi serena, ma quei momenti erano persi da decenni. Ed era più che cosciente che quella perdita fosse da attribuirsi unicamente a sé stesso. L’uomo si fermò in un punto, lo stesso punto in cui anni prima aveva parlato con Lily dei Dissennatori, di Hogwarts e della magia. Chiuse per un breve istante gli occhi, mentre alcuni fiocchi di neve turbinavano più violentemente di altri, poi li riaprì, ma questo non era servito a scacciare i dolorosi ricordi del passato.
V’era chi vedeva nelle memorie qualcosa di dolce, qualcosa che ripresentava davanti alla mente dei momenti amati, dei momenti perduti, ma rivissuti in un dolce rammarico del vederseli sfuggire, mentre il tempo scorreva inesorabile, ma non era quello il suo caso. Il suo passato portava con sé tutto tranne che la dolcezza un po’ amara dei ricordi. Togliendo la dolcezza, rimaneva un’amarezza tale che gustata avrebbe fatto sentire un sapore di fiele in bocca.
V’era qualcosa nella sua attuale vita che assomigliava alle piante gelate ed immote che stavano poco distanti da lui. O forse non era nemmeno quello il caso. Gli alberi avrebbero incontrato la primavera, lui sarebbe rimasto immobile nell’inverno della sua vita, l’inverno in cui viaggiava e in cui si ritrovava immobilizzato, nella spira turbinosa del passato.
E del rimorso.
I fiocchi di neve si intensificarono ancora di più e Severus decise che era il tempo di andarsene, ma delle impronte, delle piccole impronte di bambina, lo bloccarono. E quelle orme, ignare della sua stessa esistenza, diventarono quelle di Lily, di una Lily bambina, durante l’inverno precedente il loro primo anno a Hogwarts.
Anche allora v’era la neve, anche allora il fiume era semi-ghiacciato. E forse, allora, lui aveva ancora l’anima innocente.
Severus si voltò di scatto, come per non vedere il luogo, ma la neve e le piccole impronte rimanevano fisse davanti a lui. Gli parve di vedere una bambina sopraggiungere dalla stessa direzione da cui lui stesso era arrivato, una bambina con i capelli rossi e gli occhi verdi, copia minuta di Lily, ma ciò che stava osservando non era altro che una figura lasciata dai fiocchi di neve, e subito persa.
Da qualche parte un corvo gracchiò e al suo richiamo rispose lo zufolio gentile di un merlo.
Allora egli parlava con Lily e lei gli rispondeva.
Un paragone sciocco, si disse, generato dal breve sconvolgimento di prima.
Trasse un sospiro, che uscì soffocato dalle sue labbra, come una specie di sussurro doloroso perso nel vento che faceva turbinare la neve. Il dolore e la colpa lo stavano sommergendo, come nemmeno davanti al quadro di Sancta Lilias gli era mai capitato, forse perché quel Museo Babbano era luogo di meditazione, di cupo riflettere sulle sue colpe e sull’impossibilità di aspirare e ottenere quel perdono che il quadro pareva promettere. In quel luogo invece si trovava di fronte ai momenti vissuti con Lily, quando erano bambini, momenti che giungevano a tormentarlo con una forza così simile a quella della neve che in quel momento, come impazzita gli turbinava intorno, chiazzando di fiocchi bianchi i suoi capelli neri.
Un poeta avrebbe potuto vedere in quel particolare la purezza ed il perdono che lo sfioravano improvvisamente, ma sarebbe stato un poeta sciocco. In fondo, e lo sentiva perfettamente, mentre le gocce gelate dei fiocchi sciolti gli scivolavano lungo i capelli, nemmeno la candida neve riusciva a posarsi realmente su di lui, sciogliendosi subito, sconvolta dalle sue colpe imperdonabili.
L’uomo si rese conto che, ancora una volta, la sua mente iniziava a ripercorrere, in maniera che qualcuno avrebbe potuto definire ossessiva, l’abituale percorso disseminato di rimorso, colpa e impossibilità di perdono. Era un cammino congelato, ghiacciato ed immoto come la neve che stava calpestando, lungo le rive del fiume, quella neve che celava il verde del prato, la natura, che, al contrario di lui, sarebbe rinata, mentre il suo cammino avrebbe continuato a diramarsi inesorabilmente in una sola direzione.
Il suo viaggio era ghiacciato come era congelata l’immagine del dipinto che così spesso contemplava, come l’immagine stessa di Lily che portava impressa nell’anima, un’immagine forzatamente congelata dall’immobilità della morte, quella morte di cui lui stesso era stato artefice. Ed ora, contemplando quel luogo, in cui lei era stata viva, quella perdita diventava decisamente più reale e tangibile.
O forse era più reale e tangibile il congelamento dell’immagine di Lily nel suo cuore.
O il congelamento dei suoi stessi pensieri e della sua stessa vita.
Ma era, quello, un congelamento necessario ed impossibile da evitarsi. In fondo – e gli sembrava quella quasi una litania – cos’altro poteva essere la sua vita attuale se non un continuo rivolgersi al passato, un continuo essere stritolato dal rimorso e dalle colpe, un continuo meditare sui suoi errori terribili e sul sangue che aveva versato?
Non v’erano altre alternative. O per lo meno, non ve n’erano in quel momento statico e congelato del suo cammino.
Forse anche la neve, che scendeva tutt’intorno a lui e su di lui, era meno congelata di quanto non fosse la sua vita, di quanto non fosse quel suo continuo meditare sul suo passato, di quanto non fosse quel suo continuo rivedersi, in un modo o nell’altro, dinnanzi Lily e la sua immagine congelata, quel suo continuo vedere davanti agli occhi il sangue versato, quel suo continuo rivivere il momento in cui aveva tolto la vita a Silente.
Tutto era immoto, nella sua anima e nella sua mente, così come tutto era immoto intorno a lui
E in quel momento, a rompere per un istante l’immobilità della natura che lo circondava, gli giunse una risata infantile, così simile alla risata di Lily, e tra le gocce di neve sciolta che si avventuravano lungo il suo volto affilato, scivolò una lacrima solitaria, che gli bruciò la pelle, portando con sé tutto il peso del rimorso inarrestabile che lo divorava e non gli dava mai tregua, perché ovunque avrebbe rivissuto il passato e gustato l’amaro calice dei ricordi.



---

[1]Wilhelm Müller, Erstarrung (Congelamento), vv. 1-2; 9-12; 17-18

[2] Ygraine pensa al caso in cui, per un errore di valutazione, si canti un ruolo non adatto alla propria voce, fatto che può portare, se si persiste, a rovinarsi una carriera promettente.
 
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Capitolo V

Das Lindenbaum



Am Brunnen vor dem Tore
Da steht ein Lindenbaum.
[…] Ich musst‘ auch heute wandern
Vorbei in tiefer Nacht,
Da hab‘ ich nach im Dunkeln
Die Augen zugemacht.
Und seine Zweige rauschten,
Als riefen sie mir zu:
Komm her zu mir, Geselle,
Hier find’st du deine Ruh‘! […]
Nun bin ich manche Stunde
Entfernt von jenem Ort,
Und immer hör’ ich’s rauschen:
Du fändest Ruhe dort

(Presso la fontana vicino alla porta
Là sta un tiglio.
[…]Anche oggi vi devo passare
Davanti nella notte più profonda,
là vicino nell’oscurità
ho chiuso gli occhi.
E i suoi rami mormoravano,
come per chiamarmi:
Vieni da me, amico:
qui troverai la tua pace! […]
Ora mi sono, da varie ore,
Allontanato da questo luogo,
e sempre lo sento mormorare:
Là troveresti la pace!) [1]

Londra, 9 dicembre 2001



Rebecca Ainsworth teneva stretta la mano della zia, mentre camminavano per St. James’s Park. I suoi occhi infantili si fermavano ad osservare ogni albero privo di foglie, immaginando che, come in un racconto di fiabe, ne fuoriuscissero delle fanciulle e dei prodi cavalieri. Accanto a lei zia Ygraine era stranamente silenziosa, ma la bambina non disse nulla, limitandosi ad osservare il parco.
La giovane donna non conosceva le ragioni del suo silenzio. Forse, semplicemente, quel freddo giorno di sole l’aveva trovata meditabonda per ragioni che a lei stessa risultavano ignote, oppure il pensiero che Rebecca avesse espresso il desiderio di essere accompagnata alla Tate Britain, perché alla zia piaceva tanto, la turbava. Temeva che fosse presente quell’uomo che la incuriosiva, anche se non ne aveva motivo. In fondo non v’era nulla di insolito in una zia che accompagnava la nipote al museo. O forse temeva di ossessionarsi nel tentativo di comprendere perché quello sconosciuto si trovasse sempre davanti a quel quadro, o, per lo meno, così era stato nelle due occasioni in cui l’aveva visto.
«Zia, che pianta è quella, così bella, imponente e solitaria?» domandò Rebecca, interrompendo il rimuginare della donna.
«Non ne ho idea», rispose Ygraine, avvicinandosi all’albero «Ma forse c’è un cartello esplicativo lì vicino.»
La bambina annuì, incuriosita, tenendo la mano della zia. Non sapeva nemmeno lei per quale motivo quella pianta la interessasse tanto. Forse, semplicemente, le sembrava ancora più fatata delle altre, con la neve, di due giorni prima, ancora posata sui grandi rami, che apparivano, in contrasto con il candore della neve, di un marrone più scuro, simile al nero, di quanto in realtà non fossero.
«È un tiglio», disse Ygraine, leggendo il cartellino arrugginito.
«Come le piante sotto cui è la tomba dello zio? [2]» domandò Rebecca, facendosi improvvisamente pensierosa.
Le era sempre piaciuto zio Tristan e non trovava giusto che fosse morto. Era certa che l’uomo fosse assolutamente felice là in cielo e che fosse orgoglioso di quanto fosse brava a scrivere testi di fantasia, proprio come le aveva insegnato lui. Però le mancava e avrebbe tanto voluto che quella malattia cattiva non l’avesse portato via.
«Sì, come quelle, ma questa è molto più antica.» mormorò Ygraine.
La giovane donna non riusciva a capire come avesse potuto non riconoscere quell’albero, ma forse tutto era dovuto alla diversità del luogo in cui i diversi tigli si trovavano. Oppure, più semplicemente, quando era andata sulla tomba di Tristan non aveva mai badato a quegli alberi che, con i loro rami, ombreggiavano la semplice lapide, posta vicino al muro di cinta del cimitero di campagna dov’era stato sepolto.
Era stata sua l’idea di farlo riposare sotto due tigli, in memoria di una conversazione avuta con il fratello sette mesi prima del suo suicidio, in cui egli aveva detto di condividere intimamente l’ultimo desiderio di Werther. E lei era stata così sciocca da non capire che quelle parole avrebbero potuto preludere alla volontà, forse ancora non palese nemmeno allo stesso Tristan, di togliersi la vita.
Avrebbe dovuto comprendere che il fratello stava soffrendo terribilmente, che v’era in lui un malessere tale che lo avrebbe portato al suicidio. E quel riferimento proprio a quel personaggio, avrebbe dovuto darle ancor di più la possibilità di afferrarne il disagio.
«Zia, non è che potremmo andare al museo?» domandò la bambina, voltandosi verso Ygraine che era ferma, immobile, davanti al tiglio privo di foglie «Questo posto è triste.»
La giovane donna annuì soltanto, incapace di parlare in quel momento. Temeva di poter dire qualcosa di troppo, qualcosa che facesse comprendere a Rebecca che lo zio non era morto di malattia, ma suicida. Presto o tardi avrebbe dovuto sapere la verità, ma non era ancora il tempo, o almeno questo era quello che pensavano Gawain e Margaret e lei non voleva entrare nelle decisioni prese dal fratello e dalla cognata per la loro figlia.
V’erano momenti in cui si diceva che era loro dovere dire a Rebecca la verità, che avrebbero dovuto farlo fin da subito. Forse, lei, che era una bambina di sette anni all’epoca della tragedia, sarebbe riuscita ad assorbire la notizia in maniera più semplice di quanto non avessero fatto lei e i suoi familiari, ma, soprattutto, non si sarebbe sentita tradita quando avrebbe scoperto che le era stata nascosta la verità per un tempo decisamente lungo, considerando che Gawain aveva detto e ripetuto più volte che la figlia avrebbe dovuto avere più di quattordici anni per poter sapere.
Non era riuscita in alcun modo a fargli cambiare idea, quando, giunta in fretta e furia dalla Francia per i funerali di Tristan, aveva parlato a lungo con lui. Gawain sapeva essere assolutamente irremovibile, quando aveva preso una decisione che per lui era giusta e Margaret aveva il brutto vizio di assecondarlo sempre.
Ygraine trattenne un sospiro, mentre si allontanava finalmente dal tiglio, ma mentre se ne andava le parve di sentire come una voce che la chiamava in maniera tale che le pareva che provenisse dal tiglio stesso. Scosse il capo, irritata. Non era da lei perdersi in inutili fantasticherie.
Semplicemente quella sensazione doveva essere prodotta dal pensiero di Tristan e da un ricordo del fratello che, una volta, le aveva confessato che v’erano momenti in cui pensava di poter trovar pace proprio ai piedi di un albero. E per Ygraine, quell’albero era diventato automaticamente un tiglio, lo stesso albero sotto il quale Tristan riposava e dove forse aveva trovato pace.
«Possiamo andare a piedi, zia?» domandò Rebecca, interrompendo il silenzio. «Non mi piace usare la metropolitana.»
«È un percorso lungo», rispose la giovane donna, lieta che la nipote la distogliesse da quei pensieri cupi e tristi «Sei certa di voler camminare così tanto?»
«Certo, zia. E poi, così ti posso fare un mare di domande sul museo, prima di andarci», affermò la bambina assolutamente convinta di quello che diceva. «Ci sono dei… com’è che si chiamano quei quadri dove è dipinta una persona veramente esistita?»
«Ritratti. E ce ne sono molti e sono sicurissima che alcuni di questi ti piaceranno.»
Rebecca annuì, immaginandosi una serie di bellissime dame dipinte, che occhieggiavano dalla tela. Si disse che sarebbe stato bellissimo se quelle dame avessero potuto parlare e raccontare la loro storia, che sarebbe stata sicuramente interessantissima, proprio come le storie che le raccontava zio Tristan o quelle che, di tanto in tanto, il nonno accettava di narrarle. Sperava solo che quelle belle dame non morissero in quella brutta maniera con cui morivano le eroine che interpretava la zia. Certo, a lei piaceva molto vedere la zia sul palcoscenico e pensare a quanto fosse bella quando cantava, ma non le faceva mai piacere che alla fine la zia facesse finta di morire.
Ygraine si voltò per un istante verso la nipote che si era fatta improvvisamente silenziosa, ma notò che si stava semplicemente osservando intorno. V’erano momenti in cui Rebecca diventava particolarmente meditabonda e la giovane donna sapeva perfettamente che quei momenti risalivano alla morte di Tristan. Per quanto Gawain avesse nascosto la verità, non avrebbe di certo potuto impedire alla figlia di essere addolorata per quella terribile scomparsa, né di aver improvvisamente capito del tutto cosa fosse la morte, soprattutto considerando che, fino ad allora, tutto quello che sapeva lo vedeva su un palcoscenico in cui, alla fine, il cantante con i suoi costumi di scena si rialzava magicamente in piedi e andava a prendere gli applausi – o i fischi – che il pubblico gli tributava, annullando, nella mente di un bambino, il significato reale della morte del personaggio.
D’altronde Rebecca era sempre stata tremendamente legata a Tristan, forse perché era lui che andava spesso a prenderla all’uscita di scuola, quando Margaret era al lavoro, forse perché era lui a narrarle storie e favole fantastiche, che Gawain non aveva la fantasia, o la volontà, di inventare. Quello che l’aveva sempre colpita, quando erano tutti in casa, era il fatto che la bambina seguiva ovunque lo zio, preferendo la sua compagnia a quella del padre o dei nonni. Spesso Ygraine li ritrovava intenti a giocare con dei vecchi pupazzetti, emersi chissà da quale vecchio scatolone, intenti ad inventare una di quelle storie che Tristan amava immaginare fin da quando erano piccoli.
Quei pensieri le fecero inavvertitamente stringere la mano della nipote. Se, pochi giorni prima, aveva assaporato la dolcezza di ricordi persi nel tempo, in quel momento pensare al fratello la riempiva unicamente di amarezza e della sensazione che avrebbe potuto intuire il desiderio di morte di Tristan. Ricordava che alle volte egli aveva scherzato sul suo nome, dicendo che sarebbe morto giovane come l’eroe a cui suo padre si era ispirato. Era uno scherzo fin troppo realistico, alla luce dei fatti dell’anno precedente. Forse il Tristan dei poemi medievali era più giovane di suo fratello, ma ciò non toglieva che egli aveva avuto tutta la vita davanti e forse una splendida carriera da filosofo, quando aveva rivolto il coltello verso di sé.
Ricordava che Gawain aveva detto, forse con l’intento di soffrire meno o di evitare di attribuirsi una qualsiasi responsabilità nella scelta del fratello, che erano proprio stati quegli studi a portarlo al suicidio. Ygraine era convinta, piuttosto, che Tristan avesse compiuto la sola scelta che reputasse giusta, nonostante il dolore che avrebbe portato nelle loro vite. Quello che tormentava la giovane donna era piuttosto il pensiero che tutti loro lo avessero abbandonato, quando qualcosa nella sua anima si era rotto al punto tale da fargli desiderare la morte.
Un leggero, vento mentre zia e nipote avanzavano per le strade di Londra, prese a soffiare sulla città, smuovendo appena i rami spogli degli alberi di Abingdon Gardens, accanto al quale stavano passando. Ed ancora una volta Ygraine, proprio com’era avvenuto a St. James’s Park, avvertì come una voce che la chiamava. Si voltò ed osservò meglio gli alberi, riconoscendo un tiglio secolare, simile a quello che aveva colpito Rebecca, poco tempo prima.
Forse Tristan, prima di suicidarsi, aveva sentito un tiglio chiamarlo e dirgli che lì, sotto di lui, avrebbe trovato pace, per sempre, proprio come in quel momento le pareva che quell’albero chiamasse lei. Era un pensiero sciocco ed irrazionale, lo sapeva bene, ma non poteva impedirsi di pensarlo. Un sorriso triste le apparve sulle labbra. Nonostante avesse cercato di improntare la sua vita, cercando di essere il più razionale possibile, v’erano momenti in cui la sua logica sembrava cadere di colpo. Forse, in realtà, somigliava a Tristan più di quanto non avesse mai pensato, nonostante fosse più che certa di non possederne la stessa sensibilità, perché sapeva che non avrebbe mai scelto il percorso indicatole dalla strana melodia che il vento creava con i rami spogli del tiglio, preferendo passare oltre e continuare il suo cammino.
Più tardi, quando era già giunta in Thorney Street, dove non si udiva più da tempo il rumore prodotto dai rami degli alberi, le parvero che i suoi pensieri precedenti fossero quanto mai sciocchi. O forse semplicemente dettati dal dolore che la investiva ogni qual volta pensasse al fratello morto. Era più che certa che un tiglio non poteva in alcun modo chiamare qualcuno. Eppure, si era lasciata suggestionare, solamente perché Tristan riposava sotto due tigli.
Cercando di distogliere i propri pensieri dal loro corso, si rivolse a Rebecca, prendendo a spiegarle quello che sapeva dei luoghi che stavano attraversando. La nipote la ascoltava attentamente e, nella sua mente, tentava di immaginarsi un’altra Londra, un luogo diverso, senza automobili, con donne dagli ampi abiti eleganti, come quelli che aveva indossato la zia, due anni prima, a teatro.
Fu con quelle immagini in mente che la bambina arrivò, dopo lungo camminare che, però, immersa com’era nelle sue fantasie, pareva non averla affaticata, davanti alla Tate Britain.
Il museo apparve a Rebecca incredibilmente imponente con la sua scalinata e il suo pronao corinzio e, mentre saliva i gradini insieme alla zia, le parve che la sua mole volesse schiacciarla, facendola sentire più piccola di quanto in realtà non fosse. Soltanto quando furono all’interno, in una sala dedicata alla pittura del XVI secolo, la curiosità si riaccese e cominciò a guardarsi intorno, osservando le tele e trascinando Ygraine da un quadro all’altro, ponendole così tante domande, che la giovane donna riuscì ad abbandonare definitivamente i tristi pensieri che l’avevano investita al parco e durante la lunga camminata, che le aveva portate da St James’s Park al museo.
Rebecca sembrava, a volte, essere figlia di Tristan, piuttosto che di Gawain, si disse Ygraine, quando la nipote cominciò a fantasticare sulle dame effigiate, immaginando la loro vita, in maniera fantasiosa e irrealistica. Ygraine si ritrovò più volte a sorridere alle parole di Rebecca che inventava un mondo fantastico, così simile a quello dei giochi infantili di Tristan. D’altronde sapeva che il fratello aveva passato molto tempo in compagnia della nipote, narrandole quelle storie che avevano condiviso durante l’infanzia e l’adolescenza. La giovane donna si augurò soltanto che la bambina non condividesse con lo zio quell’incredibile sensibilità che, e di questo Ygraine era più che certa, l’aveva portato a scegliere il suicidio, perché lei non avrebbe mai sopportato di perdere anche Rebecca.
«Quella donna è molto bella, zia», disse la bambina, trascinando Ygraine verso Sancta Lilias «Sembra una di quelle dame di cui parla a volte il nonno, tristi ed innamorate.»
La giovane tenne per mano la bambina, facendola fermare leggermente di sbieco, in modo da non disturbare l’uomo che, come le volte precedenti, stava davanti al quadro di Rossetti. Rebecca parve non accorgersene nemmeno, intenta com’era ad immaginare una contorta vicenda per la donna effigiata, totalmente ignara della leggenda ispiratrice e dei pensieri che il quadro suscitava in Severus, il quale avvertiva, come una sorta di lieve ronzio, il parlare della bambina, quasi che questo fosse un improvviso accompagnamento al continuo rincorrersi e riavvolgersi dei suoi pensieri fatti di rimorso ed impossibilità di perdono.
Fu la voce sgraziata e acuta di una donna a distoglierlo momentaneamente dalla contemplazione di quella Lily congelata nel quadro Babbano. V’era qualcosa di talmente fastidioso in quel suono che l’uomo si voltò, notando una donna, con indosso un abito a fiori di un blu piuttosto vistoso, che gesticolava in direzione di una giovane dai capelli biondi incredibilmente lunghi, raccolti in una treccia, e alla bambina a cui credeva appartenesse la voce che aveva percepito poco prima.
«Mi dispiace se il chiacchiericcio di mia nipote l’ha disturbata…» disse la giovane donna.
«Non si tratta di quello. Forse lei è troppo distratta per notare che sua nipote imbratta le vesti altrui con qualche pennarello che sicuramente tiene in tasca», la interruppe la donna dalla voce acuta, indicando alcuni dei fiori, posti appena sopra il ginocchio.
«Io non ho fatto niente, zia», biascicò Rebecca, lanciando un’occhiata disperata a Ygraine, la quale portò gli occhi sui fiori indicati dalla donna che mostravano un colore più delicato e chiaro, simile alle sfumature della veste di una dama che occhieggiava immota da un quadro poco distante, il che, si disse il giovane soprano, avrebbe contribuito, in una sua estensione a tutta la veste, a migliorarla notevolmente.
«Le assicuro che Rebecca non ha con sé alcun pennarello, signora, né che possa aver mai avuto intenzione di rovinarle la veste. Forse, semplicemente, si tratta di un errore di lavaggio.»
L’attenzione e la mente di Severus tornarono a volgersi nuovamente verso quei pensieri che ogni giorno – e, da quando era sopravvissuto, in maniera più prepotente – gli si accavallavano nella mente, senza lasciargli tregua alcuna, attorcigliandosi gli uni sugli altri, in un modo quasi ossessivo che non lasciava scampo alla mente e all’animo dell’uomo. La voce acuta della donna, le risposte vicine all’irritazione della giovane zia arrivavano da un angolo sperduto della sua mente e, con ogni probabilità, sarebbero rimaste soltanto un ronzio, se non fosse stato per le parole singhiozzanti che uscirono dalle labbra della bambina.
«Non volevo fare niente, davvero, signora. Non ho fatto niente… ho solo… beh, ho solo pensato che qualche fiore sarebbe stato più bello se…»
«A quanto pare, sua nipote sta ammettendo quello che lei sta negando con tutte le forze, signorina», interruppe la donna dalla voce acuta.
«Io non ho fatto niente, zia», ribadì la bimba, che aveva concentrato lo sguardo su Ygraine, tentando di ignorare la signora dal vestito a fiori.
«Lo so. È ovvio che non hai fatto nulla, Rebecca», affermò la giovane donna, con fare rassicurante. «Nessuno può cambiare il colore di qualcosa, solamente pensandolo ardentemente. E mia nipote ha detto semplicemente questo, signora. Non ha ammesso nulla. E di certo lei la sta spaventando.»
Furono le frasi sconnesse della bambina a far intuire, strappandolo improvvisamente e brevemente dal suo continuo e ossessivo meditare, a Severus che quella bimba era una strega, nata in una famiglia di Babbani. Le parole della zia, che stava negando con tutte le sue forze la verità, non fecero altro che accentuare la sua intuizione, un’intuizione che, come se il suo passato andasse a toccare e a rendere propri anche gli eventi di un presente a lui estraneo e lontano, risultò terribilmente dolorosa per la sua anima.
Gli parve che i capelli castani di Rebecca avessero dei riflessi rossi e, quando la bimba si voltò nella sua direzione, forse per distogliere lo sguardo dal volto della Babbana con l’abito a fiori, che gli occhi nocciola, avessero assunto, grazie alla luce del museo, delle sfumature verdi. Sapeva perfettamente che quella bimba non assomigliava affatto alla Lily bambina che lui aveva spiato al parco, prima di parlarle per la prima volta; era perfettamente cosciente che la situazione era totalmente diversa, ma, già com’era accaduto con quelle impronte infantili che aveva visto nella neve due giorni prima, l’immagine di Lily, antecedente agli anni a Hogwarts, gli apparve improvvisamente davanti, quasi fosse lì a pochi passi da lui, ancora viva. E, con quella che lui stesso sapeva essere un’illusione terribile, giunse l’abituale carico di colpe, rimorsi e certezza della propria impossibilità di ricevere il perdono.
«Credo, signora,» disse Ygraine, cercando di contenere l’irritazione, «che questo non sia il luogo migliore per discutere. Ci sono altri visitatori e li stiamo disturbando», aggiunse come spiegazione, anche se, in quel momento, nella sala, oltre a lei, a Rebecca e a quella donna, c’era soltanto il misterioso uomo seduto davanti a Sancta Lilias. «Forse sarebbe meglio se uscissimo, anche solo nell’atrio di ingresso o sotto il pronao, anche se, sinceramente, non vedo di cosa altro si debba discutere, dal momento che, come ha notato anche lei, Rebecca non ha tasche grandi abbastanza da nascondere un pennarello.»
La donna non rispose subito, rendendo unicamente più impaziente Ygraine, che dovette fare forza su sé stessa per non dire una frase di cui avrebbe potuto pentirsi. Aveva imparato, col suo mestiere, a non rispondere mai male, né ad inalberarsi, ma ad essere sempre il più diplomatico possibile, anche quando avrebbe volentieri detto qualche parola grossa ad un direttore d’orchestra o ad un regista che chiedevano assurdità a lei e ai suoi colleghi. D’altronde quella donna riusciva ad essere decisamente più irritante di un artista che crede che la sua idea sia la migliore e la più illuminante in assoluto – con loro, in fondo, si riusciva a venire a patti, dopo molte e quiete discussioni -, dal momento che si stava rivelando una di quelle persone che guardava sempre con sospetto ed insofferenza i bambini e che era sempre pronta ad attribuire loro qualsiasi colpa. Forse aveva iniziato ad osservare con sgarbo Rebecca da quando l’aveva vista, perché non riteneva concepibile che vi fosse una bambina nel museo, o per lo meno che ve ne fosse una che non avesse già commesso qualche irrimediabile danno.
Quando la donna accettò la proposta di Ygraine, la giovane donna si voltò verso la nipote che stava piangendo e che sembrava palesemente preoccupata dal trambusto che stava creando.
«Adesso uscirò dalla sala con quella signora, Rebecca», mormorò la giovane, inginocchiandosi, in modo da vedere la bambina negli occhi. «Non devi preoccuparti perché tu non hai fatto assolutamente nulla», fece una pausa, mentre asciugava, con le mani, gli occhi della nipote. «Te la senti di rimanere qui, sedendoti su quel divanetto, fino a quando io non torno? O vuoi venire con me, mentre parlo con quella signora?»
Rebecca alzò lo sguardo verso la donna dalla voce acuta e notò quanto fosse impaziente e contrariata. Poi si girò verso il divanetto e vide un uomo dai capelli neri, che stava guardando i quadri, e le parve di gran lunga preferibile a quella donna cattiva.
«Resterò qui e ti aspetterò, zia.» disse soltanto la piccola, andandosi immediatamente a sedere, tirando su con il naso, ora che le lacrime erano finite.
Severus avvertì chiaramente i passi della bambina, così come percepì lo sguardo della zia di questa su di lui, quasi volesse comunicargli silenziosamente qualcosa.
Ygraine, in effetti, era indecisa se dire qualche parola a quell’uomo, ma non le parve il caso di disturbarlo. Non le piaceva lasciare Rebecca da sola, ma non voleva che quella donna acida – o inacidita dalla vita – la facesse piangere ancora. D’altronde aveva fiducia nella nipote e, per ragioni che non sapeva spiegarsi, era certa che quell’uomo non le avrebbe mai nuociuto. Fu con quel pensiero che uscì, mentre Rebecca faceva dondolare appena le gambe posando gli occhi nocciola sui vari quadri che le stavano di fronte.
Poco distante da lei, Severus sentiva i ricordi accanirsi su di lui in maniera terribile. La presenza di quella bambina che non sapeva di essere una strega, lo portava a rivedere Lily sull’altalena e sé stesso intento ad osservarla da dietro il cespuglio.
E poco dopo al posto di Lily bambina, Lily donna, morta.
Ed al suo posto il cadavere di Silente.
E poi una rapida successione di volti.
Volti di vite che aveva spento, o contribuito in qualche modo a spegnere. Volti di vite di non era riuscito a salvare.
Ogni volta che giungeva a quel punto, i ricordi parevano riavvolgersi rapidi su sé stessi e ripetersi. Lily deteneva, di volta in volta, un ruolo più importante, forse proprio a causa di quella bambina che, ignara di tutto, evocava in lui la presenza di Lily, divenendo personificazione stessa di Lily bambina, rendendo per questo più cocente la realtà della sua morte e, con essa, di tutte le morti che aveva provocato, anche indirettamente, e a cui aveva assistito.
E con quei pensieri, il rimorso parve centuplicarsi e, con esso, la possibilità di perdono allontanarsi irrimediabilmente, non importava quanto il quadro Babbano che aveva di fronte, paresse promettergliela.
«Signore», gli parve di udire una voce, la voce della bambina emergere dal presente per strapparlo al passato. «Signore, scusi», ripeté la voce e, solo in quel momento comprese, che stava chiamando lui. Non si voltò, ma alla bambina parve non importare, perché proseguì spedita. «Non è che ha un fazzoletto di carta da prestarmi?»
La richiesta prese Severus di sorpresa. Quella domanda così semplice gli parve strana ed insolita, perché era inusuale ed insolita, dato che nessuno, da che ricordava, gli aveva mai chiesto un fazzoletto. Eppure, c’era qualcosa in quella domanda ingenua che gli fermò sulla punta della lingua le parole brusche e secche che stava per pronunciare.
Era come se quella banale richiesta, che lo strappava per pochi istanti dal suo rimuginare, contenesse in sé tutta la normalità della vita che gli era stata negata e che si era negato da solo commettendo scelte imperdonabili.
«No», rispose soltanto, quietamente. Si voltò verso la bambina e notò che lo osservava con occhi così innocenti e fiduciosi da fargli percepire ancora più chiaramente quanto la sua anima fosse irrimediabilmente macchiata e perduta. Fu quello sguardo, così simile a quello di Lily, quando aveva all’incirca la stessa età della bambina, eppure sottilmente diverso, a farlo continuare a parlare. «Ma ho un fazzoletto di stoffa.»
«Grazie, signore. È veramente molto gentile», disse Rebecca, sorridendogli, un sorriso che contrastava con gli occhi ancora arrossati per il pianto ed il naso gocciolante. «Spero che prima… beh, di non averla disturbata.» concluse, ricordandosi gli insegnamenti del padre circa le buone maniere.
Severus evitò di rispondere, mentre allungava il fazzoletto alla bambina, che si soffiò il naso piuttosto fragorosamente. Quel sorriso innocente aveva portato con sé altri sorrisi. Il sorriso di Lily. Il sorriso di Silente. Altri sorrisi intravisti e spenti da tempo.
Gli occhi della bambina lo stavano osservando, in attesa di una risposta, leggermente preoccupati, perché probabilmente temeva di avergli recato disturbo, ignara, invece, di aver riportato a galla, ancora una volta, il suo passato, che pareva riverberarsi in tutto quello che vedeva. Eppure, in quella lieve preoccupazione c’era qualcosa che gli diede, come poco prima, l’idea di quale potesse essere la normalità, la vita che tutti conducevano, la vita di cui non aveva mai fatto parte, nemmeno prima di distruggere l’amicizia di Lily, ed in cui improvvisamente quella bambina lo catapultava, probabilmente perché lei, al contrario di Lily, non sapeva assolutamente nulla di lui. E fu forse per quel senso amaro di una normalità che non gli apparteneva, che non lasciò che le parole della bambina cadessero nel vuoto.
«No. Nessun disturbo.» rispose brevemente.
«Ne sono felice.» disse Rebecca.
Ogni traccia di preoccupazione sparì dai suoi occhi. Era lieta di non aver recato fastidio a quel signore di poche parole e dall’aspetto cupo, che però era stato tanto gentile da darle il suo fazzoletto e da non apparire infastidito da lei, come facevano a volte i grandi.
Fu in quel momento, mentre Rebecca si chiedeva se aggiungere qualcosa d’altro che tornò Ygraine, la quale si era liberata finalmente di quella donna che era scesa a più miti consigli, ammettendo infine di aver esagerato e di essersi sbagliata.
«Sono tornata», disse alla nipote, che scese dal divanetto. «E credo che sia meglio andare, altrimenti papà e mamma si chiederanno dove siamo finite. Spero, signore,» aggiunse poco dopo, voltandosi verso l’uomo, «che la baruffa di prima non le abbia recato disturbo. E se così dovesse essere, me ne scuso tantissimo.»
«No. Nessun disturbo», ripeté Severus, la voce calma, mentre notava che la donna pareva condividere con la nipote una strana forma di fiducia nei suoi confronti.
O, almeno, fu quel sentimento che gli parve di leggere nei suoi occhi nocciola.
La donna annuì soltanto, un sorriso gentile sulle labbra, lasciando che la sala ripiombasse nel silenzio più totale e che l’uomo riportasse lo sguardo su Sancta Lilias che pareva quasi chiamarlo dall’immobilità della sua tela, e con quel richiamo, ritornarono a farsi più aspri e terribili i ricordi che vorticavano dolorosamente nella sua mente.
Al di fuori del museo, Ygraine e Rebecca si recarono rapidamente verso la fermata della metropolitana di Pimlico e soltanto, quando furono ormai nei pressi della porta di casa, la bambina si rese conto di non aver restituito il fazzoletto all’uomo dai capelli neri. Si voltò verso la zia, per dirglielo, ma la giovane donna le parve improvvisamente distratta.
Poco distante dalla casa di Gawain stava un tiglio ed il leggero vento invernale ne faceva gemere i rami spogli.
Ed ancora una volta a Ygraine parve che quel vecchio albero la chiamasse.



