Titolo: Il sospetto
Autore/data: Ele Snapey - Gennaio 2022
Beta reader: Arwen68
Tipologia: one-shot
Rating: per tutti
Genere: Introspettivo
Personaggi: Severus, Aberforth Silente
Pairing: nessuno
Epoca: 7 anno
Avvertimenti: nessuno
Riassunto: Prima che inizi lo scontro con le forze del Male, ad Aberforth non tutto sembra tornare per il verso giusto…
Nota: Storia scritta per la Sfida di Gennaio, nell’ambito della “15 anni con Severus”.
Campione della Scuola di BeauxbatonsCaratteri: 29.683
Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I personaggi originali, i luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.
Il sospetto
L’aria è carica di elettricità e perfino la temperatura sembra essersi abbassata, nonostante la serata di primavera inoltrata.
Una serata oppressa da un cielo torbido in cui appare tutto sospeso, cristallizzato in una devastante miscela di tensione, attesa, angoscia e brama di combattere.
Sui bastioni del castello, dove stanno aspettando il cenno che darà il via all’inferno, grava una calma pesante e innaturale. Oltre le murate, molto più giù, arriva il brontolio indistinto del mostruoso esercito ammassato dopo i confini della Foresta Proibita, in attesa dello stesso cenno.
Il vecchio con il volto solcato da una ragnatela di rughe sottili stacca gli occhi che ha tenuto fissi fino a quell’istante su un punto indefinito, al di là delle protezioni, e li rivolge alla sagoma indistinta che sta a qualche metro di distanza.
- Quanto dovremo aspettare ancora, Remus? – Bisbiglia, quasi preoccupato dell’essere stato costretto a spezzare il silenzio.
- Non lo so, Ab. – Gli risponde l’altro, con un sospiro, ed egli può solo intuire che si è voltato a guardarlo. – So però che è terribilmente snervante. E non so se sarò pronto ad affrontare fino in fondo tutto quello che si sta preparando…
Il vecchio fruga l’oscurità cercando lo sguardo del compagno, le iridi celesti sorprendentemente attente.
Poi scuote la testa, mentre tra il crine della lunga barba giallastra balena un mezzo sorriso sbilenco e amaro.
- Se ti può consolare… Ho una fottuta paura anch’io. – Confessa, infine, e sul volto di Lupin scorge appena la smorfia breve e tesa che vuol essere un tentativo di risposta alla sua ammissione.
- Saremmo dei folli mentecatti, se non provassimo alcuna paura. - Conclude, a mezza voce, quasi rivolto a se stesso. Quindi torna a puntare lo sguardo verso l’orizzonte nebbioso stringendo in pugno la bacchetta.
Prova a distrarsi per qualche istante dal pensiero di chi e di che cosa li aspetta, lasciando al tempo stesso defluire i ricordi; cerca di andare a pescare tra quelli più consolanti e si rende conto di come sia vero quanto aveva sempre sentito dire, che quando la prospettiva di dover morire a breve si fa molto concreta ti passa tutta la vita davanti!
All’improvviso, tra la miriade di flash back che scorrono veloci, la sua attenzione si focalizza inaspettatamente su un pensiero fastidioso.
Serra le palpebre e si acciglia. Non è possibile che tra tutti i ricordi amati, odiati, apprezzati o denigrati, ce ne sia proprio uno così poco piacevole ad occupare l’intero schermo della sua mente: le immagini relative all’incontro casuale avvenuto con Severus Piton qualche tempo prima.
Si era imbattuto in quell’individuo spregevole quando ancora nessuno immaginava che presto si sarebbe scatenata una seconda terribile guerra proprio sul suolo di Hogwarts, e certamente non per propria scelta.
Piton l’infame. Piton il traditore. Piton l’assassino di suo fratello, il vile doppiogiochista che non aveva mai rinunciato a servire il suo vero padrone, facendo fessi tutti quanti, Albus compreso.
