Terza Giornata
Prologo
Sicurezza
Un grido rompe il silenzio della notte. La bambina si sveglia di colpo stringendo a sé l’orsacchiotto.
Forse la mamma ha avuto un incubo.
Come quando lei ha sognato un pesce gigante che voleva mangiarla.
Poi un altro grido.
La bambina si alza ed esce dalla cameretta.
Tiene in mano l’orsacchiotto.
Sa che lui non ha paura. Lei invece un po’ sì perché non è normale che mamma e papà abbiano gli incubi.
Quando arriva sulla soglia della stanza rimane immobile.
Ci sono degli sconosciuti.
E mamma e papà stanno gridando.
La bambina vorrebbe chiamare aiuto, ma la voce non le esce. Stringe l’orsacchiotto, mentre qualcuno ride nella stanza.
Un’ombra si avvicina.
Nera.
La bambina piange silenziosamente.
La voce continua a non volerle funzionare.
Si sente sollevare da terra e rapidamente viene messa nell’armadio che sta accanto alla porta e che la mamma ha lasciato aperto a metà.
«Non fare rumore.» un sussurro che la bambina ode a malapena, coperto dalle grida di mamma e papà.
L’ombra si allontana.
E lei rimane sola. Si rannicchia in un angolo dell’armadio e non si muove.
Piange.
E sente le grida della mamma.
Quelle del papà.
Sono grida terribili che le perforano il cuore.
Grida di dolore.
Anche se non ne ha mai sentite prima, le riconosce.
Vorrebbe singhiozzare, gridare, ma non lo fa.
L’uomo le ha detto di non fare rumore. E lei vuole obbedirgli perché l’ha nascosta. E quando l’ha fatto, le ha dato l’impressione che lei fosse al sicuro. Forse l’uomo adesso sconfiggerà chi fa urlare mamma e papà, si dice la bambina, cercando di rincuorarsi.
Le si apre sulle labbra un sorriso disperato.
Le lacrime lo cancellano subito.
Una luce verde pare illuminare per un istante la stanza, poi sente delle voci. Non sono quelle di mamma e papà. Vorrebbe provare a chiamarli, ma l’uomo le ha detto di non far rumore e lei si fida di lui.
Tutto diventa improvvisamente silenzioso.
La bambina riesce a sentire il suo respiro agitato.
Poi sente dei passi lenti. Qualcuno apre l’altra anta dell’armadio. Qualcuno la prende in braccio prima che lei possa uscire e le nasconde il capo contro la spalla.
La bambina sa che è lo stesso uomo di prima.
Sorride appena contro la sua spalla.
E piange.
Stanno scendendo le scale.
E la bambina sorride.
Il sorriso della disperazione perché sa, anche senza chiederlo, che mamma e papà non ci sono più.
Il sorriso della gratitudine perché sa che l’uomo le ha salvato la vita.
E piange lacrime disperate.
L’uomo la posa su una poltrona in salotto. La luna illumina la stanza e la bambina osserva l’uomo. Ne intravede il volto e decide che non lo dimenticherà mai.
«Signore…»
«Qualcuno arriverà presto.» dice rapidamente l’uomo.
«Ma lei rimarrà qui, vero? Con me?» domanda spaventata.
L’uomo scuote unicamente il capo, poi fa qualche passo per la stanza.
La bambina singhiozza.
L’uomo torna e l’avvolge nel plaid che mamma usa quando guarda la televisione.
La bambina vorrebbe dirgli grazie, ma le parole non vogliono uscire.
Gli sorride appena, ma l’uomo si è voltato.
L’uomo è uscito dalla stanza.
Se n’e andato.
Qualcuno arriva poco dopo.
Sono rumorosi. Sembrano poliziotti.
La bambina riesce solo a stringere a sé il plaid che l’uomo le ha avvolto attorno.
La fa sentire al sicuro.
Anche dalle domande che le stanno facendo e alle quali lei non risponde.
Non riesce a parlare.
Stringe con più forza il plaid. Vorrebbe che l’uomo fosse ancora lì. Che ci fosse lui e non quegli uomini. A lui avrebbe potuto parlare, si dice, mentre la portano via.Judith si svegliò di colpo. Si avvoltolò meglio nelle coperte, il respiro affannato, mentre cercava di riprendere sonno, senza riuscirvi.
