Il Calderone di Severus

Alaide - Tetralogia, Tipologia: Storia a Capitoli - Genere: Drammatico - Altro Genere: Introspettivo Avvertimenti: AU - Epoca: Post 7 anno - Pairing: Nessuno - Personaggi: Pers. Originale - Altri Personaggi: Nessuno

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view post Posted on 4/4/2017, 09:58
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Autore/data: Alaide – 20 febbraio – 20 aprile 2013
Beta-reader: nessuno
Tipologia: Long-fic
Rating: per tutti
Genere: Drammatico, Introspettivo
Personaggi: Severus Piton, Personaggio originale
Pairing: nessuno
Epoca: Post 7° anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: Gli sorrideva soltanto. […]
Come se fosse felice che lui avesse accettato di incontrarla di nuovo.
Come se fosse felice di vederlo.
Come se fosse felice di aver davanti a lei un assassino.
Ma nessun bambino avrebbe dovuto essere felice nell’incontrarlo.

Nota: Il titolo, Tetralogia, fa riferimento alla Tetralogia wagneriana, una saga musicale costituita da quattro opere. Ovviamente non riprenderò il titolo delle opere, né la loro trama mi è servita da ispirazione. E’ stata più che altro la musica ad essere quasi una “colonna sonora” durante la scrittura della storia. Ciò che seguirò è, invece, la struttura delle quattro opere, quindi la divisione in atti e la divisione degli atti in scene. Le quattro opere sono definite vigilia la prima e giornate le altre tre e questi termini torneranno all’interno della storia per delineare ogni capitolo.
Storia scritta per la Sfida n.14 sette giorni per un sorriso (https://severus.forumcommunity.net/?t=53428850)
Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.

Indice

Vigilia, La stanza dalle pareti gialle

Prima giornata, Atto I, Canti lontani
Prima giornata, Atto II, scena I, Un dono
Prima giornata, Atto II, scena II, Stille di pioggia
Prima giornata, Atto III, Una supplica


Seconda giornata, Atto I, Solitudine
Seconda giornata, Atto II, Lampi
Seconda giornata, Atto III, scena I, Una domanda
Seconda giornata, Atto III, scena II, Negazione


Terza giornata, Prologo, Sicurezza
Terza giornata, Atto I, scena I, Amarezza
Terza giornata, Atto I, scena II, Dolore
Terza giornata, Atto II, Affetto
Terza giornata, Atto III, Una scelta



Edited by Alaide - 4/4/2017, 11:57
 
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view post Posted on 4/4/2017, 10:16
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Vigilia

