Scudiero 1,95/2 = 0,975
11.040 caratteriTitolo: Venerdì sera
Autore: chiara53 - gennaio 2022
Beta:
Tipologia: One Shot
Rating: Per tutti
Genere: generale
Personaggi: Severus Piton, Aberforth Silente
Pairing: nessuno
Epoca: post 7 anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: Venerdì sera, un venerdì sera qualsiasi...
Note: storia scritta per la sfida annuale 15 anni con Severus.
Mese di Gennaio. Scuola di Hogwarts
Scudiero Scuola di Hogwarts
Caratteri: 11.040
Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.
Venerdì sera
Venerdì sera, un venerdì sera qualsiasi: sul limite del maestoso portone di quercia guardi i fiocchi di neve cadere fitti.
Ancora e ancora.
Il mantello ti avvolge riscaldandoti. Ti appresti a percorrere la strada che porta ad Hogsmeade, sei diretto al pub situato in una strada laterale, poco frequentato dalla popolazione scolastica per l’aspetto e la clientela: è la Testa di Porco, proprietà di Aberforth Silente.
Mentre muovi i primi passi nella neve ti aiuti con il bastone che sei costretto ad usare, la gamba sinistra non si muove ancora come vorresti: il veleno di Nagini ha fatto danni ai nervi, alcuni dei quali irreversibili; la zoppìa che ti porti dietro speri possa essere guarita, ma tu non sei mai stato fortunato. Per ora il bastone ti serve a dovere e ti rende più intimidatorio: va bene così.
Come ogni settimana dall’inizio dell’anno scolastico percorri lo stesso sentiero per andare in paese: quello che passa accanto al Lago Nero, ora gelato e immobile; lì ti fermi e resti a guardarne la superficie che riflette soltanto il buio e sul quale cade fitta la neve a disegnare arabeschi dove si posa: il vento la sposta come sabbia, sollevandola in candido pulviscolo.
Ti avvicini alla tomba bianca, il primo dei tuoi appuntamenti.
Qualunque sia la stagione costeggi il lago per toccare il marmo dove riposa Albus: amava la vista del lago e lì è stata messa la sua eterna dimora; era un uomo solido come la pietra che copre il suo sonno, ma lì sotto, nel buio, si trova il Silente uomo, quello che quasi nessuno conosceva, a meno di scavare a fondo; lì sotto c’è lui, ci sono le sue bugie, le sue manovre, gli inganni perpetrati per il bene superiore e, come l’acqua del lago che tanto amava, Silente era cristallo trasparente in superficie, ma torbido e scuro sul fondo.
- Ciao Albus. – sussurri, sfiorando la lapide coperta di neve.
Mentre lo saluti, porti con te ogni ricordo e infamia, porti con te l’ira per ciò che ti ha costretto a fare o a dire, per il passato e per la tua anima della quale poco gli importava: tu eri soltanto un pedone nella scacchiera della storia, utile, ma sacrificabile. Eppure, ti sei fidato.
Passare accanto alla tomba serve a non scordartene mai.
Passare accanto al lago e osservarne le sponde, ora gelate, ti rammenta anche le passeggiate fatte con lui, in tempi lontani tra le due guerre magiche: i momenti in cui ti era anche mentore e talvolta persino amico. Forse. O forse no. Non ne sei più così sicuro.
La neve si è fatta leggera adesso e i fiocchi si posano anche su di te.
Il villaggio ti accoglie con le case appoggiate le une alle altre, i tetti stracarichi di neve e, dopo l’ultima curva, non degni di uno sguardo la Stamberga che doveva essere la tua tomba: non esiste, non vuoi guardarla, ma sai che c’è, che è lì e che lei ti guarda con occhi ciechi.
La gamba, stasera, non vuol saperne di funzionare a dovere, ti appoggi pesantemente al bastone e lo odi per questo. Sei un uomo spezzato nel corpo che adesso è lo specchio perfetto dell’anima, invisibile a tutti, ma presente e reale al tuo intimo, a te: anima infranta, strappata, rotta.
Il vicolo a destra porta alla Testa di Porco, il pub è sempre lo stesso, con la vecchia insegna logorata dal tempo, a nessuno importa dell’aspetto trascurato: si viene qui per bere senza essere visti, tu ci vieni anche per osservarne la clientela interessante, senza essere oggetto di curiosità e, soprattutto, per aspettare un dialogo, un incontro che forse non verrà mai.