Si mise a sedere di scatto, toccando con una mano il plaid sopra le lenzuola. Non importava che fosse ormai vecchio e liso. Glielo aveva dato il signor Piton per farla sentire al sicuro.
Sorrise, come se stesse sorridendo all’uomo.
Con riconoscenza.
Con affetto.
Avrebbe voluto che lui fosse lì.
Era certa che non avrebbe più avuto paura di dormire e di sentire le grida dei genitori.
Tirò il plaid verso di sé e se lo avvolse attorno, come aveva fatto il signor Piton quella notte.
E sorrise di nuovo grata.
Perché il signor Piton l’aveva salvata.
Perché il signor Piton le aveva impedito di vedere i cadaveri dei suoi genitori.
Perché il signor Piton l’aveva avvolta nel plaid quella notte.
E l’aveva fatta sentire al sicuro.
***
Atto I. Scena I
Amarezza
Un commento dell’infermiera, che gli aveva portato la dose giornaliera di antidolorifico, continuava a rimbombare nelle orecchie di Severus.
Era stato un ciarlare a senso unico, come sempre.
Come sempre, non aveva quasi ascoltato la donna, se non quando aveva nominato l’orfanotrofio e l’aumento del numero di bambini tra l’estate del 1997 e la prima metà dell’anno successivo.
E Severus sapeva perfettamente cos’era avvenuto in quel periodo.
Quanti altri tra quei bambini erano sue vittime?
Quanti altri, oltre a Judith, aveva reso orfani?
La bile gli era montata in gola, alle parole dell’infermiera, e con essa il sapore amaro della colpa.
L’antidolorifico stava intonso sul tavolo, accanto ai libri che, quattro giorni prima, gli aveva portato la signorina Fairchild, insieme alle sue assurde parole, al suo lieve sorriso, alle sue suppliche.
Quella donna era miope.
Non riusciva a vedere l’enormità di quello che lui aveva compiuto.
Non riusciva a vedere il sangue che gli copriva le mani.
Si alzò lentamente in piedi, afferrando la boccetta dell’antidolorifico. Sapeva che avrebbe dovuto chiamare l’infermiera, ma, per quello che aveva da fare, non ne aveva bisogno.
Raggiunse la porta del bagno. Si appoggiò per un istante alla parete, prima di aprire l’uscio. Svitò il tappo della boccetta e ne vuotò il contenuto nel lavandino.
Nel liquido che turbinava verso lo scarico, vide il sorriso riconoscente di Judith.
E sentì l’amarezza della colpa montargli in gola.
Si appoggiò per un istante al lavabo.
Nella lucida superficie bianca vedeva il sorriso di Judith.
Il sorriso che non avrebbe dovuto essere per lui.
Per l’assassino.
Tornò lentamente nella stanza.
Si sedette sulla sedia.
Fuori il sole splendeva, forse mai così luminoso da qualche tempo a quella parte.
I raggi illuminavano la stanza, posandosi sul tavolo, sui libri e sulle pareti giallastra, rendendole più squallide.
E nelle screpolature dell’intonaco l’uomo vide il sorriso colmo di sollievo di Judith.
Quel sorriso che avrebbe dovuto essere colmo d’odio.
E che con ogni probabilità lo sarebbe diventato, quando la signorina Fairchild le avrebbe comunicato la sua decisione.
Una decisione irrevocabile.
Riusciva ad immaginare il sorriso della bambina colmarsi dell’odio e del disprezzo che egli meritava.
E che egli provava per se stesso.
Così com’era una giusta punizione il dolore che stava montando dentro il suo corpo.
Un dolore che dovevano aver provato i genitori della bambina.
Gli pareva di udirne le voci, in quel momento, grida che parevano dire la sua colpa imperdonabile.
Gli pareva di udire le risate degli altri due Mangiamorte.
Rammentava vagamente che la bambina gli aveva parlato quella tragica notte, ma ciò che gli balzava alla mente erano unicamente le grida di quei due innocenti.
Quelle grida che per un istante gli parvero risuonare nella stanza, sostituite ben presto da un lieve bussare alla porta.
Severus non si voltò.
Era certo che fosse l’infermiera. Invece fu la voce di Melusine Fairchild a rivolgersi a lui.
«Signor Piton, so che… forse non si aspettava di rivedermi dopo quello che ci siamo detti quattro giorni fa, ma vi ho riflettuto. Ed ho parlato con Judith. Mi ha raccontato quello che è accaduto quella sera.»