La stanza dalle pareti gialle


L’uomo sembrava come gettato in un angolo, alla stregua di un vecchio arnese dimenticato, quasi nessuno volesse avere qualcosa a che fare con lui. La stanza stessa del piccolo ospedale di provincia aveva un che di dimesso e dimenticato.
La luce di un pallido sole di novembre non poteva far nulla per rendere più piacevoli le spoglie pareti giallastre.
«Chi è?» domandò una giovane donna, lanciando un’occhiata dalla porta semi-aperta. Da dove si trovava, riusciva unicamente a scorgere un uomo seduto di spalle.
«Si chiama Severus Piton.» rispose l’infermiera che la stava accompagnando. «È arrivato un mese fa. Ricordo perfettamente quel giorno, signorina Fairchild. Chi l’ha portato sembrava di fretta. L’ha lasciato qui, quasi non sapesse cosa farsene. E da allora nessuno è venuto a trovarlo.»
«Crede che sia un problema se entro? Ho un disegno per ogni paziente.» mormorò la giovane donna, lanciando un’occhiata oltre la porta a metà aperta.
«Non credo, signorina.» biascicò lentamente l’infermiera. Aveva visto più di un paziente – quasi tutti a dire il vero – dimenticato, quasi vi fosse qualcosa di nocivo in lui, anche quando così non era.
E sapeva che molti di loro attendevano con impazienza la visita di Melusine Fairchild, o di una delle sue colleghe, o dei bambini stessi. «Non si aspetti però un’accoglienza calorosa. Anche se, qualsiasi cosa gli sia successa, ha le corde vocali terribilmente danneggiate, al punto che deve limitare al minimo l’uso della parola, riesce a farti sentire di troppo.»
La giovane donna annuì unicamente, poi bussò lievemente all’uscio per annunciarsi. L’uomo non si voltò, né fece cenno di averla sentita. Melusine si avvicinò lentamente, quasi timorosa di disturbarlo. Era l’unico nuovo paziente dall’ultima volta che era andata all’ospedale.
«Buongiorno, signor Piton.» disse, quando si trovò accanto all’uomo vestito di nero. «Spero…» si interruppe a disagio. Sul tavolino accanto al quale era seduto l’uomo, c’era un quaderno ed una biro. «Spero di non disturbarla.»
Fu in quel momento che gli occhi dell’uomo si posarono su di lei, facendola sentire ancora più a disagio. Le parve che quel paziente fosse circondato da una barriera fatta di solitudine, una solitudine che la inquietava.
Abbozzò un lieve sorriso, un sorriso gentile, un sorriso fin troppo simile a quello che utilizzava quando un bambino arrivava all’orfanotrofio. Aveva visto giungere fin troppi bambini durante la prima metà dell’anno precedente, bambini che non riuscivano a far altro che chiudersi nella loro solitudine.
Ed in quel momento, come di fronte a quei bambini che avevano perso forse per sempre il sorriso, non sapeva cosa dire o fare di fronte allo sguardo dell’uomo, se non sorridere gentilmente, quasi scusandosi per aver invaso la sua solitudine.
Eppure sapeva che qualcosa dove dire o fare.
Era cosciente che i bambini ci sarebbero rimasti male se fosse tornata senza aver distribuito tutti i loro disegni.
«Signor…»
Melusine si interruppe quando l’uomo le allungò il quaderno con un gesto brusco.
Faccia quello che deve fare e lo faccia alla svelta.
Alla giovane donna sembrava quasi di sentire il tono di quelle parole, vergate rapidamente. Rese il quaderno all’uomo e prese in mano, dalla cartelletta che portava con sé, un disegno. Gli getto un’occhiata e riconobbe le immagini cupe di Judith.
«I bambini dell’orfanotrofio dove lavoro hanno realizzato un disegno per ogni paziente.» mormorò Melusine, sotto lo sguardo dell’uomo.
Senza aggiungere altro, gli porse il disegno. Rimase per diverso tempo immobile, poi posò il disegno sul tavolo accanto all’uomo. Gli rivolse un ultimo sorriso gentile, chiedendosi, mentre usciva, cosa si celasse dietro quello sguardo che pareva rinchiudere un mondo celato a tutti.
Severus udì i passi della donna allontanarsi lentamente.
Sapeva che sul tavolo accanto c’era il disegno realizzato dalle mani innocenti di un bambino. Non voltò il capo, né allungò un braccio per poterlo afferrare. C’era qualcosa di terribilmente sbagliato in tutto quello, così come c’era qualcosa di sbagliato in quei sorrisi gentili che gli erano stati rivolti.
Nessuno avrebbe dovuto donargli un disegno, men che meno creato da un bambino, nessuno avrebbe dovuto sorridergli come aveva fatto quella donna dal volto gentile.
Se per questo egli non avrebbe nemmeno dovuto trovarsi tra i viventi. Avrebbe dovuto trovare la morte nella Stamberga Strillante.
Invece viveva.
Ed accoglieva con gioia il dolore che nessuna pozione poteva calmare, men che meno in quel momento in cui si trovava in un ospedale Babbano.
Forse in quell’allontanamento forzato dal Mondo Magico c’era una parvenza di giustizia, quella giustizia che non risiedeva nella sentenza del Wizengamot che l’aveva assolto.
In quel momento avrebbe dovuto trovarsi ad Azkaban a scontare le sue colpe, non in quel luogo, dove riceveva in dono il disegno di un bambino.
Si alzò faticosamente in piedi, appoggiandosi al tavolo. Infine lo sguardo si posò sul disegno: due persone, un uomo ed una donna erano immersi nell’ombra, una luce, stranamente fredda, per il disegno di un bambino, e qualche albero dai rami spogli.
Il disegno di qualcuno che sta crescendo troppo in fretta, si disse l’uomo, tornando a sedersi, lo sguardo fisso davanti a sé, sulle pareti giallastre della stanza, chiedendosi per quale scopo vivesse ancora.
 
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view post Posted on 4/4/2017, 10:40
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Prima Giornata

Atto I
Canti lontani


La bambina sedeva sola, tra la porta e la credenza del piccolo salotto dell’orfanotrofio, dicendosi che, qualora fosse arrivato qualcuno di pericoloso, l’avrebbe sentito avvicinarsi ed avrebbe avuto il tempo di nascondersi, come si era nascosta la notte in cui i suoi genitori erano stati uccisi.
Era un pensiero che non aveva confessato a nessuno, nemmeno a Melusine, e che non avrebbe di certo riferito agli altri bambini. Loro, per lo meno, non erano in casa quando papà e mamma erano stati uccisi. Loro non avevano sentito le loro grida, come era accaduto a lei, quando mentre era nascosta.
Ma Judith sapeva che anche i genitori degli altri bambini erano stati uccisi. Due o tre di loro erano già lì quando lei era arrivata. Gli altri erano giunti dopo.
Soltanto Timothy era stato adottato.
Forse anche Isabel se ne sarebbe andata.
Ma la bambina era sicura che nessuno avrebbe mai voluto lei.
«Ti stavo cercando, Judith.» la voce di Melusine la riscosse. «Ho consegnato il tuo disegno.»
La bambina annuì, fissando lo sguardo sulla donna, quasi chiedendole silenziosamente a chi avesse consegnato il suo lavoro.
«Il tuo è stato dato ad un nuovo paziente.» aggiunse la giovane, senza aggiungere altri particolari.
Non era necessario che Judith sapesse che l’uomo non aveva nemmeno gettato un’occhiata al suo disegno.
«Melusine…» la bambina si interruppe,senza riuscire a dire altro.
«Judith, qualsiasi cosa devi dirmi, forse può attendere.» mormorò dolcemente la giovane, sedendosi al suo fianco.
«Credi che…» Judith deglutì a vuoto. Sapeva che poteva tacere, che Melusine non le avrebbe detto nulla nulla, come non l’aveva forzata a parlare quando era arrivata all’orfanotrofio. Eppure era qualcosa che voleva chiedere da tempo. Da quando mamma e papà erano stati uccisi. «Sono una bambina cattiva?»
«Naturalmente no, Judith.» la rassicurò Melusine, con un sorriso.
«Allora perché mamma e papà sono stati uccisi? Alle volte… è colpa mia se sono morti?» domandò con voce quasi inudibile. Le mani le tremavano leggermente, notò Melusine, con il cuore in gola.
«Tu non hai nulla a che fare con la decisione presa da chi ha ucciso i tuoi genitori.» rispose, stringendo le mani della bambina tra le sue, rassicurante.
Judith annuì soltanto, portando gli occhi a fissare la porta, quasi si attendesse di veder comparire quegli uomini, di cui non aveva visto i volti.
Melusine le strinse con maggior forza le mani. Tra tutti i bambini, Judith era quella che più le stava a cuore. Quando era arrivata, nell’estate del 1997, la bambina non riusciva a parlare e di notte gridava nel sonno. Melusine avrebbe dato qualunque cosa per poter farle dimenticare quello che aveva visto.
Ma era un desiderio impossibile.