Il bar è piccolo e straordinariamente sporco, il pavimento cosparso di segatura è quasi invisibile: non cambia, non è mai cambiato in tanti anni, nemmeno la guerra è servita a dare una ripulita.
Poca gente per lo più impegnata a conversare sottovoce o a bere in solitaria.
Il tavolo in fondo è libero come sempre, è in ombra, nascosto: ti piace sederti e riflettere, osservare oltre alla varia umanità che popola il pub anche il bancone dove Aberforth resta appoggiato fingendo di asciugare bicchieri.
Senza bisogno di parlare si avvicina e ne mette sul tavolo uno opaco e la bottiglia di Whisky Incendiario, poi si volta senza dire niente e torna al suo lavoro.
Guardi l’anziano mago robusto, sempre imbronciato, con abiti disordinati e la chioma grigia, così diverso dal fratello vivace, sorridente, colorato: armature plasmate su diverse vite.
Quale dei due mi somiglia di più? Ti chiedi.
Anche tu indossi il tuo aspetto aspro, ostile come una seconda pelle: ci mangi, ci dormi, ci lavori; ti si adatta perché è l’unico modo che hai trovato per continuare ad esistere in una vita modellata dal dovere, dal rimorso, dal pericolo mortale. Adesso saresti libero e meriteresti un sorriso, forse il perdono: perdono che non arriverà mai.
Pensi.
Sei tu il primo a non concedertelo.
Il bicchiere è vuoto, lo riempi con calma e socchiudi gli occhi, mentre bevi e rifletti: sei lontano per un po’ dalla scuola, dai futili problemi che occupano le tue giornate, dai colleghi, da Minerva che non smette di sorvegliarti con protettiva gentilezza. Lei e quel brutto gatto rosso, Grattastinchi, che era un tempo della Granger e che ora vive nelle stanze della McGranitt, in attesa che la sua padrona torni dall’università. Quell’animale ti segue come un’ombra, specialmente quando non vuoi essere visto uscire. Stasera ti ha lasciato andare, però, sei stato più furbo di lui e sorridi tra te.
Sai bene quale sia il desiderio che culli, per quanto difficile possa sembrare: vorresti che Aberforth ti parlasse, magari ti maledicesse, ti prendesse a pugni; vorresti qualcosa, qualcosa con cui interagire, piuttosto che il muto silenzio che ti riserva.
È tardi, il pub si svuota a poco a poco delle rare persone che ospita e hai bevuto abbastanza, troppo, forse. Chini la testa verso il tavolo e osservi il legno consunto e rigato: ora di andare.
È allora che senti una presenza, Aberforth prende la sedia davanti alla tua, facendola strisciare sul pavimento e si siede: ha in mano un bicchiere anche lui e si versa whisky dalla bottiglia che aveva portato per te. Ti guarda, cerca il nero delle tue pupille con l’azzurro delle sue, occhiali piccoli su un naso importante: tanto simile al fratello che una mano fredda ti stringe la gola.
Passa un momento di silenzio scomodo, troppi ricordi, troppi di loro nitidi, troppi da ignorare, troppi per parlarne e poi il vuoto di spazio e tempo vi coglie e nessuno dei due distoglie lo sguardo, né lui né tu.
- Non è stata colpa tua, Piton. – Esclama come a concludere un ragionamento che si è svolto tutto nella sua testa - Tu non hai nessuna colpa! – ribadisce - È per questo che vieni ogni venerdì sera, vero? Questo volevi sentire, no? -
- Vengo a bere qui perché mi piace l’atmosfera. - Affermi sprezzante senza abbassare lo sguardo, – mi piace il tuo pub e mi somiglia. – un sorriso amaro sfiora le tue labbra, mentre volgi lo sguardo intorno all’ambiente trascurato.