L’uomo non si voltò, né fissò la donna, quando la sentì muoversi nella stanza e sedersi.
Forse, finalmente, avrebbe capito che aveva insistito affinché una bambina innocente potesse stare in compagnia di un assassino.
Forse finalmente avrebbe visto l’odio sul volto dolce della giovane.
«Ha quindi compreso che io sono l’assassino.» affermò Severus, assaporando il dolore che divorava il suo corpo e la sua anima.
«Ho capito che lei ha salvato la vita di Judith e che l’ha fatta sentire al sicuro, pur in una situazione del genere.» ribatté la giovane donna.
L’uomo portò lo sguardo sulla signorina Fairchild e notò che gli stava sorridendo.
Non era un sorriso lieve, né un sorriso nervoso, ma il sorriso di chi aveva fiducia nel suo interlocutore.
Un sorriso che non faceva altro che acuire il sapore amaro che aveva in bocca.
Il sapore amaro della colpa.
Un sorriso che la donna – un’adulta, non una bambina che poteva travisare la realtà – non avrebbe mai dovuto rivolgergli.
Non a lui.
Non ad un assassino.
Riusciva ad immaginare fin troppo bene cosa volesse da lui la giovane.
Immaginava cosa vi fosse dietro quel sorriso.
Quale domanda.
Ma egli sapeva che la decisione che aveva preso era irrevocabile e che nulla poteva modificarla.
***
Atto I. Scena II
Dolore
Melusine stava ancora sorridendo all’uomo. Era da quando il giorno precedente Judith aveva trovato il coraggio di dirle cosa fosse accaduto quella tragica notte di agosto, che la giovane aveva deciso di tornare a parlare con il signor Piton, nel tentativo di convincerlo a cambiare d’avviso, ma le parole che l’uomo aveva pronunciato non le davano molta speranza.
Le pareva che il signor Piton volesse ad ogni costo negare il fatto che aveva salvato la vita a Judith e quello che disse poco dopo le fece male al cuore.
«Non riuscite né lei, né la bambina a vedere la verità. Io sono un assassino.»
«E quale assassino avvolgerebbe un plaid intorno ad una bambina?» domandò Melusine, fissando l’uomo negli occhi, sorridendogli leggermente, con gentilezza. «Non so cosa sia accaduto quella notte, solo quello che mi ha raccontato Judith. E dal suo racconto so con certezza che lei ha salvato la vita della bambina. Perché insiste a negarlo?»
Severus non disse, né fece niente per diverso tempo. Nel sorriso gentile della signorina Fairchild poteva vedere quei sentimenti che vi aveva letto quando gli aveva chiesto, tempo prima, di accettare di vedere la bambina.
Il sorriso che evocava i sentimenti materni che la giovane provava per Judith. Ed egli era certo che ciò di cui avesse bisogno la bambina fosse l’affetto ed il sorriso della signorina Fairchild, non di certo la compagnia dell’assassino dei suoi genitori.
Perché era quello che era.
L’uomo che non era riuscito a salvare quei due innocenti.
L’uomo che aveva lasciato che venissero torturati.
L’uomo che li aveva uccisi.
«È lei, signorina Fairchild, a negare la verità. Io sono l’assassino dei genitori della bambina.» disse infine, articolando ogni parola a fatica, provando una fitta di dolore ad ogni sillaba pronunciata.
«Forse entrambi neghiamo parte della verità, signor Piton.» disse Melusine, giocando nervosamente con le frange del foulard, un sorriso altrettanto nervoso sulle labbra «Eppure io so che Judith ha bisogno di lei. Chiede di lei ogni giorno. Mi ha supplicata di portarla qui in anticipo ed io le ho detto che non potevamo perché l’ospedale ha regole ben precise.»
«Dovrebbe invece dirle la verità.» sillabò Severus.
Le parole furono seguite da un violento attacco di tosse.
Melusine si alzò di scatto in piedi ed allungò una mano per premere il pulsante per chiamare l’infermiera, ma l’uomo le afferrò il polso.
La giovane lo fissò negli indecifrabili occhi neri e sentì montare in lei la più estrema tristezza.
Quell’uomo si stava punendo nel peggiore dei modi, martoriando il proprio corpo, impedendo il minimo gesto di gentilezza. Qualsiasi colpa avesse commesso in passato, fosse questa anche l’aver effettivamente ucciso i genitori di Judith, la stava espiando, l’aveva già espiata, con ogni probabilità, si disse Melusine.
