Il Calderone di Severus

Ellyson - Qualcosa su cui riflettere, Tipologia: racconto - genere: introspettivo, generale - Rating: per tutti - avvertimenti: nessuno

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view post Posted on 15/6/2021, 10:15
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Titolo: Qualcosa su cui riflettere
Autore: Ellyson
Beta: Querthe
Tipologia: One-shot
Rating: Per tutti
Genere: introspettivo
Avvertimenti:
Un gruppo di persone dai problemi più disperati che fa Silvoterapia

Nota: racconto scritto per la sfida Originali n. 3 “I sussurri del bosco” del forum "Il Calderone di Severus".

Disclaimer: Questa storia è di mia proprietà e occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.


Qualcosa su cui riflettere



Che stronzata.
Camminava nel bosco svogliata e annoiata.
Non le interessava il profumo del sottobosco.
Non trovava armonioso il cinguettio degli uccellini.
Non provava sollievo dalla frescura creata dall’ombra degli alberi.
Era indifferente a quello che la circondava. Così come era indifferente al resto del mondo.
Un passo davanti all’altro, sguardo chino sul sentiero cercando di non scivolare nel terreno umido e mille pensieri che le frullavano in testa.
Accanto a lei c’erano suoi compagni di viaggio.
Lanciò un’occhiata alla ragazza che aveva di fianco: Fran, una della poche con cui aveva stretto una sorta di amicizia da quando viveva in clinica.
Fran indossava dei pantaloncini corti, quasi inguinali, se si piegava sicuramente avrebbe intravisto l’orlo delle mutandine, così maledettamente in contrasto con la maglia a maniche lunghe nera.
Sapeva che la maglia aveva l’unico scopo di coprire le cicatrici sulle braccia.
Dietro di lei c’era Jillian, una splendida donna di quarant’anni che avrebbe potuto sembrare normale senza quella tuta sanitaria bianca, i guanti di gomma blu elettrici e il cappello da apicoltore. Si guardava attorno come se dovesse essere aggredita da un momento all’altro.
C’era Al, un cinquantenne che da quando era morta la moglie aveva compensato la perdita rubando nei supermercati, rischiando di finire in carcere per essere stato beccato tre volte nello stesso negozio a rubare una lattina di soda.
C'era Darrick che non usciva da una stanza se prima non eseguiva tutti i suoi gesti rituali, più e più volte, spesso mettendoci quasi un’ora prima di aprire la porta.
In quel preciso momento camminava contando ogni passo a bassa voce.
C’era Naomi che camminava stringendo il suo inseparabile bambolotto: Edgar.
E poi Dustin che dormiva appena due ore a notte, lo faceva da così tanto che un giorno aveva distrutto la hall di un albergo costringendolo a richiudersi in clinica e ammettere di avere un problema con l’insonnia e la rabbia repressa.
Infine, c’era lei.
Apparentemente normale, sia dentro che fuori di casa.
Di lei avrebbero detto che aveva il sorriso contagioso, la battuta pronta, autoironica, solare, senza alcun problema, felice e soddisfatta della vita.
Questo fino a due mesi prima, quando aveva deciso di mandar giù un flacone di Xanax aiutata da una bottiglia di vino rosso.
Davanti a tutti loro ad aprire la strada in quel bosco dimenticato da Dio, nel buco del culo del Vermont, come un bravo capo scout, c’era il dott. Zachary Ward: lo strizzacervelli della Sant Carol Clinic di Middlebury.
Il loro strizzacervelli.
Aveva programmato quella gita da una settimana, convincendo Jillian a fare un altro passo per superare la sua germofobia, dicendo che sarebbe stato utile a Darrick per calmare tutte le sue ossessioni e avrebbe aiutato Dustin con la rabbia.
Naomi viveva come una bambina di sette anni, le piaceva l’idea che Edgar potesse uscire un po’ dalla clinica e voleva vedere le farfalle. Al si era unito al gruppo perché - esatte parole sue - non aveva un cazzo da fare in quel posto di matti; mentre lei e Fran erano state praticamente costrette.
Il dott. Ward credeva che uscire, vedere meglio il mondo che stavano rifiutando, insieme alla loro vita, avrebbe fatto bene.