Quel giorno aveva appena finito di nevicare; lui e il malandato carretto trainato dal vecchio Archie erano riusciti ad arrivare ai cancelli di Hogwarts non senza qualche difficoltà…
******
Il Ghermidore di guardia al cancello andò incontro al barroccio condotto dal vecchio intabarrato nel pesante mantello logoro e stinto; il vecchio aveva anche un cappello a punta, vetusto quanto lui, calcato in testa.
- Ehi, Ab. Che porti? – Allungò lo sguardo al carico, dando una pacca sul posteriore del mulo.
- Quattro casse di Whisky Incendiario, otto di birra, formaggelle di capra e salsicce di cinghiale. – Dichiarò l’altro, malmostoso. La guardia annuì soddisfatta e con un cenno del capo permise il passaggio delle derrate provenienti dalla Testa di Porco, di cui anch’egli avrebbe beneficiato. Il mezzo si rimise faticosamente in marcia sulle grosse ruote cigolanti, lasciando solchi profondi nella neve fresca.
Ogni lunedì Aberforth e il proprio carretto partivano da Hogsmeade e salivano al castello con il rifornimento di alcolici e vettovaglie che gli veniva richiesto. Ogni lunedì ad attenderlo all’ingresso dell’ala che conduceva alle cantine c’erano di norma uno dei Carrow con un paio di Ghermidori. Ogni lunedì dava una mano a scaricare le casse, quindi aspettava che gli venisse saldato il conto, infine rimontava sul mezzo e rientrava a Hogsmeade.
Una consuetudine che aveva preso il via da quell’anno su richiesta di Scabior, affezionato cliente della Testa di Porco e grande estimatore della miglior acquavite di Scozia che, a suo dire, si beveva solo al pub del vecchio Ab. A Scabior premeva molto che i propri Ghermidori potessero ubriacarsi con roba di qualità e, a quanto pareva, anche il preside ci teneva, dal momento che aveva autorizzato la consegna settimanale dell’approvvigionamento senza sollevare alcuna obiezione.
Come ogni lunedì giunse alla porta di servizio davanti a cui sostavano già due ceffi delegati a scaricare le casse. Posteggiò il carretto e smontò, accingendosi a calare una delle sponde.
– Dove sono i Carrow? – Chiese, continuando ad armeggiare con le cerniere arrugginite.
– Al momento impegnati nella sistemazione dell’aula di Arti Oscure.
Aberforth sussultò e si voltò di scatto al suono della voce, tagliente e profonda, scaturita alle sue spalle in risposta alla domanda. Fissò con un misto di sorpresa e apprensione la figura alta, ammantata di nero, che si era improvvisamente materializzata sulla soglia: da dove accidenti era sbucato fuori quel demonio?
Staccandosi con leggera indolenza dall’ingresso il preside andò incontro all’oste, senza distogliere lo sguardo dai Ghermidori intenti a scaricare le casse.
– E’ sorto qualche problema durante la lezione di Negromanzia. Stanno cercando di rimediare al disastro. – Specificò, puntando con rapidità le iridi nere come la notte in quelle acquose del vecchio. – Ma non preoccuparti, riceverai comunque quanto ti spetta per il carico. – Ora l’inflessione era sottile e velatamente sardonica, lo sguardo pungente.
Aberforth sentì la bocca arida. Di norma non aveva paura di nulla e di nessuno - o quasi - tuttavia di quell’uomo pericoloso sì.
Lui riusciva sempre a farlo sentire a disagio, molto a disagio, ma non solo: gli procurava disgusto e aveva il potere di rimescolargli il sangue nelle vene, anche se sapeva bene di non potersi permettere di mostrarlo apertamente adesso che la taverna era diventata, oltre che un punto di riferimento per i componenti della resistenza, anche il crocevia di Mangiamorte e Ghermidori.
Quasi mai gli era capitato di incontrarlo durante le consegne settimanali; le rare occasioni in cui lo aveva scorto da lontano, muoversi silenziosamente per i corridoi come un’ombra, si era sempre ripromesso di stargli alla larga per scongiurare il pericolo di avere a che fare verbalmente con lui. Ma quel giorno sembrava proprio dirgli male.
– A chi devo rivolgermi, quindi, per il conto? – Replicò, cercando di conferire alla voce un tono distaccato.