---

[1] Wilhelm Müller, Der Lindenbaum (Il tiglio), vv. 1-2; 9-16; 21-24.

[2] L’idea di porre la tomba di Tristan sotto due tigli è ispirata da I dolori del Giovane Werther di Goethe, dove, nel finale, il protagonista esprime il desiderio di essere sepolto sotto due tigli, dopo il suo suicidio.
 
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view post Posted on 6/11/2022, 17:09
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Capitolo VI

Wasserflut



Schnee, du weißt von meinen Sehnen,
Sag‘, wohin doch geht dein Lauf?

(Neve, tu sei a conoscenza del mio anelare,
dimmi, dove dunque conduce la tua corsa?)[1]


Londra, 11 dicembre 2001




La neve pareva volersi accanire sulla capitale inglese, quell’inverno, quasi che vi fosse una misteriosa volontà di ricoprire Londra di una sottile coltre bianca.
Harry osservava, rintanato in un bar Babbano, i fiocchi candidi precipitare al suolo e, per qualche strana ragione, gli rammentarono la pioggia che aveva colpito il suo ombrello in giorno in cui si era recato a Spinner’s End. Forse quel pensiero gli era balzato alla mente perché, da allora, si tormentava in proposito, chiedendosi sempre più spesso se non fosse il caso di fare un nuovo tentativo.
«Sembri distante», constatò Hermione, che gli sedeva di fronte, osservandolo con attenzione. «Qualcosa ti preoccupa?»
Harry quasi sobbalzò. Perso com’era nel suo rimuginare, si era quasi dimenticato della presenza della ragazza, dall’altra parte del tavolino.
«Sono andato a casa di Piton, otto giorni fa.»
Hermione rimase a lungo in silenzio. Le pareva strano che l’amico non gliene avesse parlato prima. Forse era accaduto qualcosa che Harry doveva ancora del tutto assorbire mentalmente, oppure era qualcosa di quello che si erano detti ad angustiare il giovane. Lo osservò per qualche istante, aspettandosi che aggiungesse qualcosa; invece, nemmeno una parola uscì dalle sue labbra. Al contrario, pareva che evitasse volutamente di guardarla.
«E cosa ti ha detto?» domandò, quindi, infine, anche se forse quella non era la domanda migliore.
«Non c’era o, meglio, non ha aperto alla porta.» affermò il giovane, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
Hermione stette ancora una volta in silenzio, riflettendo con attenzione, anche se le parole dell’amico non davano la possibilità di formulare molte ipotesi. D’altro canto, in quel momento comprendeva meglio il lungo silenzio di Harry sull’argomento. Probabilmente non era così sicuro come appariva di quello che era accaduto. Forse non sapeva nemmeno se il professor Piton era veramente assente o se era piuttosto rintanato da qualche parte in casa.
«Intendi dire che, nonostante la sua palese presenza, non ti ha aperto nemmeno per dirti che non voleva essere scocciato da te?» domandò, cercando di comprendere se le sue ipotesi potessero avere un qualche fondamento.
«Non so se era o non era in casa», ammise il giovane, fissando con attenzione la tazza da tè che gli stava di fronte. «Ho bussato e nessuno ha aperto. Ricordo che pioveva ed il cielo era scuro. Ho pensato che non dovesse essere in casa, perché non v’erano luci ad illuminare le finestre. Ma, d’altronde, ed è la cosa più probabile, poteva benissimo trovarsi in una stanza sul retro e non aver voluto aprirmi.»
«Forse vedi tutto sotto una luce peggiore di quanto non sia realmente, Harry», affermò Hermione, dopo aver sorbito un po’ di tè. «So che deve esserti costato molto andare fino a casa del professor Piton e cercare un confronto diretto. D’altronde, però, non puoi sapere, a priori, che sia più probabile che egli fosse in casa, in una stanza sul retro, e che non ti sia venuto ad aprire. In fondo, per quel che possiamo ipotizzare, poteva veramente essere assente. Forse se farai un nuovo tentativo, nei prossimi giorni, egli stesso verrà ad aprire alla porta.»
«Quello che non capisco, Hermione, è dove mai possa essere andato», ribatté Harry, riportando lo sguardo sulla neve, quasi che questa conoscesse la risposta alla sua domanda. «Da quel che posso aver compreso, è da quando è stato dimesso dal San Mungo che nessuno lo vede nel Mondo Magico e dubito fortemente che possa recarsi tra i Babbani.»
«Eppure, compie delle ricerche in campo pozionistico, da quel so. Quindi, per forza di cose, anche solo per la scelta degli ingredienti deve uscire di casa. Oppure può essersi assentato per qualsiasi altro motivo a cui tu non hai pensato, anche solo una visita di controllo», disse Hermione, cercando di formulare ipotesi che potessero avere una certa logica.
«Non sai quanto vorrei che fosse come sostieni tu, ma non posso non avere il dubbio che si sia espressamente rifiutato di aprire quando ha notato che ero io a bussare», mormorò Harry, portandosi alle labbra la tazza di tè, ormai tiepido. «Ed ammetto di aver paura a tornare a in quella via nei prossimi giorni, paura che possa ancora trovare una porta chiusa davanti.»
Il ragazzo tacque, ingollando un sorso della bevanda, poi osservò la neve che continuava a cadere. Gli parve, per qualche istante, che quei fiocchi bianchi lo stessero come fissando, quasi che loro sapessero perfettamente quale fosse l’anelito più intimo della sua anima, quasi che loro conoscessero perfettamente i suoi desideri.
Ed i suoi dubbi.
«Ti capisco perfettamente, Harry», affermò Hermione, rompendo il silenzio. «D’altro canto, però, sono certa che, alla fine, proprio com’è avvenuto questa volta, riuscirai a vincere la tua paura e a recarti a Spinner’s End. Hai fatto un primo passo e, conoscendoti, sono sicura che riuscirai a fare anche gli altri. L’ultima volta che abbiamo parlato del Professor Piton credevi di non poter fare nemmeno un tentativo per potergli parlare, invece sei andato a casa sua.»
«Ho agito d’impulso, quel giorno», disse il ragazzo, girandosi la tazza tra le mani. «Ma quando avrò ancora un simile impulso? Quando troverò di nuovo il coraggio di andare a Spinner’s End e tentare di parlare con lui? Ho una paura terribile, Hermione, di rimandare questa nuova visita così tanto da non averne più la possibilità, perché avrò tardato al punto che, allora, Piton sarà già morto da un pezzo, e sul serio questa volta. Sai, mi ero anche ripromesso quel giorno di tornarci ancora, ma non l’ho fatto, perché la paura ha preso il sopravvento. La verità, Hermione, è che ho il terrore di sbagliare tutto, quando lo vedrò… di mandare all’aria la mia unica occasione. Eppure, voglio parlargli. È qualcosa di cui sento un’assoluta necessità. Mi chiedo però quanto sia forte questa necessità. Se riuscirà mai a vincere la paura.»
«È già stata più forte una volta», disse Hermione, chiedendosi se le sue parole fossero realmente utili. «Perché non dovrebbero esserlo ancora?»
La neve scendeva lentamente al di fuori e Harry, osservandola, si chiese dove si sarebbero recati quei candidi fiocchi il giorno successivo. Sarebbero forse andati verso Spinner’s End, imbiancando la casa di Piton e tutto lo squallore di quel luogo desolato? Sarebbero forse caduti, divenendone parte, nel corso d’acqua, lungo il quale Piton e sua madre avevano parlato quand’erano piccoli? Avrebbe mai potuto la neve portare con sé la sua volontà di vedere Piton? Avrebbe mai potuto portarlo con sé fino a Spinner’s End?
Erano domande e pensieri sciocchi, lo sapeva, ma, per qualche istante, gli diedero la certezza di poter riuscire a vincere la paura di bussare alla porta della casa di Piton, di riuscire, come sosteneva Hermione, a fare anche il passo successivo.
«Non lo so», ammise Harry, parlando dopo molto tempo.
E pronunciando quelle parole comprese che non sapeva veramente se ne sarebbe stato in grado o meno. Anche la certezza di pochi istanti prima era soltanto illusoria. Eppure, sapeva che avrebbe lottato con tutte le sue forze perché alla fine i suoi passi lo conducessero, ancora una volta – o quelle che erano necessarie – davanti a quella porta nello squallore di Spinner’s End.




Londra, 12 dicembre 2001



Quel mercoledì di dicembre, Gawain Ainsworth era particolarmente pensieroso. Gli sembrava che Rebecca fosse come malata o, per lo meno, rattristata da qualcosa, ma, quando l’aveva interrogata, la sera precedente, non aveva quasi aperto bocca. Ygraine si era fatta improvvisamente attenta alle sue domande e l’uomo, mentre finiva di sorbire il tè addolcito dal miele, che sperava gli avrebbe diminuito il mal di gola, che stava rendendo particolarmente insopportabile l’influenza, si chiese se la sorella non avesse qualcosa a che fare con la cupezza della figlia.
Sperava con tutto il cuore che la giovane non avesse cominciato a riempire la testa della bambina di storie scioccamente fantasiose, come già aveva iniziato a fare Tristan. L’uomo trasse un sospiro, scacciando il pensiero del fratello dalla mente. Era da quando si era suicidato, che Gawain faceva di tutto per evitare di concentrare le proprie riflessioni su Tristan, cosa che invece parevano rifuggire tutti gli altri, con la sola eccezione di Margaret. Anzi gli sembrava quasi che fossero tutti particolarmente volenterosi di nominarlo almeno una volta al giorno, quando la cosa migliore per la famiglia era semplicemente dimenticare.
«Spero che tu stia meglio, oggi», disse Ygraine entrando nel salotto dove il fratello era steso sul divano, intento a guardare un notiziario alla televisione.
«Non troppo per i miei gusti», rispose l’uomo. «Sai qualcosa di Rebecca che io non so? È successo per caso qualcosa mentre era con te domenica?»
«Nulla di straordinario», affermò la giovane, tenendosi sul vago.
Non voleva tradire la fiducia della nipote che le aveva chiesto di non dire nulla al padre, perché temeva che non vedesse di buon occhio il fatto che lei aveva rivolto la parola ad uno sconosciuto. E, se doveva essere sincera con sé stessa, doveva ammettere che Rebecca non aveva tutti i torti, considerando certe rigidità del fratello.
«Allora cos’ha, secondo te?» domandò l’uomo, osservando attentamente la sorella.
«Non ne ho idea. Forse, semplicemente, sta crescendo. Tra pochi mesi compirà nove anni e devi ammettere che è più matura degli altri bambini della sua età. Ci sono fatti che possono soltanto far crescere più in fretta e tu sai perfettamente quanto Rebecca fosse legata a Tristan.»
«Possibile che per ogni problema non sappiate far altro che parlare di Tristan? È più di un anno che è morto, Ygraine, e Rebecca non è che una bambina», sbottò l’uomo, irritato.
«È una bambina che ha sofferto, Gawain, come tutti noi e che soffre ancora per quel che è accaduto a nostro fratello, per quanto non conosca come siano andate realmente le cose. Per lei Tristan era anche un amico oltre che uno zio ed è ovvio che la sua morte l’abbia toccata terribilmente. Forse prima non aveva nemmeno mai compreso veramente cosa fosse la morte, poi improvvisamente suo zio non c’è stato più. Sono certa che Rebecca pensi spesso a lui, proprio come facciamo noi.»
«Sembri essere molto brava a giudicare mia figlia, quanto tu non sei quasi mai in Inghilterra, se non nei giorni o mesi in cui devi esibirti su qualche palcoscenico», ribatté l’uomo, con voce aspra. «Non eri qui nemmeno quando è morto Tristan e quattro giorni dopo il funerale sei tornata a Parigi per cantare qualche stupida opera.»
Ygraine non rispose per molto tempo, preferendo portare lo sguardo all’esterno, dove la neve cadeva fitta, come il giorno precedente. Le parole del fratello la colpirono come una pugnalata, forse perché portavano a galla sentimenti che, a volte, voleva mettere a tacere e celare alla sua stessa anima. Erano frasi, quelle di Gawain, fin troppo vere e dolorose.
Si chiese, illogicamente, se la neve sapesse dove conducessero i suoi desideri più intimi, il suo anelito più sincero e se la neve, portandola con sé, non avesse potuto renderli reali, conducendola là dove anelava essere. V’erano momenti in cui avrebbe voluto poter tornare indietro nel tempo ed essere, il giorno in cui il fratello era morto, a Londra e non sul palcoscenico dell’Opéra Bastille a Parigi, ma sapeva fin troppo bene che non era possibile e non sarebbe servito a nulla. Tristan avrebbe comunque rivolto contro di sé il coltello. Doveva tornare ancora più indietro, di anni forse, e riuscire a comprendere per tempo perché il fratello avesse scelto la via della morte. Ma quei pensieri non portavano da nessuna parte, avendo il solo risultato di accentuare il dolore che quella perdita aveva prodotto in lei.
Deglutì a vuoto prima di voltarsi verso Gawain che aveva gli occhi azzurri fissi su di lei.
«Non puoi nemmeno immaginare quanto avrei voluto essere qui, quanto avrei voluto non dover ripartire, ma non potevo rimanere», affermò infine. «È già stata una fortuna che il teatro abbia trovato due soprani per sostituirmi nelle due recite che ho cancellato, ma, se io non fossi tornata quattro giorni dopo il funerale, avrebbero dovuto annullare due delle tre opere che formano Trittico [2]. Erano disposti anche a farlo, ma, in tutta sincerità, non ho voluto deludere il pubblico, per quanto mi sentissi poco incline a cantare.»
«Il tuo prezioso pubblico avrebbe senz’altro compreso, Ygraine, anche se tu non avessi cantato», disse l’uomo, scuotendo il capo. «Si era appena ucciso tuo fratello.»
«Nessuno sapeva che Tristan era morto, a parte la direzione del teatro ed i miei colleghi», rispose la giovane, chiedendosi per quale motivo Gawain non avesse affrontato prima il discorso. «Per tutti gli altri ero semplicemente malata. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era ottenere degli applausi dettati dalla compassione. D’altronde anche tu e Margaret siete tornati al lavoro, quando io ho ripreso le recite a Parigi.»
Non aggiunse altro. Non disse nulla di quanto fosse stato difficile interpretare il ruolo di una suicida in Suor Angelica, quanto fosse stato tremendo dover evitare di piangere nel momento in cui si era portata, nel suo abito bianco da monaca, la coppa che avrebbe decretato, col suo miscuglio di erbe velenose, la morte del personaggio. Non voleva litigare con Gawain, non voleva che credesse che lei intendeva sminuire il dolore che sicuramente il fratello aveva provato.
Dal canto suo l’uomo non aggiunse altro, dicendosi che, con ogni probabilità aveva esagerato con la sorella, che, accusandola di essersene andata, stava soltanto tentando di non pensare alle parole più che sensate che Ygraine aveva speso per Rebecca. Forse non voleva ammettere che non si era accorto di quello che il suicidio di Tristan aveva rappresentato per la figlia. Oppure lo aveva turbato che ad accorgersene fosse stata proprio la sorella, così spesso lontana da casa. Per un breve istante lo attraversò il pensiero che, rovesciando su Ygraine quelle parole accusatrici, volesse in realtà evitare di pensare a quelle che potevano essere state le sue responsabilità nel suicidio del fratello.
«Devi uscire?» domandò improvvisamente, scacciando quei pensieri dalla mente, quando notò che la giovane donna stava prendendo in mano borsetta e giacca.
«Sì. Mi attende un’ora di prove con Jane», rispose soltanto Ygraine, evitando di guardare il fratello ed uscendo piuttosto rapidamente dalla porta.
Il suo ombrello fu presto imbiancato, mentre si dirigeva verso la fermata della metropolitana di Pimlico, osservando di tanto in tanto i fiocchi che scendevano fitti. Lanciò un’occhiata al tiglio di Bedford Square, i cui rami, appesantiti dalla neve, parevano volersi spezzare da un momento all’altro. In quel momento gli parvero ben sciocchi i pensieri di domenica, quando le era parso che quell’albero, ed altri della sua specie sparsi nei parchi di Londra, volesse chiamarla. Per un istante si chiese se quella sensazione fosse stata sostituita da un’altra, anch’essa illogica e assurda, una sensazione che la portava, come già era avvenuto nella casa del fratello, a chiedere alla neve dove conducesse la sua corsa, a chiedere a quegli ignari ed inanimati fiocchi bianchi se conoscessero il suo più intimo anelito.
Quando raggiunse la fermata della metropolitana, lasciò la neve alle sue spalle, mentre scendeva nel ventre della metropoli, ma, in superficie, Londra continuava ad imbiancarsi ed i fiocchi scendevano, attraversando ogni quartiere.
Anche oltre i vetri della Tate Britain erano perfettamente visibili, nel loro candore, per quanto Severus, immerso nella contemplazione di Sancta Lilias, sembrasse non vederli. Oppure li aveva sempre presenti e li trovava, come già era accaduto diverso tempo prima, totalmente stridenti con la sua anima che era tutto fuorché candida.
Eppure, v’era qualcosa in quella neve, che continuava a cadere imperterrita, che gli faceva credere che essa conoscesse l’anelito della sua anima. Era un pensiero sciocco, lo sapeva perfettamente, un pensiero forse dettato dalla desolazione della sua vita attuale e dal continuo sbilanciarsi di questa verso la sua vita passata, quasi che tutto il suo futuro non prevedesse altro che un continuo ripiombare nel passato.
Erano quelli, pensieri che si rincorrevano in maniera circolare e continua nella sua mente, simili, in fondo, al modo con cui i fiocchi turbinavano in tondo prima di giungere il suolo. V’era però qualcosa in quei fiocchi, forse proprio a causa del loro candore, che rappresentava in maniera terribile e precisa l’anelito a quel perdono che non sarebbe mai giunto.
Era come se vi fosse un netto contrasto tra quel biancore ed il nerume della sua anima.
Ed era in quel contrasto che emergeva l’anelito.
Molti avrebbero definito assurdo pensare che la neve potesse conoscere ciò che la mente di un uomo desiderava ardentemente, eppure gli pareva quasi che vi fosse una voce – una voce stranamente simile a quella della bambina che aveva compiuto inconsapevolmente una magia domenica – che gli confermava quel pensiero. E gli pareva che la neve continuasse a turbinare, conducendolo lungo il cammino che, una volta sopravvissuto quel giorno nella Stamberga Strillante, stava seguendo giorno dopo giorno, passo dopo passo.
Egli viveva in un eterno inverno e chi, meglio della neve, poteva essergli compagno di viaggio? V’era qualcosa di breve e fugace in una nevicata, proprio come era breve e fugace la vita. O com’era breve e fugace il suo presente costruito sul passato. Vissuto con la mente rivolta indietro, come chi guarda sempre all’inverno che è appena trascorso.
Ma il suo era un inverno senza fine.
Un inverno giustamente meritato.
Un inverno che si sarebbe concluso soltanto quando la morte l’avrebbe finalmente accolto.
Un inverno durante il quale il candore della neve – che fosse presente o meno fisicamente – avrebbe ricordato sempre ciò a cui anelava e che non poteva avere.
L’uomo portò definitivamente lo sguardo sui fiocchi candidi, abbandonando per un istante il volto di Sancta Lilias, ma gli pareva che Lily fosse presente anche nella neve, quasi che questa si divertisse a formarne il volto. E gli pareva che gli occhi di Silente, così come li aveva visti l’ultima volta, lo osservassero tra il turbinio. Era il passato che sorgeva, sempre e ovunque, in tutte le sue forme, a ricordargli quante colpe avesse commesse, quanto la sua anima fosse così lorda che nulla avrebbe potuto mondarla.
Non importava quanto vi anelasse.
Non importava nemmeno che la neve, sua compagna di viaggio, lo sapesse.
Non importava neanche quale cammino avrebbe preso la neve, perché il suo pareva stendersi davanti a lui all’infinito nel continuo ripetersi dei suoi pensieri.
In quel momento anche Ygraine osservava la neve, mentre cantava alcuni frammenti di Les Contes d’Hoffmann, chiedendosi quale fosse la strada che i bianchi fiocchi avrebbero intrapreso e se la neve, portandola con sé, avrebbe potuto mettere calma nei suoi pensieri.
Da un’altra parte della capitale, nella Londra magica, due occhi verdi osservavano, da dietro le lenti degli occhiali, la neve che cadeva fitta, domandandosi se mai questa gli avrebbe potuto indicare il cammino che l’avrebbe portato a parlare con Piton.



---

[1] Wilhelm Müller, Wasserflut (Flutti d‘acqua), vv. 9-10

[2] Ygraine canta i tre ruoli sopranili delle tre opere che formano il Trittico. Non sempre una cantante accetta di interpretare i tre personaggi, per questo parlo del fatto che avrebbe dovuto cancellare due delle tre opere, avendo il teatro trovato una sostituta per uno solo dei tre ruoli.
 
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Capitolo VII

Auf dem Flusse



Der du so lustig rauschtest,
du heller, wilder Fluss,
wie still bist du geworden,
gibst keinen Scheidegruß.

Mit harter, starrer Rinde
Hast du dich überdeckt,
liegst kalt und unbeweglich
im Sande ausgesteckt.[…]

Mein Herz, in diesem Bache
Erkennst du nun dein Bild?
Ob’s unter seiner Rinde
Wohl auch so reißen schwillt?

(Chiaro fiume vigoroso,
che scorri allegramente,
come taci, ora,
senza neanche un addio.
Ti sei ricoperto
di dura e rigida corazza ,
freddo e immobile giaci
disteso nel tuo letto [...]
Mio cuore, ti riconosci
ora in questo ruscello?
Forse anche sotto la sua
lastra di ghiaccio c'é tanta agitazione?)
[1]


