Autore: biboarwen
Beta-reader: nessuno
Tipologia: one-shot
Raiting: per tutti
Genere: drammatico, introspettivo
Personaggi: Severus Piton, Pomona Sprite, Aberforth Silente
Pairing: un accenno di Severus/Hermione
Epoca: sesto anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: un uomo vincolato da una promessa assurda non riesce ad accettare la mano tesa di chi vorrebbe essergli amico. Un assassino distrutto non può concedersi il lusso di farsi amare.
*Sto tentando l’assurda impresa di collegare tutte le mie storie per questo concorso. Questa, di conseguenza, è un prequel di “Portami a casa” e di “Addio, amico mio…”*
Note: storia scritta per la sfida annuale “15 anni con Severus”. Mese di Maggio. Scuola di Durmstrang
Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.
Caratteri spazi inclusi: 17650
SOLO IL TEMPO DI DIMOSTRARTELO
È una notte umida. L’ennesima notte umida, impietosa e piena di occhi senza nome.
La primavera sorgerà, domani. Guarderà il mondo con le sue iridi azzurre, piene di rinascita e di speranza.
Il resto del mondo.
Gli altri vedono venti leggeri che tentano i fili d’erba in turbinii mutevoli, luce e spazio che si fondono in un’anteprima d’estate, vedono vita. Io vedo solo nuove colpe da provare ad espiare, un avvicinarsi incalzante e irrefrenabile verso il mio nuovo incubo.
Vedo solo nuova morte. La tua morte.
Non sanno, loro, cosa nasconda una casacca nera perennemente impeccabile. Non possono saperlo. Sono sempre stato troppo bravo a travestire lacrime asciutte da apatia, sentimenti da indifferenza.
La lettera di Pomona è aperta malamente sulla scrivania. Contiene le stesse istruzioni delle precedenti: un appuntamento fumoso alle prime luci dell’alba, giù al villaggio. Una riunione dai richiami carbonari per decidere le coltivazioni di inizio primavera.
Non so perché perseveri nel chiedermi consiglio, anche adesso che non ho più la cattedra di pozioni. So solo che tutti gli anni, da un’infinità di tempo a questa parte, mi ritrovo a seguire il medesimo copione: una Burrobirra per lei e un whisky incendiario per me su un tavolo sudicio della Testa di Porco, una rapida visita al negozio di sementi, un’ultima conversazione intavolata sulla via principale, più per i dettami di un’educazione di cui si sente schiava che per effettiva voglia. E poi di nuovo al castello. Lei per la sua strada, io per la mia. Entrambi decisi a non rivolgerci la parola per la restante parte dell’anno.
Funzionerà così, anche domani.
È l’ennesima notte umida, impietosa e piena di occhi senza nome, in cui l’ennesima promessa assurda mi rimbomba nella testa senza concedermi assoluzione. La promessa fatta a due occhi velati di follia. Due occhi che un maledetto nome ce l’hanno e che assomiglia tanto alla parola
padre.
Per me un padre è sempre stato un qualcuno dalle mani enormi e dallo sguardo annebbiato dall’alcol. La pallida imitazione di un uomo che dispensava pugni con la facilità con cui gli altri padri dispensavano carezze. Che riversava vomito come gli altri riversavano consigli. Che trasudava odio quanto gli altri trasudavano amore.
No, io non ho mai avuto un padre. Ma tu ci assomigli pericolosamente, Albus. Per lo meno ci sei assomigliato finché non mi hai chiesto di far marcire fino all’ultimo centimetro del mio sentirmi un essere umano.
Quando ti sbarrerò gli occhi con un incantesimo potente e perfetto, di tutto questo, cosa resterà? Rimarranno un ammasso di pietre crepate, un’infinità di macchie di umido, un saettare di torri sontuose, un’infilata di arazzi inestimabili. E niente varrà più niente.
Io, non varrò più niente.
Non ho mai trovato la forza per uccidere il rifiuto umano che mi ha messo al mondo, ma ho trovato il coraggio di pronunciare quella promessa. Di uccidere te.
E c’è qualcosa di grottesco, di sbagliato.