Sul volto dell’altro aleggiò un sogghigno. L’oste pensò a quanto odiasse quell’espressione, e al tempo stesso la temesse.
Gliela aveva vista la notte in cui lo aveva colto a spiare dal buco della serratura della camera in cui stavano suo fratello e la Divinatrice, mentre lo accusava di essere uno sporco delatore.
Piton lo aveva osservato in silenzio con quel sorrisino storto, beffardo e inquietante, come a minacciarlo, a farlo sentire dalla parte del torto nonostante l’evidenza dei fatti.
Era l’espressione di chi non si vuol piegare e sta pensando a come prendersi la rivincita; era la stessa espressione che aveva in quel momento, con la differenza che adesso brillava su un viso precocemente invecchiato e segnato dalle cicatrici.
– Puoi aspettare che uno di loro si liberi, più tardi: non ci vorrà molto. A meno che tu non abbia impegni… improrogabili… Qualche problema?
Aberforth intuì che stava cercando di metterlo in difficoltà; si concentrò sugli sbuffi di condensa che uscivano dalla sua bocca amara e sottile, tentando di ignorarne l’accento volutamente provocatorio.
Intanto il cervello andava veloce come la locomotiva dell’Hogwarts Express, prefigurando la fine imminente: sapeva del passaggio che dalla Stanza delle Necessità portava alla Testa di Porco? Aveva scoperto che era da lì che riusciva a far arrivare scorte di cibo alla resistenza?
Un brivido gli corse giù per le vecchie ossa, tuttavia si obbligò a mantenere il controllo. Lasciò vagare lo sguardo sulla quieta distesa bianca che copriva il parco, gli alberi nudi, il cielo dalle tonalità grigiastre tra cui faceva capolino qualche sprazzo azzurro. Lontano si levò il verso stridulo di un paio di corvi appollaiati sui rami spogli.
– No, nessun problema, - rispose, infine, facendo appello a tutta l’imperturbabilità, per la verità scarsa, di cui disponeva – ne approfitterò per fare un salto al locale a prendere qualche bottiglia in più. Omaggio della ditta. – La buttò lì, abbozzando una risatina rauca e mal riuscita.
Si avvicinò al carro da cui erano ormai state scaricate quasi tutte le casse e allungò la mano per recuperare la vecchia Suzette adagiata sul fondo. Impugnò il manico della fedele Firebolt, un po’ malconcia ma sempre affidabile, da cui difficilmente si separava, che anche in quel caso gli avrebbe permesso di andare e tornare in tempi brevi.
Quando l’ebbe inforcata volse di nuovo lo sguardo verso Piton che si era mantenuto a pochi passi e continuava ad osservarlo in un silenzio più polare del gelo che regnava attorno.
L’istinto gli suggerì di andarsene subito, prima di sentirsi rivolgere qualche domanda pericolosa, ma qualcosa di inaspettato lo fermò.
Dalle cantine era sbucata una piccola massa pelosa di un brillante color arancione. Zampettò verso il carretto, morbido e sinuoso, la coda dritta. La sua vivace tonalità spiccava graziosamente contro il candore della neve, e lo sguardo di Aberforth fu catturato dal suo incedere dignitoso e appena un po’ sbilenco.
Piton si rese conto che il vecchio stava considerando qualcosa che non era più la sua persona, e abbassò gli occhi nel momento in cui il gatto gli si sedeva con elegante compostezza a una spanna dagli stivali, alzando il musetto per ricambiare il suo sguardo interrogativo.
I due uomini si scambiarono un’occhiata perplessa che durò una frazione di secondo; bastò all’oste per intercettare l’espressione del preside che sembrava quella di chi è stato colto nell’atto di affondare un dito nella marmellata.
Il felino intanto aveva preso a ronfare e a strusciarsi contro le caviglie del giovane mago, mostrando di sentirsi a proprio agio, tanto che il vecchio rimase per qualche istante a fissare, affascinato, il morbido corpicino arancione sparire e riapparire tra il nero delle vesti.