«Signor Piton, credo che Judith veda in lei l’unica persona che possa darle sicurezza.»
L’uomo le lasciò andare il polso.
E Melusine, per quanto avesse voluto chiamare qualcuno che potesse lenire le sofferenze dell’uomo, abbassò il braccio, con un sorriso triste.
«La bambina mi ha raccontato tutto, quando la direttrice dell’orfanotrofio le ha proposto di sostituire il plaid che tiene sul letto, il plaid senza il quale non riesce a dormire. Judith si è agitata ed ha afferrato quella vecchia coperta quasi ne andasse della sua stessa vita.
«Quando sono rimasta sola con lei, la bambina mi ha spiegato perché vuole quel plaid sempre con sé.» Melusine si interruppe, cercando lo sguardo dell’uomo, quello sguardo che le pareva celare una solitudine ed un tormento incommensurabili. «Avevo sempre pensato che fosse qualcosa che le ricordava i suoi genitori. Invece le ricorda lei. Tiene così tanto a quel plaid perché lei, signor Piton, glielo ha avvolto intorno alle spalle quella notte, perché le ha salvato la vita e l’ha fatta sentire al sicuro. Come posso dire a Judith che lei non vuole più vederla? Come posso?»
La voce della donna si era fatta accorata, così come accorato si era fatto il suo sorriso.
Era un sorriso che aveva un che di disperato, si accorse Severus.
Un sorriso che lo colpì come una frustata al pari delle parole della donna.
Ricordava di aver avvolto una coperta intorno alla bambina, mentre aveva sentito montare in lui inesorabile la colpa, che gli aveva fatto ronzare il sangue nelle orecchie. L’ennesima orribile colpa. Era stata l’unica cosa che aveva potuto fare di fronte alla domanda della bambina. Poi l’aveva abbandonata a se stessa, dopo aver ucciso i suoi genitori.
Era un mostro.
Un mostro a cui quella donna non avrebbe dovuto sorridere in quel modo accorato, disperato quasi, ma sempre gentile.
Un mostro il cui corpo avrebbe dovuto essere dilaniato e poi bruciato perché non ne restasse traccia.
Un mostro che sarebbe stato logico odiare.
«Signorina Fairchild…»
«La prego, signor Piton, usi il quaderno.» lo interruppe con un mormorio Melusine.
Severus osservò per un istante la donna e notò che appariva preoccupata, ma egli non meritava quella preoccupazione, né il sorriso accorato della donna.
Fece per continuare a parlare, pronto ad assorbire nuovo meritato dolore, ma si interruppe. Sentiva la gola bruciargli, come se qualcuno vi avesse colato dentro della lava incandescente. Prese in mano il quaderno perché sapeva che non avrebbe potuto sopportare ulteriormente il dolore alle corde vocali.
“Tenga la bambina lontana da me.”
Melusine gli restituì il quaderno con mani tremanti. Non era quella la risposta che avrebbe voluto leggere. C’era qualcosa di terribilmente tragico in quell’uomo che rifiutava di vedere il bene che poteva fare a Judith, il bene che già le aveva fatto.
«Signor Piton… Severus, per l’ultima volta, la scongiuro, la supplico di pensare a ciò che il suo rifiuto può causare nell’animo di Judith.» mormorò Melusine, le mani giunte in una muta preghiera. Senza rendersene conto, si lasciò scivolare in ginocchio, come una supplice. Sulle labbra un sorriso nervoso e triste, nervoso per l’incertezza del futuro della bambina, triste per la vita a cui si costringeva l’uomo. «Non pretendo che lei veda Judith ogni giorno. Possiamo concordare la distanza di tempo che vuole. Una volta al mese… una volta ogni due mesi… qualsiasi cosa, ma non scacci Judith, non mi costringa a comunicarle questa decisione che la distruggerebbe.»
L’uomo avrebbe voluto urlare alla donna di rialzarsi, avrebbe voluto dirle di andarsene, ma il dolore era troppo intenso, così intenso che per un istante fu visibile sul suo volto.
E la sua mente era piena del ricordo di quando era caduto in ginocchio di fronte a Silente, di quando l’uomo l’aveva osservato con giusto disprezzo.
Il disprezzo che la donna avrebbe dovuto provare per lui.
Non quella preoccupazione che aveva mostrato poco prima.
Men che meno quel sorriso triste.