Ad ogni passo si chiedeva se tutti i diplomi e le belle carte incorniciate che vedeva appese sulle pareti del suo studio fossero valide e solo semplice carta stampata nello scantinato di casa.
- Ehi Doc! - gridò Al con la sua voce graffiante, probabilmente il risultato di anni a fumare sigari – Manca ancora molto?
- Ancora pochi passi.
- Ne abbiamo già fatti centotrentasei... centotrentasette... centotrentotto...
- Abbiamo capito, Darrick. Abbiamo fatto un sacco di passi.
- … centotrentanove...
Che stronzata.
Aveva sempre odiato il campeggio, fin da piccola quando suo padre e suoi fratelli la costringevano a interminabili weekend in posti sperduti, sulle rive di fiumi gelati usando un cespuglio come gabinetto.
Le avevano insegnato a pescare, accendere un fuoco, orientarsi in boschi osservando le stelle, sapeva montare una tenda in tempi record e cucinare su una roccia rovente.
Sapeva fare tutto questo e l’aveva sempre odiato, ma in famiglia o si fa quello che dice Xaviar Hall o puoi andartene dritta all’inferno.
Ci aveva provato ad andare all’inferno, ma non l’avevano voluta.
Era rimasta aggrappata a quella vita. Quella dov’era la terza figlia sbagliata, che non era andata al College, che si era sempre accontentata di un lavoro mediocre, che non aveva mai avuto una sola buona idea nella vita, che non sapeva fare nulla se non vivere una squallida vita da lesbica in una squallida casa, così incapace che perfino il gatto era scappato alla prima occasione.
Non era mai stata la principessa di papà.
Aveva fatto di tutto per cercare di renderlo fiero di lei, anche se non era andata al College, anche se svolgeva lavori umili, ma con determinazione e senza mai lamentarsi.
Aveva provato a fargli capire che nonostante non le piacessero gli uomini era una brava ragazza e il lavoro alla libreria le permetteva di pagarsi l’affitto e vivere una vita dignitosa, che il gatto non era scappato, ma morto perché vecchio e malato, ma a lui non andava mai bene nulla.
Quando si era svegliata in ospedale, con il giovane medico che l’aveva strappata dalle braccia della morte con un tronfio sorriso sulla faccia, come se avesse dovuto ringraziarlo per averle salvato la vita quando lei voleva solo far finire tutto, suo padre l’aveva guardata con ancora più disprezzo. Ancora più deluso dalla sua ennesima debolezza.
Incapace perfino di suicidarsi.
Non aveva mai capito che le sue debolezze partivano sempre da lui.
L’aveva obbligata ad entrare alla Saint Carol per capire cosa non andasse nella sua testa bacata.
Aveva legato subito con Fran, forse perché entrambe volevano scappare; moderne Thelma e Louise che non scappavano dalla polizia, ma dalla vita.
Poi aveva fatto amicizia anche gli altri.
Il dottore si fermò quando Darrick arrivò a contare a centosessantatré e per essere sicuro che tutti avessero capito il numero, l’aveva ripetuto altre tre volte.
Naomi parlava nell’orecchio di plastica della sua bambola indicandogli ogni cosa e chiamandola per nome, come farebbe una mamma con il figlio di pochi mesi.
Aveva capito dalla prima settimana di permanenza in clinica, settimana dove non aveva parlato con nessuno, ma aveva osservato tutto, che Naomi fingeva di comportarsi come una bambina di sette anni.
Sapeva esattamente dove si trovava e quello che succedeva attorno a lei, ma era più facile vivere come una bambina e non pensare a sua figlia morta in un incidente stringendo quella stessa bambola che ora fingeva di guardare un fungo.
Jillian sembrava che stesse per avere un attacco isterico o, forse, doveva solo vomitare per colpa dell’ansia che quel posto pieno di germi le creava.
Il dott. Ward li guardò uno per uno, con quel suo solito sorriso paterno nascosto dalla barba brizzolata.
Indossava una camicia di lino bianca e dei jeans scuri che lo facevano sembrare uno sfigato insegnante di liceo, piuttosto che uno psichiatra.
Lo trovava fastidiosamente accondiscendente. Persino durante gli incontri di gruppo dove non parlava quasi mai, o durante le sedute individuali nel suo studio.