Sarà questo l’omicidio che disintegrerà definitivamente il poco che mi resta dell’anima? Suppongo di sì.
Vorrei odiarti per questo. E non ci riesco. In fin dei conti non ci sono mai riuscito, nemmeno quando, con l’innocenza di un bambino, mi hai chiesto di mettere la mia bacchetta al servizio della giustizia. Ti sei sempre raccontato che uccidere uomini e donne innocenti per mantenere una copertura potesse essere giustizia. Lo hai raccontato anche a me. E io, come uno stupido, ti ho creduto.
Non è giustizia, Albus. Occhi terrorizzati che ti guardano imploranti, chiedendo di concedergli anche solo un altro giorno, non sono giustizia. Sono orrore.
La mia vita è costellata di cose assurde. Questa promessa non lo è più di altre. Ma fa più male. Molto più male, di tutte le altre.
E adesso mi sento solo, distrutto, impotente. Mi sento un assassino.
Fino ad oggi mi sono ripetuto come un mantra la favola in cui mi hai fatto credere, ma ora sembra non valere più niente. Quale giustizia vale la morte di un padre?
Ho pensato di non avere più nulla per cui valesse la pena di vivere. Ancora una volta. Per l’ultima volta.
Poi sei arrivata tu.
Ti sei presentata nel mio ufficio con una lettera di Minerva tra le dita, carica di tutte le tue buone intenzioni e di quella dannata voglia di conoscenza che in te ho riconosciuto e che è stata la mia compagna per tutta la vita.
Non dovevi farlo, Hermione. Non sono pronto ad affrontare anche te.
Perché lo fai? Perché mi sputi in faccia il tuo amore assurdo? Io sono un mostro, ragazzina. Un mostro non è in grado di farsi amare. Vorrei davvero sapertelo dire, vorrei davvero salvarti. Ma non sono capace di farlo.
Di me resta solo un fantoccio manovrato da un burattinaio abile, suadente e spietato. Dovrei correre nel suo studio, nascosto sulla cima del mondo, farmi ordinare di abortire sul nascere questo battito sbagliato del cuore. Forse così riuscirei a difenderti.
Perché, per quanto mi sforzi di farti vedere il marciume di cui sono saturo, tu non mi riservi altro che sorrisi. Ti ostini a volermi guardare dentro.
C’è il baratro dentro, Hermione.
Perché non mi osservi con disgusto? Perché non temi la mia presenza avvolta in una nuvola nera ed impenetrabile? Lo hanno sempre fatto tutti.
Stai solo aspettando che, alla fine di questo anno maledetto, io ti dimostri di cosa è capace un Mangiamorte? Guarderai il corpo senza vita di Albus Silente e scoprirai che l’uomo che ti ha fatto battere il cuore per un istante inconfessabile, è stato capace di tutte le atrocità di cui sono pieni i racconti.
È giusto così. Dammi solo qualche mese e ti darò prova di quanto merito l’odio che mi è sempre stato rivolto.
L’ennesimo bicchiere di whisky semivuoto mi guarda dalla scrivania con la compassione che mi concede dalle ultime luci del tramonto. Nemmeno l’alcol riesce più ad annebbiare il mio tormento. Sono solo nuovi rigurgiti di bile che si sommano ai fantasmi.
La sbiadita parodia di un uomo guarda l’alba che sta per nascere dietro al lago.
Con la bacchetta faccio un cenno svogliato. Un caffè nero e amaro si materializza tra la lettera e la bottiglia di whisky. Ne bevo un lungo sorso, ustionandomi la lingua e cercando nel dolore una scappatoia semplice ai pensieri. Non ci riesce. Dovrei smetterla di illudermi che qualcosa ci riesca.
Mi alzo dalla poltrona cercando una stabilità che le gambe mi concedono a stento. Un altro sorso di caffè. Il gusto schifoso scaccia per un istante il conato di vomito dal sapore di whisky che mi risale la gola.
Inforco il mantello, infilo la lettera nella tasca.
La prima luce del mattino accarezza il prato a ridosso del castello, mentre affretto il passo su una strada che conosco in ogni suo filo d’erba.