Prese in mano il quaderno, ma gli cadde a terra.
Il dolore gli attraversava il corpo come mille frustate, impossibile da sopportare. Vide la donna alzarsi in piedi sollecita, la sentì mormorare parole preoccupate.
Poi la vide premere il pulsante per chiamare l’infermiera.
E non ebbe la forza di fermarla.
***
Atto II
Affetto
Pioveva.
Le gocce di pioggia ticchettavano contro il vetro della finestra, un ritmo che pareva scandire le sue colpe, si disse Severus. Oppure ogni goccia equivaleva ad ogni sua colpa ed ogni silenzio tra una goccia e l’altra all’impossibilità di ricevere il perdono per ognuna di esse.
Gli pareva che in quelle stille di pioggia vi fossero la sua vita e le sue scelte sbagliate.
Ed il volto di coloro che aveva ucciso.
Di coloro che non era riuscito a salvare.
Colpe per le quali non era ancora riuscito a scontare la pena.
Non si rese conto dell’aprirsi della porta, il rumore soffocato dal ticchettio della pioggia.
«Signor Piton, Melusine mi ha detto che è stato malato ed io…» la voce si spense di colpo, quando l’uomo si voltò.
La bambina era sola.
Ed aveva stampata sul volto un’espressione incerta.
Ed un sorriso affettuoso.
Il sorriso che si rivolge ad un padre.
La vita era crudelmente ironica, si disse l’uomo, se quella bambina sorrideva a quel modo a chi l’aveva privata dei genitori.
“E la signorina Fairchild sa che sei qui?” scrisse rapidamente, passando il quaderno a Judith.
Sperava sinceramente che quello non fosse un disperato tentativo della giovane di fargli cambiare idea.
Eppure era stato chiaro, prima di quella crisi, che l’aveva costretto ad una settimana di immobilità assoluta.
La sua scelta era irreversibile.
«Non propriamente.» rispose la bambina, osservandolo.
Solo in quel momento Severus notò che Judith era totalmente zuppa d’acqua. Sentì il peso della colpa montare dentro di lui, intenso e distruttivo.
Era a causa sua se quella bambina si rivolgeva a lui, all’assassino dei suoi genitori con quel sorriso, alla ricerca di una figura paterna di cui egli l’aveva privata.
«Melusine mi ha detto che è stato malato, signor Piton.» ribadì la bambina, continuando a sorridergli. «E sono dieci giorni ormai. Ed ero preoccupata ed ho pensato che lei era tutto solo qui e non è bello essere soli.»
Severus continuò a fissare la bambina.
Non avrebbe dovuto essere lui ad ispirare quei sentimenti.
Non lui.
Non un assassino.
Invece Judith era lì, ricoperta di pioggia e tremante.
Era andata da lui, senza che nessuno lo sapesse. Aveva sfidato la pioggia battente.
Ed unicamente perché riponeva fiducia ed affetto nella persona sbagliata.
Sentì la bile montargli in gola.
E sentì il sorriso della bambina mescolarsi alla colpa.
Sentì l’assenza di perdono avvolgerlo come una cappa.
E sentì il sorriso della bambina riscaldargli per un istante il cuore e renderlo ancora più certo della scelta, quella scelta che avrebbe dovuto comunicare alla signorina Fairchild.
La bambina tremava, troppo, notò.
Si alzò in piedi, appoggiandosi al tavolo.
Il dolore era insopportabile quel giorno, nonostante l’antidolorifico che lo forzavano ad assumere ogni mattina, ma, come ogni volta lo accolse con gioia perché sapeva che lo meritava, ancor più in quel momento, di fronte alla bambina che rischiava di ammalarsi perché non riusciva ad odiarlo, di quell’odio che egli desiderava e meritava.
Judith seguiva con ansia i movimenti dell’uomo.
Quando Melusine le aveva detto che era malato, si era decisamente preoccupata.
Non voleva perdere anche lui.
Non voleva che capitasse nulla all’uomo che le aveva salvato la vita.
Non voleva perdere il senso di sicurezza che l’uomo le infondeva.
Quando si sentì avvolgere in un panno, tornò a sorridere con affetto, un affetto che Severus sapeva malriposto.
L’uomo tornò a sedersi.
Judith continuava a fissarlo e a sorridergli, un sorriso affettuoso e riconoscente.
Si sentiva al sicuro in quel momento, come non le capitava da tempo, come non le accadeva da prima di quella notte in cui i suoi genitori erano stati uccisi.