I giorni all’ospedale scorrevano lenti, sempre uguali a se stessi, senza che nulla turbasse la quiete.
La stanza era, come ogni giorno, immersa nella penombra, che rendeva più squallide le pareti giallastre, sulle quali si fissava lo sguardo di Severus. Gli occhi però non stavano realmente osservando il muro con l’intonaco crepato in più punti, quanto un punto indeterminato, perso nella vivida rete del suo passato e nella fitta nebbia del suo futuro.
Un futuro che sarebbe stato fatto di giornate sempre uguali in quell’ospedale Babbano. Possedeva ancora la magia, ma il Mondo Magico pareva non accettare la presenza di qualcuno che fosse quasi muto e con il corpo in uno stato tale da faticare a reggersi in piedi troppo a lungo. Era però dannatamente ironico che potesse accettare, senza problemi apparenti, la sua assoluzione. Era semplicemente inconcepibile tutto ciò che la magia non poteva curare. L’occhio magico di Moody era facilmente accettabile. Il suo stato attuale no.
Ed in tutto quello v’era ironia nel fatto che gli fosse stato riconosciuto l’Ordine di Merlino.
Un’ironia tragica.
Almeno, però, riceveva la sua punizione, in quell’esilio e nel dolore che assillava il suo corpo, un dolore che accettava con gioia.
Dalla stanza del piano di sotto, che serviva da punto di ritrovo dei pazienti di quella via di mezzo tra un ospedale ed un ospizio, giungevano dei canti.
I canti dei bambini dell’orfanotrofio. O almeno così aveva detto l’infermiera quella mattina.
Musica cantata da bambini innocenti. Voci che egli non era degno di ascoltare. Innocenza che la moltitudine delle sue colpe avrebbe offuscato e macchiato.
Riusciva ad immaginare quei volti sorridere con la loro assoluta innocenza.
Sorridere, forse, anche a lui e vedeva quel sorriso mutarsi, nel momento in cui i bambini si sarebbero resi conto che egli era un assassino.
Perché l’innocenza non poteva sopportare la colpa.
Un sorriso dolce che sarebbe diventato colmo di odio e disprezzo.
Un sorriso distorto, più simile ad un ghigno deformato.
Un sorriso che non avrebbe mai potuto racchiudere altro che odio e disprezzo.
L’odio ed il disprezzo che meritava.
E che avrebbe meritato sempre.
L’odio ed il disprezzo che provava per se stesso.

***

Atto II, scena I
Un dono


La bambina sedeva, come sempre, tra la porta e la credenza.
Sola.
Gli altri bambini, presenti nella stanza, l’avevano invitata a giocare con loro, ma Judith aveva rifiutato perché starsene al centro di una stanza non era sicuro.
Al di fuori pioveva, una pioggia violenta ed incessante che ticchettava sulle finestre della vecchia casa vittoriana.
Melusine notò subito Judith, isolata dagli altri, e le si strinse il cuore. Avrebbe voluto che la grande casa fosse vuota, che l’orfanotrofio, creato per accogliere gli orfani i cui genitori erano morti di morte violenta, secondo l’ultima volontà di una donna morta nel 1898, non esistesse.
Sembrava strano che proprio nel centenario dalla fondazione fossero arrivati così tanti bambini i cui genitori erano stati uccisi, per quanto lei non sapesse se gli assassini fossero mai stati trovati, né come fossero morte quelle povere persone.
La donna incontrò lo sguardo del piccolo Jeremy che aveva compiuto da poco i tre anni. Quando i suoi genitori erano stati uccisi, era al parco con la baby-sitter. Accanto a lui, Anne sembrava giocare tranquilla, ma Melusine sapeva che la bambina, prossima agli undici anni, era colma di rabbia per quello che era avvenuto, mentre lei era a dormire a casa di un’amica. Anche Elisabeth, con cui Anne stava giocando, era a casa di amici, ma durante il sonno chiamava la madre che non poteva più rispondere.
Soltanto Judith, però, aveva assistito alla morte dei genitori. La piccola Judith che sedeva sempre in quella posizione, che ancora faticava a parlare con gli altri bambini, che non parlava mai di sua
spontanea volontà.
Melusine le si avvicinò e le sorrise gentile.
Quando aveva accettato di lavorare in quell’orfanotrofio tre anni prima, aveva pensato fosse una soluzione provvisoria, un modo per racimolare un po’ di denaro mentre finiva il conservatorio, con l’intento di proseguire i suoi studi in una scuola di perfezionamento e poter coronare il suo sogno di diventare una direttrice di coro.
In quel momento si rendeva conto che la sua vita apparteneva a quei bambini, a cui aveva insegnato a cantare. Amava ognuno di loro e avrebbe voluto poterli aiutare maggiormente, ma quello che riusciva a fare era soltanto tentare di usare l’arte per aiutarli ad esprimere qualcosa di quello che portavano dentro, o forse a riuscire a rimanere insieme, uniti.
Ad esprimersi, in qualche modo, con maggior sicurezza.
«Judith, ti andrebbe di venire con me?» le chiese, dopo aver lasciato passare diversi istanti.
«Dove?» domandò la bambina.
«All’Ospedale.»
«Porterai altri disegni?»
Melusine scosse il capo.
«No. Si tratta di un progetto stipulato tra la direttrice del nostro istituto e l’ospedale.»
«Ed andrai anche dal signore a cui hai dato il mio disegno?» domandò la bambina nervosamente.
Il fatto che lei fosse stata l’unica a non incontrare chi aveva ricevuto un disegno, il giorno in cui erano andati a cantare, le faceva temere che nessuno la volesse veramente.
Forse nemmeno Melusine.