– Ma quello non è il gatto della giovane Granger? – Azzardò, infine.
– Non ne ho idea. – Il tono del preside era chiaramente seccato mentre il micio continuava a produrre fusa, infilandosi tra le sue gambe.
– Grattastinchi, mi sembra si chiamasse. – Proseguì impietoso Aberforth, segretamente soddisfatto nel percepire un certo imbarazzo nell’altro. – Dove eri finito? Micio… - Lo richiamò, e questi abbandonò la sua zona di comfort per dirigersi da lui.
– Sei proprio tu, allora. – Ridacchiò, bonario, allungandogli un buffetto. Gli sembrava di ricordare che era sparito durante l’attacco dei Mangiamorte avvenuto al matrimonio di Bill e Fleur, e che la sua padroncina, costretta repentinamente a seguire un altro destino, aveva dovuto a malincuore rinunciare a cercarlo.
– Credo se lo sia preso Ginevra Weasley. – Mormorò a quel punto il preside, con totale indifferenza.
Quindi girò le spalle ad Aberforth e si avviò verso l’entrata, non senza prima essersi tolto la soddisfazione di lanciare un’ultima occhiata sdegnata al gatto.
Il vecchio lo seguì con sguardo serio e pensieroso fino a che non lo vide sparire oltre l’uscio. Dunque sembrava che Grattastinchi fosse semplicemente rimasto per tutto il tempo nascosto da qualche parte alla Tana, e in seguito lo avevano ritrovato i Weasley.
Scosse la testa, salendo di nuovo sulla Firebolt.
Quando si diede una spinta leggera per staccarsi dal terreno il micio trotterellò verso le cantine, tornando da dove era venuto; e mentre sorvolava quietamente il parco in direzione Hogsmeade, non poté fare a meno di riflettere su come ci fosse qualcosa che non tornava in quello a cui aveva appena assistito.
******
La settimana seguente l’oste trovò Amycus ad attenderlo all’accesso alle cantine.
Posteggiò il carro, abbassò le sponde e attese nel consueto mutismo immusonito che gli incaricati di turno sgomberassero il pianale. Incassò i galeoni concordati e rimontò a cassetta, aspettando che il brutto grugno di Carrow sparisse dietro il battente. Poi scosse le briglie, sollecitando il vecchio Archie a girarsi e a riprendere la strada verso i cancelli.
Stava eseguendo una manovra un po’ complicata quando il riapparire improvviso di Grattastinchi - sbucato da chissà dove, forse dalle cantine, esattamente come il precedente lunedì - lo interruppe. Per alcuni istanti rimase a fissarlo, rapito, e al tempo stesso meravigliato del manifestarsi di un’attitudine per i gatti che non sapeva di possedere.
– Grattastinchi… Ehi, Grattastinchi! - Provò a chiamarlo cercando di darsi un contegno; ma, contrariamente alla volta precedente, l’animale non rispose. Anzi, prese quasi a correre imboccando la direzione che conduceva verso il Lago Nero.
Ab si guardò attorno per assicurarsi di essere solo. Quindi mollò le redini e scese dal posto di guida; intanto il micio si era ridotto a una minuscola pennellata color ruggine sulla distesa immacolata, che continuava ad allontanarsi.
Sempre più incuriosito decise di non perderlo di vista: se qualcuno gli avesse chiesto quale fosse il motivo che lo stava spingendo a buttare tempo prezioso appresso a un gatto che, molto probabilmente, si stava divertendo a seguire le tracce di qualche piccola preda, non avrebbe saputo rispondere.
Tuttavia raccattò la Firebolt dal fondo del carretto e la cavalcò, dandosi una piccola spinta per staccarsi dal terreno. Si mantenne a un’altezza di pochi piedi dalla coltre innevata, recuperando in fretta la distanza che il felino aveva messo tra sé e lui. Eccolo là, in lontananza: impossibile non notare il colore del suo pelo risaltare sulla neve mentre zampettava veloce, diretto verso la parte bassa del parco.
Ad un tratto non lo vide più. Il gatto si era infilato in mezzo a una nutrita selva di arbusti che sbucavano contorti dal candore, e non era più riapparso.