Fece qualche passo verso l’uomo, poi, come quel giorno in cui la luce era venuta a mancare, si sedette sulle sue ginocchia, assaporando il senso di calma e di sicurezza che il signor Piton le trasmetteva.
Severus sentì nuovamente montargli la bile in gola.
Sapeva che Judith vedeva in lui una fonte di sicurezza – la signorina Fairchild glielo aveva ripetuto fin troppe volte – e razionalmente poteva comprenderne le ragioni, ma egli sentiva unicamente la colpa, il sangue dei genitori della bambina sulle mani.
Desiderava l’odio di Judith.
Il suo disprezzo.
Invece ne riceveva la fiducia e l’affetto.
E non era ciò che la sua anima nera meritava.
Chiuse per un istante gli occhi, come per mettere a tacere per un istante i pensieri che si rincorrevano nella sua mente.
Ma non era possibile raggiungere un solo istante di pace, com’era giusto che fosse.
La sua pace l’aveva lui stesso distrutta da tempo, da troppo tempo.
E di certo non meritava alcun sorriso.
A meno che non fosse una smorfia d’odio.
La bambina rabbrividì appena.
Severus avrebbe voluto, dovuto scacciarla, chiamare l’infermiera e dirle di riportarla all’orfanotrofio, ma non lo faceva.
E non riusciva a spiegarsene il motivo.
Allungò una mano verso il cassetto del tavolo.
Era forse perché solo Judith cercava conforto in lui?
Aprì il cassetto e ne estrasse la bacchetta.
Era forse perché Judith non gli chiedeva nulla in cambio, nemmeno che lui ricambiasse l’abbraccio?
Un movimento di bacchetta e la bambina fu completamente asciutta.
Era forse perché, per un breve istante, aveva sentito un raggio di luce farsi strada nel suo cuore?
Un raggio che fu subito soffocato dal rimorso e dalla certezza che per lui non vi fosse altro che tenebra e assenza di perdono.
La bambina non si accorse di nulla, non si rese conto di essere improvvisamente asciutta. Era unicamente felice di aver rivisto il signor Piton e di provare quell’infinito senso di sicurezza.
Non si rese nemmeno conto che la porta della stanza si aprì di scatto.
Non vide Melusine entrare, il volto colmo di preoccupazione ed avvicinarsi all’uomo.
Non notò il viso della giovane rilassarsi di colpo.
Non si accorse del sorriso che si disegnò sulle labbra di Melusine.
Severus vide quel sorriso.
Vide la domanda che era celata nello sguardo della donna.
E scosse lentamente il capo.
***
Atto III
Una scelta
Melusine si sentiva incredibilmente nervosa, mentre entrava nell’ospedale. Era la prima volta che il signor Piton le chiedeva di recarsi nella sua stanza. Ricordava perfettamente che quattro giorni prima, quando le aveva passato il quaderno con quelle parole era rimasta stupita.
Non riusciva ad immaginare cosa volesse dirle, soprattutto dopo che aveva negato, mentre Judith era sulle sue ginocchia, la sua muta richiesta.
Quando aveva lasciato l’ospedale non aveva nemmeno osato rimproverare la bambina. Non importava che avesse provato un enorme spavento quando aveva notato che Judith non era all’orfanotrofio. Aveva trovato la bambina immersa in una calma che, forse, sarebbe stata distrutta.
Voleva sperare che il signor Piton l’avesse voluta perché, in realtà, aveva cambiato idea.
Era una speranza vana, lo sapeva, ma non poteva fare a meno di nutrirla.
Forse fu per quello che salutò l’uomo con un sorriso gentile.
«Vorrei ringraziarla per aver badato a Judith, quattro giorni fa.» esordì la giovane, continuando a sorridere all’uomo.
Un sorriso gentile, colmo di un calore che si infranse contro la barriera che circondava Severus, contro il gelo delle sue colpe.
L’uomo era più che certo che la signorina Fairchild avrebbe fatto un altro tentativo per convincerlo a cambiare idea.
Ma non importava quanto gli sorridesse o quanto veemente fosse. La sua scelta era irreversibile.