Uno studio così ridicolmente scontato che poteva essere appena uscito dalla rivista Arredamento banale per psichiatri mediocri: c’erano i libri, i diplomi appesi con finta modestia, il divanetto di pelle marrone scuro, una scrivania fintamente disordinata come se volesse farti capire che anche lui è un uomo normale, e non quello che vuole fotterti i pensieri.
A dire il vero il dott. Ward era simpatico, a volte anticonformista, alla mano e pacato.
Aveva accolto ogni sua ostilità con una calma invidiabile, anche quando aveva distrutto contro un muro un piccolo giardino zen da tavolo che teneva nel suo ufficio.
Le aveva rivolto quello stesso sorriso paterno che aveva quel giorno e le aveva confessato che quel soprammobile gli aveva sempre fatto schifo e che gli aveva fatto un gran favore.
Quel suo autocontrollo e quel sorriso la irritavano, facevano crescere in lei una rabbia che non aveva mai provato.
Era irrazionale, illogico, ingiusto verso il medico che voleva solo aiutarla, ma era più forte di lei.
Faceva esattamente il contrario di quello che le diceva, solo per vedere la sua reazione. Un'occhiataccia, una parolaccia, uno sbuffo… qualcosa che scalfisse quell'insopportabile sorriso accondiscendente.
Qualcosa. Qualsiasi cosa.
Non era stupida, nonostante suo padre pensasse il contrario perché aveva provato a togliersi la vita. Capiva perché odiava così tanto il sorriso del dott. Ward: era il sorriso paterno che non aveva mai ricevuto.
Era l'affetto di un papà e non gli ordini autoritari di un padre che mandava avanti la famiglia con le stesse rigide regole dell'esercito dove aveva lavorato una vita.
Capiva persino il disprezzo che suo padre nutriva nei suoi confronti.
La sua nascita aveva portato alla morte la moglie amata, l'aveva costretto a ritirarsi dall'esercito per prendersi cura dei due maschi e di una - come le ricordava da quando aveva memoria - fastidiosa neonata che non smetteva di piangere.
Insomma, chi non l'avrebbe odiata per questo?
Che stronzata.
Scosse il capo e tornò a concentrare la sua attenzione al bosco che l'avvolgeva.
Si concentrò sugli alberi verdi e sull'erba morbida sotto le suole delle scarpe da ginnastica.
Le sembrò di non provare nulla.
Da qualche parte un ramoscello si spezzò, probabilmente sotto le zampe di qualche animale, Jillian si voltò di scatto col respiro affannoso.
Tra poco avrebbe dovuto respirare dentro un sacchetto di carta.
Il dott. Ward le venne subito d'aiuto, iniziò a parlare con la sua voce calda, pastosa, rassicurante e amichevole.
- È solo un bosco, Jillian. Non siamo neppure tanto lontani dalla clinica. Sei al sicuro.
- Animali… bosco… germi… - piagnucolò lei - pieno di germi…
- Sei al sicuro. - le ripetè - Hai la tua tuta e i guanti. Ne abbiamo già parlato, se vuoi riprenderti in mano la tua vita devi fare un passo alla volta. – le mise le mani sulle spalle, qualcosa che, fino a qualche settimana prima, non sarebbe stato possibile - Andiamo respira, Jillian. Respira con me. Respiri profondi.
Accerchiarono tutti Jillian, come facevano sempre quando l'ansia prendeva il sopravvento. Le andavano vicino e le mettevano una mano sulla schiena e respiravano lentamente con lei.
Era un riflesso incondizionato: quando qualcuno stava male gli altri andavano in soccorso.
Non credeva che lei, che conosceva queste persone da poche settimane, potesse affezionarsi tanto in così breve tempo.
Fuori dalle mura color pastello della clinica aveva delle amiche, ma, in fin dei conti, nessuna l’aveva mai ascoltata fino in fondo. Quando si lamentava del padre e dei suoi modi bruschi di trattarla le dicevano solo che era fatto così, che, ormai a trent’anni, avrebbe dovuto capirlo e farsene una ragione.
Le dicevano questo e poi tornavano ai loro problemi più seri: figli, compagni che le ignoravano, lavori precari e sottopagati.