Si fermò, scrutando dall’alto della sua posizione il bosco circostante, ma dovette desistere infastidito dal riverbero della neve.
- L’abbiamo perso, Suzette… - borbottò, a mezza voce, con una punta di fastidio. – Che dici, rinunciamo o proseguiamo a cercarlo?
La scopa diede un leggero strappo e si rimise dolcemente in moto, puntando con decisione verso la porzione del parco dove gli alberi iniziavano a diradarsi; trascorsero pochi minuti, e davanti agli occhi dell’uomo si spalancò la vastità del Lago Nero.
Gli venne da considerare come non si sarebbe mai abituato alla bellezza di quello scenario; fece correre lo sguardo sulla sua superficie bigia, leggermente increspata, rimanendo per un po’ in muta contemplazione, fino a che intercettò il profilo austero della tomba di Albus che si ergeva sulla riva del lago, avvolta da una bruma sottile.
Lasciò che la scopa scegliesse di nuovo dove dirigersi, e questa, dopo un breve volo, si fermò proprio a una certa distanza dal sepolcro: quel tanto che bastò a far notare al proprio padrone la sagoma imprecisa di una persona seduta sotto l’abete che si trovava a pochi passi dalla tomba, nella piccola area sgombra di neve interamente ricoperta da un morbido tappeto di aghi.
Strizzò gli occhi per vedere meglio e gli sembrò di distinguere una figura familiare. Atterrò furtivamente dietro a un cespuglio di biancospino, allungò il collo per osservarla con più attenzione, e… Oh sì, quella era una figura decisamente molto familiare…
Con il capo e la schiena abbandonati contro il tronco del grosso albero che lo aveva visto innumerevoli volte seduto lì sotto assieme a Lily, si sentì finalmente protetto da una benefica quiete.
Gli occhi chiusi, il libro aperto appoggiato sulle gambe distese, comodamente incrociate, il respiro rilassato.
Faceva freddo ma non se ne curava, perché come per ogni altra volta, quando era lì, riusciva a ritrovare se stesso e un minimo di pace.
In quel luogo circoscritto, al riparo dei rami robusti dell’abete centenario, lontano dal castello e dall’atmosfera inquinata dalla presenza dei Carrow e dei Ghermidori.
Un ambiente ormai contaminato dal sentimento di profondo disprezzo di coloro che un tempo avevano fatto parte della sua vita, ma che ora l’avrebbero volentieri visto morto.
Minerva, Filius, Pomona, Poppy, Hagrid... Nessuno gli aveva risparmiato in quei mesi di farlo sentire al pari di un miserabile rifiuto, anche solo con uno sguardo fugace o con l’espressione del volto.
Così ogni giorno era costretto a farsi carico dello spregio condito di rancore che gli veniva costantemente rovesciato addosso dagli ex colleghi, e gli provocava un senso di oppressione orribile che gli si era attaccato addosso come una patina di unto soffocante impossibile da grattare via.
Ecco, quella era sicuramente la parte più difficile da gestire. Ciò che lo obbligava ad attingere giorno per giorno alla propria energia psicofisica per dover mentire, simulare, far finta di nulla e ancora fingere di essere chi in realtà non era.
Era quanto lo stava logorando maggiormente, oltre al rimorso e alla consapevolezza di essere ormai un uomo condannato: era l’odio da parte di coloro per i quali aveva provato un profondo attaccamento e dai quali non arrivava più alcun sostegno, proprio ora che ne aveva disperato bisogno. Quello che lo avrebbe ucciso prima ancora che qualcun altro pensasse di farlo.
Così, quando le circostanze glielo concedevano, si eclissava furtivamente per andare a cercare tregua lontano da una realtà divenuta ormai insostenibile.
L’aveva trovata nell’unico luogo che gli avrebbe permesso di tirare avanti per un po’, senza uscire del tutto di senno, accanto alla tomba di colui che gli aveva chiesto di aiutarlo a morire come se fosse stata la cosa più naturale di questo mondo. L’uomo che non si era fatto molti problemi a condannarlo all’inferno in cui versava.