«Forse mi crederà una sciocca, signor Piton, se le dico che nutro la speranza che lei possa aver cambiato idea circa Judith.» Melusine si interruppe un attimo, un sorriso lieve sulle labbra, quel sorriso che ormai Severus si era rassegnato a non vedere mai colmo d’odio. «Eppure quando ho visto la bambina sulle sue ginocchia, quando ho notato che l’aveva avvolta in una coperta, non ho potuto fare a meno di sperare. Judith si è affidata a lei, signor Piton, all’uomo che le ha salvato la vita.»
Il sorriso e le parole della giovane erano colmi di una speranza che Severus sapeva malriposta. La signorina Fairchild era cieca e non riusciva – o non voleva riuscire – a vedere il sangue che gli insozzava le mani e la lordura della sua anima.
Riponeva fiducia e speranza nella persona sbagliata.
In un assassino.
“La mia scelta è irreversibile”.
C’era qualcosa di perentorio in quelle parole, si disse Melusine leggendole, qualcosa che le fece morire il sorriso sulle labbra.
In quel momento la tristezza prese il posto della speranza. Avrebbe voluto scuotere l’uomo da quell’inflessibilità, da quel continuo negare di aver salvato la vita a Judith. Credeva che quell’irreversibilità volesse dire ben altro del significato della parola stessa. Non era solo la scelta ad essere irreversibile, ma tutto quello che l’uomo le aveva detto.
E celato.
Ed era certa che vi fosse molto, troppo, che lei non sapeva.
Eppure se voleva fare un ultimo disperato tentativo sapeva che doveva fare appello a quello che le aveva detto Judith.
«Io non so quasi nulla di lei, signor Piton.» esordì la giovane donna. «Ma da quel che so, sono convinta che lei sia un uomo buono. Nessun criminale avrebbe…»
«Cosa non le è chiaro della parola assassino?» la interruppe sarcastico l’uomo.
«Eppure ha salvato la vita a Judith. Un gesto illogico se fosse l’assassino che dice di essere.» Melusine si interruppe, aspettandosi che l’uomo la interrompesse ancora una volta, ma la stava fissando. «Judith ha totale fiducia in lei. Ed io condivido questa fiducia, ma ancora più importante è che Judith verrebbe distrutta dal suo rifiuto. La prego, signor Piton… Severus, la scongiuro, non allontani la bambina, non lasci che Judith torni ad essere come nei primi tempi all’orfanotrofio. Troppo spaventata per parlare. Priva di speranza, ancora più priva di speranza di allora. Perché quando è arrivata sperava, almeno, di poter vedere nuovamente l’uomo che le aveva salvato la vita e l’aveva fatta sentire al sicuro. Se lei la scaccia, non le rimarrà nulla.»
Ogni parola della giovane era una pugnalata, una stilla di dolore più che meritata.
Il dolore che meritava un assassino.
La signorina Fairchild lo fissava e Severus notò la disperazione del suo sguardo e la disperazione del suo sorriso. Il sorriso disperato di chi sa che la sua lotta è giunta alla conclusione e la sconfitta è vicina.
Un sorriso disperato che non si sarebbe mai coperto d’odio.
Ricordava la preoccupazione della giovane due settimane prima e ricordava l’affetto della bambina. Ma sapeva che non avrebbe potuto cambiare idea, nemmeno se avesse voluto, nemmeno se fosse riuscito a perdonarsi e a non disprezzarsi.
Voltò la pagina del quaderno e lo porse alla signorina Fairchild perché lei potesse leggere quello che aveva scritto prima che arrivasse.
Le mani della donna tremavano, mentre leggeva rapidamente. Tremavano anche quando parlò, giunta all’ultima parola.
«Ed ha detto anche dei due uomini di cui mi ha parlato Judith? Ha detto che ha salvato la vita alla bambina?»
Severus scosse unicamente il capo, ma pareva che la signorina Fairchild si aspettasse quella risposta.
«Ed io cosa posso dire a Judith? Come posso dirle che l’uomo che le ha salvato la vita, verrà condannato come reo confesso di un delitto che non ha commesso?» mormorò la giovane con voce spenta.
Ed un sorriso triste.
«Era l’unica soluzione possibile.» rispose l’uomo, fissando la giovane donna.
Era l’unica possibilità che aveva per scontare la pena di almeno quella colpa. Era il pensiero che l’aveva guidato nella scelta, una scelta presa dopo il primo tentativo della donna. Aveva meticolosamente costruito il movente e le modalità dell’omicidio, senza lasciare nulla al caso, prevedendo ogni domanda che gli avrebbero potuto porre.