La pioggia ticchettava contro i vetri dell’ospedale senza posa, rendendo ancora più squallida la stanza dalle pareti giallastre. Severus sedeva immobile, fissando le gocce di pioggia che picchiavano contro le finestre, creando un suono irregolare e, a tratti, dissonante, come dissonante era la sua vita.
Una vita costellata da decisioni sbagliate e terribili che era certo di non poter mai realmente espiare.
Il perdono era precluso a chi aveva agito come lui.
Il perdono era irraggiungibile per chi non sapeva perdonarsi.
Il perdono era una chimera lontana ed inaccessibile per chi, come lui, aveva le mani sporche di sangue.
E gli pareva quasi, nella solitudine silenziosa di quella stanza squallida, che quelle parole fossero sussurrate dalla pioggia e dal suo ticchettio dissonante.
Un lieve colpo alla porta si mescolo al rumore della pioggia.
L’uomo non si voltò. Doveva essere l’infermiera, si disse.
Chi entrò nel suo campo visivo fu, invece, la donna che gli aveva portato quel disegno inquietante che ancora giaceva sulla scrivania. La giovane che si occupava dell’orfanotrofio.
Non notò subito che la donna non era sola, forse perché era stupito dalla sua presenza, forse perché non si aspettava di vedere lì, in quel luogo dove si trovavano unicamente esseri umani abbandonati come stracci vecchi, una bambina che lo fissava con grandi occhi marroni.
«Non vorrei disturbarla, signor Piton.» iniziò la donna «Credo che le potrebbe però interessare un’iniziativa posta in campo dall’istituto dove lavoro.» Melusine iniziò a parlare più rapidamente, quando vide che l’uomo stava per afferrare il quaderno e la biro. «Si tratta della biblioteca dell’orfanotrofio. Ci sono molti libri lasciati dalla donna che ha donato la casa, ma molti non sono stati letti da tempo. La direttrice ha deciso di chiedere se chi si trova qui voglia prendere in prestito alcuni di quei libri.»
Severus aveva lasciato dove si trovavano il quaderno e la biro, non appena aveva sentito la parola libri. Quelli che aveva portato con sé, li aveva letti tante volte che poteva dire con precisione dove c’era una macchia d’inchiostro che rendeva illeggibili le parole.
L’offerta di quella donna, che appariva terribilmente giovane per occuparsi di bambini rimasti soli al mondo, era un dono inestimabile, un dono che egli non meritava affatto.
Come non meritava il sorriso che gli stava rivolgendo la bambina, un sorriso che pareva esprimere qualcosa di molto simile al senso di sollievo. O forse esprimeva qualcosa di più indecifrabile, qualcosa che sfuggiva a Severus. Sicuramente quella bambina non aveva alcun motivo per sorridergli.
Non in quel momento.
Né mai.
Nessun bambino avrebbe dovuto sorridergli.
Non aveva fatto, né detto nulla che potesse generare quel sorriso che l’aveva come immobilizzato, che gli impediva di prendere foglio e penna per dire che avrebbe accettato l’offerta. Il richiamo della conoscenza che era nascosta in qualsiasi libro, era più forte di qualsiasi cosa, anche della consapevolezza che non meritava un simile dono. Era quasi come se quei libri fossero acqua offerta ad un uomo che stava per morire di sete nel deserto.
Eppure quel sorriso aveva come bloccato ogni cosa.
I suoi pensieri. I suoi gesti.
Non v’era nulla di logico in quel sorriso. Ed era rivolto alla persona sbagliata, perché egli non meritava alcun sorriso.