Si sedeva sempre nel punto che lui e Lily avevano eletto a piccolo circolo segreto, e tornava a respirare il ricordo di quella che era stata una magica bolla d’aria infinitamente preziosa. Un angolo di paradiso lontano da tutto e da tutti, dove poter studiare e confabulare tra loro senza che nessuno intervenisse a disturbarli, e dove lui aveva immaginato, desiderato e sperato milioni di volte di poterla baciare.
Era solamente allora che, cullato dal suono lento dello sciabordio dell’acqua, consolato dal profumo di resina e di nebbia, ritrovava un po’ di quella forza necessaria per andare avanti.
Lì c’era tutto ciò di cui aveva bisogno: pace e silenzio, l’essenza della donna che aveva amato con tutto se stesso e la presenza invisibile di colui che a modo suo aveva provato ad essergli amico, e probabilmente anche un po’ padre.
Aprì gli occhi, volse il capo al monolito bianco che conservava sulla superficie di marmo tracce della recente nevicata; sul volto scavato passò un’ombra di sofferenza che gli regalò vent’anni in più.
Chi mai l’avrebbe detto che sarebbe sorto lì, proprio a pochi passi da quel che era stato il Club Privato Piton Evans. Una curiosa coincidenza? Forse, ma lui non credeva alle coincidenze: preferiva pensare a come quel posto, imbevuto della sostanza di coloro che aveva amato, gli fosse stato riservato dal destino per risarcirlo, anche se solo in minima parte, da una vita segnata dalle difficoltà.
Tornò a guardare davanti a sé, assorto nella contemplazione dei rilievi imbiancati che sfumavano là dove finiva il lago livido e iniziava un cielo dello stesso colore.
Si concentrò blandamente nel tentativo di distinguere la linea d’orizzonte confusa nella foschia; quando, all’improvviso, gli parve di percepire un richiamo proveniente proprio dalla distesa d’acqua, come se la brezza fredda e leggera che spirava avesse preso a sussurrare il suo nome.
Depose il libro per terra e si alzò, rinunciando alla decisione di sottrarsi al sortilegio che la profonda massa liquida esercitava sulla sua volontà.
Si avviò con calma, scendendo il breve declivio che lo separava dalla riva; la neve ghiacciata scricchiolava sotto i suoi passi, e quel suono gli piacque. Si fermò solo quando la schiuma del moto ondoso arrivò a lambire la punta degli stivali.
Osservò il lago e il lago replicò al suo sguardo cupo, facendogli udire ancora una volta la propria voce: una melodia quieta e meravigliosa turbata solo dal sibilo delicato del vento e dallo sciacquio dei flutti.
Rimase perfettamente immobile, con il pensiero rivolto all’infinito, come a voler afferrare qualcosa di lontano e ormai perduto, di intangibile, di irraggiungibile; e vi rimase, fissando con caparbietà le acque che si riflettevano nelle iridi nere e impenetrabili, per diversi minuti.
Sarebbe stato così semplice. Sarebbe bastato qualche passo ancora e il Lago Nero lo avrebbe accolto con indulgenza, conservando il suo corpo per giorni prima che a qualcuno fosse venuto in mente di andare a cercarlo proprio in quel punto. Così almeno si sarebbe risparmiato di doversi giocare l’assurdo ultimo tempo di una partita che ormai sentiva di aver perso.
Un timido raggio di sole si fece largo tra la foschia, tingendo la linea di confine tra acqua e cielo di una tenue luce dorata; si depose delicatamente sul suo volto, così da restituirgli la necessaria lucidità.
Abbassò il capo e ragionò: indubbiamente in quel modo sarebbe stato tutto molto semplice e sicuro, ma non poteva essere certo quella la soluzione. Scegliere di consegnarsi ai flutti sarebbe stato solo estremamente vigliacco. E di sicuro, lui, vigliacco non era.
La dolorosa riflessione fu interrotta da un miagolio discreto.