Gran Bretagna, 13 dicembre 2001



Il ghiaccio ricopriva le vie di Spinner's End, rendendole scivolose ed infide, mentre un vento gelido sferzava le case, le persone e tutto quello che trovava sul suo cammino. Ad Harry parve che quello fosse il clima ideale per ciò che aveva in mente. Si aspettava, d’altronde, un'accoglienza fredda, come il ghiaccio che scricchiolava sotto le suole delle sue scarpe.
Per un istante pensò che sarebbe stato meglio tornare indietro e lasciare perdere tutto, per quanto sapesse che la sua unica possibilità di parlare con Piton era andare a bussare alla porta della sua casa. In fin dei conti, aveva già fatto un tentativo, era vero, ma questo non diminuiva la sua agitazione. Con ogni probabilità, se due giorni prima non avesse parlato con Hermione, non avrebbe nemmeno avuto il coraggio di recarsi a Spinner's End.
Deglutì a vuoto, quando si trovò di fronte alla casa dell'uomo.
Un colpo più forte di vento fece gemere una banderuola malconcia sulla dimora accanto. Harry rimase per diverso tempo ad osservarla, quasi questa potesse dargli il coraggio di cui aveva bisogno, poi bussò.
Attese trepidante che qualcuno venisse ad aprire, pregando che questa volta Piton arrivasse e, allo stesso tempo, che non arrivasse per poter così evitare l’incontro. Era un pensiero sciocco, si disse, ma non riusciva ad evitarselo e più il tempo passava, più la tensione aumentava.
Nessuno venne ad aprire.
Harry rimase a lungo, in quel luogo coperto di ghiaccio, a contemplare, in preda ai dubbi, l'uscio chiuso. Cosa doveva pensare e credere? Piton era forse in casa od era assente? Sospirò appena, formando alcune nuvolette con il fiato. Forse era stato un viaggio inutile.
Oppure no.
Per lo meno aveva dimostrato a sé stesso che poteva tornare nuovamente a Spinner's End e tentare ancora, di non essere un completo e totale vigliacco. Ma, allo stesso tempo, si sentiva sollevato al pensiero che Piton non si fosse presentato alla porta.
Tornò sui propri passi, ma, invece di portarsi nel luogo isolato in cui si era Materializzato, prese a vagare senza una meta precisa. Voleva riflettere, pensare, tentare di capire cosa sarebbe accaduto, quando avrebbe finalmente incontrato l'uomo. In fondo, Harry pensava che Piton non potesse essere per sempre assente dalla casa, sempre ammesso che così fosse veramente.
Sapeva cosa voleva dirgli, ma non il come. Con ogni probabilità, avrebbe detto ben poco.
O forse non sarebbe riuscito a parlare affatto. E non perché Piton gli avrebbe richiuso l’uscio in faccia, ma perché non ne sarebbe stato in grado.
Forse era stato un errore venire lì.
Il suo viaggio fino a Spinner’s End aumentava unicamente i suoi dubbi e le sue insicurezze. D’altronde sapeva che aveva almeno avuto di nuovo il coraggio di mettersi in marcia, di bussare alla porta di Piton.
Fu soltanto quando sentì il ghiaccio scricchiolare in maniera diversa sotto le sue scarpe che si rese conto di essersi spinto nei pressi di un boschetto, di essersi spinto in un luogo che aveva già visto nel Pensatoio dello studio di Silente, un luogo in cui, un tempo, si erano seduti a parlare sua mamma e Piton.
Riconobbe il fiume, anche se in quel momento era ghiacciato.
Riconobbe il luogo e, per un istante, gli parve di essere di nuovo immerso nei ricordi di Piton. Ma fu un pensiero breve, che lasciò il posto alla quiete più assoluta. Nessun rumore pareva turbare la solitudine del fiume ghiacciato, se non lo scricchiolio sotto le sue scarpe, quando si mosse.
Si guardò intorno, chiedendosi se Piton non potesse arrivare, in quel momento, o se non vi sarebbe giunto più tardi. Forse avrebbe potuto aspettarlo, si disse, facendo qualche altro passo verso la riva.
Osservando il fiume ghiacciato gli parve che quello fosse un pensiero sciocco. C’era qualcosa nella corazza dura e rigida che ricopriva il corso d’acqua che gli faceva comprendere che, fra tutte le possibilità che aveva di parlare con Piton, farsi trovare in quel luogo, un luogo così colmo di ricordi, era tutto tranne che una buona idea.
Eppure, rimase per qualche istante ancora immobile, ad osservare il ghiaccio che ricopriva il fiume. Gli pareva di riuscire a scorgere, sotto la coltre immobile, il tumulto del fiume, un tumulto ben simile alle sue incertezze e alle sue paure, ai suoi dubbi circa un possibile incontro con Piton, un tumulto che si portò dietro, quando si allontanò lentamente, facendo scricchiolare la corazza gelida, che ricopriva il terreno.
Il ghiaccio si stendeva, come un manto trasparente, su buona parte dell’Inghilterra, serpeggiando lungo il fiume, bloccandone lo scorrere, fino al punto della confluenza in un corso d’acqua più ampio, dove ne baciava solo le rive. Il ghiaccio ricopriva i campi e, a tratti, alcune piccole strade di campagna. Pareva sparire nel Norfolk, per poi riappropriarsi di Londra. I parchi erano sotto la sua presa e così era il cortile della Tate Britain.
Ygraine Ainsworth salì le scale, cosparse di sale grosso e ghiaia, il più in fretta possibile, ben felice di essere accolta dal calore del museo. L’ultima cosa che desiderava era presentarsi con un principio di raffreddamento alle prove che si sarebbero tenute di lì a poche ore. Se non avesse promesso a Rebecca di provare ad andare al museo quel giorno, in modo tale da poter rendere il fazzoletto all’uomo di Sancta Lilias – com’era giunta a chiamarlo, non sapendo com’altro riferirsi a lui -, non si sarebbe mossa dalla casa di suo fratello fino al momento di recarsi alla Royal Opera House.
La giovane rimase per qualche istante ferma, per abituarsi alla temperatura decisamente più calda, rispetto a quella gelida dell’esterno, poi si avviò verso il guardaroba. Si mosse con calma, quasi volesse posporre il momento dell’ingresso nella sala dei Preraffaeliti. In realtà non era affatto sicura che quell’uomo si trovasse in quella sala. Le sembrava abbastanza irrealistico che una persona passasse effettivamente tutti i suoi giorni davanti allo stesso quadro. Certo, l’aveva notato, seduto sempre nella stessa posizione già tre volte, ma questo non voleva dire assolutamente nulla.
Tristan, fosse stato ancora in vita, avrebbe detto che l’uomo di Sancta Lilias nascondeva un mistero e, con ogni probabilità, si disse Ygraine, quando entrò nella stanza, suo fratello avrebbe avuto ragione.
Lo vide subito, seduto davanti al quadro di Rossetti.
V’era qualcosa di strano in quella presenza. O forse non v’era nulla di straordinario, qualora lei avesse saputo per quale motivo l’uomo si trovasse davanti a quella tela. Il giovane soprano si guardò per qualche istante intorno, notando altri visitatori che vagavano lentamente per la stanza, forse in cerca di un riparo dal freddo pungente di quel giorno di dicembre.
Scuotendo leggermente il capo, si mosse rapidamente verso il divanetto e si sedette, poco distante dall’uomo. Prima di dire alcunché, frugò nella borsetta, dove, nascosto dietro lo spartito del secondo atto dei Contes d’Hoffmann, ritrovò il fazzoletto.
Al suo fianco, Severus avvertì vagamente un’altra presenza, seduta poco distante, ma non vi fece quasi caso, mentre la sua mente vagava in un susseguirsi di immagini dolorose. V’era qualcosa di molto simile al ghiaccio che circondava ogni cosa, al di fuori dal museo, in quel suo rimuginare, come se la sua vita fosse simile ad una lastra di ghiaccio, ferma ed immota, sotto la quale si susseguivano in maniera circolare, intrecciandosi come una rete inestricabile, colpe, rimorso, assenza di un possibile perdono.
Gli parve – per quanto fosse un pensiero totalmente irragionevole – che anche l’immagine di quella Lily che non era Lily fosse come congelata. Non era la sua immobilità a dargli quell’impressione, quanto piuttosto il suo atteggiamento, quel suo promettere un perdono che non sarebbe mai giunto.
In fondo, si disse, tutto il suo animo era circondato da un ghiaccio simile a quello che ricopriva l’Inghilterra, un ghiaccio che però non sarebbe sparito il giorno dopo, né tra un mese, né al momento del disgelo, né fra anni. Un ghiaccio che si sarebbe dissolto, forse, solo con la morte, quando questa sarebbe giunta, alla fine del suo cammino, un ghiaccio che tratteneva sotto di sé tutto il tumulto dei suoi pensieri concatenati, degli sguardi di persone morte da tempo, per causa sua, del lungo inseguirsi delle colpe e del rimorso, in quel cerchio, quasi perfetto, che era formato dai suoi pensieri.
Forse era per quello che la morte non l’aveva voluto nella Stamberga Strillante.
Forse lo scopo della sua sopravvivenza era unicamente da ricercarsi nel centuplicarsi del rimorso, nella completa consapevolezza che, nonostante tutto, non v’era possibilità di perdono, di un perdono che egli stesso non riusciva a darsi.
Si rendeva perfettamente conto, in quel momento, che il rimorso si era fatto più doloroso e pressante da che era finita la guerra. Nessun altro pensiero – nemmeno quello di riuscire a portare a termine quanto aveva da tempo promesso – si ergeva tra il suo animo e le sue colpe.
E questo lo immobilizzava, lo gelava, in un inverno senza fine.
«Signore», la voce di una donna gli arrivò confusa tra il susseguirsi dei suoi pensieri.
Per un istante gli parve che appartenesse ad uno degli spettri orribili del suo passato. Solo in un secondo momento riuscì a comprendere che era un suon ben più reale e vicino a lui. Si voltò incontrando il volto anonimo di una giovane donna.
«Le ho riportato il fazzoletto che ha prestato a mia nipote qualche giorno fa.»
Severus non disse una parola, portando lo sguardo sulla mano tesa della donna, che teneva il fazzoletto perfettamente stirato e piegato.
Ygraine distolse per un istante gli occhi dal volto dell’uomo, portando lo sguardo sul quadro che stava di fronte al divanetto. Fu in quel momento, fatto che al soprano parve strano, che le fu tolto il pezzo di stoffa dalle mani.
La giovane rimase per qualche istante in silenzio, chiedendosi cosa potesse celarsi dietro quella tela, dietro l’immagine di quella donna con il giglio in mano. Sapeva che era una domanda che non avrebbe mai trovato risposta. Con ogni probabilità non avrebbe più rivisto quell’uomo e, con il tempo, non avrebbe più pensato al mistero che celava. Per un istante si chiese cosa avrebbe potuto dire Tristan della questione, ma scacciò dalla mente il pensiero che portava con sé troppo dolore.
«Mia nipote mi ha pregato di darle questa lettera.» aggiunse Ygraine, porgendogli un foglio di carta a quadretti, che Rebecca le aveva dato quella mattina, mentre l’accompagnava a scuola, al posto di Margaret, che era dovuta andare al lavoro prima del solito.
«Sua nipote?» domandò l’uomo.
Ygraine si voltò verso di lui, ma non ne incontrò il volto che sembrava invece essere concentrato sul quadro di fronte a loro. C’era qualcosa di strano nel tono di voce del suo interlocutore – sempre che tale lo si potesse chiamare –, qualcosa che non riusciva a decifrare, per quanto volesse. Forse, in effetti, il gesto di Rebecca poteva risultare inusitato, ma a Ygraine sembrava che la bambina fosse rimasta colpita dall’uomo, forse unicamente perché si era mostrato gentile con lei, quando Rebecca non se lo aspettava, considerando il modo in cui quella donna le aveva urlato dietro.
«Sì, mia nipote. Rebecca avrebbe voluto ringraziarla di persona, ma è a scuola», rispose infine Ygraine.
Lasciò passare diversi istanti, in attesa di una risposta, poi, quando ormai le parve chiaro che non ve ne sarebbe stata una, posò il foglio accanto all’uomo. Sapeva che egli avrebbe potuto lasciarlo lì, sul divanetto perché fosse gettato dalla donna delle pulizie o da un inserviente del museo, ma non credeva fosse una buona idea forzare la mano. Lanciò un’occhiata all’orologio, poi si alzò di scatto. Il tempo era passato più in fretta di quanto non pensasse. O forse, era stata lei ad impiegare un tempo spropositato per compiere un gesto così semplice. Un altro tentennamento, qualche altra frase e sarebbe arrivata in ritardo alle prove.
«Arrivederci.» disse, prima di camminare rapidamente verso l’uscita.
Il ticchettio delle scarpe della donna risuonò per qualche istante nella stanza, riportandola, poi, al silenzio, interrotto dal commento rapido di qualche visitatore.
Severus rimase a lungo immobile, gli occhi fissi su Sancta Lilias. Sapeva che accanto a lui giaceva il foglio che la donna aveva lasciato prima di andarsene. Eppure, non fece l’atto di prenderlo in mano. V’era qualcosa di strano in tutta quella conversazione – sempre che così la si potesse chiamare -, qualcosa di indefinito. Per un istante l’errare dei suoi pensieri si era bloccato, quando la zia della bambina, che gli aveva ricordato Lily, gli aveva porto il foglio.
Nei giorni che avevano separato l’incontro con Rebecca e la restituzione del fazzoletto aveva quasi dimenticato l’episodio, che era rimasto come un eco debole nella sua mente, nascosto forse sotto il ghiaccio del suo eterno inverno. Non si era nemmeno fatto presente e vivo quando la donna gli aveva parlato la prima volta quel giorno. Riprendere il fazzoletto era stato un gesto quanto mai meccanico, così come naturale gli era parso il suo silenzio. Quanto ai suoi pensieri erano ancora immersi nel suo passato, nel suo rimuginare senza fine, nel suo ritornare ogni volta da Lily a Silente, da Silente ad altre colpe, da quelle colpe all’anelito di perdono, dall’anelito di perdono alla consapevolezza che questo non sarebbe mai arrivato, da questa consapevolezza a Lily, in un cerchio che pareva non aver fine, nel suo tumultuoso turbinare sotto il ghiaccio del suo inverno.
Per un istante gli era parso che quello strato gelido si scalfisse, spezzato da quelle parole così normali, quanto allo stesso tempo così lontane da ciò che era la norma nella sua vita. C’era qualcosa di strano nel fatto che una bambina sconosciuta sentisse l’esigenza di scrivergli una lettera per ringraziarlo, stando alle parole della donna.
O forse non v’era nulla di strano, considerando che né la bambina, né la zia sapevano quanto lorda fosse la sua anima. Per un istante aveva creduto di vedere in quel foglio di carta, che ancora giaceva al suo fianco, una voce che gli diceva che il perdono poteva essere possibile, ma ovviamente così non era perché per egli non v’era, giustamente, possibilità di perdono.
Non v’era uscita dall’inverno che attanagliava la sua anima.
Non v’era nulla che potesse rompere il ghiaccio e scioglierlo.
Non v’era disgelo per lui.
Non v’era nessuna possibilità che il sole, con la sua luce abbagliante e benigna, potesse un giorno scalfire l’inverno della sua anima, perché quello avrebbe significato che il suo anelito sarebbe stato raggiunto e Severus sapeva bene che il suo sarebbe stato un eterno anelare senza mai giungere alla meta.
Non importava che quella bambina gli avesse scritto una lettera, in cui v’era una parvenza di normalità, di una vita comune che egli non meritava.
L’uomo era consapevole di quale potesse essere il suo futuro, quel futuro sempre volto al passato che contraddistingueva il suo presente. Eppure, nonostante quella consapevolezza ben ferma nel suo animo, prese in mano il foglio e se lo infilò in tasca, senza guardarlo, né leggerlo.
Per quello ci sarebbe stato tempo dopo, forse.
Per un istante lanciò uno sguardo oltre le finestre, sul grigiore del crepuscolo di quel giorno di dicembre, un grigiore gelato ed immobile come i suoi pensieri.
Un grigiore che si affacciava sul ghiaccio che ricopriva la città, un ghiaccio scivoloso ed infido, che pareva intrappolare foglie morte da tempo, piccoli insetti che non avevano resistito all’insolito rigore di quell’inverno londinese, un ghiaccio che si estendeva dal museo fino al cortile di una scuola.
Rebecca era in piedi nel cortile ricoperto di ghiaccio, a fissare una piccola coccinella intrappolata in una lastra che non era stata intaccata dal sale grosso e dalla ghiaia sparsa dal personale della scuola. La maestra le stava parlando, ma la bambina era troppo intenta ad osservare il piccolo insetto. Si chiese se fosse morto oppure se, per qualche miracolo, fosse ancora vivo, in attesa che il ghiaccio si sciogliesse. Rebecca sapeva che avrebbe dovuto ascoltare la maestra che, con ogni probabilità, le stava dicendo di rientrare, mentre aspettava l’arrivo della mamma, ma non riusciva a smettere di pensare che sarebbe stato un peccato che quella coccinella morisse perché il ghiaccio non si scioglieva intorno a lei.
Forse era un pensiero sciocco, si disse la bambina.
Suo padre avrebbe sicuramente detto che lo era. Lo zio Tristan sarebbe stato d’accordo con lei, ma lo zio Tristan non c’era più e non le avrebbe raccontato una storia avventurosa in cui la coccinella riusciva a liberarsi dal ghiaccio, grazie all’intervento di una fata buona o di una strega distratta, per poi volare via, con i suoi segreti.
Forse era perché le sembrava che quella fosse una storia che lo zio avrebbe apprezzato, che Rebecca prese a desiderare con tutte le sue forze che il ghiaccio di sciogliesse e la coccinella potesse essere libera.
La maestra, accanto a lei, smise di parlare. Le pareva chiaro che Rebecca non la stesse ascoltando. V’erano dei momenti in cui quella bambina le sembrava persa in un mondo che solo lei poteva comprendere. Sapeva che, con ogni probabilità, questo era dovuto alla morte dello zio. Ricordava ancora il colloquio con i signori Ainsworth, pochi giorni dopo la morte dell’uomo. Si era decisamente preoccupata per la sua allieva ed aveva notato che era cambiata, si era fatta più matura, più silenziosa. Ed erano apparsi quei momenti in cui Rebecca pareva estraniarsi dalla realtà, in cui si perdeva nei suoi pensieri. Aveva sempre trovato che la bambina fosse dotata di una grande dose di fantasia, ma, in quei momenti, la donna temeva che fosse il dolore per la perdita dello zio a farla vagare in un altrove a tutti sconosciuto, un dolore che pareva non averla abbandonata a più di un anno di distanza.
«La coccinella si è liberata» mormorò Rebecca, parlando più a sé stessa che non alla maestra.
Si accucciò, facendo un passo in avanti, bagnandosi le scarpe, per osservare l’animaletto, rendendosi conto che era morto, forse già da tempo.
Tentò di non domandarsi come il ghiaccio potesse essersi sciolto, proprio in quel punto.
Non voleva.
Eppure, non poteva evitarselo.
«Mi scusi, signorina Bernard», la voce della mamma fece sobbalzare Rebecca, che si allontanò velocemente dalla pozzanghera, schizzandosi con l’acqua gelida. «La metropolitana era in ritardo.»
Rebecca non ascoltò la risposta della maestra, limitandosi ad osservare la madre. Sapeva che non sarebbe stata affatto contenta dell’acqua che le bagnava le scarpe e le calze pesanti. E le parole che Margaret le disse, non appena furono in strada, provarono che i suoi timori erano più che fondati.
«Come ti sei bagnata?» domandò la donna, cercando di non risultare troppo brusca. V’erano però momenti in cui Rebecca le faceva perdere la pazienza o, forse, temeva che la figlia le rifilasse una spiegazione improbabile, che sarebbe stata bene sulla bocca di Tristan. Era quello che la preoccupava. Non voleva che la bambina avesse l’animo simile al cognato, che, tra qualche anno, finisse come lui.
«Il ghiaccio si è sciolto, poco fa», rispose solamente Rebecca, senza far cenno alla coccinella intrappolata, né al fatto che credeva di aver qualcosa di strano, per quanto non volesse pensarci.
«Sicura?» domandò la donna, perplessa. «C’è troppo freddo perché il ghiaccio possa sciogliersi.»
«Ma è come dico io, mamma. C’era anche la maestra», protestò Rebecca, chiedendosi se non fosse meglio inventarsi che si era bagnata giocando con i suoi amici.
La bambina si sentì decisamente sollevata quando la donna non aggiunse altro. Forse avrebbe dovuto dire alla mamma o al papà che credeva che le stesse accadendo qualcosa di strana. O di essere strana lei. Ma aveva paura della loro reazione. Oppure aveva paura di sapere la verità.
O forse aveva semplicemente paura, senza una ragione.
Era da quel giorno al museo, quando quella signora l’aveva accusata di aver colorato alcuni fiori del suo vestito, che Rebecca non riusciva a pensare ad altro.
Quella volta aveva pensato che alcuni fiori di un’altra tonalità di blu sarebbero stati meglio sul vestito. Ed alcuni fiori avevano cambiato colore. Poco prima aveva desiderato con tutta sé stessa che la coccinella venisse liberata dal ghiaccio e il ghiaccio si era sciolto. Non poteva essere un caso. Doveva avere qualcosa di strano. O forse aveva ragione papà quando le diceva che doveva fantasticare meno?
Però lo zio, che aveva una fantasia enorme, non aveva mai detto di aver fatto sciogliere il ghiaccio perché lo desiderava tanto.
Rebecca si voltò un attimo verso la mamma, chiedendosi se dovesse parlare con lei delle cose strane che le capitavano.
Ma non disse nulla.
In fondo la mamma non credeva nemmeno che il ghiaccio si fosse sciolto, di certo non avrebbe creduto che l’avesse sciolto lei. Forse avrebbe potuto parlarne con la zia. Era certa che lei l’avrebbe rassicurata. Oppure avrebbe pensato che avesse una qualche malattia.
La bambina osservò per qualche istante il ghiaccio che stava sul marciapiede, chiedendosi se lì vi potesse essere una risposta. Ma era un pensiero veramente sciocco, si disse, anche se c’era qualcosa in quel ghiaccio che le piaceva.
Forse perché il ghiaccio conosceva il suo segreto – qualunque questo fosse – e non le diceva che era strana.
Madre e figlia continuarono ad avanzare per qualche altro minuto, prima di fermarsi davanti alla porta d’ingresso della loro casa, lasciando fuori il freddo ed il ghiaccio, che si stendeva su tutta l’Inghilterra, ricoprendo la campagna, imprigionando l’acqua dei fiumi, le strade e le case. Tutto era serrato in una morsa gelida dalla capitale a York, da Norwich alle cittadine industriali, immerse nel grigiore. Spinner’s End non faceva eccezione ed il ghiaccio riluceva alla luce scarsa dei lampioni. E riluceva sul fiume poco distante, illuminato malamente da una quasi invisibile falce di luna e da alcune pallide stelle.
Una figura scura, nell’oscurità della notte invernale, osservava il fiume ed il ghiaccio che lo ricopriva. Come poco prima al museo, a Severus parve che quella coltre gelida, che intrappolava sotto di sé il tumulto del fiume, fosse simile alla sua vita, al suo cuore. V’era un’immobilità ghiacciata nella fissità dei suoi pensieri, fissità che nascondeva il tumulto del loro rincorrersi e vorticare, nell’emergere dei ricordi, del rimorso e delle colpe.
La sua vita era semplicemente uguale all’inverno che attanagliava l’Inghilterra, un inverno che sarebbe scomparso per dare spazio alla primavera, per poi ritornare dopo l’autunno. Invece nulla avrebbe dissolto il suo inverno, nessun vento primaverile avrebbe sciolto il ghiaccio che lo immobilizzava nel suo rimuginare, nel suo anelito mai soddisfatto, nel suo guardarsi sempre indietro.
Un tempo quel fiume gli era parso vivace, un allegro accompagnamento alle giornate trascorse con Lily, lungo le sue rive. Ed insieme avevano osservato l’acqua ghiacciata, come quell’inverno, durante le vacanze di Natale del primo anno, in cui Lily aveva inciso il suo nome sul ghiaccio. Durante la notte dell’ultimo giorno di vacanza, era andato ad aggiungervi il suo.
Il disgelo aveva portato con sé i nomi, quasi profeta del giorno in cui avrebbe perso l’amicizia di Lily, profeta del giorno in cui l’avrebbe persa per sempre.
Quel fiume era di nuovo ghiacciato. Ma per Severus era ghiacciato da anni, da anni non vedeva il disgelo. Forse era ghiacciato da sempre, da quando era nato. Oppure si era ghiacciato quando aveva chiamato Lily Sanguesporco. O si era ghiacciato quando aveva preso il Marchio Nero. O quando era morta Lily.
Comunque fosse, era da anni che era ricoperto di quel ghiaccio che ricopriva anche la sua anima.
Da anni era immerso in quell’inverno che non avrebbe mai avuto fine.
L’uomo lanciò un’ultima occhiata al fiume ghiacciato, poi si mise a camminare, facendo scricchiolare il ghiaccio che ricopriva il suolo. Il freddo di quel tredici dicembre lo investì con intensità, ma Severus parve non farci caso, mentre infilava una mano in tasca, ritrovando il foglio di carta che aveva preso al museo. La lettera di quella bambina che l’aveva guardato, qualche giorno prima, con una fiducia che sapeva di non meritare.
Quando fu in casa, dopo aver acceso alcune candele con un colpo di bacchetta, estrasse il foglio a quadretti, come quelli che aveva usato anche lui nella scuola Babbana dov’era andato da bambino, e lo spiegò.
Caro signore,
spero che la zia si ricordi di darle questa lettera.
La ringrazio ancora per domenica. Vorrei ridarle il fazzoletto di persona, ma sono a scuola. La ringrazio, quindi, via lettera. La maestra ci ha spiegato come fare. So che non è una lettera come si deve, come quelle che si scrivono nei racconti, ma spero basti.
Grazie ancora,
Rebecca.

C’era un’innocenza assoluta in quelle poche parole, scritte con cura, un candore che a lui non era mai appartenuto.
E non sarebbe mai appartenuto, perché la sua anima era irrimediabilmente lordata dal sangue che aveva versato, dalle colpe che aveva commesso, dalle scelte che aveva compiuto. Lasciò cadere il foglio sul tavolo, senza seguirne con gli occhi il volteggio.
Gli parve che in quella lettera vi fosse ciò che c’era nel volto di Sancta Lilias, ciò che aveva intravisto, per un istante, nelle poche parole che la zia della bambina gli aveva rivolto quel pomeriggio.
La promessa di un perdono che non sarebbe mai arrivato, la promessa della primavera che non avrebbe mai portato il disgelo nella sua anima, perché egli sapeva che non vi sarebbe stato alcun vento primaverile a calmare le tempeste invernali, perché egli sapeva che non avrebbe mai meritato il perdono, non importava quanto vi anelasse.

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[1]Wilhelm Müller, Aus dem Flusse (sul fiume), vv. 1-8; 17-20

 
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Capitolo VIII

Rückblick



Es brennt mir unter beiden Sohlen,
Tret' ich auch schon auf Eis und Schnee,
Ich möcht' nicht wieder Atem holen,
Bis ich nicht mehr die Türme seh'.

Hab' mich an jeden Stein gestoßen,
So eilt' ich zu der Stadt hinaus;
Die Krähen warfen Bäll' und Schloßen
Auf meinen Hut von jedem Haus. […]

Kommt mir der Tag in die Gedanken,
Möcht' ich noch einmal rückwärts seh'n. […]

(Mi brucia sotto i piedi,
cammino già su ghiaccio e neve,
non voglio riprendere fiato,
fin che non veda più le torri.

Ho sbattuto su ogni sasso,
affrettandomi fuori dalla città;
le cornacchie gettavano sporcizia e grandine
sul mio cappello da ogni casa. […]

Se mi viene in mente il giorno,
voglio ancora una volta guardare indietro. […]) [1]


Londra, 21 dicembre 2001


Un ultimo raggio di sole di quel venerdì [2] di dicembre penetrò all’interno del museo, sfiorando per un istante l’immagine di Sancta Lilias, posandosi sul giglio candido che teneva in mano. Severus fissò gli occhi su quel punto, sul candore di quel fiore che tanto contrastava con la lordura della sua anima, che si rifletteva dal suo passato e si proiettava nel suo futuro.
Ogni giorno arrivava al museo, ogni giorno se ne allontanava per ritornare a Spinner’s End. Ogni giorno rifletteva e meditava davanti a quell’immagine immobile, a quella Lily che non era Lily, ma che gli ricordava ciò che era stato, le sue colpe, le sue scelte. Richiamava con sé, come in quel momento, in cui all’esterno iniziava a calare la sera, ricordi, immagini ben vivide di quello che era stato, di quello che egli aveva compiuto, macchiandosi per sempre l’anima.
Ogni giorno portava con sé il voltarsi indietro, l’impossibilità di vedere altro nel suo futuro, se non un continuo sguardo volto al passato, a quel passato che non poteva dimenticare, che non voleva dimenticare. Era una riflessione tormentosa e dolorosa, una riflessione necessaria, perché il tormento faceva parte della sua anima, giusta ricompensa per quelle colpe incancellabili.
Lo scorrere dei suoi pensieri, il ritornare sempre verso i ricordi, quasi non gli permise di notare che gli addetti del museo stavano posizionando delle sedie nel centro della sala, se non quando registrò il rumore. O forse ricordò di aver visto un pianoforte in un angolo della sala. Sapeva che alcuni venerdì, quando il museo chiudeva più tardi, alle volte venivano organizzati dei concerti. Ma quella era la prima volta che accadeva in quella sala. [3]
Rimase ancora per qualche istante a fissare davanti a sé, osservando il volto chino di Sancta Lilias e la sua promessa di un perdono che non sarebbe mai arrivato, poi si alzò in piedi, allontanandosi dal quadro.
Aveva quasi raggiunto la porta della sala, quando una voce lo fermò. Forse non si sarebbe voltato, se non avesse riconosciuto la voce della bambina che gli aveva scritto la lettera.
«Signore, scusi.» Rebecca rimase immobile, chiedendosi se non fosse stata terribilmente maleducata a chiamare così l’uomo. Forse sua zia si sarebbe arrabbiata con lei, perché non era rimasta accanto al pianoforte, come le aveva detto. Ma aveva visto il signore che le aveva prestato il fazzoletto e le sembrava brutto non salutarlo. Solo quando l’uomo si voltò, si disse che aveva fatto bene a fermarlo. «Volevo ringraziarla di persona.»
Severus si ritrovò a fissare nuovamente gli occhi pieni di fiducia ed innocenza della bambina, quell’innocenza che traspirava dalla lettera che gli aveva fatto dare dalla zia. Era un’innocenza che pareva scontrarsi in maniera assoluta con le sue colpe, con l’innocenza che lui non aveva mai avuto, nemmeno quando aveva l’età di Rebecca.
«Si fermerà al concerto?» domandò la bambina, rompendo un silenzio che le sembrava si stesse prolungando da troppo tempo. Forse non avrebbe dovuto, si disse subito dopo. I suoi genitori le avevano insegnato che essere insistenti non era affatto educato.
«Per quale motivo dovrei fermarmi al concerto?» chiese Severus, continuando a fissare gli occhi della bambina, che in quel momento si fecero leggermente perplessi, quasi fosse in cerca di una risposta sensata da dargli. C’era qualcosa di strano in quello che aveva aggiunto la bambina dopo averlo ringraziando nuovamente, un ringraziamento che di certo non meritava tanta fatica.
«Mi farebbe piacere se lei si fermasse.» rispose Rebecca, sperando di non aver fatto qualche errore nel formulare la frase. Suo nonno ne sarebbe stato terribilmente deluso, considerando che aveva passato diverso tempo ad insegnarle come rivolgersi gentilmente ed educatamente a qualcuno.
Severus non disse nulla per diverso tempo. Gli occhi della bambina parevano fissarlo, adesso, con quell’estrema fiducia che già gli aveva rivolto quando gli aveva chiesto il fazzoletto, una fiducia che sarebbe scomparsa, ne era certo, se Rebecca avesse saputo la verità su di lui.
Una fiducia che non meritava, ancor più considerando l’innocenza di quella bambina.
Distolse per qualche istante lo sguardo da Rebecca, portandolo su Sancta Lilias, ora lontana, sulla parete opposta della sala. Eppure, anche a quella distanza, credeva di vederne gli occhi verdi inclinati verso terra, di distinguerne il volto colmo di una promessa irrealizzabile. La bambina, si accorse, quando tornò a fissarla, era ancora davanti a lui, in attesa. Si era aspettato che si stancasse di attendere, oppure che insistesse insopportabilmente, invece stava soltanto aspettando la sua decisione.
Forse, fermandosi, avrebbe avuto, per qualche breve istante, un momento in cui i ricordi non sarebbero giunti in massa a gridargli le sue colpe imperdonabili. Oppure la musica avrebbe avuto su di lui lo stesso effetto di quella volta che, camminando, gli erano giunte delle parole in francese che gli aveva parlato della morte di Silente e di Lily. Eppure la possibilità che, per qualche breve minuto, la sua mente potesse focalizzarsi sul presente, sull’adesso e non solo sul passato gli pareva alettante. Forse fu per quello che prese quella decisione. Forse fu per lo sguardo colmo di fiducia e attesa della bambina. Forse fu perché sperava invece che la musica gli permettesse di trovare nuove strade con le quali ripercorrere il suo passato.
«Mi fermerò.» disse soltanto.
Rebecca gli sorrise.
Accanto al pianoforte, Ygraine stava riguardando gli spartiti. Le pareva ancora strano che, proprio il giorno in cui era andata a rendere il fazzoletto all’uomo di Sancta Lilias, il direttore del museo le avesse chiesto di incontrarlo per proporle un concerto quel venerdì. Aveva ovviamente accettato e Rebecca l’aveva facilmente convinta a portarla con sé. Era stato più difficoltoso convincere Gawain e Margaret, ma, alla fine, si erano arresi all’entusiasmo della figlia. Alle volte il fratello e la cognata parevano essere diffidenti nei confronti della musica, quasi che potesse aumentare l’abitudine a fantasticare della bambina.
«Dov’è Rebecca?» domandò Jane, che aveva alzato il capo da uno degli spartiti che stava sistemando.
Ygraine si guardò intorno e notò subito sua nipote, ferma poco distante dalla porta, davanti all’uomo di Sancta Lilias. Li osservò per qualche istante, notando che la bambina stava indicando le sedie disposte al centro della sala, dove già qualche visitatore si stava sedendo.
«Sta andando a sedersi.» rispose soltanto la donna, senza aggiungere altro, tornando ad aiutare Jane con gli spartiti.
La pianista lanciò una rapida occhiata a Rebecca e notò l’uomo che si stava sedendo accanto a lei.
«Conosci quell’uomo?» domandò Jane, voltandosi verso Ygraine.
«Sì.» rispose soltanto la giovane, senza aggiungere altro. L’ultima cosa che voleva era dover rispondere alle domande della sua pianista, che, per qualche strano caso, nonostante l’espressione perplessa, non commentò.
Ygraine non aveva intenzione di spiegare quello che era successo, forse perché Jane l’avrebbe redarguita, dicendole che non avrebbe mai dovuto lasciare Rebecca da sola con uno sconosciuto quella domenica, forse perché riteneva che quanto accaduto fosse qualcosa che riguardava unicamente lei, la nipote e l’uomo. Ed era certa, ancora una volta, che Jane avrebbe potuto darle della sciocca o dell’ingenua. V’erano momenti in cui la pianista assomigliava terribilmente a Gawain e la giovane sapeva perfettamente che, come quest’ultimo, nemmeno Jane avrebbe approvato.
Lanciò un’occhiata alla nipote e all’uomo, prima di posare gli spartiti, in perfetto ordine, sul leggio. Rebecca era silenziosa, così come lo sconosciuto. Ma, in fondo, Ygraine non gli aveva sentito pronunciare più di due frasi e non credeva che avesse detto molto di più alla nipote. V’era qualcosa in quel silenzio che le faceva credere quella fosse una persona degna di fiducia, una persona che non avrebbe mai fatto del male alla nipote.
Il tempo parve passare lentamente, mentre gli addetti del museo posavano sulle sedie, o distribuivano, i fogli con il programma e le traduzioni di Lieder ed arie. Severus osservò per qualche istante l’elenco di titoli in tedesco, italiano e francese che stavano sulla prima pagina. I pensieri che inondavano la sua mente e la sua anima continuavano a rincorrersi, un continuo sorgere di memorie, di colpa e rimorso. Un continuo susseguirsi di volti, di momenti del suo passato che pareva continuare a rivivere all’infinito. La bambina al suo fianco era silenziosa e tranquilla, cosa di cui era decisamente grato, e sembrava, in quel momento, immersa nella lettura dei testi di ciò che si sarebbe cantato.
Poi, improvvisamente, quando le sedie erano ormai state tutte occupate, alcune note echeggiarono al pianoforte.
E per un istante il circolo dei pensieri di Severus si bloccò, gelato dalla musica, mentre leggeva rapidamente il testo. Non v’era nulla di inquietante in quelle parole, nulla se non un racconto quieto di un amore infelice, nulla di disperato, nulla di sconvolgente, nulla che facesse sorgere ricordi. Forse per quel breve lasso di tempo la sua mente sarebbe stata sgombra dal rincorrersi dei suoi pensieri.