I contorni dei tetti sbilenchi di Hogsmeade disegnano lentamente l’orizzonte in modo sempre più distinto, i mattoni scuri si stagliano nitidi sopra agli ultimi accenni di brina che l’inverno riesce a rivendicare sull’asfalto.
Il silenzio sembra quasi irreale al cospetto delle serrande abbassate e delle persiane socchiuse, da cui flebili luci tremolanti tradiscono il risveglio tardivo del resto mondo. Solo il rumore felpato dei miei passi lascia intendere che nella vallata ci sia qualcuno di vivo.
Raggiungo la strada principale, alcune orme incerte disegnano stancamente il porfido sconnesso, a cui la luce arancione del primo accenno di sole regala un’immagine fiabesca di cui non so godere del tutto.
La figura tozza di Pomona si muove incerta davanti ad una porta che cela dietro di sé fumi di alcol scadente e bestemmie lasciate scappare senza troppe riserve.
Mi vede da lontano. Un timido sorriso le increspa le labbra.
La raggiungo senza dire una parola. Non la saluto se non con un rapido cenno del capo.
Non si scompone. Lei conosce me e io conosco lei. I convenevoli non sono mai stati il forte di entrambi.
L’odore di sporco della Testa di Porco mi riempie il fiato non appena Pomona si azzarda a dare una spinta alla porta. Superiamo la soglia, raggiungiamo il solito tavolo nell’angolo, sudicio, così come è sudicio tutto il resto. Ci sediamo senza dire una parola.
Aberforth armeggia sul bancone per qualche istante con uno straccio strappato, poi alza gli occhi al cielo, ci raggiunge.
«Deve essere il primo giorno di primavera, se siete qui ad infastidirmi all’alba…» si rigira il logoro pezzo di stoffa tra le dita. Il suo alito puzza di alcol dozzinale e di sogni infranti. «Cosa vi porto?»
Gli rivolgo un’occhiata truce che lui finge di non vedere.
Pomona accenna un nuovo sorriso.
«Devi essere invecchiato negli ultimi mesi, per non ricordare cosa prendiamo da circa dieci anni a questa parte.» lo dice senza spostare lo sguardo dai miei occhi e senza tradire la minima inflessione della voce.
Il suo sarcasmo e i suoi modi bruschi mi sono sempre piaciuti. Una donna strana, ma meno fastidiosa di altri.
Il Silente meno blasonato si allontana con passo spedito, trattenendo tra i denti un improperio. Per un attimo mi chiedo come sarò ancora in grado di guardare la sua faccia, così somigliante a quella di Albus, senza sentire andare in frantumi il poco che mi resta del cuore. Ma è un pensiero assurdo che non posso concedermi.
«Allora, Severus, cosa ti serve quest’anno?» la voce della strega che mi sta seduta davanti si insinua in mezzo al silenzio.
«Esattamente quello che mi serve da dieci anni a questa parte, Pomona. Continuerò a togliermi lo sfizio di fare bene il lavoro che altri sanno fare peggio.»
Lei fa un cenno con la testa. Poi si schiarisce la voce in un’incertezza che mi innervosisce.
«Severus, pensavo…» non finisce la frase, mi guarda di nuovo negli occhi.
«Pensavi?» lo sibilo freddo.
«Niente…» fa una pausa. Cerca qualche crepa del tavolo che possa giustificare la sua attenzione. Non la trova. Solleva ancora lo sguardo. Con un sospiro più pronunciato cerca di infondere coraggio a sé stessa. «A dire il vero, Severus, pensavo di chiederti una cosa, ma non sono sicura di riuscire a tollerare il tuo nervosismo in merito.»
«Ancora lo Snaso che scava sotto la serra numero tre, Pomona? Ho già tentato di dissuaderlo in ogni modo possibile, ma…»
«Ma non lo uccidi.»
Le scaglio nelle iridi grigie uno sguardo di ghiaccio.
«No.»
Silenzio.
Può sembrare assurdo, ma in un impeto di disgusto più devastante degli altri, ho promesso a me stesso di non uccidere più alcun essere vivente che non sia indispensabile alla nostra nobile, fottutissima causa. Sono così ridicolo che mi faccio pena da solo.