I loro di problemi.
Problemi che lei ascoltava senza mai lamentarsi, aiutandole, confortandole, spesso mordendosi la lingua per non dire quello che pensava dei loro indecenti compagni o datori di lavoro ai limiti della legalità.
Invece in clinica la ascoltavano anche se parlava pochissimo, senza interrompere, senza sminuire i problemi.
Problemi, per gli altri, insignificanti, ma per lei serissimi.
Ecco perché accarezzavano Jillian senza dire nulla, seguendo il respiro lento del dott. Ward.
Al, il più cinico del gruppo, restava in silenzio accarezzandole la schiena ad occhi chiusi; Darrick le dava colpetti sulla spalla a gruppi di tre, Dustin non digrignava i denti e persino Noemi sembrava uscita dal suo stato di perenne bambina per accudire una donna al momento più fragile di lei.
Lei le accarezzò un braccio, Fran le strinse la mano.
Restarono in silenzio in quel posto, in mezzo ad alti alberi verdi, avvolti dal profumo della natura, ascoltando il respiro di Jillian che rallentava frenando l’attacco di panico.
- Ora sto bene… - mormorò – grazie a tutti. Grazie dott. Ward.
- Ti senti pronta?
Lei annuì.
Abbassarono le mani e ognuno tornò nel proprio mondo, con le proprie ombre scure.
Noemi tornò a guardare i fiori con la bambola, Darrick prese a fare un cerchio attorno ad un sasso contando alla rovescia partendo da dieci.
Dustin e Fran stavano guardando uno strano fungo che cresceva su un tronco, lui masticava un filo d'erba, lei si massaggiava le braccia lì dove le cicatrici tiravano la pelle.
Al era l'unico che fissava il dottore.
- Allora, Doc. - iniziò mettendosi le mani in tasca - Perché ci ha portato nel bosco? Andiamo a caccia di elfi?
Ward sorrise e scosse il capo.
- Silvoterapia. - rispose lo psichiatra.
- Silvochecosa?
- Silvoterapia. - ripetè – In parole povere: abbracciamo gli alberi.
Che stronzata.
Sbuffò scuotendo il capo. Decisamente tutti quegli attestati erano stati stampati nella cantina della sua casa.
- E’ uscito di testa, Doc? Ha bisogno anche lei dello strizzacervelli?
- Avete tutti i vostri corsi, i lavori manuali aiutano a tenere a bada i pensieri e concentrarsi sui propri sentimenti, ma avete bisogno anche di una carica positiva. Non dovete per forza abbracciare un albero, anche il semplice contatto con la natura aiuta l’umore, si hanno pensieri positivi. Potete vederlo come un esperimento. Se lo ritenete un fallimento non lo faremo mai più. Ma posso garantirvi che ne trarrete beneficio, è una pratica usata da molte culture. In Giappone si chiama shinrin-yoku che letteralmente significa: bagno nella foresta. - si voltò a guardare tutti uno per uno – Questo è l’esercizio di gruppo di oggi. Guardatevi attorno. Trovate un albero e abbracciatelo o toccatelo. Fatelo da soli, concentratevi su quello che avvertite. Liberate la mente dai pregiudizi e non sentitevi idioti.
- Come sappiamo quale albero dobbiamo abbracciare? – domandò Fran.
- Dovete solo seguire il vostro istinto.
Si allontanò di qualche passo prima che la voce del dottore la fermò.
- Non allontanarti troppo, Kara.
- Teme che possa scappare, Doc?
Lui scosse il capo.
- Hai un altro posto dove andare? - era una domanda retorica, conosceva perfettamente la risposta – Un posto dove puoi sentirti al sicuro anche dai tuoi stessi pensieri? - non gli rispose, non gli diede quella soddisfazione, l'odioso sorriso accondiscendente tornò a fare capolino tra la barba – Non allontanarti troppo, Kara. Non voglio che ti perda.
Gli diede le spalle sollevando una mano per fargli capire che aveva capito e fece qualche passo addentrandosi nella boscaglia.
Si allontanò abbastanza per non sentire più i suoi compagni. Non aveva paura di perdersi, avrebbe saputo orientarsi in qualche modo.
Avverti il rumore di foglie calpestate e si voltò di scatto.