Scorrean i rivi tra le zolle in fior, [4]


Lily sedeva accanto al fiume, con lui.
Un tempo lontano, prima di andare ad Hogwarts. Prima di perderla. Quando ancora, forse, sperava.
Fu un lampo.
Rapido e baluginante, emerso dalla musica. Severus non riusciva a comprendere cosa potesse aver evocato quella breve immagine. Il testo non avrebbe dovuto farlo, non aveva nulla a che fare né con lui, né con Lily. Forse v’era qualcosa nella musica o nel canto, quella musica che assomigliava ad una nenia malinconica, una nenia che pareva lasciar emergere immagini di un tempo lontano. Non sapeva dirselo. Ma riusciva a rendersi perfettamente conto che, alla fine, i ricordi emergevano sempre, in un modo o nell’altro, perché di quello era fatto il suo presente.
Di un continuo voltarsi indietro.
Una breve pausa. Gli applausi. Poi un nuovo testo, letto velocemente. E di nuovo la musica e la voce.
Un altro testo apparentemente innocuo, che narrava una vecchia leggenda.

Es war ein König in Thule,
gar treu bis an das Grab,
dem sterbend Buhle
einem goldenen Becher gab
(C’era un re a Thule
Fedele fino alla tomba,
il suo amore, quando stava morendo,
gli donò una coppa d’oro) [5]


La foto di Lily. Un ricordo strappato.
Il quadro poco distante di lì.
Mentre il canto proseguiva, Severus si voltò verso Sancta Lilias, un falso ricordo di Lily, la Lily che non era Lily, ma che gli faceva aver davanti a sé Lily più di quanto non facesse la sua foto. Il canto continuava ad avvolgerlo, come i suoi ricordi. Gli pareva che, in quel canto malinconico, vi fosse impressa l’immagine di Lily. Il giorno in cui le aveva parlato per la prima volta. Il giorno in cui l’aveva persa. Il giorno in cui era morta. Il giorno in cui si era introdotto a Grimmauld Place ed aveva preso quella foto e quel pezzo di pergamena. Ogni giorno della sua vita in cui la ricordava, in cui l’amava.
Per sempre.
Come il re di quella vecchia leggenda.
Eppure, si disse, quando il canto tacque per qualche istante, v’era qualcosa di strano nel fatto che non fossero state nemmeno quella volta le parole ad evocare i ricordi, quanto la musica. Forse v’era qualcosa nelle note che riusciva ad evocare i ricordi, dando vita alle parole, parole che sulla carta sembravano lontane da lui.
Decisamente più colme di innocenza di quanto non fosse mai stato lui. Era così per le parole cantate da Desdemona – un’innocente -, così per la leggenda del re di Thule – un uomo buono, a quel che si poteva intuire -, così, immaginava per tutte le altre poesie.
Eppure i ricordi arrivavano, sempre, inesorabili.
Forse era unicamente perché egli viveva nel passato, più che nell’oggi ed il suo sguardo era rivolto allo ieri più che al domani.
Quando la musica ricominciò a risuonare, accompagnando altre parole che non avrebbero avuto nulla a che fare con lui e che, per una volta, non scatenarono una ridda di ricordi, si concentrò unicamente sul canto. Forse, si disse, i ricordi sorgevano così vivi perché la zia della bambina cantava in quella maniera.
Osservandola, in quel momento, gli parve che fosse un tutt’uno con il personaggio che stava interpretando, che, come Margherita [6], fosse in preda ad una dolce follia – una follia ben diversa da quella che poteva provocare una Cruciatus -, per quanto nulla nel suo atteggiamento lo facesse intuire. Era pressoché immobile davanti al leggio e, di tanto in tanto, sfogliava lo spartito.
Era unicamente la voce a dar vita alle parole, a renderle così vivide da farle andare al di là del loro semplice significato.

Wer reitet so spät durch Nacht und Wind?
(Chi cavalca così tardi nella notte e nel vento?) [7]


Il nuovo canto parve risucchiarlo in un vortice tempestoso. Era come se si trovasse nuovamente, sbattuto dal vento, di fronte a Silente. Era come se udisse nuovamente l’uomo dire «Tu mi disgusti.».
Un disgusto che lo investì in quel momento, mentre la musica si faceva più drammatica, incalzante, come lo incalzavano i suoi pensieri.

Du liebes Kind, komm, geh mit mir!
(Tu, caro fanciullo, vieni, vieni con me) [8]


Le parole del re degli elfi era falsamente affascinanti. La Magia Oscura era falsamente affascinante. Come la musica era cullante, così era cullante il male. Attraeva come il miele, come il miele aveva attratto lui, colmo di sete di sapere e di senso di rivalsa. Ne era rimasto invischiato.
Ma non v’era nulla di affascinante nell’uccidere. Non v’era nulla di dolce nel conoscere ciò che ne derivava.
Solo colpe e rimorso. Solo la consapevolezza di non poter più sperare nel perdono, perché aveva ceduto alle lusinghe della menzogna, una menzogna di cui forse era sempre stato consapevole e, alla quale, nonostante tutto, aveva voluto cedure.

Dem Vater grauset's, er reitet geschwind,
Er hält in Armen das ächzende Kind,
Erreicht den Hof mit Müh' und Not:
In seinen Armen das Kind war tot.
(Questo spaventa il padre, egli va al galoppo,
tiene tra le sue braccia il bambino che geme,
arriva nella corte con fatica e dolore.
Il bambino, nelle sue braccia, era morto.) [9]


Un padre stringeva il figlio morto. Assassinato. La morte raggiunse anche l’uomo.
Vittime che non era riuscito a salvare. Altro sangue che gli imbrattava le mani. Altre colpe che non avrebbero mai avuto perdono.
Il passato emergeva nella sua mente, con la stessa forza con cui la musica aveva evocato la cavalcata disperata del padre, che tentava di salvare inutilmente il figlio. E quella cavalcata disperata era diventata parte della sua vita, quella parte in cui non era riuscito a salvare gli innocenti. Quelle vite perdute che l’avevano reso ancora più colpevole, che avevano lordato sempre più la sua anima già nera.

Meine Ruh' ist hin,
Mein Herz ist schwer,
Ich finde sie nimmer
Und nimmermehr.
(La mia pace è perduta,
il mio cuore è pesante,
non la troverò mai
e mai più.) [10]


Mai.
Mai avrebbe trovato la pace. Da tempo era perduta. Da sempre forse, si disse Severus, mentre il canto continuava, per ritornare sempre a ripetere quelle parole, quelle parole che erano la sua vita.
Mai avrebbe trovato la pace, portata da un perdono che non poteva raggiungere, perché non v’era perdono per chi, come lui, aveva l’animo gravato da colpe terribili. Non esisteva alcuna possibilità di redenzione. Il perdono, promesso anche in quel momento da Sancta Lilias, gli sarebbe sfuggito per sempre, com’era giusto che fosse.
Non v’era pace nel suo cuore, in nessun momento, nemmeno quando sedeva accanto ad una bambina che lo fissava con occhi innocenti e fiduciosi, nemmeno quando ascoltava cantare testi che, per quel che narravano, nulla avrebbero dovuto avere a che fare con lui.
Eppure il passato emergeva sempre e costante.
Costante memoria delle colpe commesse, costante ricordo di ciò che egli aveva fatto della sua vita, una vita costruita dalle sue colpe, una vita vissuta nel rimorso, una vita in cui non vi sarebbe stata la pace, né il perdono.
Una vita in cui era straniero, in mezzo alla moltitudine.
Anche in quel momento, lì, tra quei Babbani, sapeva di essere solo nel suo cammino, un cammino che lo portava avanti, con lo sguardo volto sempre indietro, un cammino che si srotolava davanti a lui in pieno inverno. Era come se il suo viaggio fosse quello di un viandante che proseguiva sempre in un sentiero ricoperto di ghiaccio e neve, ma di un ghiaccio ed una neve brucianti, come le sue colpe, impresse a fuoco nella sua anima.

Dein Schwert, wie ist's von Blut so rot?
(La tua spada, perché è così rossa di sangue?) [11]


Le sue mani era lorde di sangue.
Davanti agli occhi di Severus parvero affastellarsi i volti di coloro che erano morti a causa sua. Non importava se li avesse uccisi lui personalmente o se non avesse potuto far nulla per salvarli. Era comunque sangue che insozzava le sue mani.
Il sangue di Charity Burbage, il sangue di tante vittime, il sangue di Lily, il sangue di Silente.
Era come se la disperazione di quella ballata, appena sussurrata dalla voce della cantante, diventasse la disperazione della sua vita, di quella vita priva di pace e priva di perdono. Quella vita macchiata per sempre.

Ich hab geschlagen meinen Vater tot!
(Ho battuto a morte mio padre!) [12]


Gli parve di essere nuovamente sulla torre di Astronomia. Si rivide alzare la bacchetta ed uccidere Silente.
Era come se il Museo fosse diventato Hogwarts, come se quella musica fosse stata presente, da qualche parte, in sottofondo, mentre egli toglieva la vita a chi era stato quanto di più simile ad un padre avesse mai avuto.
C’era qualcosa in quel canto che faceva emergere quei volti, qualcosa che gli faceva aver davanti gli occhi di Silente com’erano stati poco prima che morisse.

Der Fluch der Hölle soll auf euch ruhn
(Il cammino dell’Inferno devo sopportare) [13]


Davanti a lui non rimaneva che il cammino che doveva seguire, un cammino che doveva giustamente sopportare. Non gli rimaneva che un viaggio doloroso, un viaggio che l’avrebbe portato a immergersi sempre più nell’inverno gelido della sua anima.
Ed ancora una volta, per un istante, i volti delle sue vittime gli balenarono dinnanzi. Per un momento, poi il canto si dissolse, rimpiazzato dagli applausi.
Severus attese un nuovo canto, ma non venne.
Al suo fianco Rebecca si mosse leggermente sulla sedia e si voltò verso di lui. Le parve che l’uomo fosse rimasto immobile per tutto il tempo in cui sua zia aveva cantato. Ed anche in quel momento era fermo e non stava applaudendo.
Forse non gli era piaciuto. Oppure era troppo rapito dalla musica per muoversi. Era qualcosa che zio Tristan aveva detto spesso.
«Signore», la voce della bambina arrivò ovattata a Severus. I ricordi che la musica aveva evocato sfumarono sullo sfondo, senza però abbandonare la sua mente. L’uomo si voltò lentamente. «Le è piaciuto?»
C’era aspettativa sul volto di Rebecca, si accorse Severus, mentre intorno a loro, la gente si alzava in piedi e riprendeva a visitare il museo. Solo in quel momento si rese conto di non essersi adeguato alle circostanze. I ricordi l’avevano investito con una foga tale che gli era stato impossibile pensare ad altro. Oppure era stata l’attesa di un altro canto, di un altro fiotto ineluttabile di ricordi ad averlo staccato a tal punto dalla realtà? Non seppe darsi una risposta, mentre continuava a fissare la bambina.
«È stato intenso.» disse, infine, continuando a fissare Rebecca.
«Oh… è qualcosa che avrebbe detto zio Tristan.» si lasciò sfuggire la bambina, sorridendogli poi lievemente con fare di scusa.
Fu in quel momento che Ygraine raggiunse la nipote, fermandosi a breve distanza da lei, lanciando un’occhiata all’uomo di Sancta Lilias. La giovane aveva unicamente udito le ultime parole di Rebecca e avrebbe voluto non farlo. Ricordava perfettamente il giorno in cui aveva cantato il suo primo recital ed il gli incoraggiamenti del fratello. E le sue parole subito dopo il concerto. Scacciò rapidamente il pensiero dalla mente, cercando di concentrarsi sulla situazione.
«Rebecca, è quasi ora di andare», decise di dire, dopo aver tentato di formulare qualche parola da rivolgere all’uomo, parole che, però le parevano sempre sciocche ed inappropriate. Preferì rivolgergli un lieve sorriso di ringraziamento per aver assistito al concerto.
«Di già?» mormorò la bambina, lanciando un’occhiata alla zia.
«Mamma e papà ti aspettano e…» Ygraine si interruppe di colpo. Era certa che sua cognata stesse già brontolando con Gawain perché il concerto era durato troppo a lungo. Amava Margaret e suo fratello, ma sapeva che un qualsiasi turbamento della loro routine sembrava renderli nervosi, quasi che non sopportassero l’imprevisto. Forse era perché il fratello maggiore non aveva mai amato la vita che avevano condotto da bambini, seguendo il padre da una biblioteca all’altra. Forse era per il suo continuo girovagare da un teatro all’altro che Gawain pareva non approvare veramente la sua carriera. E Margaret era decisamente simile al marito. D’altro canto, però, non voleva far presente la questione a Rebecca, né men che meno all’uomo di Sancta Lilias. «Signore, sono felice di averla vista al concerto.» decise, infine di dire, dicendosi che, forse, quel sorriso di ringraziamento non era stato notato o, piuttosto, non era bastante.
Severus si era accorto del sorriso della giovane donna, un sorriso così simile a quello della nipote.
Un sorriso innocente rivolto ad un colpevole.
Un sorriso che sapeva di non meritare affatto.
Un sorriso che contrastava terribilmente con le sue colpe.
Un sorriso che si sarebbe spento se quella donna avesse saputo che aveva permesso alla nipote di sedersi accanto ad un assassino. Così come non avrebbe mai pronunciato quelle parole gentili, né sarebbe mai stata felice di vederlo ad un suo concerto.
«Scusi, sono di una maleducazione terribile…» la voce del soprano interruppe di colpo i pensieri dell’uomo «Ygraine Ainsworth.» si presentò, con un lieve sorriso «E mia nipote, Rebecca.»
L’uomo rimase per qualche istante in silenzio, osservando quel nuovo sorriso dell’innocenza, rivolto a chi l’innocenza l’aveva persa da così tanto tempo che, anche guardando indietro nel suo passato, non riusciva a trovare il giorno in cui l’aveva posseduta.
«Severus Piton.» disse soltanto, lanciando un’occhiata alla bambina che sembrava felice di aver conosciuto il suo nome.
Il nome di un assassino.

---

[1] Wilhelm Müller, Rückblick (sguardo indietro), vv. 1-8; 17-18.
[2] Come sempre i giorni della settimana sono dedotti dal calendario perpetuo.
[3] Il venerdì di ogni settimana la Tate Britain chiude effettivamente alle 22,00, così come vi sono effettivamente dei concerti nelle sale. Non ho la certezza assoluta che fosse così anche nel 2001, nel qual caso si tratta di una licenza poetica.
[4] Arrigo Boito, Otello, Atto IV, scena I. Si tratta di alcuni versi della canzone del salice cantata da Desdemona, nell’opera di Verdi.
[5] Wolfgang Goethe, Es war ein Koenig in Thule, vv. 1-4. Il Lied è stato musicato da Schubert.
[6] Si tratta della protagonista femminile di Mefisofele di Boito. L’aria che canta Ygraine è L’altra notte in fondo al mare, che vede Margherita (la Gretchen di Goethe) in carcere, pazza, dopo aver annegato il figlio avuto da Faust.
[7] Wolfgang Goethe, Erlokoenig (il re degli elfi), v. 1. Il testo è stato musicato da diversi compositori. Quello che canta Ygraine è la più celebre versione di Schubert.
[8] Wolfgang Goethe, Erlokoenig (il re degli elfi), v. 9
[9] Wolfgang Goethe, Erlokoenig (il re degli elfi), vv. 29-32
[10] Wolfgang Goethe, Gretchen am Spinrade (Gretchen all’arcolaio, tratta dal Faust), vv. 1-4. Da questo momento in poi ciò che canta Ygraine si sussegue senza soluzione di continuità. È sottinteso che Severus legge la traduzione dei testi. Nel caso di questo Lied, la strofa che ho citato, ritorna come un ritornello nel corso della poesia.
[11] Johann Herder, Eward (tratto da una ballata scozzese), v. 1. Il testo è stato musicato da Loewe
[12] Johann Herder, Edward, v. 21
[13]Johann Herder, Edward, v. 53
 
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view post Posted on 6/11/2022, 17:38
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Capitolo IX

Irrlicht


In die tiefsten Felsengründe
Lockte mich ein Irrlicht ihn: […]

Bin gewohnt das Irregehen,
‘ s führt ja jeder Weg zum Ziel:
Uns’re Freuden, uns’re Wehen,
alles eines Irrlichts Spiel!

(Verso il fondo più profondo dei campi
Mi attirava un fuoco fatuo:[…]

Abituato ad andare ramingo,
ogni strada mi porta alla meta:
le nostre gioie, i nostri dolori,
tutto gioco di un fuoco fatuo! [1])


Londra, 7 gennaio 2002



La musica risuonava stridente. Una nenia dissonante eseguita da un suonatore d’organetti male in arnese. Ygraine si girò un istante ad osservarlo, mentre varcava i cancelli della scuola, chiedendosi l’uomo avesse scelto proprio quel luogo per esibirsi e non uno più frequentato. C’era qualcosa di inquietante in quella musica, una melodia di morte, forse, una melodia dolce e dissonante come un fuoco fatuo che si insegue finendo in un precipizio.
La giovane donna scosse leggermente il capo. Con ogni probabilità era solo una suggestione totalmente irrazionale dovuta alla preoccupazione.
La maestra, durante la telefonata in cui l’aveva pregava di andare a prendere Rebecca a scuola, non ne aveva specificato le cause ed Ygraine temeva che alla nipote fosse accaduto qualcosa di terribile.
Non appena entrò nell’edificio, notò la bambina in lacrime, poco distante da una donna. La giovane fece qualche passo avanti, prima di fermarsi, quando Rebecca le corse incontro, abbracciandola.
«Sono felice che sia arrivata, signorina Ainsworth», disse la maestra, avvicinandosi a zia e nipote. «Mi creda quando le dico che non avrei voluto dover arrivare a tanto, ma era l’unica soluzione.»
Rebecca nascose il volto contro il cappotto della zia. Non voleva sentire quello che la maestra aveva da dire.
Non voleva.
Era troppo doloroso.
«Cosa è accaduto di preciso?» domandò Ygraine, accarezzando lievemente il capo della nipote, tentando di calmarla.
«Mi piacerebbe saperlo, signorina Ainsworth. Quello che è certo è che sua nipote è decisamente turbata», rispose l’altra donna. In quel momento si sentiva terribilmente fuori posto, quasi che non fosse veramente adatta per quel lavoro che tanto amava. Eppure, quel giorno, durante l’intervallo, i bambini le erano sfuggiti di mano. O forse aveva giudicato male la situazione. «Rebecca stava giocando con degli altri bambini. Isabel, una di loro, sostiene che sua nipote e Matthew hanno iniziato a litigare. Da quel momento in poi, le versioni sono discordati, ma il bambino ha detto che Rebecca l’ha graffiato. Sicuramente ha dei leggeri graffi sul viso. E sua nipote è sconvolta. È unicamente per questo che ho deciso di mandarla a casa, per oggi. Signorina Ainsworth, immagino che parlerà lei con i genitori di Rebecca. Se potesse dir loro di contattarmi per un colloquio, gliene sarei grata.»
«Certamente. Parlerò con mio fratello e mia cognata, appena li vedrò», disse unicamente Ygraine, stringendo più forte Rebecca che stava singhiozzando violentemente.
La giovane donna, tenendo stretta a sé la nipote, uscì dalla scuola, fermandosi solo quando si trovò oltre i cancelli.
Il suonatore d’organetti era ancora là, con la sua triste melodia, che aveva un che di dolce e inquietante allo stesso tempo.
«Rebecca…» mormorò la donna abbassando lo sguardo sulla bambina che si era un po’ staccata da lei ed ora le teneva la mano, stringendola con forza. «and…»
«Non voglio andare a casa, zia», biascicò Rebecca, fissandosi le scarpe. La voce era rotta dai singhiozzi, che sembravano però quietarsi, gradualmente. «Possiamo andare al museo, quello dove hai cantato il venerdì prima delle vacanze?»
Ygraine si voltò verso la nipote, osservandola. Le pareva leggermente più calma rispetto a qualche istante prima e, forse, andare in un ambiente neutro avrebbe giovato a Rebecca. Oppure lei stessa credeva che andare a casa non fosse la soluzione migliore per la nipote. Le sorrise, prima di annuire e guidarla verso la fermata della metropolitana più vicina.
Il suonatore di organetti si mosse non appena zia e nipote iniziarono ad allontanarsi. Trascinandosi dietro l’organetto prese a camminare lentamente, mentre canticchiava tra sé una melodia dissonante e straziante.
Una melodia che ghiacciava il sangue nelle vene a coloro che gli passavano accanto.
Pareva una melodia di morte.
E così sembrò ai passanti quando l’uomo si fermò in un parco.
Il vento freddo di quella giornata di gennaio pareva trasportare le note dell’organetto.
E forse risuonava ovunque tra i refoli d’aria gelida che spazzavano la captale inglese. A Ygraine, non appena giunse di fronte alla Tate Britain, parve di sentire ancora la musica inquietante che aveva risuonato davanti alla scuola.
Con ogni probabilità era solo la preoccupazione per Rebecca a farle avere quelle strane sensazioni. Scosse leggermente il capo, scacciando quei pensieri, mentre entrava nel museo. Tenendo sempre la nipote per mano si diresse verso la sala dei Preraffaelliti.
Alla bambina pareva che quello che era accaduto a scuola fosse diventato qualcosa di lontano nel tempo, forse perché quel museo pareva essere fuori dal tempo. Oppure era semplicemente perché era presente il signor Piton.
Non sapeva darsi una risposta, ma fu felice quando la zia la portò verso il quadro con la signora del giglio.
Una felicità che fu subito seguita dalla più grande inquietudine. Temeva il momento in cui sarebbe tornata a casa. Era certa che papà e mamma si sarebbero arrabbiati moltissimo. E non sapeva nemmeno se la zia avrebbe capito.
«Com’è morto veramente lo zio?» chiese improvvisamente rompendo il silenzio, mentre si sedeva sul divanetto, poco distante dal signor Piton.
Ygraine sussultò alle parole di Rebecca, chiedendosi cosa fosse accaduto veramente a scuola. O forse quella domanda non aveva nulla a che fare con quegli eventi. Lanciò un’occhiata verso il signor Piton, ma l’uomo pareva perfettamente immobile, intento ad osservare il quadro di Rossetti. Tentò di aggrapparsi alle domande che si era posta altre volte su quell’uomo, forse per trovare qualcosa da dire alla nipote, forse per non pensare alla notte in cui Tristan si era tolto la vita.
«Lo sai, Rebecca» decise infine di dire, dopo essersi inginocchiata davanti alla nipote, in modo da poterla fissare negli occhi. «Una malattia l’ha portato via per sempre.»
«Non è vero, zia. So che non è vero…» biascicò la bambina, cercando una risposta nel volto della zia.
Ma notò unicamente che la donna si era fatta mortalmente pallida.
Le voci di zia e nipote non erano altro che un mormorio nella vasta sala del museo, tanto che nessuno dei visitatori parve fare caso a loro. Giunsero però, poco più di un sussurro ai margini della sua mente, alle orecchie di Severus, i cui occhi erano fissi, come ogni giorno, sul volto immobile di Lily, un volto che lo chiamava come un fuoco fatuo, con la promessa di un perdono che non avrebbe mai potuto ottenere, non importava quando grande fosse il suo rimorso, perché certe macchie erano indelebili. Non importava quanto si sfregasse, il sangue rimaneva sempre sulle mani. Avrebbe potuto anche ideare una Pozione che potesse pulire ogni cosa, ma non il sangue che gli macchiava le mani, non la lordura che aveva nell’anima.
«Rebecca…» mormorò la donna, con voce che sembrava pronta a spezzarsi. «Non volevamo aggiungere altra sofferenza… la verità è più dolorosa ancora.»
Ygraine avrebbe voluto trovarsi ovunque tranne che in quel luogo. Non toccava a lei rivelare la verità a Rebecca, ma a suo fratello e a sua cognata. Non avrebbero dovuto mentire fin dall’inizio. Non importava quali ragioni spingessero Gawain, quali timori inespressi l’avessero portato a prendere quella decisione.
«Allora è vero, zia? È vero che lo zio si è ucciso?» biascicò la bambina mentre alcune lacrime silenziose le colavano lungo le guance.
«Rebecca…»
«Ed è vero che l’ha fatto per colpa mia… perché non mi sopportava più?»
«Ovviamente no, Rebecca», rispose con sicurezza Ygraine, stringendo le mani tremanti della nipote. «Tristan ti ha sempre amata, Rebecca, con tutto sé stesso.»
Le parole, appena mormorate, da zia e nipote distolsero per un attimo Severus dall’errare dei suoi pensieri e dal fuoco fatuo di un perdono promesso ed irraggiungibile.
C’era qualcosa di inquietante nell’ultima domanda della bambina, quella stessa bambina che gli aveva sorriso il giorno in cui aveva sentito cantare sua zia. Era una domanda colma di solitudine, quella solitudine in cui si potevano maturare decisioni terribili. Uccidersi come aveva fatto lo zio della bambina. Dannarsi l’anima come aveva fatto lui.
Ed improvvisamente gli parve che, alle parole di Rebecca, si sovrapponessero frammenti di quelle melodie udite tempo prima. Era come se fossero giunti ad aggiungersi ai suoi pensieri, aumentando il loro rincorrersi e richiudersi su sé stessi, in quel circolo di colpa e mancata redenzione che era il suo presente e che sarebbe stato il suo futuro.
«Però Matthew ha detto che l’ha fatto perché sono insopportabile», mormorò Rebecca dopo diverso tempo, tirando su col naso. «Ha detto che glielo hanno detto i suoi genitori. Ed i genitori di Matthew sono amici di mamma e papà, quindi deve aver detto la verità.»
Ygraine lanciò un’occhiata verso il signor Piton, che pareva essere ancora intento a fissare il quadro, quel quadro che catalizzava sempre la sua attenzione. Non sapeva nemmeno perché si fosse voltata verso di lui. Forse sperava in un aiuto, in una parola che potesse tranquillizzare Rebecca.
«Matthew ha voluto dirti qualcosa di falso, Rebecca», ribatté Ygraine, sorridendo rassicurante alla nipote. «Tristan ha compiuto una scelta quella notte… una scelta che non ha nulla a che fare con te.»
«Allora perché si è ucciso, zia? Perché non è rimasto con noi?» domandò Rebecca con voce tremante.
Voleva credere alle parole della zia. Era quello che si era detta anche lei subito, ma dopo, mentre aspettava che qualcuno la venisse a prendere, aveva iniziato a credere che quello che aveva detto Matthew fosse vero.
«Non lo so, Rebecca. Nessuno di noi, né io, né i nonni, né i tuoi genitori, lo sa. So soltanto che non ha compiuto quella scelta per colpa tua. Tristan adorava giocare con te, stare con te, raccontarti le sue storie colme di immaginazione», rispose Ygraine, senza riuscire a trovare una risposta migliore.
Nemmeno lei era mai stata in grado di comprendere fino a che punto l’anima di Tristan fosse colma di sofferenza, così colma di sofferenza da decidere di togliersi la vita. Sperava però che quelle poche parole potessero risollevare l’animo della nipote.
«Allora perché Matthew l’ha detto? Stavamo giocando… poi… non volevo, zia, davvero non volevo, ma quando ha detto che lo zio si è ucciso perché… ero così arrabbiata», biascicò, la voce interrotta dai singhiozzi.
Ygraine abbracciò la nipote, prima di dire alcunché. Alcuni dei visitatori lanciarono un’occhiata di disapprovazione nella sua direzione, ma la giovane quasi non ci fece caso.
Si sentiva assolutamente inutile ed impotente, in quel momento. Avrebbe voluto trovare qualcosa da dire a Rebecca, qualsiasi cosa, ma le venivano in mente frasi che sarebbero sembrate troppo fredde e misurate alle orecchie della nipote.
Non poteva far altro che abbracciarla.
«Credi che sia una bambina cattiva, zia?» domandò Rebecca, la voce soffocata dalla stoffa del maglione della donna.
Eppure, quella domanda arrivò perfettamente chiara a Severus. In quel momento riusciva a vedere chiaramente cos’era accaduto. Una lite tra bambini, una frase malvagia in bocca ad uno di loro e la magia dell’altra che era esplosa spinta dalla rabbia e dalla disperazione. E v’era qualcosa di incredibilmente ironico nelle parole della bambina.
Era certo che non vi fosse malvagità in lei, ma solo un potere che non sapeva controllare. Rebecca era innocente, mentre lui aveva ucciso con la magia, con un potere che sapeva controllare alla perfezione.
Ed era il sangue che gli macchiava le mani ad allontanarlo dalla normalità.
Dal perdono.
«No, Rebecca. Eri soltanto arrabbiata, perché Matthew ha detto qualcosa che forse non pensava nemmeno realmente», rispose rassicurante Ygraine, lasciando andare per un attimo la nipote, per poi sedersi sul divanetto.
«Non ricordo nemmeno perché abbiamo cominciato a litigare… e poi… non volevo, zia. Non riesco nemmeno a capire… Matthew dice che l’ho graffiato, ma io non ricordo di averlo fatto», mormorò la bambina, facendosi più calma, osservando la zia. «Mi capitano cose strane, zia. A mamma e papà non l’ho detto.»
«A cosa stavate giocando? Sei sicura che…»
«Mi capitano cose strane, zia, davvero. Come quel giorno a scuola, prima delle vacanze. Il ghiaccio si è sciolto all’improvviso ed io stavo… c’era una coccinella intrappolata nel ghiaccio ed io speravo fosse ancora viva ed il ghiaccio si è sciolto. E non è normale.»
Le parole spezzate della bambina arrivarono chiarissime a Severus, che per un istante distolse lo sguardo dal quadro. Rebecca era seduta accanto alla zia e sembrava essere terribilmente preoccupata e spaesata. In lei non v’era la spavalderia di Lily, quel giorno al parco, quando stava mettendo alla prova i propri poteri. V’era unicamente preoccupazione per essere diversa dagli altri, per fare cose che non riusciva a comprendere.
Una preoccupazione accentuata dalla magia che era esplosa come conseguenza della sua rabbia, quel giorno.
«E la coccinella era viva?» domandò Ygraine, senza sapere che altro fare.
Le parole della nipote la preoccupavano. Forse Rebecca aveva veramente una fantasia troppo sviluppata, come sosteneva Gawain, forse era veramente troppo simile a Tristan. Ma era un pensiero terribile. Non voleva immaginare che Rebecca, una volta cresciuta, potesse rivolgere contro sé stessa un coltello da cucina.
Forse c’era una spiegazione molto più semplice e banale.
Una spiegazione che a lei sfuggiva del tutto.
«No. Forse il ghiaccio avrebbe dovuto sciogliersi prima», mormorò Rebecca, sentendosi improvvisamente sollevata perché la zia non le aveva detto che le sue erano fantasie assurde. Era certa che papà le avrebbe considerate tali. Sembrava che papà avesse paura di qualcosa che lei non riusciva a capire. «Credi che mamma e papà si arrabbieranno molto stasera?» domandò subito dopo, improvvisamente preoccupata.
«Non lo so, Rebecca. Ma sono certa che capiranno», rispose Ygraine, per quanto non ne fosse affatto sicura.
Sapeva che Gawain non voleva che si parlasse di Tristan, come se preferisse dimenticare il fratello. Viveva nel terrore che Rebecca fosse come Tristan, troppo sensibile, troppo fantasiosa, troppo lontana dalla vita reale per poterla sopportare. E quella paura lo stava allontanando dalla figlia. Ygraine lo poteva percepire e non poteva farci nulla. Era come se Gawain avesse sempre vissuto nel terrore che i racconti di fantasia, quei racconti che studiava papà, potessero attrarre tutti loro come dei fuochi fatui e perderli in luoghi terribili e cupi.
Ed il suicidio di Tristan non aveva fatto che incrementare quelle paure.
Rebecca annuì soltanto e poi si fece silenziosa.
Lanciò un’occhiata al quadro della signora con il giglio, prima di sbirciare in direzione del signor Piton, chiedendosi se in quell’uomo si trovasse la risposta alle sue domande. Una risposta che nemmeno la zia aveva. Era una domanda sciocca, lo sapeva, ma per un istante le parve sensatissima.
Ygraine seguì lo sguardo della nipote posarsi sull’uomo seduto di fianco a loro. E solo in quel momento si rese conto che probabilmente lo avevano terribilmente disturbato con il loro chiacchiericcio.
«Signor Piton», mormorò. «temo che le nostre chiacchiere le abbiano arrecato disturbo e di questo mi scuso.»
L’uomo si voltò verso la giovane che lo stava fissando con espressione calma, fiduciosa, quasi, per quanto il suo volto fosse ancora velato di preoccupazione. Era certo che se la cantante avesse saputo quanto macchiata fosse la sua anima, non avrebbe mai sentito la necessità di scusarsi, perché nessuno avrebbe dovuto porgere le proprie scuse ad un assassino.
Anche la bambina lo stava osservando e gli sorrideva con fare di scusa.
Un sorriso che non aveva ragione di essere, perché rivolto a qualcuno che non poteva trovare perdono, perché troppo aveva errato nel passato.
Aveva compiuto una scelta terribile, seguendo il fuoco fatuo della conoscenza e della rivalsa, un fuoco fatuo che l’aveva portato sull’orlo dell’abisso per poi farvelo precipitare.
Era caduto nell’abisso della colpa, un abisso sul cui fondo non v’era altro che un fiume colmo del sangue delle sue vittime.
Un abisso dal quale non poteva sperare di sollevarsi.
Non importava quanto gli promettesse il volto di Lily.
Non v’era perdono per lui.
Ma la bambina, ignara dei suoi pensieri, continuava a sorridergli.
«Nessun disturbo», disse soltanto.
Rebecca gli parve stranamente sollevata, quasi lieta della sua risposta così breve e secca.
«Ne sono felice, signor Piton», disse la donna, accennando un sorriso gentile. «Vorrei ripagare, però, in qualche modo il disturbo che le abbiamo arrecato questa volta e qualche tempo fa. Le andrebbe un tè?»
Le parole della donna colsero Severus di sorpresa. Non v’era nulla di normale in loro, per quanto fosse una domanda normalissima.
Ma non era normale che fosse rivolta a lui.
Se la signorina Ainsworth avesse saputo quante vite innocenti aveva spento, non gli avrebbe di certo posto quella domanda.
Ma il giovane soprano non sapeva nulla di lui.
E così sua nipote.
E v’era qualcosa di stranamente allettante in quella prospettiva.
Era come un fuoco fatuo.
O semplicemente una nuova maschera da indossare.
La maschera della persona qualunque.
Qualcuno che lui non era mai stato. Qualcuno che non aveva ucciso, che aveva l’animo ancora intatto.
Assaporare per un istante la normalità, per afferrare ancora meglio quanto fosse profondo l’abisso in cui era precipitato.
Vivere per un istante nel presente, in modo tale da poter riprecipitare nel cerchio continuo del suo passato, quel passato in cui viveva veramente.
Il passato che era il suo futuro ed il suo presente.
Era solo un ulteriore modo per riflettere, come aveva riflettuto ascoltando la donna cantare.
Perché le sue colpe emergevano sempre e comunque.
Erano tracce indelebili che lordavano la sua anima.
«Accetto l’invito», disse soltanto.
Un visitatore, dall’altro lato della sala, li osservò per qualche istante, per poi uscire rapidamente, quando li vide alzarsi in piedi. Si incamminò per il corridoio centrale, fermandosi ad ammirare una statua. Ma notò Piton, la donna e la bambina avviarsi verso le scale che conducevano alla caffetteria del Museo. Mantenne gli occhi fissi sul punto da cui erano spariti alla vista, poi si allontanò ed uscì dall’edificio.
Un suonatore d’organetti male in arnese si trovava poco lontano dai cancelli d’ingresso.
Una melodia dissonante ed inquietante riempì l’aria di quella giornata di gennaio.
Una melodia di morte.