Per un attimo né io né lei sembriamo avere più voglia di parlare. Le rivolgo un muto ringraziamento, per questo.
In realtà io non l’ho mai avuta, voglia di parlare, ma ogni uomo ha le sue tradizioni. Questo inutile appuntamento annuale, assurdamente, è la mia.
Aberforth appare come un’ombra, interrompendo l’imbarazzo del silenzio, poggia con poca grazia due bicchieri sudici sul tavolo, le mani gli tremano impercettibilmente. Sento i suoi occhi poggiarmisi sulla tempia. Per un attimo l’idea che conosca il mio segreto, il più sporco dei miei segreti, mi frammenta il respiro, mentre con la maschera ben salda sul volto gli rivolgo uno sguardo privo della più minima espressione. Le sue iridi liquide sono maledettamente simili a quelle di Albus, ma orfane della stessa, dannatissima scintilla di follia. Dentro gli occhi di questo vecchio vedo solo disincanto. Così come lui può vedere nei miei.
Non dice una parola, guarda senza interesse me, poi Pomona. Qualche traccia mal recitata di gentilezza, dettata dal suo lavoro, gli impone di dare una spolverata al tavolo sporco, con uno straccio ancora più sporco. Poi si volta, si allontana. Un’andatura incerta lo riporta nel suo nascondiglio dietro al bancone. Forse è già ubriaco alle prime luci dell’alba. Un’altra cosa che possiamo dire di avere in comune.
«Io so perché non lo uccidi…» la voce della professoressa di erbologia si fa strada a gomitate tra la polvere e il lerciume.
Un mio nuovo sguardo gelato le aggredisce il viso appesantito dagli anni.
Cosa crede di sapere? Niente. Nessuno ha mai saputo niente. Sono solo teorie talmente assurde da essere reali, dettate dalla fiducia cieca in un uomo che da troppo tempo strizza l’occhio senza più alcuna riserva alla follia.
Vi fidate così ciecamente del grande mago da concedere un’attenuante persino a me?
Tempo. Mi serve solo ancora un po’ di tempo e farò crollare qualsiasi benevolenza possiate ancora riservarmi.
Sollevo un angolo delle labbra in un sorriso che le gela il sangue nelle vene. So fare paura. A tutti. Questo, almeno, la mia scimmiottatura agonizzante di vita non è riuscita a togliermelo.
«Ti libererò dello stramaledetto Snaso, Pomona. C’è altro?» i miei occhi lampeggiano pericolosamente sul suo volto paffuto.
Lei beve un sorso di Burrobirra annacquata, cercando di nascondere gli occhi tra il bicchiere e la capigliatura disordinata dal grigiore incipiente.
Un nuovo sospiro le gonfia il petto sormontato da un detestabile maglioncino verde marcio.
Poggia il bicchiere sul tavolo. La foga di Aberforth di poco fa sembra nulla rispetto al colpo secco che genera sul legno invecchiato dal tempo e dall’incuria.
La sua temerarietà mi stupisce, ancora una volta. Dannata Tassorosso! Sempre incline alla tolleranza, all’amicizia. Alla stramaledetta dedizione.
«C’è qualcosa che non va, quest’anno, Severus. Se possibile sei più insopportabile del solito.»
Non è una domanda. Lo leggo nei suoi occhi grigi, così come grigio è anche tutto il resto.
«Non ti ho dato modo, negli anni passati, di assaporare il mio leggendario carattere di merda, Pomona? Forse hai semplicemente male interpretato il rispetto che devo al tuo ruolo.» rispondo secco.
La conversazione sta scivolando su un terreno pericoloso. E se c’è una cosa che ho imparato sulle persone pacate come Pomona Sprite, è che sanno diventare estremamente insidiose, quando c’è qualcosa a turbarle. E in questa dannata prima mattina di primavera, a turbarla, sono io.
«Voglio solo dirti, Severus, che noi solitari facciamo fatica a relazionarci con il mondo. Io convivo con gli arbusti, parlo con loro, mi confido con loro. È difficile che faccia questo con un altro essere umano. Tu lo fai con le tue provette e le tue pozioni…»
«Vieni al punto, Pomona. Il mio tempo ha un valore che temo tu non possa permetterti oltre!»