***

Atto II, scena 2
Stille di Pioggia


La borsetta quasi cadde dalle mani di Melusine, quando notò che la bambina stava sorridendo. Era la prima volta che la vedeva sorridere. Un sorriso che non riusciva a decifrare, rivolto ad un uomo che Judith non poteva aver mai incontrato prima.
Poi, improvvisamente, così com’era nato il sorriso scomparve.
Sembrò che quel fatto, apparentemente semplice, riportasse tutti alla realtà.
«Che tipi di libri avete?» domandò Severus, ogni parola una dolorosa fitta.
Avrebbe potuto scrivere, ma il sorriso di quell’orfana aveva prodotto qualcosa in lui, qualcosa che lo aveva, per qualche attimo, disorientato.
«La collezione è decisamente variegata. Da quel che so, il padre della signora Honeychurch era un collezionista e così suo genero. Entrambi dotati di gusti eclettici. Esiste un inventario all’istituto, signor Piton. Se vuole, potrei portarglielo, così lei potrebbe scegliere i titoli che preferisce.» disse Melusine, cercando di non interrogarsi circa lo strano sorriso di Judith.
Quella volta l’uomo scrisse, sotto lo sguardo attento della bambina che pareva non volerne perdere un solo movimento. Judith sembrava essere affascinata da chi aveva ricevuto il suo disegno.
Eppure non seguì le parole di Melusine, né gli accordi che vennero presi. Fu soltanto quando sentì pronunciare il suo nome che si fece attenta.
O forse fu soltanto quando comprese che stavano per lasciare la stanza.
In quel momento si rese conto che doveva dire qualcosa, qualcosa di utile, perché era certa che l’uomo avrebbe capito.
«Non dovrebbe stare seduto con le spalle alla porta, signore. Chiunque può entrare e lei non se ne accorgerebbe subito e dopo sarebbe troppo tardi.»
Le parole della bambina parvero rimanere sospese nell’aria, prima di piombare su Severus e Melusine. La donna cercò gli occhi dell’uomo, ma questi stava fissando la finestra e la pioggia che cadeva violenta, ticchettando furiosamente contro il vetro.
Quelle poche frasi ghiacciarono il sangue nelle vene di Severus. Poteva immaginare fin troppo bene da dove provenissero parole del genere. Quali orrori doveva aver visto Judith. Quella bambina si trovava in un orfanotrofio per il motivo peggiore.
Qualcuno aveva ucciso i suoi genitori.
Ed in quel momento, non riusciva a far altro che a sovrapporre alle ignote figure di due anonimi Babbani, i volti di chi non era riuscito a salvare. Sicuramente alcuni di loro erano genitori ed i loro figli erano soli al mondo.
Orfani per causa sua.
«Signori Piton,» mormorò Melusine, che non aveva staccato gli occhi dall’uomo. Per qualche strano motivo, era certa che avesse perfettamente compreso cosa potesse celarsi dietro le parole di Judith, che pareva, in quel momento, terribilmente a disagio. «spero che…» si interruppe di colpo, lanciando un’occhiata rapida alla bambina. «Spero che la nostra visita non l’abbia disturbata. Judith ci teneva molto ad incontrarla. Il disegno che le ho portato tempo fa è suo.» la donna fece una pausa, abbozzando un lieve sorriso. L’uomo non disse nulla, né fece l’atto di prendere in mano il quaderno. «Arrivederci.»
Severus osservò la donna e la bambina andarsene, facendo piombare la stanza nel silenzio.
Sentiva in bocca un sapore amaro ed aspro.
Il sapore del rimorso e della colpa.
La donna era palesemente a disagio dopo le parole di Judith, così come lo era la bambina stessa. Era certo che, prima di interrompersi, la giovane volesse in qualche modo scusarsi per quelle frasi o spiegargli qualcosa.
Una spiegazione inutile.
Era già presente nel disegno.
Allungò una mano e prese il foglio. La luce fredda della morte illuminava un uomo ed una donna, all’ombra di spogli alberi invernali.
I genitori della bambina.
Uccisi.
Rimase ad osservare il disegno a lungo, accompagnato dal rumore della pioggia che picchiava sui vetri.
Gli pareva che la pioggia gridasse al mondo che egli era un assassino.
Non era importante che egli non avesse la ben che minima responsabilità nella morte dei genitori di Judith.
Aveva ucciso altri genitori per mantenere la sua copertura. Ed aveva ucciso prima di rendersi conto dell’errore che aveva commesso, vendendo la sua anima al Signore Oscuro.
E gli pareva che la pioggia fosse tinta del colore del sangue.
E che all’interno di quelle gocce scarlatte rilucesse il sorriso della bambina.
Un sorriso inquietante nella sua illogicità.
Era in quelle gocce di pioggia.
Era di fronte a lui.
Era sul volto delle sue vittime.
Chiuse per un istante gli occhi, come per scacciare quelle immagini evocate dagli abissi della sua mente colpevole.
Ma intorno a lui parevano danzare, con un sorriso sulle labbra, i cadaveri di chi aveva ucciso.
Lo stesso sorriso sollevato della bambina.
Un sorriso beffardo e carico d’odio.
Il solo sorriso che gli poteva essere rivolto.
Perché chi, come lui, aveva le mani macchiate di sangue, meritava unicamente l’odio.
Nient’altro.
Né un sorriso, né il perdono.
Riaprì gli occhi, quando udì dei passi varcare la soglia della stanza.
Ma il sorriso della bambina pareva essere ovunque.
Sulle pareti giallastre. Tra le gocce di pioggia. Sul volto dell’infermiera che stava posando il vassoio con la cena sul tavolo.
Un sorriso che ogni volta si trasformava e da sollevato si faceva beffardo. E da beffardo si caricava dell’odio e del disgusto che meritava.
Fuori continuava a piovere.
Ogni goccia rigava il vetro come una stilla di sangue.
Ed il cibo aveva il sapore amaro della colpa.