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[1] Wilhelm Müller, Irrlicht (Fuoco Fatuo), vv. 1-2; 5-8.
 
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Capitolo X

Rast


Nun merk' ich erst, wie müd' ich bin,
Da ich zur Ruh' mich lege:
Das Wandern hielt mich munter hin
Auf unwirtbarem Wege.
Die Füße frugen nicht nach Rast,
Es war zu kalt zum Stehen;
Der Rücken fühlte keine Last,
Der Sturm half fort mich wehen.

In eines Köhlers engem Haus
Hab' Obdach ich gefunden;
Doch meine Glieder ruh'n nicht aus:
So brennen ihre Wunden.
Auch du, mein Herz, in Kampf und Sturm
So wild und so verwegen,
Fühlst in der Still' erst deinen Wurm
Mit heißem Stich sich regen!

(Ora mi accorgo di quanto sono stanco,
ora che mi metto a riposare;
andare in giro mi ha sostenuto
su strade impervie.
I piedi non cercano riposo,
c'è troppo freddo per stare fermi;
la schiena non sente fatica,
la tempesta mi ha spinto avanti.

Nella casa di un carbonaio
ho trovato riparo;
ma le mie membra non hanno riposo:
così bruciano le loro ferite.
Anche tu, cuore mio, in battaglia e tempesta
così selvaggio e ardito,
senti solo nella quiete il tuo tormento
che si sveglia con morsi di fuoco!) [1]


Londra, 7 gennaio 2002


Harry osservava il vento scuotere le foglie al di là delle vetrate del caffè Babbano in cui era seduto. Il Natale era passato senza che avesse avuto il coraggio di tornare a bussare alla porta della casa di Piton. E poi il tempo era scivolato lentamente, facendo sì che un anno lasciasse spazio ad un altro anno. Ma lui non aveva avuto nemmeno il coraggio di mandare un biglietto ed augurare buon anno all’uomo.
Forse avrebbe potuto inviare un gufo il giorno del compleanno di Piton.
O avrebbe potuto andare a bussare ancora una volta alla sua porta, ma le due volte che già aveva provato, aveva trovato l’uscio chiuso.
Forse non sarebbe mai stato in grado di parlare con Piton.
Forse non era altro che un vigliacco che non riusciva a fare ciò che desiderava.
Dire un grazie.
Almeno quello.
Voleva fare ben altro, ma non voleva illudersi, dicendosi che avrebbe potuto parlare con Piton di tutto ciò che desiderava ardentemente. Forse gli sarebbe bastato ringraziarlo. Forse gli sarebbe bastato che l’uomo aprisse la porta per poi chiudergliela in faccia quando si fosse accorto che era lui. Forse gli sarebbe bastata una risposta, anche terribilmente dura e aspra, ad una delle lettere che aveva mandato per invitarlo al pranzo di Natale. Anche un “non mi seccare, Potter” scritto rapidamente su un foglio di scarto.
Qualsiasi cosa.
Ma non il silenzio.
E la sua incapacità di riuscire a tornare a bussare all’uscio della casa di Spinner’s End.


La caffetteria del museo era silenziosa e quasi vuota quel giorno di gennaio. Quando Ygraine prese posto, insieme a Rebecca e al signor Piton, soltanto una copia di turisti orientali era seduta ad un altro tavolo.
Severus, nel sedersi, si rese conto improvvisamente di quanto la sua mente ed il suo animo fossero stanchi per il loro lungo girare in circolo, rincorrendo pensieri ricorrenti. Si sentiva come qualcuno che avesse dovuto percorrere miglia e miglia in mezzo alle intemperie, sospinto dal vento che imperversava anche in quel momento all’esterno del museo.
O forse quella stanchezza era dovuta effettivamente al percorso che aveva scelto.
Era l’inverno che regnava nella sua anima a spossarlo, quell’inverno che non poteva finire se non tramite il disgelo portato da un perdono che non sarebbe mai arrivato.
Il continuo rincorrersi ed inseguirsi dei suoi pensieri, colmi di rimorso e sensi di colpa, colmi di volti che lo incatenavano al passato e alle sue scelte sbagliate, lo spossava nella mente e nello spirito.
Forse era anche per quello che aveva accettato l’invito della signorina Ainsworth, non solo per seguire un fuoco fatuo che l’avrebbe fatto precipitare ancor più nell’abisso della consapevolezza dell’impossibilità di un perdono, non importava quanto agognato.
Rimasero in silenzio fino a quando non ebbero il tè davanti. Ygraine non sapeva cosa dire a quell’uomo silenzioso. E qualsiasi cosa le venisse in mente, la riteneva quanto mai fuori luogo e molto simile ad una domanda indiscreta.
«Sono felice che abbia accettato l’invito della zia, signor Piton», disse improvvisamente Rebecca che pareva decisamente più calma, rispetto a quando era entrata al museo.
Sicuramente le parole della zia l’avevano calmata, sicuramente lei stessa si era tranquillizzata un poco, ma era convinta che la presenza del signor Piton avesse un che di confortante, forse proprio nel suo essere una figura silenziosa.
Severus sorseggiò lentamente il tè, mentre osservava la bambina che lo fissava con quell’immensa fiducia che già gli aveva mostrato il giorno in cui gli aveva chiesto il fazzoletto e quando l’aveva invitato ad ascoltare il concerto della zia. E quella stessa fiducia sembrava trapelare dagli occhi nocciola della giovane donna.
Era una fiducia che contrastava pienamente con quello che era, con quei pensieri che spossavano la sua mente e che parevano morderla anche in un momento come quello di assoluta quiete.
«Signor Piton», riprese a dire Rebecca, senza dare la possibilità alla zia o all’uomo di parlare. «Crede possibile che… voglio dire, secondo lei è possibile fare delle cose senza rendersene conto?»
La bambina sapeva che era una domanda che non avrebbe dovuto porre, con ogni probabilità. Eppure, come quando era ancora nella sala del museo, credeva che il signor Piton potesse avere in qualche modo la risposta alle sue paure e preoccupazioni.
Severus posò la tazza sul piatto, facendo ondeggiare leggermente il tè che la riempiva per metà. Le parole di Rebecca lo rimandarono per un istante ad un momento passato, quando forse era ancora innocente, mentre osservava Lily sperimentare con una magia che non sapeva di possedere. Si rivedeva mentre si faceva avanti e le rivelava la verità.
Per un brevissimo istante gli occhi marroni di Rebecca gli parvero verdi come quelli di Lily, ma fu la loro espressione che lo fece tornare bruscamente alla realtà. O forse furono le parole che aveva ascoltato, quando zia e nipote avevano parlato al piano superiore, a farlo ripiombare nel presente.
Rebecca non assomigliava a Lily bambina. Lily non era spaventata da quello che poteva far accadere senza sapere come.
Rebecca ne era invece angosciata.
E sua zia pareva condividerne, seppure forse per ragioni diverse, l’angoscia.
Gli occhi di Ygraine Ainsworth erano colmi di preoccupazione in quel momento in cui li fissava sulla nipote. Forse stava ripercorrendo la conversazione di poco tempo prima, forse si stava rendendo conto che c’era effettivamente qualcosa di diverso nella bambina.
«Dipende da cosa intendi», decise di dire Severus.
Non sapeva cosa rispondere alla domanda della bambina.
Avrebbe potuto rivelarle la verità, offrirle una spiegazione.
Avrebbe potuto ripetere esattamente quello che aveva già detto a Lily quel giorno lontano in cui lui forse era ancora innocente, in cui credeva ancora che un futuro, se non felice, per lo meno migliore del presente che conosceva allora fosse possibile.
«Ci sono momenti in cui faccio accedere delle cose, ma non lo faccio realmente io», tentò di spiegare la bambina, lanciando un’occhiata alla zia che pareva avere lo sguardo fisso sul signor Piton. «Come il ghiaccio che si scioglie all’improvviso per liberare una coccinella che avevo notato e che volevo liberare. Ma era troppo freddo perché il ghiaccio potesse sciogliersi.»
Non aggiunse altro.
Si limitò a fissare l’uomo con assoluta fiducia.
Una fiducia che non chiedeva nulla in cambio, si disse Severus. Nemmeno una risposta alla domanda. Gli donava semplicemente una fiducia incondizionata che egli sapeva malriposta.
Rebecca non sapeva nulla di lui. L’avrebbe saputo forse, una volta entrata a tutti gli effetti a far parte del Mondo Magico, quando qualcuno l’avrebbe nominato come l’unico Preside entrato in carica dopo aver assassinato il suo predecessore.
E allora, come era giusto che fosse, quella fiducia sarebbe scomparsa dagli occhi della bambina.
Eppure, in quel momento quella fiducia era presente.
Una fiducia che non era stata presente nello sguardo di Lily la prima volta che le aveva parlato.
Una fiducia che lo spinse a prendere una decisione.
«C’è una spiegazione a quello che ti sta accadendo», iniziò a dire lentamente. La bambina lo fissava ancora con fiducia. La zia si era fatta attenta e pareva leggermente sollevata, quasi che fosse certa che lui stesse per trovare la chiave di un mistero insolubile. «Una spiegazione che con ogni probabilità potrà sembrarti poco credibile in un primo momento.»
Ygraine attendeva, quasi con ansia, che l’uomo continuasse a parlare. Sperava con tutto il cuore che la spiegazione che il signor Piton aveva da dare potesse far star tranquilla Rebecca, allontanare da lei la paura che aveva percepito quando era andata a prenderla a scuola. Si fidava istintivamente dell’uomo ed era certa che, qualsiasi cosa dicesse, per quanto assurda potesse sembrare, fosse assolutamente fondata.
«Ho iniziato a nutrire sospetti circa la natura delle cose inspiegabili che ti accadono dal giorno in cui mi hai chiesto il fazzoletto.» continuò Severus.
Ricordava, con rimpianto e amarezza, quando si era rivolto bruscamente a Lily. Ricordava che si era preparato un discorso complesso, molto simile a quello che stava pronunciando in quel momento, ma ogni parola era stata dimenticata quando aveva finalmente avuto l’occasione di parlare con Lily. Era un bambino, allora. Era forse ancora innocente. E sapeva ancora sognare.
«Esiste una spiegazione a quei fiori che hanno cambiato di colore, così come esiste una spiegazione alla coccinella liberata dal ghiaccio», Severus notò che la signorina Ainsworth lo stava ascoltando con attenzione e, osservandola più attentamente, si accorse che la donna pareva riporre in lui la stessa fiducia accordatagli dalla nipote.
Fiducia nelle parole di un assassino.
«Esiste un mondo parallelo a quello che conosci», continuò Severus.
«Come in uno dei racconti di zio Tristan? Un mondo con cavalieri e dame?» domandò Rebecca, interrompendo di colpo l’uomo, continuando a fissarlo con assoluta fiducia.
Ygraine sorseggiò rapidamente il tè, come a volere celare il nervosismo che l’aveva colta in quel momento. Non sapeva nemmeno perché, ma era certa che il signor Piton stesse dicendo qualcosa di vero e fondato. Per quanto non lo conoscesse affatto, non credeva che fosse uno squilibrato o una persona che amava farsi gioco del prossimo. Era una sensazione strana da spiegare persino a sé stessa, ma aveva la certezza di poter riporre in lui la più completa fiducia. Era stato così quella volta in cui aveva lasciata sola la nipote nel museo quando lei era uscita insieme a quella donna detestabile.
Ed in quel momento sapeva che l’uomo stava dicendo la verità. Anche se questa avrebbe potuto essere sconvolgente.
«Non propriamente», rispose l’uomo, fissando la bambina che era in preda, lo notava perfettamente, alla più viva curiosità, una curiosità che non ne eclissava la fiducia assoluta. «Vi sono però maghi e streghe.»
«Lei è un mago, signor Piton?» lo interruppe nuovamente la bambina, senza mettere minimamente in dubbio quello che l’uomo stava dicendo. «Ed io… quello che ho fatto è stato perché anch’io lo sono?»
Rebecca era certa che quella fosse la risposta giusta, che quello poteva spiegare quello che le stava accadendo, perché se il signor Piton era un mago, allora lei doveva essere una strega. Questo poteva veramente spiegare come avesse fatto a liberare quella coccinella dal ghiaccio.
L’uomo annuì solamente e Rebecca si sentì decisamente sollevata. Aveva una spiegazione a quello che le stava accadendo. Una spiegazione che però non era certa che potesse piacere alla zia. O a mamma e papà.
Si voltò verso Ygraine. La donna stava osservando quel poco di tè che rimaneva nella sua tazza, quasi stesse cercando una risposta dal liquido ambrato. V’era qualcosa di incredibile nelle parole del signor Piton, ma Ygraine era certa che quella fosse l’unica spiegazione possibile, che fosse il modo più logico, nella sua apparente illogicità, di spiegare i fatti che stavano accadendo intorno alla bambina. Quel giorno al museo, i fiori della donna erano effettivamente in parte di colore diverso e poche ore prima la maestra aveva affermato di non aver compreso cosa fosse realmente accaduto tra i bambini, che nessuno aveva idea di cosa fosse successo.
Si chiese, per un istante se credesse all’esistenza di un mondo magico così prontamente perché glielo stava rivelando quell’uomo in cui riponeva la più assoluta fiducia, ma era una domanda sciocca.
Era ben più preoccupata di quello che avrebbe detto Gawain il giorno in cui avesse scoperto quella verità. Il fratello aveva già paura di perdere Rebecca perché la credeva troppo simile a Tristan. Cosa sarebbe accaduto quando avrebbe scoperto che la figlia apparteneva ad un altro mondo?
Si voltò per un istante verso la nipote e vide che la stava fissando.
Le sorrise e notò che Rebecca parve rilassarsi ulteriormente.
Severus non perse un solo movimento di zia e nipote. Gli era parso chiaro fin da subito che la bambina aveva creduto alle sue parole. Quello che non era riuscito a capire era il parere della donna, ma, a quanto pareva, era dello stesso avviso di Rebecca.
Entrambe si erano fidate ciecamente di lui.
E c’era qualcosa di estremamente sbagliato nel loro fidarsi di lui.
Ancora di più considerando che quella fiducia era apparsa fin dall’inizio così profonda da non pretendere nulla in cambio.
Nemmeno la risposta che aveva dato.
Ed in quel momento vide i volti di coloro che aveva ucciso apparire nel tè che restava nella sua tazza. Era come se le sue colpe si fossero materializzate ancora più tormentose, era come se vi fosse un fuoco che lo divorava dall’interno del suo animo spezzato e perduto per sempre.
In quella tazza vedeva la totale assenza di perdono per chi, come lui, aveva versato il sangue di troppi innocenti.
«Ma come ho fatto… cioè, voglio dire, ho capito che è stata la magia a farlo, ma come ho fatto ad usarla se non sapevo di averla?» domandò improvvisamente Rebecca, selezionando una delle tante domande che aveva in mente.
L’uomo prese in mano la tazza di tè e ne bevve il contenuto. Era come se stesse bevendo le sue colpe, come se, in quel momento di pausa dal suo errare, in quel momento di apparente normalità, in quel momento in cui indossava una nuova maschera, le sue colpe bussassero alla sua mente con maggior fervore, facendo a brani la sua anima.
«Tutti i bambini che hanno poteri magici non riescono a controllare la loro magia, soprattutto quando provano emozioni o desideri molto forti», rispose con voce misurata. «Viene loro insegnato quando raggiungono gli undici anni. Esiste una scuola che ti contatterà quando sarà il momento.»
«E…»
«Rebecca, non sommergere il signor Piton di domande», la interruppe Ygraine, sorridendo lievemente alla bambina, estendendo il sorriso anche all’uomo. «Temo che sia ora, per noi, di lasciare il museo», aggiunse poco dopo. L’ultima cosa che voleva era arrivare a casa dopo che sua cognata era rientrata dal lavoro. La loro venuta al Museo doveva restare un segreto. Era certa che suo fratello non l’avrebbe mai perdonata se avesse saputo che non aveva portato Rebecca immediatamente a casa. «Signor Piton, non so davvero come ringraziarla.»
L’uomo non disse nulla.
Non v’era nulla da dire se non che nessun assassino meritava un ringraziamento, né quella fiducia assoluta.
Né la gentilezza con cui la donna gli si rivolse poco dopo, per chiedergli se fosse possibile incontrarsi di nuovo.
Né il sorriso felice che gli rivolse Rebecca quando egli accettò, fedele alla nuova maschera che stava indossando.
Si sarebbe fermato ancora.
Avrebbe fatto un’altra sosta nel suo continuo peregrinare nelle colpe del suo passato.
Per un attimo avrebbe interrotto il suo viaggio.
Ed in quella quiete, le colpe sarebbe giunte più forti di prima a rincorrersi nella sua anima, a farla a brani come belve affamate.


Gawain non riusciva a credere alle parole che gli stava dicendo la sorella, dietro la quale pareva volersi nascondere Rebecca, quasi sua figlia avesse paura di lui.
Forse era quello ad angustiarlo maggiormente.
Come poteva la bambina aver paura di lui?
Non le aveva mai fatto mancare nulla. Forse non era quello che si sarebbe definito un genitore affettuoso, ma amava sua figlia con tutto sé stesso.
E temeva terribilmente per il suo futuro.
«Avresti dovuto mandarci subito a chiamare», stava dicendo Margaret che era rientrata solo pochi minuti prima di lui, per trovare la figlia decisamente tesa e preoccupata. «Quello che è successo è decisamente grave, Ygraine.»
«La maestra ha detto che vuole parlare con voi», disse la giovane, lanciando un’occhiata all’orologio per accertarsi di non partire in ritardo per la prova generale di Contes d’Hofmann. «Da quel che ho capito, nemmeno lei sa bene cosa sia accaduto. Può essere che Rebecca non abbia fatto assolutamente nulla.»
Mentre parlava, Ygraine sapeva che stava mentendo, ma era certa che la cognata ed il fratello non fossero affatto pronti per sentire ciò che il signor Piton aveva rivelato loro al Museo.
«Rebecca, immagino tu possa dirci cosa è accaduto.» disse Gawain osservando la figlia che sembrava voler evitare di guardarlo in volto.
«Ho litigato con Matthew, come ha detto la zia. So che non avrei dovuto fare nulla, ma mi sono arrabbiata», riuscì a mormorare la bambina, senza aggiungere altro.
Sapeva che papà non sarebbe stato affatto contento della sua risposta. Ma era quanto più possibile si avvicinava alla realtà, senza nominare la magia.
«Dovrai scusarti con Matthew. Di solito andate d’accordo», constatò Margaret, senza fare cenno a quello che Ygraine aveva spiegato.
Non voleva parlare del cognato suicida. Era un tacito accordo tra lei e suo marito.
Tristan andava nominato il meno possibile.
Era l’unico modo a cui entrambi avevano pensato. L’unico modo per dimenticare quello che era accaduto, per mettere da parte le loro paure circa Rebecca.
In quel momento la bambina sembrava perfettamente con i piedi per terra, ma quante volte l’aveva vista fantasticare, quante volte l’aveva vista raccontare o scrivere storie fantasiose come quelle del cognato.
Margaret sapeva che suo marito, più ancora di lei, temeva che Rebecca potesse essere troppo simile a Tristan. Ed era qualcosa che andava evitato perché né lei, né Gawain volevano che la figlia compisse in futuro la stessa scelta dello zio.
Era un pensiero orribile.
Una possibilità forse remota, ma era una possibilità ben presente nella loro mente.
«Lo farò, mamma.» disse unicamente Rebecca, lanciando un’occhiata alla zia che pareva fissare il fratello e la cognata con preoccupazione, ma quando si voltò verso di lei le sorrise lievemente, come per dirle che tutto andava bene.
Ma non era affatto vero.
Nulla nell’atteggiamento di suo fratello e sua cognata circa Tristan andava bene.




Gran Bretagna, 8 gennaio 2002



Il vento sibilava, quella sera di gennaio, sopra l’Inghilterra.
Sibilava sopra la capitale, facendo ondeggiare i rami spogli di Saint-James’s Park.
Sibilava sopra la campagna del Kent. Sibilava in tutte le direzioni, spazzando i campi e le strade che incontrava lungo il suo cammino.
Era un vento gelido.
Gelido come i morti che da tempo giacevano nelle loro tombe, si disse Severus, osservando il vento sibilare al di fuori di una finestra della casa di Spinner’s End.
Vedeva, tra i refoli d’aria, i volti di chi aveva ucciso.
I volti di chi non era riuscito a salvare.
E ad ogni folata che squassava le imposte, si sentiva spossato per quel continuo viaggio nell’inverno senza fine della sua anima.
Un viaggio che sarebbe finito unicamente quando la morte avrebbe voluto accoglierlo.
Un viaggio che non conosceva requie, nemmeno nei momenti di quiete come quello di ieri e come quello che avrebbe vissuto l’indomani, quando avrebbe incontrato nuovamente la zia e la bambina.
Non importava con quanta gentilezza gli parlassero.
Egli non la meritava.
Non importava con quanta fiducia la donna e Rebecca lo guardassero.
Egli rimaneva un assassino.
Un uomo privo di perdono che osservava il vento giocare con le sue colpe.
E gli pareva che tra i refoli le sue colpe volassero oltre Spinner’s End, sorpassando la cittadina dove era nato e dove, forse un giorno, sarebbe morto, portando con sé nella tomba le sue colpe imperdonabili.
Ed il vento continuava a fischiare oltre la finestra della casa di Spinner’s End, continuava ad imperversare su tutta l’Inghilterra.
Sibilava al di fuori delle finestre della casa di Gawain Ainsworth.
Ygraine sedeva allo scrittoio della sua stanza con in mano una lettera anonima.
Doveva trattarsi di uno scherzo di cattivo gusto, si disse, quando la rilesse.
Ti guarda dal Mangiamorte.
Quattro parole scritte a computer, prive di firma.
Non riusciva nemmeno a capire chi potesse scrivere qualcosa così privo di senso, né a chi potesse riferirsi.
Per un istante si chiese se non fosse una lettera di Dominique.
Considerò attentamente l’idea. Era vero che il baritono aveva inventato quella sorta di gioco, in cui si lanciavano degli indovinelli, composti da una sola frase, da cui dedurre il titolo di un’opera, ma di solito Dominique era più arguto ed aveva la buona creanza di firmarsi. D’altronde era decisamente troppo lontano dallo stile dell’amico ed era decisamente troppo facile vedere in quelle parole il Don Carlo [2].
Forse era uno scherzo dello stesso Dominique, anche se ne dubitava. Ad ogni modo l’avrebbe contatto l’indomani per accertarsene.
Oppure, più probabilmente, si trattava di qualcuno che aveva sbagliato indirizzo.
Osservò nuovamente quelle quattro parole, poi mise lettera e busta in un cassetto, senza accorgersi che l’involucro non era stato affrancato.
C’era qualcosa di strano in quella frase, si disse, poco dopo, alzandosi in piedi. Forse avrebbe dovuto rivolgersi alla polizia, dire che le era arrivata una strana lettera, ma scacciò l’idea della mente. Doveva trattarsi uno sbaglio di indirizzo, come aveva supposto fin dall’inizio, anche se non riusciva ad immaginare chi mai potesse mandare lettere con sopra scritte parole che non esistevano.
Scosse leggermente il capo, dicendosi che in quel momento era meglio dimenticare qualsiasi lettera e concentrarsi piuttosto sulla prima del dieci.
Ma non riuscì a pensare alla parte di Antonia, né provò l’eccitazione e la paura che la caratterizzavano nei giorni precedenti la prima andata in scena. Le tornò alla mente, piuttosto quanto il signor Piton aveva detto al Museo, il giorno precedente. Come allora, credeva ad ogni sua parola. E c’era qualcosa di rassicurante nel sapere che i problemi della nipote avevano una spiegazione razionale, per quanto questa potesse sembrare incredibile.
Era certa che Tristan, se fosse stato ancora in vita, sarebbe stato terribilmente eccitato dall’idea che esisteva un mondo parallelo al loro, fatto di magia.
Era altrettanto certa che Gawain e Margaret non avrebbero accettato con facilità la notizia. Si chiedeva se le paure del fratello e della cognata non sarebbero centuplicate di fronte alla verità circa la bambina. Sperava con tutto il cuore che così non fosse, ma ne dubitava.
E temeva quel giorno che, presto o tardi, sarebbe arrivato. Forse avrebbe dovuto essere lì, accanto a Rebecca. Ma sapeva che non poteva fare promesse alla bambina, non con il suo lavoro che la portava a non avere veramente una residenza stabile.
Si avvicinò alla finestra per chiudere le tende e poter così riposare, anche se era certa che avrebbe tentato di analizzare ulteriormente il problema, prima di addormentarsi.
Osservò gli alberi scossi dal vento. Le parve per un istante di vedere un suonatore di organetti male in arnese aggirarsi per la piazza, ma si accorse ben presto di essersi sbagliata.
Tutto era deserto e silenzioso, fatta eccezione per l’ululare glaciale del vento.
Eppure, a Ygraine parve che vi fossero delle note celate nel vento.
Delle note spettrali.