La vedo irrigidirsi sulla sedia. Riafferrare il bicchiere e darne nuovamente un sorso svogliato.
«D’accordo. Vuoi che sia diretta? Sarò diretta! Non ti ho mai visto guardare nessuno come guardi Hermione Granger.»
Il mio sguardo si fa tagliente come un rasoio. Se avessi ricevuto una Strilettera nel bel mezzo della Sala Grande, probabilmente, mi sarei sentito meno ridicolo.
Non sono abituato ad essere messo con le spalle al muro. Solo quel pazzo visionario di Albus ci è riuscito. E non sono incline a permetterlo ad altri.
Finisco il whisky con una sola, lunga sorsata. Sento il liquore scadente bruciarmi l’esofago e scendere nello stomaco con la potenza di un incantesimo. Trattengo a stento un nuovo conato di vomito che mi risale la gola e abbandono con impeto il bicchiere sul tavolo, mi alzo di scatto.
«Semina quello che semini ogni anno.»
«Severus…»
«La conversazione è finita, Pomona. Confido nella tua abitudine a non rivolgermi la parola per la restante parte dell’anno scolastico.»
«Severus, aspetta!»
«Troverò il modo di risolverti il problema dello Snaso…»
«Ma non lo ucciderai…»
Abbasso gli occhi. Di colpo sostenere il suo sguardo sembra essere diventato impossibile.
Maledetta vecchia strega. Non sa assolutamente niente. Non può immaginare in quale impenetrabile inferno possa essere spinta a forza l’anima di un uomo.
«No…» rispondo semplicemente, muovendo un passo in direzione dell’uscita.
Lei sorride.
«Cerco solo di esserti amica, Severus.»
«Non ho bisogno di amici. Non ho bisogno di niente.»
Il sorriso sulle sue labbra si fa più pronunciato, mentre un’insopportabile espressione comprensiva sembra possederle il volto.
«Tutti hanno bisogno di qualcosa, Severus. Ne ho bisogno io, che passo il mio tempo in compagnia di arbusti e semi e, per quanto ti possa sembrare impossibile, ne hai bisogno anche tu. Forse quella ragazzina potrebbe essere qualcuno con cui riuscire a parlare. È intelligente, sai?» Fa una pausa, il mio sguardo si fa quasi incredulo. Non riesco a riprenderlo in tempo. Lei prosegue ignorando i segnali d’allarme che mi ostino a lanciarle a vuoto. «Ma certo che lo sai! Magari potresti…»
Mi abbatto sul tavolo con l’irruenza di un tuono dopo un lampo improvviso, in un temporale d’estate. Poggio le mani sul legno sporco, chinandomi a lambirle il volto con lo sguardo.
«Ti ho detto che la conversazione è finita!» il mio fiato le spettina leggermente i ciuffi scappati ai quintali di lacca Babbana che si ostina a cospargersi sui capelli.
Mi ritraggo di scatto, con tre passi veloci raggiungo la porta, la spalanco. Un qualche rimasuglio di galanteria, sopravvissuto alla rabbia, mi impone di lanciare con poca grazia una manciata di monete sul tavolo vicino all’ingresso. L’aria fredda della prima mattina di primavera mi si insinua nelle narici, allentando il tremore nelle mani che nascondo con fatica da un tempo che mi è parso troppo lungo.
L’unico villaggio internante magico d’Inghilterra comincia a svegliarsi timido, nella luce ormai alta della fine dell’alba.
Maledetta Pomona con la sua stupida lealtà Tassorosso, con la sua mano protesa verso un’amicizia da squallido romanzetto rosa, con la sua gentilezza da due soldi. Maledetto Albus con le sue promesse strazianti, maledetta Minerva con le sue lezioni di Occlumanzia. E maledetta anche tu, Hermione, che hai deciso di sorridermi.
Nessuno sorride ai mostri.
Io sono un mostro, lo sono sempre stato, e alla fine di quest’anno lo sarò ancora di più. Devi darmi solo il tempo di dimostrartelo, ragazzina. Solo il tempo di dimostrartelo…
FINE