Era l’unica possibilità che aveva per proteggere la bambina da se stesso. Era la consapevolezza che lo aveva animato quando aveva messo in pratica la propria scelta, il giorno successivo alla crisi che lo aveva costretto a letto per una settimana. Era la consapevolezza che era accresciuta dopo che la bambina era arrivata nella sua stanza all’improvviso, coperta d’acqua.
«L’unica soluzione per cosa, signor Piton?» domandò Melusine. «Non è punizione sufficiente il martirio a cui sottopone se stesso? Non è…» la voce le si spezzò leggermente. Deglutì a vuoto per tenere a bada le lacrime che le pungevano gli occhi. Un sorriso colmo di tristezza e disperazione le si disegnò sulle labbra. «Cosa dirò a Judith? La supplico, Severus, dica per lo meno alla polizia che ha salvato la vita alla bambina. La pena, che so che lei non merita, sarà più lieve. Cosa ne sarà di Judith quando la polizia vorrà interrogarla di nuovo, quando scoprirà la verità?»
«Non sarà necessario.» rispose l’uomo, il dolore meno intenso del solito, da quando lo costringevano ad assumere l’antidolorifico. «L’ispettore ha avuto risposta ad ogni sua domanda. alle voci che Judith dice di aver sentito. Alla sopravvivenza della bambina.»
Non aggiunse altro. Non disse quali parole avesse usato per convincerli. Non ce n’era bisogno. Alla signorina Fairchild doveva bastare che a Judith sarebbe stato risparmiato almeno quello.
Aveva dovuto subite, a causa sua, la perdita dei genitori. Era orfana perché lui non era riuscito a salvarli.
Né ad evitare che sentisse le loro grida.
Era una ben che minima consolazione sapere che la bambina non avrebbe dovuto subire nuove domande quando, con ogni probabilità, già riviveva quella terribile notte ogni istante della sua giovane vita.
«Eppure qualcosa dovrò dirle, signor Piton.» mormorò la giovane, il volto triste, come il suo sorriso.
«Le dica che sono stato trasferito in un altro ospedale.» rispose Severus, dopo diverso tempo.
Il giorno in cui aveva visto la bambina nella sua stanza, il momento in cui gli era tornata sulle ginocchia, era riuscito a comprendere le ragioni di Judith, per quanto non potesse condividerle, né accettarle.
Egli era un assassino.
L’assassino dei suoi genitori e nulla cambiava quella realtà.
Ma sapeva che Judith non meritava nuove sofferenze, che la sua anima innocente avrebbe dovuto essere preservata.
E poteva esserlo accanto a quella giovane che gli sorrideva triste con occhi umidi di lacrime non ancora versate.
Sorriso e lacrime che non meritava.
«Permetta almeno che Judith le scriva. Le dirò che l’hanno mandata da qualche parte sul continente, lontano, troppo lontano perché possa vederla, ma non l’abbandoni del tutto, Severus, la prego.»
Le parole della signorina Fairchild erano colme di disperazione e dell’affetto che nutriva per la bambina.
Severus rimase a lungo in silenzio.
Sapeva che doveva dare una risposta a quella richiesta e sapeva quale sarebbe stata.
V’era una sola possibilità, così come l’unica soluzione possibile era pagare di fronte alla legge, per quanto fosse quella Babbana, per una delle sue molteplici colpe.
Egli meritava il carcere, così come non meritava il sorriso della giovane, né le lacrime che stava versando.
Così come non meritava il sorriso di Judith.
Ma ancor di più si rendeva conto che non poteva distruggere l’illusione che Judith si era creata, l’illusione che egli fosse una brava persona.
Un giorno Judith avrebbe compreso ed allora egli avrebbe ricevuto l’odio che voleva e meritava.
Ma in quel momento, Judith si aggrappava a lui, all’assassino dei suoi genitori.
Aveva sfidato la pioggia per lui.
Ed egli non poteva distruggerne l’innocenza.
«Potrà scrivermi.» disse soltanto.
Il sorriso di Melusine si fece colmo di gratitudine, tra le lacrime.
Un sorrise simile a quello di Judith.
Un sorriso che non meritava, si disse Severus.
Il carcere era il luogo che meritava.
E forse in quel luogo, mentre pagava per le sue colpe imperdonabili, sarebbe riuscito ad accettare che quella notte d’estate aveva salvato la vita ad una bambina.
E che Judith gli aveva sorriso riconoscente.