***

Atto III
Una supplica


Il sole, pallido e leggermente velato da nubi sottili, illuminava malamente la pareti giallastre della stanza. Severus sembrava seguire con lo sguardo una crepa che attraversava l’intonaco quando, invece, i suoi pensieri erano volti altrove, in una lenta e stanca contemplazione della sua vita e delle sue colpe. Quelle colpe che gli impedivano di dormire ed anche quando il suo corpo esausto si abbandonava al sonno, la sua mente era tormentata dalle immagini di ciò che gli macchiava l’anima.
E l’alba non portava alcun cambiamento.
Non separava affatto dalla luce l’ombra, perché nell’oscurità aveva distrutto la sua anima.
Non si stupì quando udì bussare improvvisamente alla porta. Sapeva che i libri promessi, il giorno in cui la bambina gli aveva rivolto quell’inquietante sorriso, sarebbero arrivati quella mattina. Né fu sorpreso di vedere la giovane che aveva accompagnato la bambina. Né lo stupirono le sue prime parole.
«Le ho portato alcuni libri, signor Piton.» mormorò Melusine, posando tre volumi sul tavolo. «Judith vorrebbe incontrarla nuovamente.»
Severus accolse quelle parole come se qualcuno l’avesse pugnalato. C’era qualcosa di inquietante in loro. Come nel sorriso della bambina. Come nell’amarezza delle sue colpe.
Non riusciva a comprendere per quale motivo la bambina volesse rivederlo. Non aveva fatto, né detto nulla che potesse giustificare una tale volontà.
Ed egli non era di certo qualcuno che potesse risultare veramente gradito ad una bambina. Era certo che quella donna non gli avrebbe mai rivolto quelle parole, né men che meno sorriso gentilmente se avesse saputo che egli aveva le mani sporche del sangue di troppi innocenti.
E quella bambina, a cui erano stati tolti i genitori, non aveva di certo bisogno di stare di fianco a qualcuno con le mani imbrattate di sangue e con l’anima a tal punto lordata da scelte sbagliate ed irreversibili che avrebbe potuto insozzare l’anima innocente della bambina.
“No” scrisse unicamente, porgendo il quaderno alla donna.
Melusine rimase a lungo ad osservare quella parola. Era certa che dietro quel rifiuto vi fossero delle ragioni profonde ed imperscrutabili. Eppure, nonostante quel tono inequivocabile, sapeva che non poteva arrendersi al primo diniego, perché era certa che, in qualche modo misterioso, quell’uomo era importante per Judith.
«Signor Piton…» la donna si interruppe un attimo, raccogliendo le idee, mentre rendeva il quaderno all’uomo. «È la prima volta che Judith si interessa a qualcuno, da quando è arrivata all’orfanotrofio. Non conosco le ragioni di questo interessamento, ma sono certa che, in qualche modo, forse tramite quel disegno, lei è diventato importante per Judith. La supplico, non la scacci.»
Mentre parlava Melusine si era seduta su un’altra sedia presente nella stanza. Si sentiva ansiosa e, se non avesse temuto di cadere nel ridicolo, si sarebbe gettata in ginocchio ai piedi dell’uomo. Qualsiasi cosa, pur di riuscire a vedere nuovamente sul volto di Judith un sorriso.
L’unica cosa a cui riusciva a pensare Severus, in quel momento, era che non v’era alcun senso in quel desiderio.
Né alcun senso nelle parole della donna.
Come poteva non vedere il segno della colpa sul suo volto?
Ed il sangue sulle sue mani?
Per un istante prese in considerazione di rivelare l’abisso delle sue colpe a quella giovane, in modo tale che comprendesse da sola a chi voleva avvicinare quella bambina innocente.
Ma era un pensiero assurdo.
Come assurde erano le parole della donna.
Nessun bambino avrebbe dovuto cercare la sua compagnia.
Così come nessun bambino avrebbe mai dovuto sorridergli.
Non a lui.
Non all’assassino.
“Dica alla bambina di volgere altrove il suo interesse” scrisse, infine.
Melusine lesse le parole con il cuore in gola, mentre vedeva la speranza scivolarle lentamente dalle mani. Fissò l’uomo negli occhi, quegli occhi neri che parevano nascondere pensieri terribili e desolati, cercando di comprendere come agire.
Non voleva ritornare all’orfanotrofio con un rifiuto.
«Non posso.» ammise infine. «Non troverei mai la forza per deludere Judith.
«Quando siamo state qui… lei è la prima persona a cui Judith abbia sorriso da quando è arrivata all’orfanotrofio. La prima persona a cui si sia interessata realmente, a cui abbia parlato in totale spontaneità. Non so perché abbia scelto lei. Davvero, non lo so, signor Piton, ma, la scongiuro, non la respinga.»
Le parole della giovane si erano fatte accorate, disperate quasi.
E sulle sue labbra era spuntato un sorriso tirato, il sorriso nervoso di chi non sa se la sua supplica verrà accolta.
Un sorriso che più di qualsiasi parola, fece comprendere a Severus quanto la donna avesse a cuore la sorte della bambina, di quella bambina, colpita dalla vita, che si era rivolta a lui.
Forse era suo dovere accettare di rivedere la bambina. Comprendeva perfettamente che Judith avrebbe sofferto nel ricevere un rifiuto, ma era, d’altro canto, convinto che non fosse la vicinanza con un assassino, qualcuno che aveva le mani macchiate di sangue come chi l’aveva privata dei suoi genitori, quello di cui avesse realmente bisogno.
La donna continuava a sorridergli, con quel sorriso accorato, quel sorriso nervoso.
Quel sorriso che attendeva una risposta.
Una risposta che non riusciva a dare.
L’unica cosa di cui era certo era che egli non meritava quel sorriso.
Così come non meritava il sorriso della bambina.
La supplica di quella giovane dall’animo puro, quanto il suo era macchiato, pareva mettere in discussione il no secco che aveva scritto sul quaderno.
Eppure sapeva che non poteva essere veramente lui colui di cui la bambina aveva bisogno.
“Ribadisco. Convinca la bambina a rivolgere altrove il suo interesse.”
«Perché?» si lasciò sfuggire Melusine, prima di rendersene conto. «Non… è una domanda sciocca, lo so, signor Piton, una domanda che è giusto che rimanga senza risposta.» la giovane fece una pausa, lisciandosi la gonna con mani nervose. «Per l’ultima volta, la supplico, di non scacciare Judith. Sono certa che il suo rifiuto sia dettato da ragioni profonde, ma, per l’ultima volta, la supplico, non scacci Judith.»
La giovane si era inclinata verso di lui, quasi fosse sul punto di lasciarsi scivolare dalla sedia per inginocchiarsi, supplice, ai suoi piedi.
Le labbra si erano nuovamente tirate in un sorriso dettato dal nervosismo e dalla tensione e dall’affetto.
Ed in quel sorriso Severus vide quanto la donna non riusciva o non voleva dire.
Vide la disperazione di chi sa che un rifiuto danneggerà qualcuno che si vuole proteggere. Vide la consapevolezza che quella era l’ultima supplica.
Era il sorriso di una madre che farebbe qualsiasi cosa per il proprio figlio.
Anche supplicare un assassino.
Era forse il sorriso che aveva avuto sulle labbra Lily, quando si era sacrificata per il proprio figlio.
Non importava se la donna non era la madre di Judith.
In quel sorriso era scritto che Melusine Fairchild era disposta a tutto pur di vedere un raggio di serenità arrivare nel cuore di quella bambina che aveva perso tutto.
Anche a continuare a supplicarlo, ignara delle sue colpe.
O forse l’avrebbe supplicato ugualmente, se questo fosse stato per il bene di Judith.
Ed in quel sorriso vide la risposta che fino ad allora aveva negato.
Mentre prendeva in mano il quaderno, gli parve che nascosta in quel sorriso vi fosse Lily.
Fu un pensiero breve, come un battito di ciglia.
Il tempo di scrivere poche parole.
“Vedrò la bambina.”
E Melusine gli sorrise con gratitudine.
Una gratitudine che Severus sapeva di non meritare.
 