--


[1] Wilhelm Müller, Rast (Sosta), intera poesia
[2] Nel Don Carlo di Verdi, alla fine del duetto tra Filippo II e Rodrigo, marchese di Posa, alla fine del II atto, il re di Spagna si rivolge al marchese con le seguenti parole: Ti guarda dal Grande Inquisitor.
 
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Capitolo XI

Frühlingstraum




Ich träumte von bunten Blumen,
So wie sie wohl blühen im Mai;
Ich träumte von grünen Wiesen,
Von lustigem Vogelgeschrei.

Und als die Hähne krähten,
Da ward mein Auge wach;
Da war es kalt und finster,
Es schrieen die Raben vom Dach.

(Ho sognato fiori variopinti,
come fioriscono a maggio,
ho sognato prati verdi
e liete grida d'uccelli.

E quando cantarono i galli,
i miei occhi si svegliarono;
era freddo e buio,
gridavano sul tetto le cornacchie.) [1]

Gran Bretagna, 9-13 gennaio 2002


Era un giorno quasi primaverile.
O almeno fu quello che pensò Harry, quando si avvicinò alla casa di Spinner’s End, quel pomeriggio di gennaio. C’era freddo, questo lo sapeva, ma il sole splendeva nel cielo e al ragazzo parve di scorgere dei fiori variopinti in un piccolo triangolo d’erba ingrigita. Eppure, voleva credere che il sole di quel giorno potesse portargli bene, che Piton fosse in casa e che, se così fosse, l’uomo aprisse la porta.
Aveva dovuto raccogliere tutto il coraggio che possedeva per recarsi nella cittadina il giorno del compleanno di Piton, la cui data aveva trovato nell’anagrafe magica. Forse per l’uomo la sua presenza sarebbe stata tutt’altro che un regalo gradito, ma Harry si disse che almeno aveva una buona scusa per presentarsi alla sua porta.
Trasse un sospiro, poi bussò con sicurezza all’uscio.
Il sole gli fece sognare che Piton aprisse la porta, mentre si udivano i merli fischiare e non le cornacchie gracchiare, come accadeva in quel momento. Immaginò che l’uomo decidesse di farlo entrare, che riuscisse a parlare con lui.
Ma l’uscio non si aprì.
Harry rimase immobile per diverso tempo.
Alzò il capo e vide una cornacchia spennacchiata sulla casa di fronte. E sentì il freddo di quella giornata invernale ed anche i raggi di sole gli parvero gelidi.
Le sue speranze caddero ancora una volta.
Piton non era in casa oppure, ed era un’ipotesi ancora peggiore, non veniva ad aprire perché sapeva che era lui a bussare alla porta.
Harry tornò ad alzare alla mano e bussò nuovamente, con maggior forza.
Forse Piton non aveva sentito, magari era da qualche parte sul retro, si disse, tentando di far tornare forti dentro di sé le speranze, ma nessuno venne ad aprire.
Il ragazzo rimase per qualche istante a fissare l’uscio, poi si allontanò piano dalla casa, dicendosi che era quanto mai strano che Piton fosse sempre assente.
E quella stranezza lo faceva dubitare che l’uomo fosse dentro, nascosto dietro una finestra, l’avesse visto e non gli avesse aperto.
Dove poteva andare ogni volta Piton? Era mai possibile che il destino fosse così crudele da farlo arrivare a Spinner’s End le poche volte che l’uomo non era in casa?
Era certo che anche Piton dovesse uscire di tanto in tanto da casa, ma pareva che nessuno l’avesse incrociato nel Mondo Magico. Forse andava a procurarsi dei rari ingredienti, alle volte. Hermione gli aveva detto che Piton stava facendo delle ricerche in campo pozionistico. Doveva pur vivere in qualche modo, si disse Harry, per quanto il Ministero gli passasse una pensione di guerra.
Ma questo non spiegava perché l’uomo non fosse mai in casa nelle tre occasioni in cui era stato là. Si voltò di scatto e tornò a bussare alla porta, ma ancora una volta nessuno rispose.
Sconfitto si allontanò, mentre il sole illuminava lo squallore della via e la cornacchia spennacchiata che stava sul tetto di una di quelle case tristi.
I raggi rossastri del sole al tramonto splendevano su tutta l’Inghilterra, ne illuminavano i campi, i fiumi e le città.
Illuminavano la capitale e lo spiazzo davanti alla Tate Britain e filtravano all’interno della caffetteria del museo.
Rebecca Ainsworth ascoltava rapita le parole che il signor Piton le stava dicendo. Era stata distratta a scuola per tutto il giorno, in attesa che la zia venisse a prenderla. Riusciva unicamente a pensare che avrebbe incontrato di nuovo l’uomo e che questi le avrebbe spiegato cosa significava avere la magia.
La preoccupazione, che l’aveva colpita due giorni prima, era completamente sparita. Forse era perché finalmente capiva cosa le stava succedendo, forse era perché si fidava totalmente del signor Piton. Si era fidata di lui dal primo momento che l’aveva visto.
Severus colse lo sguardo della bambina su di sé. C’era qualcosa di assolutamente innocente negli occhi di Rebecca, qualcosa che strideva con la sua anima colpevole.
E c’era sempre quella fiducia assoluta.
Una fiducia che egli sapeva malriposta o, comunque, destinata a dissolversi qualora la bambina avesse saputo di quali bassezze era stato capace.
Una fiducia che la zia della bambina condivideva in maniera assoluta.
Lo vedeva anche in quel momento.
La signorina Ainsworth doveva essere un’ingenua per fidarsi in quella maniera di qualcuno che conosceva appena.
Ed era certo che qualora l’avesse conosciuto veramente, qualora avesse guardato oltre la maschera di persona comune che in quel momento indossava, quella fiducia si sarebbe giustamente infranta.
Ygraine sentì lo sguardo dell’uomo fisso su di sé. Fu un istante, ma le parve che il signor Piton la stesse studiando, quasi volesse leggerle l’anima. Era un pensiero sciocco, lo sapeva da sola. Si voltò verso Rebecca che era attentissima, intenta ad ascoltare l’uomo, intenta a fare domande. La donna avrebbe voluto che anche suo fratello fosse lì in quel momento, per poter vedere che la bambina non rischiava affatto di diventare come Tristan, che la bambina aveva ricevuto un dono, che la bambina sarebbe stata felice in futuro.
Ma sapeva che Gawain avrebbe preso il signor Piton per un pazzo. O forse ne avrebbe avuto paura.
Tristan ne sarebbe rimasto esaltato, forse anche più di Rebecca, ma Tristan era morto e non poteva assaporare quella scoperta insieme alla nipote.
Alle volte si diceva che stava accettando quella verità troppo rapidamente, che avrebbe dovuto porre delle domande al signor Piton, che avrebbe dovuto chiedere di toccare con mano quel potere magico, di cui sentiva unicamente parlare.
Eppure, non poteva far altro che fidarsi dell’uomo.
Non sapeva da dove nascesse quella fiducia in quell’uomo di cui sapeva poco o nulla, che aveva visto diverse volte intento ad osservare sempre lo stesso quadro, quell’uomo dietro al quale, ne era certa, doveva celarsi ben più di un segreto, segreti che però non la riguardavano e che, con ogni probabilità, com’era giusto che fosse, non avrebbe mai conosciuto.
Era d’altronde certa che anche Tristan avrebbe subito prestato fede alle parole del signor Piton. Forse era per quello che non aveva avuto un solo dubbio. Oppure sapere che Rebecca possedeva quel dono strano e, forse, inquietante, era più confortante che pensare, come faceva Gawain, che un giorno la nipote avrebbe potuto compiere la stessa scelta di Tristan?
Non riusciva a darsi una risposta.
A volte le sembrava di essere come Elsa von Brabant e di trovarsi di fronte alla possibilità di fidarsi completamente di qualcuno al quale non si poteva chiedere nemmeno il nome . Forse temeva che ponendo delle domande, che dubitando, qualcosa di terribile accadesse, ma era un pensiero terribilmente sciocco e ben poco razionale e lei amava definirsi una persona logica.
Ma forse nemmeno questo era vero.
Ed anche lei, come la nipote, assomigliava troppo a Tristan.
Fu con quel pensiero in mente che uscì dal museo con la bambina. Suo fratello e sua cognata festeggiavano l’anniversario del loro matrimonio e non sarebbero rientrati che a tarda notte. Solo per quello aveva proposto quella data.
Mentre zia e nipote si affrettavano verso la fermata della metropolitana più vicina, le note di un organetto risuonarono dall’altra parte della strada.
Ygraine non vi fece quasi caso, ma Severus, che stava scendendo le scale del museo, che aveva lasciato appena dopo zia e nipote, sentì quei suoni gracchianti. E gli sembrò di vedere in quelle note dissonanti le sue colpe.
E gli parve di precipitare ancora di più nell’inverno della sua anima, del suo passato e del suo rimorso. Il presente, breve e sfuggevole, si inabissò al suono di quelle note che, pari a cornacchie su un tetto cadente, parevano osservarlo e cantarne le colpe.
V’erano stati rari momenti, quel pomeriggio, in cui gli era sembrato per un istante di trovare un momento di pace. Era state forse le domande della bambina e la sua fiducia assoluta. Oppure il sapore del tè gli era apparso stranamente dolce. V’era qualcosa di strano nella fiducia di Rebecca. Era una fiducia pura ed innocente, una fiducia che a volte lo lasciava disarmato.
O forse gli concedeva più semplicemente un attimo di tregua nel suo cammino invernale.
Un rapido raggio di luce, donata dallo sguardo innocente di una bambina, che per un brevissimo istante, pareva illuminare il buio della sua anima.
Forse era per quello che aveva accettato di dare il suo indirizzo a Rebecca, perché, come fatto notare saggiamente dalla zia, non potevano trascorrere interi pomeriggi in quella caffetteria. Era stato lo sguardo colmo di fiducia, quella fiducia innocente che nessuno gli aveva mai dimostrato, che l’aveva fatto decidere.
Quello e quei brevi momenti di pace.
Attimi fuggevoli che erano subito stati travolti dal consueto carico di colpe e rimorso, da quel continuo circolo rappresentato dal suo passato e dal suo futuro che di quel passato si nutriva.
L’inverno della sua anima era ancora intatto e mai avrebbe lasciato spazio alla primavera, non importava cosa annunciasse il sole di quella giornata di gennaio, né lo sguardo fiducioso di Rebecca.
Il crepuscolo copriva l’Inghilterra, illuminata dalle stelle e dalla luna calante.
Rebecca osservava il cielo dalla finestra della sua camera, chiedendosi come sarebbe stata la sua vita da lì a qualche anno. Avrebbe voluto poter incontrare il signor Piton già il giorno successivo, ma sapeva che non poteva. Mamma e papà non sapevano ancora nulla e lei temeva il giorno in cui avrebbe dovuto dir loro la verità. Non sapeva nemmeno per quale motivo, ma era certa che non ne sarebbero stati felici.
Zio Tristan lo sarebbe stato di sicuro, ma zio Tristan non c’era più.
Zia Ygraine sembrava calma in proposito, anche se aveva frenato il suo entusiasmo quella sera, quando avrebbe voluto già scrivere una lettera all’uomo per chiedergli alcune spiegazioni e ringraziarlo per la sua gentilezza.
Sapeva che non doveva essere troppo insistente, ma a volte le sembrava di vedere nel signor Piton quella figura che aveva perso con la morte dello zio.
Non si assomigliavano affatto.
Lo zio Tristan era, con lei, sempre aperto e solare. Il signor Piton appariva ben più cupo e chiuso.
Ma, come lo zio, le dava sicurezza e la certezza che c’era qualcuno che, in qualche modo, la capisse, forse più di mamma e papà.
La notte continuò ad essere serena. La piccola falce di luna illuminava Londra e l’Inghilterra, illuminava lo squallore di Spinner’s End e i giardini della capitale.
E così nei giorni successivi fece il sole che pareva dare una prima avvisaglia di una primavera ancora in là da venire.
Così apparve a Ygraine, entrando in teatro domenica pomeriggio per la seconda recita di Les Contes d’Hoffmann che la vedevano protagonista nel secondo atto. Rebecca aveva spedito una lettera al signor Piton il giorno precedente, chiedendogli, oltre a varie domande sul Mondo Magico, se potevano incontrarsi tra una settimana. Le pareva che la nipote, dopo il giorno in cui aveva scoperto la verità sulle strane cose che le capitavano, si fosse decisamente calmata e avesse perso quell’inquietudine che l’aveva contraddistinta da quando era morto Tristan.
Forse era anche quel sole a darle quell’impressione.
E lei stessa, si disse, mentre la sarta le sistemava l’abito bianco che avrebbe indossato in scena, si sentiva più tranquilla. Era forse la tranquillità della nipote che si era estesa fino a lei.
Eppure fu una tranquillità di breve durata.
Quando tornò in camerino, alla fine del secondo atto, trovò un mazzo di fiori ad attenderla. Si sentì lusingata in un primo momento, ma quando prese il biglietto che era attaccato al mazzo, le mani le tremarono leggermente.
<i>Ti guarda. V’è chi è marcio come lo saranno questi fiori tra pochi giorni.


Lo stile era simile a quello dell’altro biglietto, quel biglietto incomprensibile che aveva ricevuto alcuni giorni prima. Sapeva che non glielo aveva inviato Dominique a cui aveva telefonato il giorno successivo l’arrivo del foglio, poco prima di andare a prendere Rebecca a scuola. All’epoca l’aveva considerato uno scherzo. In quel momento le sembrava qualcosa di inquietante. Quando entrò la costumista per aiutarla ad uscire dal pensante costume di scena, le mani le tremavano ancora. La donna ciarlava, come sempre, ma Ygraine non la stava ad ascoltare.
Il biglietto giaceva nel fondo della sua borsa ed i fiori sul tavolo le sembravano già marci, come dicevano quelle parole.
Qualcuno stava facendo uno scherzo di pessimo gusto. Prima usando termini incomprensibili, poi facendo strane allusioni al marciume. Se fosse stato Dominique sarebbe stato un ottimo indovinello, ma non era di certo lui. Non era il suo stile.
Ed il soprano si rendeva perfettamente conto che chiunque le stesse mandando quei biglietti voleva spaventarla, metterla in guardia da qualcosa o da qualcuno.
Ma l’unica persona che le veniva in mente era il signor Piton ed in lui aveva completa fiducia. Non voleva nemmeno pensare ad una collega gelosa. Erano mezzi che sarebbero stati adatti al XIX secolo e lei non era di certo una primadonna dalla carriera perfettamente avviata.
Scosse leggermente il capo, come per scacciare ogni pensiero circa quel biglietto dalla mente. Sapeva che avrebbe dovuto rivolgersi alla polizia, ma non voleva allarmare nessuno per quello che con ogni probabilità era uno scherzo di pessimo gusto.
Quando uscì dal teatro, alla fine dell’opera, dopo essere uscita sulla ribalta, ancora una volta in abito di scena, notò che il cielo si era fatto nuvoloso e le stelle quasi non si scorgevano.
Il sereno pareva aver abbandonato l’Inghilterra. E così quel momento di assoluta tranquillità che il sole aveva portato.
Le nubi avevano velato il cielo un po’ ovunque, risparmiando piccole parti della nazione.
E le nubi coprivano il cielo a Spinner’s End, dove Severus stava guardando le stelle scomparire una ad una, inghiottite dall’inverno che aveva dato per un attimo tregua all’Inghilterra, donandole il sole ed il tempo sereno.
Quello stesso inverno che inghiottiva la sua anima nera.
Quello stesso inverno che aveva segnato la parte di cammino che aveva percorso e avrebbe segnato la parte di cammino che gli rimaneva da percorrere.
Non importava se una bambina lo fissava con fiducia ed occhi innocenti.
Non importava se per un brevissimo istante gli era parso di assaporare la quiete.
Alla fine, tornava sempre l’inverno.
Sarebbe sempre tornato.
Ogni giorno ed ogni notte, in ogni istante della sua vita.
In fin dei conti al museo, con quella bambina e con quella donna, entrambe fiduciose, di una fiducia che sarebbe crollata se avessero saputo la verità, portava solo una maschera, per assaporare per un istante il fuoco fatuo di una normalità che non aveva mai posseduto e che non avrebbe posseduto mai. Assaporarlo per un istante per poi ricadere con più forza nelle tenebre in cui meritava di vivere.
Il gallo cantò annunciando il nuovo giorno.
E questo era buio e freddo, come tutti i giorni che aveva percorso, come tutti i giorni che gli restavano da percorrere.
Una cornacchia spelacchiata gracchiò su un tetto.
Ed in quel suono dissonante vide impresso il suo passato ed il suo futuro che di questo si nutriva.

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[1] Wilhelm Müller, Frühlingstraum, (Sogno di primavera), vv. 1-8
 
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view post Posted on 6/11/2022, 18:58
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Capitolo XII

Einsamkeit


Ach, dass die Luft so ruhig!
Ach, dass die Welt so licht!
Als noch die Stürme tobten,
war ich so elend nicht.

Oh, quest’aria così calma!
Oh, questo mondo così luminoso!
Mentre infuriava la tempesta,
non ero così miserabile.
[1]