Si voltò di scatto, per accorgersi che a pochi passi sedeva in modo composto, al pari di una piccola sfinge, il gatto arancione che era stato della Granger. Lo stava fissando con quello strano modo un po’ insolente e un po’ inesplicabile che hanno i gatti quando devono comunicare con gli umani.
– E tu? Che fai qui? – Lo guardò, sorpreso. Grattastinchi miagolò in tono più deciso, quasi a esprimere il proprio disappunto per quanto, poco prima, era passato nella testa dell’amico.
Gli si avvicinò e iniziò a strofinarsi contro le caviglie, cosa che ultimamente sembrava prediligere quando non si dilettava a scorrazzare liberamente per il castello e per il parco.
L’uomo si chinò e depose un paio di rapidi buffetti sul capino della bestiola, ottenendo in risposta un dolce borbottio, sommesso e prolungato.
– Prima o poi mi metterai nei guai, quando qualcuno si accorgerà che mi rivolgi troppe attenzioni… - Mormorò, permettendo a un sorriso fugace di sfiorargli le labbra affilate; quindi si concesse il lusso di approfittare del piacere che quell’unica manifestazione di affetto e solidarietà gli stava offrendo.
All’improvviso avvertì un rumore provenire da dove, appena più su, cresceva rigoglioso un grosso cespuglio di biancospino.
Si raddrizzò e scrutò verso il punto in cui gli era sembrato giungesse il fruscio; Grattastinchi continuava a fare fusa e non sembrava affatto preoccupato, ma lui era quasi convinto di aver fiutato una presenza tra la vegetazione. Stette in ascolto per qualche istante, i sensi all’erta. Gli rispose però solo il richiamo di una cornacchia…
“Che mi venga un colpo!” Sbottò Aberforth, tra sé, abbassandosi fulmineo.
Suzette gli era scappata di mano, e per evitare che rotolasse giù per la china era stato costretto a un movimento brusco che aveva quasi tradito la sua presenza.
Rimase accucciato dietro il cespuglio, il cuore a mille, sforzandosi disperatamente di trattenere un colpo di tosse pronto ad esplodere. Attese in quella scomoda posizione per diversi minuti, paralizzato dal panico, immaginando cosa avrebbe potuto succedere se Piton lo avesse scoperto.
Quando reputò che fosse trascorso un tempo sufficiente per ritenersi al sicuro, si azzardò a guardare di nuovo verso il punto in cui il preside stava risalendo la sponda del lago, con calma, tallonato dal gatto.
Lo vide tornare verso l’abete sotto cui aveva abbandonato il libro, passando vicino al monolito bianco che custodiva i resti di Albus. Gli parve di coglierlo nell’atto di allungare una mano, quasi a voler posare una carezza sulla sua fredda superficie di marmo e la cosa lo colpì, anzi, sentì crescere un inspiegabile turbamento.
Intanto Piton, raccolto il volume da terra, aveva imboccato il sentierino poco battuto che riconduceva al castello.
Aberforth osservò con attenzione la sagoma nera dell’uomo, in netto contrasto con il candore della neve, mentre affrontava il primo tratto del percorso con passo sicuro. Non perse d’occhio sia lui sia la piccola massa pelosa e rossiccia che gli trotterellava impettita a fianco, fino a quando non li vide sparire inghiottiti dal sottobosco.
Quindi, per la seconda volta nel giro di pochi giorni, pensò a come in tutto quello a cui aveva appena assistito ci fosse qualcosa che non tornava.
Rimuginò a lungo. Infine, quasi per incanto, si palesò un particolare importante, quanto gli era rimasto sepolto fino a quel momento nel cervello tra una moltitudine di nebulose reminiscenze. Non rammentava più bene chi glielo avesse detto, ma forse era emerso proprio ora, non a caso, per dargli modo di perfezionare l’inverosimile puzzle che andava formandosi.
Si concentrò e finalmente ricordò che era stata proprio la piccola Granger - la volta che aveva ospitato una riunione dell’Esercito di Silente alla Testa di Porco - a confidargli di essere molto affezionata al proprio animale: quel gatto buffo e un po’ magico che aveva il dono di saper riconoscere in modo infallibile le anime leali e coraggiose...