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Seconda Giornata

Atto I
Solitudine


Pioveva.
L’acqua scendeva a tratti con violenza, a tratti lentamente sull’orfanotrofio e sull’ospedale. La pioggia bagnava i vetri della stanza di Severus, creando dei rivoli che parevano riprodurre figure inquietanti.
Il volto di Silente.
Il volto di Lily.
Ed i rivoli colavano lentamente, cancellando quei volti, imbrattandoli del sangue che egli aveva sulle mani.
L’uomo continuava a fissare il vetro e la pioggia che continuava a disegnare la sua colpa e la sua pena.
Soltanto quando qualcuno bussò alla porta, distolse lo sguardo.
Sapeva che avrebbe incontrato gli occhi della bambina.
Quello che non si aspettava di incontrare fu il suo sorriso.
Un sorriso timido.
Un sorriso riconoscente.
Sapeva, dalle parole della signorina Fairchild, che era la prima persona alla quale la bambina sorrideva dalla notte in cui i suoi genitori erano stati uccisi.
E quel secondo sorriso era inspiegabile al pari del primo.
Perché la bambina continuava a sorridergli?
Perché a lui?
Perché non alla donna che l’accompagnava e che era di certo più degna di lui di ricevere un sorriso?
«Le ho portato un disegno, signor Piton.» disse la bambina, quando gli fu di fronte.
Melusine osservò Judith avvicinarsi lentamente all’uomo e allungargli il disegno. C’era qualcosa di strano nel modo in cui la bambina si comportava con il signor Piton. Era come se Judith volesse dire qualcosa che né lei, né l’uomo riuscivano a comprendere del tutto.
Alla giovane sembrava che ci fosse come una barriera, la barriera della solitudine, forse, che pareva come bloccare i tentativi di comunicazione di Judith.
O forse a colpirla, al di là di ogni altro pensiero, era il senso di solitudine che pareva avvolgere tutta la stanza in maniera quasi asfissiante.
C’era qualcosa di strano in quella solitudine, anche per un ospite di quell’ospedale.
Non l’aveva visto il giorno in cui i bambini avevano cantato e da quel che aveva colto da alcune conversazioni sapeva che non si univa mai agli altri pazienti, ma rimaneva confinato nella sua stanza, al pari di un prigioniero.
Avrebbe voluto comprendere cosa si celasse dietro quella solitudine. Ma era certa che non l’avrebbe mai saputo, così come non avrebbe mai compreso le ragioni che l’avevano guidato ad accettare di incontrare Judith, dopo quei rifiuti che parevano inderogabili.
Dopo quelli che parvero secoli alla bambina, l’uomo prese in mano il disegno.
Un disegno inquietante quanto il primo.
Tutto era cupo. Una fioca luce biancastra illuminava un orsacchiotto dal volto quasi umano.
Un volto spaventato.
Il gioco che la bambina teneva in mano, forse, quando i genitori erano stati uccisi.
La fine dell’infanzia di Judith, si disse Severus.
Il momento in cui, a causa di qualcuno che, come lui, si era macchiato le mani del sangue degli innocenti, era diventata adulta di colpo.
Ed era ironicamente tragico che quella bambina sorridesse proprio a lui.
Ad un assassino.
Anche in quel momento gli sorrideva.
Come quando era entrata nella stanza.
Gli sorrideva.
Non parlava, né pareva aspettarsi che fosse lui a farlo.
Gli sorrideva soltanto.
Timidamente.
Con riconoscenza.
Come se fosse felice che lui avesse accettato di incontrarla di nuovo.
Come se fosse felice di vederlo.
Come se fosse felice di aver davanti a lei un assassino.
Ma nessun bambino avrebbe dovuto essere felice nell’incontrarlo.
Nessun bambino avrebbe dovuto essere felice di vederlo.
Nessun bambino avrebbe dovuto essere felice di aver davanti a se qualcuno come lui.
Un assassino.
Ancor di più una bambina, come Judith, che aveva perso i propri genitori a causa di un assassino.
Gli parve che, alla luce di quel sorriso, le sue colpe centuplicassero.
Di fronte all’innocenza di quella bambina, cresciuta troppo alla svelta, le sue mani diventavano più rosse di sangue.
Ed egli sentiva maggiormente l’ironia amara e tragica di quel sorriso.
Il sorriso dell’innocente rivolto all’assassino.
E sentì il sapore amaro della colpa in bocca.
Ed il peso della colpa sulle sue spalle.
E mai come allora la sua anima gli parve nera e perduta.
E mai come allora il perdono era simile ad una chimera lontana ed irraggiungibile.