C'era un cervo non molto lontano da lei.
Era un cervo giovane, le corna non erano particolarmente ramificate, aveva il manto di un bel marrone ambrato, la fissava con evidente curiosità. Probabilmente era stato lui a spezzare quel ramoscello qualche minuto prima.
Si mosse verso di lui lentamente, stanza distogliere lo sguardo per paura che potesse scappare da un momento all'altro.
Allungò una mano per poterlo accarezzare anche solo di sfuggita, ma l'animale scappò via.
Sparì velocemente così com'era apparso.
Restò con lo sguardo fisso nel punto in cui era sparito e sospirò delusa.
Tornò indietro sperando di non essersi allontana così tanto da aver fatto preoccupare i suoi compagni.
Sentì Al che borbottava qualcosa sull'albero che gli aveva sporcato la camicia e Naomi che rideva diventa.
Sorrise, non riuscì a evitarlo, si era affezionata a quello sgangherato gruppo di matti.
In fin dei conti anche lei era matta.
Si fermò e si guardò attorno.
Lo vide in quel momento.
Un albero diverso dagli altri. Annerito in più punti, con il tronco spaccato forse da un fulmine, forse da una malattia. Aveva anche alcuni rami anneriti, secchi e morti, ma non tutti. Alcuni erano sopravvissuti a quella sciagura e continuavano a fiorire. Avevano grandi foglie verdi brillanti, come se i colori sgargianti potessero distrarre dalla visione martoriata del resto.
Era un albero che il destino aveva messo alla prova, ma che non si era lasciato abbattere e lottava per la vita.
- Cazzo... - mormorò avvicinandosi.
Appoggiò la mano aperta sul tronco, la corteccia era dura in alcuni punti, in altri si sgretolò sotto il suo palmo, c’era del muschio fresco, morbido sotto i polpastrelli; una piccola formica le attraversò velocemente la mano.
Chiuse gli occhi e si concentrò solo su quello che toccava.
Respirò piano, l’odore del sottobosco le riempì i polmoni e questa volta sentì davvero i profumi che la circondavano, la linfa degli alberi, il muschio, la terra umida...
- E’ una scelta interessante.
Non si spaventò quando la voce calda del medico la raggiunse, restò con gli occhi chiusi concentrata su quello che avvertiva sotto la mano.
- Un albero che stava per morire, ma che è sopravvissuto.
- Non ci vuole una laurea per intuire la similitudine tra questo albero e me. - disse aprendo gli occhi e sollevando lo sguardo per guardare i rami morti e quelli che ancora vivi sulla sua testa – E’ psicologia spicciola, Doc.
- A volte è la più efficace.
- E non la fa arrabbiare sapendo che della psicologia da quattro soldi è più efficace di tutte le tecniche che ha affinato in anni di professione?
- Vuoi sempre vedermi arrabbiato, Kara.
Anche questa non era una domanda.
Sì, voleva vederlo arrabbiato.
- Il suo sorriso mi disturba.
- Perché?
- Non lo so.
- Vuoi conoscere la mia opinione?
- No.
L’uomo restò in silenzio qualche secondo poi fece un sospiro.
- Tuo padre non intende partecipare al prossimo incontro. - le rivelò – A dire il vero non vuole venire in clinica. Mentre i tuoi fratelli verranno a parlarti.
Non rispose. Tornò a guardare la mano ferma sul tronco.
Osservò la parte annerita sotto il palmo e poteva quasi sentire il dolore di quella pianta, il desiderio di morire per non continuare a soffrire.
- Va bene. – mormorò con un sospiro rassegnato.
- È questo quello che pensi realmente?
- Dire quello che provo ad ogni rifiuto di mio padre cambierebbe il nostro rapporto?
- Temo di no, ma staresti meglio con te stessa.
- Per il momento va bene, sarà la mia risposta.
Ward non rispose, non le ripeté, come faceva ad ogni seduta, che la risposta va bene l’aveva portata a quella sera, quando era stata trovata nel salotto di casa dal più grande dei suoi fratelli, più morta che viva. Non rimarcò il fatto che quel va bene non andava bene per niente, che era solo uno scudo con il quale si voleva proteggere.