- Piton, guardami bene, non sono Albus. Io sono solo un uomo semplice e pratico, non un grande mago, ma so chi era mio fratello, lo conoscevo bene come so che la sua morte non deve pesare sulle tue spalle. - Ti guarda adesso con una specie di dolorante tristezza, una solitudine vuota. - Hai sacrificato tutto: amicizia, compagnia, hai rinunciato alla tua stessa anima. Ti sei lasciato odiare, ha lasciato pensare a tutti che fossi malvagio perché nessuno sospettasse a che gioco stavi giocando e tutto per riparare ad un errore giovanile, un errore che Albus ha usato per tenerti stretto a sé: ti ha lasciato credere il peggio di te stesso. – si interrompe e sospira. - Una cosa ho imparato, Piton, ed è che viviamo con i nostri errori, la redenzione è un’illusione e mio fratello lo sapeva bene. Ti assolvo io da ogni responsabilità, lui, Albus, ha chiesto di morire e tu l’hai accontentato, fine della storia: ti ha ricattato. Il ricatto morale era una delle capacità raffinate di Albus.
Beve il liquore tutto in una volta e poi ti scruta in attesa di una reazione.
Sai che quello che dice è vero, vuoi crederci, se hai pensato di venire qui aspettandoti condanna e maledizioni hai sbagliato. Quest’uomo ti corrisponde, ti capisce, ma ora comprendi che non può assolverti se non lo fai prima tu.
- Non c’è perdono, non ci può essere per aver fallito e distrutto vite: sono un sopravvissuto che cerca di rimettersi insieme, ho bisogno di uno scopo per sopravvivere e perdonarmi, Aberforth. – sussurri abbassando lo sguardo, osservi il bicchiere, lo riempi di nuovo e lo bevi anche tu: tutto in una volta.
Domattina avrò un mal di testa feroce, pensi.
Il vecchio scuote il capo e sorride nella folta barba grigia
- È già abbastanza brutto perdere le persone quando muoiono, ma morire per il mondo quando si è ancora vivi, permettere che questo avvenga… no, nessun essere umano dovrebbe passare attraverso questo. – Alza gli occhi e cerca il tuo sguardo, non c’è compassione nel suo, ma una silenziosa e affettuosa comprensione: anche lui è sceso nell’inferno ed è tornato.
Nel silenzio che avvolge la notte senti di essere perduto, perché sai che ha ragione: sei ancora vivo a dispetto di tutti, compreso te; sei vivo e respiri, sei tornato, spezzato nel corpo, ma vivo; la tua vita è lì: puoi riprenderla in mano e farne quello che vuoi. Sei libero.
La bottiglia è finita e Aberforth si alza in piedi, lo fai anche tu, ma ti appoggi al bastone e alla sedia: un po’ troppo whisky forse.
Aberforth ti guarda e adesso ride, una risata profonda e cavernosa: una pacca sulla spalla completa il saluto.
- Piton non ce la fai a smaterializzarti, a meno che tu non voglia andare in pezzi, e nemmeno ad arrivare a piedi al castello con quel bastone, la neve e un bicchiere di troppo! - Esclama – vieni, ci penso io.
Tira fuori da dietro il banco una vecchia scopa che ha visto giorni migliori. Te la porge mentre apre la porta del pub per farti uscire.
- Ha smesso di nevicare, sei fortunato, Piton – afferma soddisfatto. – ci vediamo venerdì prossimo, riguardati! – e ti sorride.
È tanto tempo che non usi una scopa, ma stasera è una sera speciale, forse hai trovato un amico, qualcuno con cui puoi parlare e condividere, non ti sembra possibile che sia il fratello dell’uomo che hai ucciso, eppure…
- Buonanotte Aberforth, a venerdì. - Ti senti dire, mentre rimpicciolisci il bastone e lo metti in tasca, ti avvolgi nel mantello pesante e cavalchi la scopa.
Inclini il volto verso il cielo: gli ultimi fiocchi sfarfallano tra i rami degli alberi, il lago è una distesa di ghiaccio coperto da una spolverata di neve qua e là. L’ebbrezza del volo ti prende e fa esplodere nel petto una piccola bolla di esultanza improbabile: aumenta la speranza, sfuggendo alla consueta presa di coscienza sulla triste realtà che è stata tutta la tua vita.
C’è una specie di vertigine in tale libertà di pensiero che ti senti finalmente davvero vivo dopo tanto tempo e voli, godendoti la vista sul lago ghiacciato, assaporando il morso del freddo alle mani e al volto: il castello lontano è stupendo con luci sporadiche ancora accese.
In mente emergono potenti due parole, due concetti per te quasi sconosciuti: futuro e speranza.
Edited by chiara53 - 7/2/2022, 19:07