Londra, 26 gennaio 2002


Harry si sentiva stranamente in ansia quel giorno di gennaio, per quanto non ne comprendesse il motivo. Contrariamente ad altre giornate, quella era luminosa, con il cielo terso, del tutto privo di nubi. Quando si era recato al Ministero della Magia aveva apprezzato la luce del sole che gli aveva colpito il volto. Eppure, in quel momento, mentre stava scrivendo un verbale per un piccolo furto di ingredienti illegali avvenuto il giorno prima, era certo che ci fosse qualcosa che non andasse.
Eppure, non sapeva nemmeno dirsi cosa fosse.
Era soltanto una strana sensazione, che lo faceva sentire teso e nervoso. Per un istante si chiese se quell’impressione avesse, per caso, qualcosa a che fare con l’inutile visita a Spinner’s End di diversi giorni prima. Non aveva nemmeno osato parlarne con Hermione. Forse l’amica gli avrebbe potuto dare dei buoni consigli o formulare un’ipotesi circa il luogo dove si potesse trovare Piton le tre volte che era riuscito ad avere il coraggio di andare a bussare alla sua porta. Eppure, aveva taciuto, per quanto non ne sapesse nemmeno il motivo, considerando che le aveva riferito degli altri due viaggi a vuoto.
Se per questo non aveva mai fatto cenno a Ron di quel suo desiderio di parlare con Piton, per quanto non riuscisse nemmeno lui a spiegarsene il motivo. Forse temeva che l’amico non comprendesse appieno le motivazioni che lo spingevano a cercare in quel modo un contatto con l’uomo.
Cercando di pensare ad altro, lasciò cadere lo sguardo sul rapporto che stava scrivendo, notando di aver lasciato gocciolare l’inchiostro sulla pergamena, creando una macchia nera che si era allargata a dismisura sulle parole già scritte. Cristopher, il suo supervisore durante l’apprendistato, non ne sarebbe stato per nulla contento se lo avesse visto così distratto e Harry sapeva perfettamente di doversi impegnare al massimo quell’anno, l’ultimo prima di diventare ufficialmente Auror. Era cosciente che il passaggio dall’apprendistato alla carica ufficiale era, per molti versi, una semplice formalità, ma non voleva coronare il suo sogno unicamente perché tutti lo consideravano quasi l’unico eroe della guerra magica.
Appallottolò rapidamente il foglio, chiedendosi se, invece del rapporto, non avrebbe dovuto scrivere al ministero per fare richiesta che venisse attribuito l’Ordine di Merlino a Piton. Non sapeva nemmeno perché stesse pensando di farlo in quel momento, né se all’uomo avrebbe fatto piacere. D’altronde, si disse, ricordando le parole che Hermione gli aveva detto, un giorno, con ogni probabilità la sua richiesta sarebbe stata rifiutata, perché il Mondo Magico non pareva voler riconoscere l’esistenza di un eroe scomodo e complesso qual era Piton.
Rabbrividì.
Sapeva, anche se avrebbe voluto negarlo con tutto sé stesso, che l’amica aveva ragione, che l’intera comunità magica aveva scelto di ignorare un eroe come Piton, di dimenticarsi di lui, di non nominarlo mai nell’annuale anniversario della fine della guerra. In fin dei conti, sembrava quasi che il Mondo Magico avesse scelto di seguire nuovi pregiudizi.
Ed Harry era certo che non fosse quello lo scopo per cui aveva lottato, né per cui tante persone avevano dato la vita. Mentre ricominciava la stesura del verbale, si sentì improvvisamente solo e miserabile, per quanto, poco distante da lui, alcuni Auror stessero chiacchierando tra loro o muovendosi da un ufficio all’altro.
Quasi gli sembrò che quel giorno fosse più desolato di quelli gelidi e nuvolosi che lo avevano preceduto.
Ma al di fuori dell’edificio che celava il Ministero della Magia, il sole di quella tarda mattinata di gennaio illuminava l’intera Londra, le sue zone magiche ed i suoi quartieri Babbani. Il cielo sopra la capitale inglese era terso, di un blu luminoso che faceva quasi presagire la primavera ancora lontana.
A Rebecca parve che quello fosse un buon segno, mentre, tenendo la mano della zia, si avvicinava alla Tate Britain. Intorno a lei anche altre persone avevano deciso di uscire, nonostante il freddo, ma quella era la prima giornata serena da molto tempo.
La bambina si chiese se la mamma sarebbe rimasta delusa sapendo che lei e zia Ygraine non stavano andando al parco, ma al museo. Non che mamma e papà non volessero che lei andasse al museo. Però Rebecca era certa che non sarebbero stati felici nel sapere che avrebbe incontrato una persona che loro non conoscevano.
Forse a papà il signor Piton non sarebbe nemmeno piaciuto.
E nemmeno alla mamma.
Forse non sarebbero nemmeno stati felici sapendo che lei era una strega.
Aveva paura del momento in cui lo avrebbe detto loro e del giorno in cui la zia sarebbe partita, a metà aprile, per andare a cantare a Bologna.
Temeva di rimanere sola. E di non poter più incontrare il signor Piton.
Mamma e papà non l’avrebbero di certo fatta uscire da sola e lei avrebbe perso l’unico legame che aveva con il Mondo Magico.
E una persona di cui si fidava e a cui voleva bene.
La bambina rabbrividì. In quel momento quella giornata di sole non le sembrava più tanto bella.
Però avrebbe, prima o poi, dovuto parlarne con la mamma e il papà. Forse era meglio farlo subito o forse avrebbe potuto aspettare fino a quando non sarebbe arrivata la lettera dalla scuola di magia di cui le aveva parlato il signor Piton.
«Zia», disse, mentre salivano i gradini del museo. «Credi che dovrei dire a mamma e papà… insomma spiegare loro che…»
Rebecca non sapeva nemmeno come dire la verità senza che tutti la sentissero. Il signor Piton era stato molto chiaro in proposito: il Mondo Magico era un segreto per le persone senza magia. Quindi non poteva di certo parlarne, mentre un gruppo di turisti le passava di fianco e non importava che parlassero una lingua che lei non capiva.
«Non lo so, Rebecca. Forse è meglio aspettare qualche altro tempo.»
Ygraine non era certa di aver dato il miglior consiglio alla nipote, ma temeva il momento in cui Gawain e Margaret sarebbero venuti a sapere della magia. Mai come in quel momento avrebbe voluto che Tristan fosse lì. Suo fratello avrebbe sicuramente saputo cosa fare e, forse, sarebbe riuscito a tamponare il disappunto di Gawain, che aveva sentito più volte parlare del futuro che sognava per Rebecca e di certo non prevedeva l’uso di una bacchetta magica, né men che meno l’idea di diventare pozionista che la nipote le aveva confidato il giorno prima. Era da quando aveva scoperto che il signor Piton si occupava di quella materia che aveva deciso che quella sarebbe stata la sua strada.
Mentre si recavano alla caffetteria del museo, Ygraine cercò – e non era la prima volta che lo faceva – di comprendere per quale motivo si fidasse di un uomo conosciuto per puro caso e che lei aveva invitato a bere un tè unicamente perché si era dimostrato gentile con Rebecca. Forse era stato proprio quel particolare a portarla ad avere fiducia in lui. Ci sarebbe stato chi non lo avrebbe, con ogni probabilità, definito gentile. Non aveva modi affabili, né sorrideva. Eppure, si disse, mentre raggiungeva il corridoio che conduceva alla caffetteria, preferiva quel distacco a quelli che potevano essere finti sorrisi.
Il sole entrava luminoso dai vetri del museo, lasciando che i suoi raggi si insinuassero anche al di là della porta d’ingresso della caffetteria, altrimenti priva di finestre. Ed era quello un sole che contrastava nettamente con il gelo della sua anima, si disse Severus, mentre osservava la bambina e la nipote avanzare verso il tavolo dove s’era seduto pochi istanti prima, quando aveva lasciato la sala del museo e il quadro di quella Lily che non era Lily.
Rebecca gli sorrise felice, dopo averlo salutato.
Per quanto sarebbero durati quei sorrisi? Un giorno, la bambina avrebbe scoperto che razza d’uomo fosse ed allora non gli avrebbe più sorriso. E non l’avrebbe fatto nemmeno la signorina Ainsworth, con i suoi occhi fiduciosi e i lunghi capelli biondi, quel giorno raccolti in una treccia.
Un giorno, si disse, mentre rispondeva ad una domanda della bambina, lo avrebbero odiato, forse doppiamente, perché aveva deciso di insozzare la loro innocenza con la sua colpevolezza. Non aveva ancora parlato della giustizia magica – a Rebecca interessava altro – ma, quando lo avesse fatto e dopo che avessero scoperto tutto, sarebbero state del suo stesso avviso.
Al processo avrebbero dovuto condannarlo ad Azkaban.
In fin dei conti, non ci sarebbe stata nessuna differenza tra la sua vita attuale e quella in prigione, se non per le lettere della bambina e quei pomeriggi nella caffetteria del museo. Si rendeva conto che quelli erano gli unici momenti di quiete, gli unici momenti in cui il suo animo non era totalmente immerso nell’inverno desolante della sua vita.
Improvvisamente il telefono della signorina Ainsworth suonò, facendo quasi sobbalzare la bambina e anche la giovane donna che lo stava ascoltando con attenzione. Dal tavolo di fronte al suo, un uomo li fissò irritato.
«Scusate, è il teatro. Esco un attimo», disse il soprano, prima di raccomandarsi alla nipote di comportarsi bene.
«Magari le chiedono di cantare un altro ruolo e la zia non dovrà più andare a Bologna ad aprile», commentò la bambina, alcuni istanti dopo che la giovane donna si fu allontanata.
«Immagino che tua zia abbia preso un impegno con il teatro di Bologna.»
«Oh… è vero. Quindi non starebbe bene per lei annullare l’impegno», Rebecca rimase per qualche istante in silenzio, pensosa. «Nelle pozioni si usano anche ingredienti norm…»
La bambina si interruppe, quando si udì il suono metallico del suo cucchiaino da tè cadere per terra. Gli sorrise con fare di scusa, prima di chinarsi per raccoglierlo. In quel momento un grido squarciò la calma della caffetteria. Severus scostò lo sguardo dalla bambina per portarlo sul tavolo di fronte al loro, valutando rapidamente la situazione.
«Non girarti», disse rapidamente quando si accorse che la bambina, che si era alzata, tenendo la posata in mano, stava per voltare il capo verso il trambusto alle sue spalle.
Le tolse il cucchiaino dalla mano e lo posò sul tavolo, mentre Rebecca gli obbediva, senza fare troppe domande.
L’uomo si chiese per un istante perché la bambina l’avesse fatto. Forse era stato il tono brusco che aveva usato, forse era semplicemente abituata a rispettare i grandi oppure era più banalmente confusa e spaventata. Poco dopo gli strinse una mano e Severus notò che tremava. Prima di lanciare un’occhiata verso il tavolo di fronte, le mise l’altra mano sulle spalle, in modo da accertarsi che rimanesse effettivamente immobile, senza guardare verso il tavolo alle sue spalle, accanto al quale un uomo era riverso sulla sedia, mentre quella che doveva essere sua moglie gli si era avvicinata. Con ogni probabilità era stato colpito da un infarto, si disse Severus. Qualcuno, poco distante da loro, stava parlando ad uno di quei telefoni portatili che sembravano andar tanto di moda tra i Babbani.
L’attenzione di Severus tornò immediatamente alla bambina, che continuava a rimanere immobile. Il volto era pallido e confuso, mentre intorno a loro il trambusto sembrava aumentare.
«Cos’è successo?» domandò la bambina, con voce flebile.
«Un uomo non si è sentito bene», spiegò brevemente Severus, evitando di dire al Rebecca che, con ogni probabilità, quell’uomo era morto.
Quando tornò a guardare verso il tavolo, notò che gli altri avventori si era avvicinati, forse perché pensavano di poter essere utili, forse unicamente per morbosa curiosità.
«Possiamo and…», iniziò Rebecca, ma Severus non le diede il tempo di finire, facendola alzare in piedi.
La bambina lo sguardò per un istante, gli occhi confusi, mentre la trascinava verso la parete alle loro spalle.
Rebecca non sembrava spaventata, né irritata per il modo in cui l’aveva portata verso il muro. Anzi, sembrava ancora fidarsi di lui, come aveva sempre fatto fino a quel momento.
Era stata una fortuna che la bambina fosse stata così obbediente poco prima e che, con ogni probabilità, volesse proporgli di uscire dalla caffetteria. Era rimasta voltata verso la parete della caffetteria, immobile. E questo le aveva risparmiato di vedere la moglie dell’uomo riverso sulla sedia cadere a terra colpita dal raggio verde di un Avada Kedavra.
E doveva essere unicamente perché la sua attenzione era totalmente concentrata su Rebecca che Severus non aveva visto il primo incantesimo colpire l’uomo.
«Cosa sta succedendo?»
La voce di Rebecca era a mala pena udibile al di sopra delle grida e del trambusto. Tenendo la bacchetta ben salda in mano, Severus scrutò le persone che si stavano affollando intorno alla donna caduta a terra.
«Stammi vicino.»
Rebecca non osò fare altre domande. La voce dell’uomo le faceva intuire che doveva essere accaduto qualcosa di più grave di un uomo che si era sentito male. Qualcuno aveva urlato la parola “morta” e lei non voleva vedere.
Sapeva che la nonna aveva visto lo zio morto e sapeva che doveva essere stato orribile. Per due giorni la nonna non aveva parlato con nessuno ed aveva pianto tantissimo.
Si appiattì maggiormente contro il signor Piton, nascondendo il volto contro la sua schiena.
Era certa che lui l’avrebbe tenuta al sicuro e che l’avrebbe riportata dalla zia.
Sperava solo di essere al più presto fuori da quel luogo.
Uno dei suoi posti preferiti, fino a quel momento.
Non era certa di voler tornare ancora lì dentro dopo tutto quell’urlare.
Severus prese a farla spostare lungo il muro. Rebecca sapeva che stavano muovendosi verso l’uscita ed era felice che così fosse.
Avrebbero ritrovato la zia e poi se ne sarebbero andati.
«State tutti calmi», una voce sovrastò improvvisamente il frastuono.
A Rebecca sembrò che ci fosse qualcosa di strano nel modo in cui quell’uomo aveva parlato, ma decise di non guardare e di rimanere dov’era, anche quando il signor Piton si fermò.
Nella stanza piombò uno strano silenzio che la fece rabbrividire.
Quella giornata di sole non le piaceva più. Era stata così bella all’inizio, ma in quel momento si sentiva impaurita e infelice, come non lo era stata nei giorni freddi e nuvolosi precedenti. L’unica cosa che la rincuorava era la presenza di Severus.
«Signori, seguite il mio collega, che vi condurrà fuori di qui, per porvi qualche domanda», continuò la voce. «Non avete nulla da temere. Si tratta solo di una procedura comune in casi come questi.»
Severus sentì Rebecca tremare appena. La bambina si era comportata in maniera ammirevole, senza protestare quando l’aveva spinta verso la parete e senza mai essere vinta dalla curiosità di guardare verso i due cadaveri che giacevano dall’altra parte della stanza. Un uomo e una donna, che dovevano essere due Auror – li aveva traditi l’incantesimo che uno di loro aveva usato per amplificare la voce e gli abiti Babbani scoordinati che indossavano – stavano facendo scemare gli altri avventori verso la porta che immetteva nella cucina.
Aveva sperato che impiegassero più tempo ad arrivare, in modo da portare la bambina fuori dalla stanza, affidarla alla zia ed evitare loro le domande che sicuramente gli Auror avrebbero posto. In quel momento, mentre un altro Auror lo stava fissando, si rendeva perfettamente conto che di lì a poco la fiducia di Rebecca e della signorina Ainsworth sarebbe caduta in cenere.
Le avrebbero interrogate.
E avrebbero rivelato loro che egli era un assassino.
Ed allora anche quella strana parvenza di normalità sarebbe finita.
Avrebbe perso quella sorta di presente e l’unico momento in cui parlava con qualcuno, rompendo la lunga sequela di giornate trascorse in una solitudine implacabile e assoluta.
Ma, in quel momento – e lo leggeva perfettamente negli occhi dell’Auror – tutto sarebbe finito.
E lui sarebbe tornato ad essere totalmente miserabile, immerso nell’immobilità dell’inverno della sua anima, che nessun sole avrebbe potuto sciogliere, intrappolato dalle sue colpe e da un desiderio di un perdono che non sarebbe mai arrivato.
«Piton», l’Auror – un suo ex studente di Corvonero, se non andava errato – si era avvicinato a loro. «Tu verrai con noi… quanto alla bambina…»
Rebecca si azzardò a sbirciare, da dietro la schiena di Severus, l’uomo che aveva parlato e che si era rivolto a loro. Le era sembrato molto maleducato e aveva parlato con una voce che non le piaceva.
«Verrà con noi», la voce del signor Piton le parve più dura del solito. Eppure, le diede sicurezza.
«I Babbani devono andare…», iniziò a dire l’uomo maleducato.
«Non è una Babbana»
Rebecca si permise un'altra occhiata all’uomo che aveva parlato con loro. Da quel che aveva detto, poteva capire che era un altro mago, ma le sembrava ben diverso dal signor Piton.
Non le piaceva.
E probabilmente non piaceva nemmeno a Severus.
«Seguitemi, allora.»
Rebecca si staccò appena dal signor Piton, quando ripresero a camminare, allontanandosi dalla parete, anche se non del tutto. Guardò fisso avanti a sé, senza osare voltarsi indietro, dove erano stati seduti e dove qualcuno era morto.
Solo in quel momento notò che erano più vicini alla porta di quanto non credesse e che al di là si trovava sua zia, che la stava indicando ad un ragazzo. Accennò un piccolo cenno di saluto, perché la zia sembrava molto agitata.
Voleva che non si preoccupasse per lei e per il signor Piton. Era una fortuna che con lei ci fosse l’uomo perché sapeva che, se non ci fosse stato Severus, non sarebbe riuscita a rimanere così calma.
Al di là delle finestre il sole illuminava il corridoio, incurante di quel che stava accadendo all’interno del museo, o, almeno così parve a Ygraine, mentre quello che doveva essere un poliziotto, per quanto fosse incredibilmente giovane e non portasse alcuna divisa, le stava impedendo di entrare nella caffetteria, anche in quel momento in cui Rebecca e il signor Piton si stavano avvicinando a loro.
«Mia nipote ci ha quasi raggiunti, forse potrebbe lasciarmi andare da lei», provò a dirgli, chiedendosi se il ragazzo avesse paura di sbagliare.
«Secondo…», ma il giovane non aggiunse altro, mentre il sole sembrava splendere ancora più intenso nel corridoio pressoché deserto.
E il sole, in quel momento, illuminava anche l’Auror, l’uomo e la bambina che stavano raggiungendo la porta della caffetteria. Ad Harry sembrò quasi che ci fosse un che di crudele in quei raggi. Non riuscì nemmeno a dire alla giovane donna che aveva trattenuto nel corridoio – Cristopher gli aveva detto di non fare entrare nessuno nella stanza, non appena erano arrivati – che poteva effettivamente raggiungere la nipote.
Probabilmente lo stava prendendo per uno stupido o per qualcuno alle prime armi.
Ma non poteva impedirsi di fissare Piton. Per tre volte era andato a casa sua e per tre volte non l’aveva trovato ed ora se lo vedeva davanti in quel museo Babbano, in compagnia di quella che doveva essere la nipote della donna che aveva trattenuto.
«Harry», la voce di Micheal, un altro Auror con cui aveva lavorato durante il suo apprendistato, lo riscosse dalla sua immobilità. «Signora, deve seguirci.»
Il ragazzo si spostò appena per fare passare la donna che si affrettò ad abbracciare la bambina, che si era staccata solo in quel momento da Piton. Non sentì le parole che la bimba sussurrò alla zia, né quella che le disse Micheal, quando, probabilmente chiese spiegazioni.
Harry iniziò a seguire, senza quasi rendersene conto, l’Auror, insieme ad Emily e a Cristopher che li avevano raggiunti, senza che lui se ne accorgesse. A Corinne e a Oscar doveva essere toccato il compito di occuparsi dei Babbani che sarebbero stati interrogati e obliviati.
Anche la donna che aveva trattenuto doveva essere una Babbana, considerando che non l’aveva riconosciuto, ma questo gli chiariva ancora meno per quale motivo conoscesse Piton, che camminava davanti a lui. Solo in quel momento si accorse di essere rimasto in fondo alla fila e che l’uomo non l’aveva praticamente degnato di uno sguardo. O forse l’aveva fatto, ma lui era troppo attonito per rendersene conto.
«Il direttore del museo ci ha messo a disposizione questi uffici», disse Cristopher, non appena si fermarono.
Harry si rese conto di aver probabilmente perso dei pezzi di conversazione. Si chiese cosa avessero raccontato al direttore del museo per convincerlo a dare loro alcuni degli uffici dalle ampie vetrate che si aprivano su un corridoio illuminato dal sole. Lanciò un’occhiata a Piton, ma l’uomo non ricambiò lo sguardo.
«Cristopher vorrei che tu ti occupassi della signorina Ainsworth», disse Micheal, che doveva aver preso le redini dell’indagine. «Io interrogherò Piton, mentre Emily parlerà con la bambina.»
«Non dovrebbe essere presente anche la signorina Ainsworth all’interrogatorio della nipote?»
A parlare era stato Piton e ad Harry sembrò che la voce dell’uomo fosse leggermente più fioca di un tempo, per quanto il tono gli ricordasse quello che aveva a lezione.
«Non è obbligatorio. Il regolamento stabilisce unicamente che all’interrogatorio di un bambino devono partecipare due adulti. Per questo Harry andrà con Emily.»
Il ragazzo avrebbe voluto protestare, ma non disse nulla. Non lo fece nessun altro, perché Cristopher si avvicinò alla zia della bambina per invitarla a seguirlo. La osservò mentre si chinava verso la nipote e le diceva alcune parole. Harry si chiese, mentre seguiva Emily e la bambina, per quale motivo la piccola fosse con la zia e non con i genitori. Forse era orfana oppure era andata al museo con la zia.
Il che non spiegava perché Piton fosse in loro compagnia.
Mentre si sedeva dietro una scrivania, che Emily aveva sgombrato con un colpo di bacchetta, si disse che avrebbe voluto trovarsi all’interrogatorio dell’uomo. Avrebbe voluto interrogarlo lui, di persona, e chiedergli cosa ci facesse in quel museo, chi fossero la bambina e la donna e per quale motivo non avesse risposto alle sue lettere.
Ma con ogni probabilità Piton non gli avrebbe detto nulla o gli avrebbe risposto con delle mezze-verità. In fondo, era stato una spia per anni e non si sarebbe di certo lasciato intimidire o confondere dalle sue domande. E anche se non fosse stato una spia era il miglior Occlumante in circolazione.
«Come ti chiami?»
Harry si riscosse quando Emily fece la prima domanda alla bambina.
«Rebecca Ainsworth.»
«Perché eri con Piton?»
Harry lanciò un’occhiata alla collega, una donna di grande esperienza che Micheal doveva aver ritenuto essere la più adatta ad interrogare una bambina che sembrava palesemente a disagio, mentre giocherellava con le pieghe della gonna.
«Eravamo d’accordo di prendere un tè insieme questa mattina.»
Emily scrisse qualcosa sulla pergamena che aveva accanto, ma Harry non riuscì a leggere nulla, dato che la copriva con il corpo.
«Piton ha detto a Micheal che non sei una Babbana.»
«Sì… cioè, fino a poco fa non sapevo di essere una strega, ma…»
«Nata Babbana, quindi?»
La bambina annuì soltanto. Harry lanciò un’occhiata a Emily, che aveva scritto qualcos’altro sulla pergamena.
«Cos’hai visto?»
Le domande di Emily sembravano a Harry sintetiche, prive di qualsivoglia simpatia, come se volesse mettere a disagio la bambina, che si voltò verso il corridoio, quasi sperasse di veder comparire oltre i vetri la zia. Forse Micheal avrebbe dovuto permettere alla signorina Ainsworth di assistere all’interrogatorio, come era certo avvenisse nel mondo Babbano.
«Non molto… subito pensavo che qualcuno si fosse sentito male, poi ho sentito qualcuno gridare che qualcuno era morto, ma non ho mai guardato… il signor…»
«Non hai nemmeno visto una luce verde? Per due volte?»
Rebecca scosse il capo.
«Sei sicura? Se hai paura puoi star tranquilla e dirci tutto.»
«Non ho visto nulla, signora. Il…»
«Mi chiedo come tu abbia fatto dato che ti trovavi di fronte al tavolo dove quelle due persone sono state assassinate.»
Harry scoccò un’occhiata alla collega. Emily era sulla cinquantina ed un’Auror di certo più esperta di lui, ma gli sembrava che quelle domande non avessero senso. A parer suo, avrebbe dovuto essere più paziente e gentile e non interrompere mai la bambina ogni volta che stava per nominare Piton.
All’improvviso gli parve che la donna fosse molto simile a quando lui era al primo anno ed era certo che il suo ex professore di pozioni avesse intenzione di impadronirsi della Pietra Filosofale.
«Il signor Piton era seduto di fronte al tavolo, io stavo alla sua sinistra e la zia era di fronte a lui.»
«E dici di non aver visto nulla… nemmeno una luce verde.»
«No… la zia è stata chiamata dal teatro. A me è caduto un cucchiaino e poco dopo il signor Piton mi ha detto di non guardare, quando… quando…»
«Quando l’uomo è stato ucciso?»
«Sì… ed io ho fatto come mi diceva. E poi…»
«E non ti è sembrato strano?»
Harry si mosse a disagio sulla sedia. La bambina si era fatta più nervosa o, forse, irritata e non poteva darle torto.
«No, secondo me non voleva che io…»
«Sei…»
«Emily, perché non la fai finire di parlare?»
Harry ricevette un sorriso grato dalla bambina e un’occhiataccia dalla collega. La verità era che Emily lo stava irritando. Aveva interrotto molte volte la bambina, senza che potesse spiegare cos’era successo. Ricordava bene le prime lezioni appena era stato ammesso alla formazione da Auror ed era stato ribadito allo sfinimento che bisognava mettere a proprio agio i testimoni. Invece Emily stava facendo il contrario.
«Sono io a condurre l’interrogatorio, Harry. So che sei animato da buone intenzioni, ma ho molta esperienza con i bambini. Allora, Rebecca, non ti è sembrato che Piton si comportasse in maniera strana?»
«No.»
«Come mai gli hai obbedito e non hai guardato?»
«Mamma e papà mi hanno sempre detto di obbedire ai grandi e… mi sembrava la cosa giusta da fare… e poi…»
«E poi? Cos’è successo?»
«C’era molta confusione e il signor Piton mi ha portata verso la parete. Poi siete arrivati voi.»
«E nemmeno questo ti è sembrato strano?»
«No… perché mi continua a chiedere sempre la stessa cosa?»
La domanda della bambina sembrò ammutolire per qualche istante Emily, che forse non se l’era aspettata.
«Sono state uccise due persone e dobbiamo capire ogni movimento dei maghi presenti nella caffetteria.»
«Come sono morte quelle persone?»
Harry ebbe la netta impressione che Emily stesse sorridendo, prima di rispondere.
«Sono state uccise da un incantesimo», la collega lasciò passare qualche istante, mentre Rebecca pareva volersi rannicchiare sulla sedia. «Ma credevo lo avessi capito da sola. Considerando la sua personale esperienza, Piton avrebbe dovuto parlarti dell’anatema che uccide.»
Adesso la bambina sembrava decisamente spaventata, mentre tornava a girarsi verso la porta e il corridoio deserto.
«Ho solo capito che delle persone sono morte… fino ad adesso non sapevo nemmeno che son… fossero state uccise… e…» la bambina si mosse sulla sedia, come se fosse pronta a scappare da un momento all’altro. «… non è da molto che so della magia… e non credo… insomma, non sarà… sarebbe stato bello iniziare a spiegarmi il Mondo Magico partendo dagli incantesimi che fanno del male agli altri.»
«Emily, Rebecca ha ragione», decise di dire Harry, prima che la collega potesse fare un’altra domanda alla bambina. «Non sarebbe stato logico per Piton parlarle delle Maledizioni senza Perdono.»
Rebecca gli sorrise di nuovo ed Harry le sorrise di rimando. In quel momento appariva più tranquilla, per quanto si fosse voltata nuovamente verso il corridoio.
«Può essere. Mi chiedo, però, se tu non sia spaventata da Piton e per…»
«Perché dovrei avere paura del signor Piton?»
Harry notò che Emily non sembrava per nulla contenta dell’interruzione di Rebecca, ma lui era felice che lo avesse fatto. Quando aveva visto arrivare la bambina con Piton gli era parso chiaro che lei si fidasse completamente dell’uomo.
Come lui non aveva mai fatto. Forse se fosse riuscito ad andare oltre alle apparenze sarebbe riuscito ad evitare gli errori che avevano costellato il suo tempo a scuola.
«Quindi confermi che non hai visto nessuna luce verde perché eri voltata la prima volta e perché hai obbedito a Piton?»
La bambina annuì soltanto, sperando che quelle domande finissero presto. Non le era piaciuta quella donna, che aveva continuato ad interromperla, mentre il ragazzo con gli occhiali le era stato molto più simpatico, soprattutto quando le aveva dato ragione.
«Puoi andare. Harry, accompagnala fuori.»
Rebecca scese rapidamente dalla sedia e arrivò fuori dalla stanza prima del ragazzo. Sperava che la zia o il signor Piton fossero già usciti, ma nessuno dei due la stava aspettando.
«Vieni, credo sia meglio sederci.»
La bambina seguì il ragazzo fino a due sedie, dove sedettero entrambi.
«Crede che la zia e il signor Piton usciranno presto da quelle stanze?»
Harry osservò per qualche istante Rebecca, chiedendosi se dovesse approfittare di quel momento per chiederle come avesse incontrato Piton, ma, osservandone il volto preoccupato, decise di non farlo. Forse non erano nemmeno affari suoi, si disse, mentre il sole faceva capolino da una delle finestre, illuminando il corridoio.
E il sole illuminò anche il foglio di pergamena davanti ai due Auror ancora intenti al lavoro. Uno di essi stava osservando l’uomo che stava interrogando, meditando su che domanda fare; l’altro stava fissando tranquillo la donna Babbana che gli stava di fronte.
Ygraine cercava di non fare caso al modo in cui la penna si muoveva da sola sulla pagina ingiallita, dicendosi che doveva unicamente concentrarsi sulle domande che le stava ponendo, non pensare alla magia e nemmeno a Rebecca e a quello che potevano chiederle.
«Dunque, se non ho capito male, lei è uscita poco prima che quelle due persone venissero uccise perché è stata chiamata dalla Royal Opera House e quando è tornata l’Apprendista Auror Potter le ha impedito di entrare?»
«Esattamente», Ygraine aveva tentato di mantenersi calma, di creare gli stessi presupposti degli istanti immediatamente precedenti l’ingresso in scena, quando sentiva tremare le gambe ed era certa di aver perso la voce per riuscire a ritrovare la tranquillità necessaria per affrontare la parte.
Il problema era che lì non stava recitando.
Due persone erano veramente state assassinate con un incantesimo, che quell’uomo le aveva spiegato con cura, per quanto sapesse che lei era unicamente la zia Babbana di una bambina dotata di magia.
«E si è sentita tranquilla sapendo che il signor Piton era con sua nipote?»
«Sì, certo.»
Ygraine seguì con lo sguardo il raggio di sole che illuminava il foglio di pergamena. Quella mattina, il cielo sereno le era parso una benedizione. In quel momento, si sentiva unicamente sola di fronte a quell’uomo che la stava interrogando e di fronte a quello che era accaduto.
Non che fosse stupita nell’apprendere che i Maghi possedessero un incantesimo per uccidere – erano pur sempre degli esseri umani – ma tutto quello che era accaduto la faceva sentire totalmente impotente.
Se soltanto le avessero permesso di stare con Rebecca, forse si sarebbe sentita meno in pena e miserabile.
«Interessante, considerando che Piton… ma forse lei non ne sa nulla. Per caso, ha mai sentito la parola Mangiamorte prima di oggi?»
«No, mai», Ygraine sperò che la voce non le avesse tremato e che l’uomo non si fosse accorta di come avesse stretto il tessuto della gonna con la mano sinistra come faceva sempre prima di affrontare un passaggio musicale particolarmente difficile.
Sapeva di aver appena mentito. Ricordava perfettamente di aver letto quel nome su quella strana lettera anonima. Forse avrebbe dovuto dirlo all’uomo. Con ogni probabilità era suo dovere farlo, ma non le sembrava una buona idea. Era il modo in cui quella frase era stata formulata. Le sembrava che l’uomo volesse accostare il nome di Piton a quello di Mangiamorte. E per quanto lei non sapesse cosa potesse voler dire quella parola, era quasi sicuramente certa che avesse un significato sinistro.
Un significato che non riusciva ad associare all’uomo che aveva svelato a Rebecca di essere una strega, tranquillizzandola sulle cose strane che le stavano accadendo, né men che meno all’uomo che, quel giorno, aveva protetto la nipote.
«Credo che sia tutto per ora, signorina Ainsworth.»
Ygraine si alzò in piedi e lasciò che il poliziotto magico la accompagnasse fino alla porta. Rebecca si trovava su una sedia, insieme al ragazzo con gli occhiali che le aveva impedito di entrare nella caffetteria. Non appena la vide avvicinarsi, la nipote si alzò in piedi e le corse incontro, abbracciandola.
«Può tornare a casa con sua nipote, signorina Ainsworth.»
«Non dovremmo aspettare il signor Piton, zia?»
«Il protocollo prevede che ve ne andiate. Non vorrei essere così rigido nella sua applicazione, ma è la legge», disse l’uomo che l’aveva interrogata.
Ygraine annuì, chiedendosi se dovesse chiedere spiegazioni, ma Rebecca sembrava esausta e lei non aveva nessuna idea di come funzionassero quelle cose nel Mondo Magico.
«Quando sarà finito il suo interrogatorio, potrebbe fargli sapere che gli sono grata per come si è occupato di Rebecca durante questa tragedia?»
«Naturalmente, signorina Ainsworth», disse l’uomo con un sorriso comprensivo.
Ygraine lanciò una rapida occhiata alla porta dell’ufficio dove doveva trovarsi il signor Piton, prima di incamminarsi con Rebecca.
Il sole continuava ad illuminare Londra, mentre zia nipote si allontanavano dalla Tate Britain, dove i visitatori entravano e uscivano, totalmente ignari di quanto avvenuto. D’altronde, l’uomo che l’aveva interrogata aveva spiegato a Ygraine che tutti coloro che ignoravano l’esistenza del Mondo Magico avrebbero subito un incantesimo che avrebbe alterato la loro memoria di quel tragico evento.
Una cosa che sarebbe accaduta anche a lei, se il signor Piton non avesse parlato con Rebecca quel giorno che ora le sembrava terribilmente lontano.
Il sole le colpì il volto, ma non la scaldò in nessun modo.
Quella giornata le parve ben peggiore di quelle che l’avevano preceduta, grigie e fredde. Era quasi come se il suo attuale stato d’animo, teso e preoccupato, fosse in netto contrasto con il cielo terso che la sovrastava.
Improvvisamente le sembrò di sentire, sebbene non riuscisse a capirne la provenienza, le note di un organetto che suonava una musica allegramente dissonante, che la fece rabbrividire.
Le note sembravano volteggiare davanti all’ingresso del museo e salire lungo la sua facciata, per quanto nessuno le sentisse all’interno.
Harry non riusciva a non osservare la porta dietro cui era Piton, chiedendosi perché non avesse interrotto Cristopher quando aveva inventato quella parte del protocollo. Forse, il suo supervisore aveva notato che la bambina, nonostante le sue parole, sembrava sul punto di crollare. Forse, non gli era sembrato il caso di contraddire l’uomo, che si era dimostrato comunque gentile con la signorina Ainsworth. Di certo era stato più affabile di Emily e la donna non sembrava tesa e preoccupata come la bambina, che si era ritrovato più volte a rincuorare durante l’attesa.
La luce del sole gli parve meno luminosa, quando la porta dell’ufficio si aprì.
Harry si alzò di scatto.
Piton era uscito da solo e doveva per forza di cose passargli davanti. Si trovavano in un contesto Babbano e il ragazzo sapeva che l’uomo non si sarebbe Smaterializzato. Doveva parlargli, si disse. Era il momento più opportuno, l’occasione che aveva atteso per tutti quegli anni.
«Piton…», l’uomo si fermò. «… ehm… la signorina Ainsworth ha detto di riferirle che le è grata per come si è preso cura di Rebecca durante… oggi. Avrebbero voluto entrambe aspettare, ma Cristopher… voglio dire l’Auror Taylor non glielo ha permesso.»
Non era affatto quello che voleva dire.
Ma Cristopher era ancora con lui. E Michael ed Emily potevano uscire da un momento all’altro.
Non era quello il momento per poter parlare di quello che gli stava a cuore, per poter ringraziare Piton e chiedergli perdono.
Harry avrebbe voluto che l’uomo dicesse qualcosa, ma annuì solamente, prima di andarsene. E il ragazzo si sentì particolarmente solo in quel momento, nonostante le chiacchiere degli Auror. E si sentì particolarmente miserabile, nonostante il sole che entrava dalle finestre. Forse avrebbe dovuto inseguire Piton e insistere a parlare con lui, ma sapeva che non sarebbe stata una buona idea.
Il sole pareva giocare all’interno del museo e pareva giocare scherzoso all’esterno, per quanto fosse meno splendente rispetto al momento in cui l’uomo era entrato nell’edificio quella mattina.
Severus non si era aspettato che la signorina Ainsworth e Rebecca lo aspettassero, né men che meno che lasciassero un messaggio a Potter.
Mentre un suonatore di organetti produceva la sua nenia, l’uomo si allontanò dalla Tate Britain, con la consapevolezza che, ben presto, quella specie di presente che aveva vissuto, mentre spiegava alla bambina i segreti del Mondo Magico, sarebbe finito.
L’Auror che l’aveva interrogato sembrava ritenerlo colpevole di quanto era avvenuto, per quanto non avesse uno straccio di prova.
E ben presto la signorina Ainsworth sarebbe venuta a sapere di aver affidato la nipote ad un assassino.
Di aver chiesto a Potter di ringraziare da parte sua un assassino.
Non importava nemmeno che lui non avesse commesso quel delitto.
Di certo non agli occhi di una zia che aveva chiaramente a cuore il benessere della nipote.
Gli Auror le avrebbero detto tutto.
Forse l’avevano già fatto e la donna non si era immediatamente resa conto dell’enormità di quello che aveva sentito.
Il sole illuminava il mondo intorno a lui.
Ma, mai come quel giorno, si sentiva immerso nella più assoluta solitudine.
Mai come in quel giorno si sentiva miserabile.
E, mai come in quel giorno, sentì farsi prepotente l’inverno in cui aveva vissuto da che aveva compreso di non essere stato ucciso da Nagini. Nel suo futuro vedeva, sempre più, affacciarsi la prospettiva di vivere in un costante inverno, che l’avrebbe ancora più intrappolato nella gelida solitudine della sua anima spezzata.
Era un giorno di sole, quello, dopo tanti di maltempo, ma il peso del suo passato sembrava schiacciarlo più di prima.
E si sentiva quanto mai lontano da quel perdono che non avrebbe mai potuto ottenere.


[1] Wilhelm Müller, Einsamkeit (solitudine), vv. 9-12

 
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view post Posted on 6/11/2022, 20:07
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Capitolo XIII - parte I

Die Post


Von der Strasse her ein Posthorn klingt. […]

Willst wohl einmal hinüberseh'n
und fragen, wie es dort mag geh'n,
mein Herz?