Uno scudo di cartone leggero, che bastava poco per distruggerlo.
Non lo disse, si limitò a fissarla ancora un po’ analizzando ogni suo gesto.
Lei lo ignorò, allungò anche l’altra mano appoggiandola sempre sul tronco, in una parte più sana e viva. La corteccia era tiepida riscaldata dal sole, il muschio più fitto e morbido. Era come se volesse curargli le ferite.
Alzò lo sguardo ed intravide il cielo celeste tra le fronde degli alberi molto più alti di quelli che stava toccando lei.
Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro riempiendosi di nuovo i polmoni del profumo della natura, senti l’odore del legno marcio sotto le dita, ma anche il profumo dei fiori appena sbocciati.
Vita e morte sotto le sue mani.
Il dott. Ward continuava a fissarla.
- Non abbraccerò questo fottuto albero, Doc.
- Non sei obbligata ad abbracciare il fottuto albero.
Sorrise con gli occhi chiusi.
- Usare lo stesso linguaggio è un modo per empatizzare con me?
- Psicologia spicciola.
- Cosa devo fare ora?
- Concentrati sulle emozioni positive che ti trasmette. Non sei obbligata a dirmelo, ma voglio che ogni volta che un pensiero negativo ti avvilisce tu ripensi a questo albero.
Lo sentì allontanarsi. Non si voltò a guardarlo, restò ferma in quel punto, con le mani appoggiate ad un tronco, fissando il cielo sopra la sua testa.
- Che emozioni mi trasmetti? - mormorò con un filo di voce abbassando lo sguardo sulla corteccia – La vita è stata dura per te. So cosa si prova, ma sei andato avanti in qualche modo. Hai continuato vivere. Come hai fatto?
Restò in silenzio in attesa di capire qualche stravolgere verità tenendo solo appoggiate le mani su un tronco sporco.
Non arrivò nessuna risposta.
Nessuna grande illuminazione sulla vita.
Avrebbe dovuto lavorare per capire come fare a vivere la sua vita senza sentirsi costantemente una fallita.
La sua permanenza alla Saint Carol sarebbe stata ancora lunga e la tentazione di mandare giù un flacone di pillole, forse, sarebbe tornata.
Si allontanò dall’albero e si pulì i palmi sui pantaloni.
- Se lo capirò, tornerò. – mormorò – Forse ti abbraccerò. Come vuole lo strizzacervelli.
Si voltò e si incamminò verso gli altri senza guardarsi indietro.
Quando Jillian la vide le andò incontro con un grande sorriso.
- Ho toccato l’albero! Per dieci secondi senza il guanto! – esultò mostrandole la mano nuda.
- Erano otto secondi e mezzo. – preciso Darrick.
- Andiamo ragazzo sii felice per lei e basta. – lo rabbonì. Al dandogli una lieve pacca sulla schiena.
- È fantastico Jillian! Stai cercando progressi!
La donna annuì soddisfatta.
- Tu hai trovato qualcosa di interessante?
- Ho qualcosa su cui riflettere.
Jillian la abbracciò all’improvviso, il cappello da apicoltore per poco non la colpì in testa, ma si lasciò abbracciare.
Anche questo era un passo importante, i primi giorni che si erano incontrate, quando per lei era solo un’estranea, si sterilizzava le mani ogni volta che la sfiorava, era arrivata a cambiarsi d’abito quattro volte solo perché erano sedute vicino durante le sedute di gruppo.
- Siete stati bravi. - disse il dott. Ward con il fastidioso sorriso e le mani nelle tasche dei pantaloni - Possiamo andare. Santana ha preparato la sua famosa cheesecake. Ha promesso un fetta ad ognuno di voi.
Si incamminarono verso il pulmino della clinica.
Il dott. Ward ripeteva che dovevano fare un passo alla volta per riprendersi la loro vita.
Lei stava facendo qualche passo.
Piccolo. Insicuro. Indeciso.
Ma erano sempre passi.
Sperò di essere sulla strada giusta.
Seduta sul sedile accanto a Fran fissò dal finestrino il bosco che scorreva a margine della strada domandandosi se sarebbe tornata ad abbracciare quell’albero.
Ma prima avrebbe dovuto compiere ancora molti passi in avanti.


Fine

 
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