Anime leali e coraggiose…Per quale motivo, dunque, Grattastinchi mostrava di gradire la compagnia di quel vigliacco, figlio di buona donna, sulla cui natura malvagia avrebbe scommesso senza indugio il proprio locale e probabilmente anche un’intera partita di pregiato whisky incendiario?
Nella mente iniziò a strisciare un pensiero subdolo, indefinibile e sfuggente. Qualcosa di decisamente fastidioso, di molto simile ai tarli che infestavano il bancone di legno e i tavolacci della Testa di Porco, e che avrebbe potuto definire, suo malgrado, come troppo somigliante a un sospetto.
Si volse verso il lago, posando lo sguardo smarrito sulla superficie sfiorata da una bruma che ora sembrava inquietante: e se le cose non fossero state davvero così come apparivano?
Ci congetturò sopra ancora un po’, infine scrollò il capo. Con un sospiro impugnò quasi con rabbia il manico della Firebolt e lo inforcò.
– Non voglio nemmeno farmelo venire questo dubbio. – Brontolò, rivolto a Suzette, come se questa potesse offrirgli un parere. – Andiamo a riprendere Archie, vecchia mia. Ho ancora molte cose da sbrigare giù al pub.
Quindi risalì a tutta velocità il tragitto sorvolato all’andata: voleva arrivare al carretto posteggiato davanti alle cantine in fretta, per andarsene da quel posto prima possibile…
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Ha preso a spirare un vento freddo e fastidioso che ha disperso la foschia, portando però con sè un odore acre e sgradevole di paura.
Aberforth ha riaperto gli occhi nell’istante in cui un urlo disumano si leva dalle schiere dell’Oscuro Signore: il segnale d’attacco è stato dato.
Le milizie del reparto avanzato saranno le prime ad infrangersi contro gli incantesimi di protezione di Hogwarts; il vecchio oste però sa bene che le difese reggeranno per poco, e l’esercito del male si riverserà interamente sotto le mura del castello.
Con la bacchetta stretta in pugno si avvicina al bordo del bastione oltre il quale si apre il vuoto, nero e insidioso.
Remus, Kingsley, Arthur: li sente respirare accanto a sé, forti, determinati e pronti a combattere fino alla fine. Riesce a intravedere anche la sagoma delicata di Dora che ha raggiunto il marito.
Qualcosa però lo distrae: un movimento impercettibile alla propria sinistra. Con la coda dell’occhio ha percepito una presenza, anche se è dannatamente sicuro che fino a un secondo prima in quel punto non ci fosse nessuno.
Si volta di scatto, scrutando le ombre che sembrano muoversi e sovrapporsi. Questione di un attimo e la sua vista ancora acuta riesce ad afferrare la visione di una persona alta, avvolta in un mantello nero. Le sue iridi celesti e incredule incrociano iridi cupe dall’espressione seria, volitiva, malinconica; sono come pietra onice sul volto diafano, e sembrano custodire in profondità un dolente segreto. Occhi nei quali Aberforth crede addirittura di aver colto un cenno d’intesa.
- Mi venga un accidente… Ma, cosa diavolo… - Mormora, sbigottito, senza riuscire a chiudere la frase: il tempo di un battito di ciglia e la figura è sparita.
Il mago fruga con lo sguardo il punto in cui è sicuro di aver distinto l’apparizione. Ma, per quanto continui a fissare con ostinazione verso quella porzione del fortilizio, deve rassegnarsi al fatto che non c’è più nessuno. E ora non è neanche più così sicuro che ci sia stato qualcuno.
Sente l’urlo degli assalitori che si stanno approssimando alle mura e un mare di adrenalina scorrergli nelle vene. Lo scontro sta per avere inizio, eppure avverte una forza dirompente e inspiegabile crescere in sé.
Un coraggio mai provato prima, a cui non riesce a dare alcuna giustificazione, se non per il fatto che in lui sta germogliando una grande certezza, e cioè che a combattere dalla loro parte ci sarà anche il migliore.
Edited by Ele Snapey - 22/1/2022, 01:49