Per la via suona il corno postale. […]

Vuoi dare un'occhiata
e chiedere che c'è di nuovo,
mio cuore? [1]


Gran Bretagna, 27 gennaio 2002



Fu un cielo grigio ad accogliere Ygraine la mattina del 27 gennaio, quando scostò appena le tende dalla finestra, per non svegliare Rebecca che si era intrufolata in camera sua durante la notte. Quando erano arrivate a casa, il giorno prima, era riuscita a dire a Gawain che la giornata era passata nel migliore dei modi.
Sapeva che forse non era la scelta migliore e, la sera prima, aveva cercato di trovare un modo con cui parlare con il fratello e la cognata di quel che era accaduto, ma aveva scartato immediatamente l’idea.
Credeva che non sarebbero più state contattate dalla polizia magica e che Gawain non avrebbe mai avuto il ben che minimo sospetto di quello che era avvenuto al museo. Le era risultato chiaro che la notizia non sarebbe certo traspirata al di fuori della comunità magica. Non aveva idea di come avessero spiegato la morte di quelle due povere persone ai loro parenti, né di cosa ne fosse stato dei due cadaveri, ma la maggior parte degli abitanti della Gran Bretagna non ne avrebbe saputo nulla.
Rabbrividì appena.
Se quel giorno il signor Piton non fosse stato con loro, Rebecca avrebbe con ogni probabilità visto quei cadaveri o, forse, sarebbe stata ancora più esposta al pericolo dal momento che non ci sarebbe stato nessuno a difenderla.
Il senso di impotenza provato il giorno precedente si fece di nuovo strada in lei. Era molto simile a ciò che aveva provato quando Tristan si era ucciso. O forse era assolutamente diverso. Quando il fratello si era tolto la vita, era stata travolta da quel che era accaduto, dall’incredulità e dal senso di colpa per essere stata lontana quando Tristan aveva avuto bisogno di lei. Il senso di impotenza era arrivato dopo, quando si era resa conto che, anche se fosse stata a casa, non avrebbe potuto, con ogni probabilità, fare nulla per far desistere il fratello. Parlava al telefono con lui di frequente e, negli ultimi giorni, le era sembrato sereno e tranquillo.
Il giorno prima aveva sentito quel senso di impotenza subito, non appena si era resa conto di quanto era accaduto. Non era paura, quanto piuttosto la consapevolezza che a lei sarebbe sempre sfuggita una parte del mondo in cui Rebecca si sarebbe ritrovata a vivere. Aveva accettato la presenza della magia, ma, il giorno precedente, aveva toccato con mano il fatto che lei sarebbe stata sempre ignara di fronte ad un incantesimo.
Doveva parlare con Gawain quella sera e spiegargli della magia, si disse risoluta. Era necessario che il fratello comprendesse il dono di Rebecca e la necessità degli incontri tra questa e il signor Piton. Non gli avrebbe detto degli omicidi, ma non poteva lasciarlo ulteriormente all’oscuro. Ad aprile lei sarebbe dovuta partire per Bologna, dove avrebbe cantato Mélisande ed era certa che Rebecca avesse bisogno di parlare con qualcuno appartenente al suo stesso mondo.
«Zia», Rebecca le si era avvicinata rapidamente, senza che lei se ne accorgesse. «Ieri ci siamo scordate di invitare Severus a teatro.»
Ygraine si voltò verso la nipote e le sorrise. Era rincuorante che la prima cosa a cui avesse pensato fosse stata quella. Aveva temuto che la bambina le ponesse delle domande sulle due vittime; invece, il suo pensiero era andato all’uomo.
Forse avrebbero dovuto aspettarlo fuori dal museo, il giorno prima. Sarebbe stato un gesto che avrebbe dimostrato la gratitudine che provava per lui, ben più delle parole che sperava che l’uomo che l’aveva interrogata gli avesse riferito.
«Hai ragione, Rebecca. Forse puoi scrivergli una lettera e chiedergli se vuole venire.»
«Però la posta potrebbe non arrivare in tempo. Oggi è domenica e tu canti il 30»
«Il teatro mi ha chiesto di sostituire il soprano previsto per le prime due recite dell’Otello. Quindi potresti chiedergli se vuole venire alla recita del 7 febbraio.»
Ygraine osservò il volto di Rebecca rabbuiarsi appena. Forse non avrebbe dovuto fare riferimento alla telefonata ricevuta il giorno prima, per quanto fosse certa che dovesse affrontare il discorso con la bambina.
Non voleva ripetere l’errore commesso da Gawain riguardo alla morte di Tristan.
In quel momento, il fratello le mancava terribilmente. Era certa che avrebbe trovato le parole adatte a Rebecca, lui che era così sensibile ed empatico, quelle stesse doti che, con ogni probabilità, lo avevano spinto al suicidio.
Ma Tristan era morto e lei doveva trovare il modo per parlare con la nipote di quello che era avvenuto.
«Credo che sia una buona idea, zia», mormorò la bambina. «Credi… non so come ringraziare Severus… ieri…»
Ygraine si inginocchiò davanti a Rebecca, asciugando le lacrime che le bagnavano silenziosamente le gote. La nipote si era dimostrata fin troppo matura il giorno precedente. O, forse, non aveva ancora colto l’enormità di quello che era accaduto.
«Scrivigli tutto quello che gli vuoi dire per ringraziarlo. Sono certa che apprezzerà la tua lettera. L’andrò a spedire domani mattina stessa.»
Ygraine fu felice di vedere un sorriso sul volto della bambina. Sembrava più tranquilla in quel momento, prima di uscire dalla stanza per andare a prepararsi o, forse, a scrivere la lettera all’uomo.
La giovane donna ritornò ad osservare le case di fronte ed il cielo grigio, prima di prepararsi per la colazione. Sua cognata amava occuparsi di quel pasto la domenica mattina e Ygraine non voleva fare aspettare Margaret e Gawain, che trovò già intorno al tavolo della cucina. Rebecca li raggiunse poco dopo, rimanendo tranquilla e silenziosa, per quanto Ygraine avesse notato che la bambina era nervosa, dal modo in cui le tremava appena il cucchiaio, esattamente come la sera prima, quando avevano cenato intorno a quello stesso tavolo.
Margaret e Gawain parevano non accorgersi di nulla o, forse, credevano che Rebecca fosse agitata a causa della scuola o di una lite con uno dei suoi amici. Di certo il fratello e la cognata non potevano immaginare che la bambina fosse stata testimone di un omicidio.
Mentre sorseggiava il tè, notò che il cielo era ancora grigio e nuvoloso, ben diverso da quello luminoso del giorno prima, ben più adatto alla morte che si era abbattuta su quelle due povere persone.
Ed il cielo era così su tutta l’Inghilterra, un cielo grigio plumbeo che aveva fatto ripiombare l’isola nell’inverno più gelido. Quella domenica le vie che percorrevano il Regno Unito erano pressoché deserte e nessuno sembrava essersi voluto allontanare dal proprio tetto.
Anche Spinner’s End, con le sue case operaie di epoca vittoriana, era completamente deserta, notò Severus che stava osservando la strada da una delle finestre del pianterreno. Tutto pareva immobile e glaciale, quanto era glaciale l’inverno che sarebbe tornato ben presto ad avvolgerlo completamente.
Era certo che il giorno precedente sarebbe stato l’ultimo in cui aveva visto il volto fiducioso della bambina. Forse Rebecca avrebbe potuto non comprendere appieno con che mostro aveva avuto a che fare, ma la signorina Ainsworth non ci avrebbe messo molto, prima di decidere che sua nipote non poteva più parlare con un assassino.
Aveva sempre saputo che quel giorno sarebbe arrivato.
Ed allora l’inverno sarebbe stato completo.
Ed allora avrebbe perso quei rari momenti di illusoria pace.
Ed allora gli sarebbe rimasto unicamente il volto di Lily ed il volto di coloro che aveva ucciso e il volto di coloro che non era riuscito a salvare.
Li avrebbe visti sempre, anche quando portava avanti le ricerche pozionistiche per cui veniva pagato.
Li vedeva già, nell’inverno della sua anima, quando tagliava gli ingredienti, quando si chinava sul calderone.
Aveva sempre saputo che presto o tardi quella breve parvenza di presente si sarebbe persa per sempre. Aveva scioccamente sperato di avere più tempo davanti.
Si allontanò dalla finestra e andò ad aprire il cassetto di una vecchia credenza per lo più ingombra di libri. Le lettere che Rebecca gli aveva scritto erano riposte ordinatamente, sopra la foto di Lily che aveva sottratto a Grimmauld Place.
Le estrasse e le posò sul tavolo.
Di quei giorni in cui aveva vissuto una parvenza di presente, non gli sarebbero rimaste che quelle lettere.
Era cosciente, mentre si sedeva e rileggeva ogni parola vergata nella grafia tondeggiante di Rebecca, di essere riuscito a mentire più e più volte a sé stesso. Si era detto che continuava ad accettare di incontrare la zia e la bambina unicamente per indossare la maschera di una persona normale, per rubare un attimo di requie.
Forse era stato così la prima volta, ma doveva ammettere di essersi affezionato a Rebecca e di aver atteso quei rari momenti di luce nell’oscurità della sua vita. Era arrivato anche ad apprezzare la discreta presenza della signorina Ainsworth.
Ma tutto sarebbe finito.
Non avrebbe più ricevuto alcuna lettera.
O forse gliene avrebbe spedita una la signorina Ainsworth, dicendogli che non avrebbe più dovuto anche solo pensare di vedere la bambina.
D’altronde, sarebbe stato meglio così, soprattutto in considerazione di quello che era accaduto il giorno prima.
Nonostante l’Auror che l’aveva interrogato avesse fatto di tutto per apparire sottile, Severus aveva compreso che sospettavano di lui, che, con ogni probabilità, era effettivamente l’unico mago rimasto nella caffetteria dopo gli omicidi. L’assassino aveva avuto tutto il tempo per andarsene prima dell’arrivo degli Auror. Gli sarebbe bastato passare per le cucine e nessuno tra i presenti si sarebbe accorto di nulla.
Cercò di ricordarsi la disposizione degli altri avventori nella caffetteria, ma la sua attenzione era sempre stata concentrata su Rebecca e non era nemmeno certo che sarebbe servito ripercorrere quei momenti in un Pensatoio.
Sapeva di non essere stato abbastanza vigile quel giorno, ma non si era aspettato che potesse accadere qualcosa del genere nella caffetteria del museo.
Ed era stato uno stolto.
L’assassino avrebbe potuto colpire Rebecca.
Severus osservò le lettere della bambina, sforzandosi di non pensare a quello che sarebbe potuto accadere se Rebecca fosse morta davanti a lui.
Chiunque avesse commesso quel delitto, aveva colpito quei due Babbani e non credeva che li avesse scelti perché aveva avuto degli alterchi con loro. Chiunque fosse stato doveva aver avuto delle motivazioni e Severus temeva che queste avessero qualcosa a che fare con il suo nefasto passato.
Non aveva alcuna prova in proposito, ma c’era qualcosa in tutto quello che era accaduto che lo portava a ritenere che quella fosse la risposta più ovvia.
E se quello era il caso, era meglio che Rebecca e la signorina Ainsworth gli stessero lontane, anche a costo di perdere per sempre quei rari momenti di pace.
Tenendo in mano una delle lettere della bambina, si avvicinò alla finestra. Fuori il cielo era sempre plumbeo, senza che un minimo raggio di luce illuminasse quella domenica di gennaio. Da qualche parte una cornacchia spelacchiata volteggiava nell’aria; da qualche parte un suonatore d’organetti produceva le sue melodie stridenti.
I rami di un tiglio si mossero agitati dal vento poco distanti dall’appartamento degli Ainsworth, mentre Ygraine apriva lo sportello della lavastoviglie e iniziava a riporvi all’interno i piatti usati per la colazione. Rebecca si era rifugiata in camera sua e lei trovava sollievo in quei gesti così banali, per quanto non riuscisse a non pensare a quello che era avvenuto ieri e al modo in cui Severus aveva protetto sua nipote.
«Ygraine», la voce di Gawain le fece quasi cadere di mano la tazza che stava sistemando in lavastoviglie. «Jane è appena arrivata.»
«Sì, certo, grazie.»
Ygraine si lavò rapidamente le mani, chiedendosi per quale motivo la pianista fosse andata a casa sua quella domenica. Di solito era lei a raggiungere la donna, poiché Gawain non possedeva un pianoforte, a meno che non dovessero unicamente analizzare una nuova parte.
«Eccoti», esclamò affabilmente la donna. «Ti ho portato lo spartito dell’Otello nell’edizione che seguiranno a teatro e le annotazioni del regista.»
Ygraine annuì soltanto, mentre le tornava in mente l’intera telefonata che aveva ricevuto il giorno precedente. Quello che era accaduto le aveva fatto dimenticare dei particolari, come quello che a telefonarle a nome del teatro era stata Jane, che, quel sabato, si trovava al Covent Garden nel suo ruolo di maestro accompagnatore. Si erano accordate affinché la pianista le portasse tutto il materiale che le potesse servire.
«Qualche dritta sulla regia?»
La domanda le sembrò quasi priva di importanza, anche se sapeva che doveva iniziare a studiare bene le annotazioni che le erano state fornite, in alcuni trasparenti che sbucavano tra le pagine dello spartito, e, nel caso, mettersi in contatto personalmente con il regista, considerando che avrebbe iniziato a provare dall’ante-generale. Ma in quel momento non poteva fare a meno di pensare a quelle due persone uccise e alle domande che i poliziotti magici avevano posto a lei e a Rebecca.
«L’ambientazione è contemporanea e ci sono diversi spunti interessanti. Soprattutto Desdemona appare più pugnace del solito. Secondo me ti piacerà.»
«Lo spero.»
«Vuoi già iniziare a rivedere la parte?»
«Non oggi. Magari, se sei libera, potremmo vederci domani mattina a casa tua.»
Jane annuì, mentre Ygraine stringeva con forse troppa forza la partitura. Per un istante avrebbe voluto raccontare tutto all’altra donna, ma sapeva che non poteva farlo. Il Mondo Magico doveva rimanere segreto, si era raccomandato il signor Piton, e, anche se così non fosse, non avrebbe mai voluto preoccuparla con la narrazione di quello che era avvenuto alla Tate Britain.
«Oh dimenticavo… il portinaio mi ha lasciato questa lettera per te», aggiunse la pianista, porgendole una busta con sopra scritto il suo nome.
«Grazie, Jane.»
Ygraine congedò poco dopo la pianista, per poi rifugiarsi in camera. Lasciò cadere lo spartito sul letto, prima di aprire la busta. Le mani le tremavano leggermente, mentre estraeva un foglio, su cui erano state vergate alcune righe.
Il marcio è finalmente emerso. Forse ora starai realmente in guardia contro chi ha il cuore macchiato e l’anima lorda.
Dovresti essertene accorta nel tempo trascorso in mezzo al marciume, ma non sei mai stata attenta agli altri come credi di essere. Tre persone sono morte per questa tua scarsa perspicacia.

Ygraine non seppe per quanto tempo rimase immobile, tenendo in mano quel foglio. Rilesse più volte il testo, poi, si mosse improvvisamente e aprì il cassetto del comodino, da cui estrasse le altre due lettere anonime che aveva ricevuto. Era certa che fossero state scritte dalla stessa persona, così come era sicura che l’ultimo scritto facesse riferimento al giorno precedente. Forse, se ne avesse avuto l’occasione, avrebbe dovuto mostrarli ai poliziotti magici che indagavano sul caso, ma non le sembrava la mossa giusta da fare.
Deglutì a vuoto, mentre riesaminava i tre fogli.
La loro stessa presenza la inquietava. Qualcuno doveva seguirla da tempo o, più probabilmente, doveva seguire da tempo il signor Piton. Era a lui che doveva far riferimento l’anonimo scrittore, il che non aveva senso.
Per quel che ne sapeva.
«Zia», la voce di Rebecca la fece sobbalzare di colpo. Raccolse rapidamente i fogli e li infilò all’interno di una delle carpette trasparenti che contenevano le note di regia. «Devi venire… subito. Sono appena arrivati gli stessi di ieri.»
Ygraine osservò per qualche istante la nipote, prima di realizzare il significato delle sue parole. Si chiese come spiegare a Gawain la situazione, sperando che quei maghi non avessero dato per scontato che il fratello fosse a conoscenza del fatto che Rebecca era una strega. Se lo avessero fatto, tutto il discorso che si era preparata per quella sera sarebbe andato in fumo, perché non era certa che Gawain la sarebbe stata ad ascoltare.
Quando entrò nel salotto, con la nipote, notò che erano presenti il ragazzo con gli occhiali, l’uomo che aveva interrogato Piton e la donna che aveva interrogato Rebecca.
«Signorina Ainsworth, Rebecca», a parlare era stato l’uomo. «Come stavo spiegando al signor Ainsworth abbiamo ancora qualche domanda da porvi.»
Ygraine incontrò lo sguardo di Gawain e notò che il fratello era decisamente arrabbiato, mentre Margaret sembrava sgomenta.
«Certamente, siamo a vostra disposizione.»
Le sembrava la cosa giusta da dire, anche se si chiedeva per quale motivo dovessero arrivare in casa di suo fratello quella domenica mattina invece di convocare lei e Rebecca in qualsiasi posto fosse la sede della polizia magica.
«L’Auror Thomson si occuperà di lei, signorina Ainsworth; mentre io e l’Apprendista Auror Potter ci occuperemo di Rebecca. Signori Ainsworth vi chiediamo di allontanarvi, mentre lei signorina Ainsworth può condurre l’Auror Thomson nella sua stanza.»
Ygraine annuì, prima di accompagnare la donna lungo il corridoio e verso la camera degli ospiti. La partitura giaceva sul letto, aperta, con le note di regia ben visibili, accanto all’inizio dell’atto IV. Non si era nemmeno accorta di aver infilato le lettere anonime dietro ai fogli che le aveva fornito il regista e si sentì sollevata per questo.
«Può sedersi alla scrivania, se vuole», disse gentilmente all’Auror Thomson, prima di sedersi sul letto.
«Il mio collega mi ha detto di averle posto alcune domande ieri, ma ci sono degli elementi che risultano pochi chiari, signorina Ainsworth.»
Ygraine non disse nulla, mentre la donna si sedeva e la fissava con attenzione, prima di sistemare sullo scrittoio alcuni fogli, penna e calamaio.
«Ha detto di essersi allontanata dalla caffetteria perché qualcuno l’ha chiamata, è corretto?»
«Sì, ho ricevuto una telefonata dal Covent Garden, dove sto cantando in questi giorni. Mi è stato chiesto di sostituire una mia collega per due recite di Otello
Ygraine notò che l’Auror Thomson sembrava preferire scrivere di persona, contrariamente a quello che aveva fatto l’uomo il giorno precedente.
«Quindi si è alzata ed è uscita dalla caffetteria, lasciando sua nipote sola con Piton», commentò seccamente la donna. «Perché non ha ritenuto più opportuno portare la bambina con lei?»
«Non ne avevo motivo. Non era la prima volta che incontravamo il signor Piton e…»
«In quali altre occasioni ha parlato con lui?»
Ygraine fece uno sforzo per non mostrarsi infastidita di fronte all’interruzione della donna, cercando di immaginarla come quel direttore d’orchestra che voleva che cantasse a tutti i costi in pianissimo in un momento in cui l’orchestra rischiava di sovrastarla. Non sapeva nemmeno se fosse riuscita a nascondere il suo fastidio, anche se, forse, i cinque anni trascorsi dal suo debutto avrebbero dovuto insegnarle qualche dote diplomatica.
«Gli ho parlato per la prima volta il nove dicembre.»
«E dopo poco più di un mese è così fiduciosa da affidargli sua nipote?»
«Sì. Non ho avuto e non ho alcun motivo per non fidarmi di lui.»
Ygraine notò che la donna la stava fissando intenta, quasi volesse risolvere un indovinello particolarmente difficile.
«Interessante questa sua fede, signorina Ainsworth. Però, forse, quello che è accaduto ieri l’ha confusa… è certa di non aver notato nulla di strano in Piton?»
«No, nulla.»
Quella donna stava iniziando a irritarla, con quelle domande su Severus, che di certo non l’avrebbero aiutata a capire chi fosse stato ad assassinare quelle due povere persone. Non aveva nemmeno senso che volesse interrogarla nuovamente, considerando che non si trovava nella sala e che, anche se fosse stata, non avrebbe comunque saputo riconoscere alcunché di magico.
«Ha detto di avergli parlato per la prima volta il nove dicembre. Dove è accaduto questo incontro?»
«Alla Tate Britain, in una delle sale del museo.»
Ygraine sapeva di essere stata forse troppo vaga con la risposta, ma non le piacevano quelle domande e non aveva alcun motivo per raccontare del giorno in cui Rebecca aveva magicamente cambiato il colore dei fiori sul vestito di un’altra visitatrice, né del fatto che aveva già notato l’uomo seduto, da solo, in quella stessa sala, sempre allo stesso posto, davanti al quadro di Sancta Lilias.
«Quale sala?»
«Non lo ricordo con precisione. In quei giorni andavo spesso al museo perché stavo cercando una chiave di lettura per il personaggio di Elsa von Brabant e, a volte, mi piace trovare ispirazione nella pittura. Credo di aver girato per tutte le sale del museo all’epoca.»
Ygraine notò che l’Auror sembrava in qualche modo delusa dalla sua risposta o, forse, il suo riferimento al Lohengrin l’aveva lasciata confusa. Non sapeva nemmeno lei per quale motivo non avesse nominato la sala in cui aveva parlato con l’uomo la prima volta. D’altronde, non riteneva che fosse un’informazione importante per la donna e non voleva nemmeno infrangere la riservatezza che sembrava circondare il signor Piton.
«Poi vi siete incontrati altre volte, immagino.»
«Esattamente.»
«E in nessuna occasione ha avuto paura di Piton?»
«Assolutamente no. D’altronde non avrei permesso a Rebecca di parlargli, se mi avesse intimorita.»
«Invece potrebbe anche essere, signorina Ainsworth, che lei sia tuttora intimorita da lui, che stia mentendo perché è terrorizzata da quel che Piton potrebbe fare.»
«Come le ho appena detto, non mi sono mai sentita intimorita dal signor Piton. Al contrario, ripongo in lui la più completa fiducia.»
Ygraine avrebbe voluto chiedere a quella donna per quale motivo le facesse quelle domande prive di senso, quando il suo compito sarebbe stato quello di cercare l’assassino.
E quello non poteva in alcun modo essere l’uomo, per quanto sembrasse che l’Auror stesse cercando qualunque appiglio per poterlo accusare.
«Cosa sa di Piton per poter fidarsi così ciecamente di lui?»
«So che ieri ha protetto Rebecca», sapeva che non stava rispondendo realmente alla domanda dell’Auror, ma non conosceva molto dell’uomo.
Aveva notato che non parlava mai di sé, se non qualche breve informazione data in risposta ad una delle domande della bambina, e lei non aveva mai ritenuto necessario porre domande ad un uomo che le era parso incredibilmente riservato.
«Null’altro?»
«Ha insegnato nella scuola per maghi – mi perdoni, ma non ne ricordo il nome – in Scozia ed è un pozionista. Rebecca gli ha posto molte domande sulla materia.»
«E non sa altro? Non le ha mai detto del male che ha fatto in vita sua?» Ygraine scosse il capo, dicendosi che doveva rimanere tranquilla, che non aveva sbagliato a fidarsi dell’uomo. «Non le ha mai detto che si trova fuori dal carcere unicamente per le parole di un ragazzino? In altre circostanze sarebbe stato sicuramente condannato ed in questo momento si troverebbe a scontare la sua pena ad Azkaban, una prigione per maghi.»
«Se è stato giudicato e assolto, deve esserci necessariamente una motivazione logica.»
Ygraine tentò di rimanere tranquilla, nonostante le parole della donna l’avessero scossa, per quanto non riuscisse a comprendere nemmeno lei in che modo. Era convinta di quello che aveva appena detto.
Ma quella era l’unica cosa di cui fosse veramente certa.
«Questo se i giudici non fossero stati assolutamente ciechi. Nessun altro sistema giudiziario l’avrebbe lasciato libero, ma quegli stolti hanno assolto un assassino, un mostro privo di morale… e lei gli ha parlato e gli ha affidato sua nipote. D’altronde non mi stupisco nemmeno che non sappia nulla di lui. Troverei quanto meno improbabile, in questo caso, che una Babbana permetta alla nipote Nata Babbana di parlare con un Mangiamorte.»
Ygraine non commentò le parole della donna. Si sentiva confusa. Se le parole della donna corrispondevano a verità, allora avrebbe dovuto interrogarsi sul signor Piton, avrebbe forse dovuto prenderne le distanze. Eppure, non riusciva a dimenticare la solitudine che sembrava avvolgerlo, né il modo in cui aveva parlato a Rebecca del Mondo Magico, né il modo in cui aveva protetto la nipote il giorno precedente. E quelli non erano i comportamenti di un mostro.
Non poteva nemmeno mettere in dubbio le parole della donna. Anche il giorno precedente era stata nominata la parola Mangiamorte ed era certa che l’altro poliziotto magico l’avesse pronunciata in riferimento al signor Piton.
Si disse unicamente che sarebbe stato meglio riflettere più tardi, con calma, sulla questione e che, qualunque fosse la verità, aveva una sola certezza circa quello che era accaduto il giorno precedente: Severus Piton aveva protetto Rebecca e non aveva commesso quei due omicidi.
L’Auror la stava fissando intenta, come se si aspettasse che lei le ponesse una domanda, ma Ygraine si voltò a guardare il cielo grigio, dove una cornacchia spennacchiata stava volando pigramente da un tetto all’altro, fino a che non si posò per alcuni istanti su uno dei davanzali dell’appartamento di Gawain Ainsworth. L’uccello sembrò quasi fissare Rebecca che sedeva a disagio di fronte ai due Auror.
Almeno c’era quello con gli occhiali, si disse la bambina, notando che l’uomo più giovane le stava sorridendo incoraggiante. Quanto all’altro uomo le sembrava essere proprio come la donna del giorno prima, la stessa che stava interrogando zia Ygraine.
«Mi dispiace di doverti fare altre domande, ma ci sono alcuni particolari che non sembrano coerenti», stava dicendo l’uomo più anziano. «Tu dici di non aver avuto paura quando Piton ti ha trascinata contro la parete. Eppure, avresti dovuto provare una paura tremenda.»
«Perché?»
Forse non avrebbe dovuto fare una domanda all’uomo, ma era stanca di tutto quel continuare ad insistere sui sentimenti che aveva provato il giorno prima. Non riusciva nemmeno a capire perché dovessero interrogare sempre lei e la zia, né quell’insistenza su Severus.
«Un uomo che non conosci bene ti trascina all’improvviso dal posto dove sei seduta. Sarebbe stato unicamente naturale per te avere paura.»
«Non era uno sconosciuto. Non capisco perché…»
«È più che naturale che tu sia confusa, Rebecca, considerando quello che è accaduto ieri, ma devi capire che non posso tralasciare nulla. Quindi – e vorrei che tu fossi completamente sincera con me – hai avuto paura quando Piton ti ha trascinata contro la parete?»
«No.»
«Perché?»
«Ero certa che il signor Piton mi avrebbe tenuta al sicuro.»
Harry osservò con attenzione la bambina, chiedendosi cosa l’avesse resa così sicura, come avesse fatto a capire fin da subito che Piton era un uomo di cui ci si poteva fidare. A lui erano serviti dei ricordi che era certo di aver ricevuto unicamente perché l’altro era sicuro di star per morire. L’aveva lasciato lì nel suo sangue ed era stato solamente un puro caso se, quando era ritornato nella Stamberga Strillante, aveva notato che l’uomo stava respirando ancora. Al San Mungo gli avevano spiegato che il morso del serpente non era stato letale – a dire il vero erano stati molto più precisi, ma lui non ci aveva capito nulla – anche se Piton era sopravvissuto quasi per miracolo. Se Harry lo avesse ritrovato anche solo pochi minuti dopo, non ci sarebbe stato più nulla da fare ed avevano rischiato comunque più volte di perderlo.
«Come facevi ad esserne certa?»
«È… mi sono sempre fidata di lui, da quando è stato così gentile da prestarmi un fazzoletto.»
Harry osservò con attenzione la bambina, chiedendosi che cosa l’avesse portata a pensare che Piton fosse gentile. D’altronde non sapeva nulla di quanto fosse accaduto tra Rebecca e l’uomo, né dove si fossero conosciuti.
«E questo dove sarebbe accaduto?»
«Al museo.»
«E da allora ti sei fidata di lui?»
Harry avrebbe voluto che Michael ponesse altre domande alla bambina, ma il collega sembrava essersi fissato sulla questione della fiducia di Rebecca per Piton e non sul come e sul perché lei gli avesse chiesto un fazzoletto.
«Certo.»
«Non ti sei mai sentita costretta a fidarti di lui? Non hai mai avuto paura di Piton?»
«No… non ho mai avuto paura di lui.»
«Ne sei certa?»
«Sì, quante volte lo devo ripetere?»
La voce di Rebecca si era leggermente spezzata ed Harry notò che le labbra le tremavano. Quello che stava facendo Micheal era assurdo, per quanto le sue domande fossero forse più gentili di quelle di Emily, gli sembrava quasi peggiore di lei.
«Non credi che la bambina sia stanca?»
Il collega si voltò verso di lui, corrugando appena le sopracciglia. Poi tornò a guardare Rebecca.
«Hai ragione Harry. Scusami, Rebecca, non volevo essere così insistente, ma si tratta di un caso molto complicato. Puoi rimanere con lei, mentre vado a parlare con i suoi genitori?»
«Sì, certo.»
Harry era grato che Micheal lo fosse stato a sentire, per quanto trovasse totalmente inutile trovarsi lì a interrogare la bambina. A lui era completamente chiaro che Piton non aveva alcun motivo per uccidere quei due Babbani. Eppure, Emily sembrava convita di un suo coinvolgimento e Micheal gli era apparso, quella mattina, molto incerto sul da farsi e capace di farsi influenzare dalla donna, che aveva spinto perché andassero immediatamente a interrogare zia e nipote.
«Adesso mi farà delle domande anche lei?»
«No, certo», il ragazzo notò che Rebecca si era rilassata alle sue parole.
«Possiamo sederci sul divano?» domandò la bambina, alzandosi dalla sedia. Harry annuì soltanto e la seguì fino al sofà che sembrava di certo più confortevole delle sedie su cui era stati seduti fino a quel momento. Dalla stanza accanto, gli parve di sentire le voci soffocate di Michael e dei genitori di Rebecca. «Conosce il signor Piton?»
«Sì, è stato un mio insegnante.»
Era una risposta evasiva ed Harry lo sapeva bene, ma non sapeva cos’altro dire. Era certo che Piton non avesse rivelato alcunché alla bambina e non credeva nemmeno che spettasse a lui farlo.
«E lei è stupito perché non ho paura di lui, come sembrano credere gli altri?»
Nemmeno a quella domanda sapeva come rispondere, perché era effettivamente stupito, ma non per le ragioni che poteva credere Rebecca. Non riteneva né logico né sensato continuare a interrogare la bambina e sua zia, quando era così chiaro che Piton non aveva fatto assolutamente nulla a quei due Babbani. Era certo che l’assassino si fosse confuso con gli altri avventori della caffetteria che erano stati fatti uscire dalle cucine.
«Signor Auror…»
«Scusa, Rebecca, mi sono distratto e puoi chiamarmi Harry», le disse con un sorriso, cerando di ritardare il più possibile la risposta alla domanda che gli aveva rivolto la bambina. «Per risponderti… no, non ne sono rimasto stupito.»
Sapeva di aver appena mentito, ma Rebecca gli sorrise soddisfatta, il che voleva dire che gli aveva creduto. E di questo era felice. Avrebbe voluto che anche gli altri Auror gli dessero retta. Aveva provato a dir loro che Piton era l’ultima persona di cui sospettare, ma ricordava ancora lo sguardo di Emily. La donna doveva crederlo ingenuo o, forse, non voleva farsi insegnare alcunché da un apprendista.
«Allora potrebbe far avere al signor Piton una lettera da parte mia? La zia la spedirà domani, ma lei è un mago e il signor Piton mi ha spiegato che ci sono modi molto rapidi per viaggiare…»
Harry fu colto completamente alla sprovvista dalle parole di Rebecca. Si era aspettato altre domande su Piton, ma non quella richiesta. Senza quasi accorgersene si ritrovò ad annuire. Mentre la bambina andava in camera sua per prendere la lettera di cui aveva parlato, il ragazzo si chiese perché avesse accettato. Forse era stato il sorriso che Rebecca gli aveva rivolto poco prima, oppure la possibilità di far visita a Piton con un pretesto che gli avrebbe forse permesso di parlare con lui.
«Devo aggiungere qualche riga», annunciò la bambina quando tornò a sedersi di fianco lui. «Cosa pensa del signor Piton, Harry?»
Il ragazzo osservò Rebecca aggiungere rapidamente alcune parole alla lettera. Quella bambina sembrava avere l’abilità di porre domande a cui era difficile dare una risposta, forse perché si trattava di argomenti su cui non aveva ancora riflettuto come avrebbe voluto.
«Credo…», si interruppe, mentre cercava di riordinare le idee, ricordandosi delle conversazioni avute con Hermione e della sua delusione quando tutti sembravano essersi dimenticati che non dovevano la vittoria unicamente a lui. «Non è facile risponderti. Ecco, vedi, Rebecca, non ho sempre pensato… per molti anni, mentre ero a scuola, non ho avuto un’opinione positiva di lui, ma, poi, ho scoperto di essermi sempre sbagliato. È un uomo incredibilmente coraggioso a cui devo tantissimo. È un eroe, Rebecca.»
La bambina aveva ripiegato e imbustato la lettera e lo stava fissando come se fosse in cerca di una domanda da fargli. E forse gliel’avrebbe posta se in quel momento non fossero arrivate Emily e la signorina Ainsworth e, pochi istanti dopo, Micheal e i genitori di Rebecca.
Prese in mano la lettera e la infilò in tasca, poi, senza quasi accorgersene si ritrovò in strada. Salutò rapidamente i colleghi, prima di camminare velocemente verso il caffè Babbano dove avrebbe incontrato Hermione. Forse avrebbe dovuto annullare quell’incontro e andare direttamente da Piton, ma aveva bisogno di condividere con lei i dubbi che aveva su come era stata condotta quell’indagine.

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[1] Wilhelm Müller, Die Post (La posta), v. 1 e vv. 10-12. La traduzione è presa dal programma di sala di Santa Cecilia

 
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view post Posted on 6/11/2022, 21:38
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