***

Atto II. Lampi


I giorni si trascinavano lenti, alternando giorni illuminati da un timido sole e giorni in cui la pioggia scendeva violenta.
Per uno strano scherzo del destino pioveva sempre quando Judith si recava all’ospedale.
Ogni volta sorrideva all’uomo, timidamente, con riconoscenza, con sollievo.
Gli sorrideva sempre.
E Melusine si chiedeva cosa vedesse Judith in quell’uomo e nella sua solitudine.
Uno spirito affine, forse.
Una figura paterna.
Oppure v’era dell’altro che lei non riusciva ad afferrare?
Anche in quel momento, mentre sedeva nella stanza dell’ospedale, Judith sorrideva all’uomo ed il suo corpo appariva rilassato, quasi si sentisse al sicuro, protetta, forse.
«Che libri vuole che le porti la prossima settimana, signor Piton?» domandò Melusine.
Era diventata una domanda quasi rituale.
Ogni volta gli portava tre libri ed ogni volta gli chiedeva quali titoli, tra quelli presenti nell’inventario della biblioteca dell’orfanotrofio, volesse leggere.
Era l’unica conversazione che aveva con lui.
V’erano giorni in cui era tentata di fargli altre domande o di commentare uno dei titoli che anche lei aveva letto, ma non voleva invadere la riservatezza dell’uomo.
V’erano momenti in cui cercava di comprendere l’enigma celato dietro quegli occhi neri e quel volto pallido.
Aveva unicamente compreso che era un uomo colto.
Uno studioso, forse. Anche se non riusciva ad intuire di cosa si occupasse.
Di certo era interessato a romanzi che parlavano di colpa e rimorso.
Un lampo illuminò il cielo plumbeo, quando l’uomo le allungò il foglio con i titoli dei libri.
Judith si irrigidì leggermente, mentre osservava un nuovo lampo che pareva troppo simile alla luce della luna crescente che illuminava la stanza di mamma e papà la notte in cui erano stati uccisi.
Il sorriso le morì sulle labbra, ma non si mosse. Fissò gli occhi sull’uomo, quasi si aspettasse che lui dicesse o facesse qualcosa.
Un nuovo lampo rischiarò quel cupo pomeriggio, mentre la pioggia cadeva copiosa.
«Cantiamo in coro, all’orfanotrofio.» disse improvvisamente Judith, dicendosi che lì era al sicuro, che quella luce biancastra che illuminava di tanto in tanto la stanza non era la luce della luna, che nessuno sarebbe entrato. «E delle volte…»
La voce le morì in gola, quando la luce venne a mancare.
La stanza era quasi totalmente immersa nell’oscurità, rischiarata di tanto in tanto dai lampi.
Severus, sebbene la scorgesse appena, riusciva a percepire la paura della bambina. Ne intravedeva il corpo teso sulla sedia. E riusciva ad immaginare fin troppo bene che non era una semplice paura infantile.
Non v’era nulla di veramente infantile nel comportamento di quell’orfana.
Ogni volta che la vedeva, lo comprendeva pienamente.
Ogni volta che la vedeva, le sue mani gli parevano ancora più lorde di sangue.
Ogni volta che la vedeva, si chiedeva per quale motivo gli sorridesse sempre, un motivo che, lo sapeva, sfuggiva anche alla signorina Fairchild, che accompagnava sempre la bambina e rimaneva con loro silenziosa e discreta.
Ogni volta i sorrisi della bambina sembravano aumentare la distanza che c’era tra la sua anima annerita dal delitto e l’animo puro di Judith.
Erano sorrisi lievi che, ogni volta, si trasformavano in una pugnalata al cuore, in un aumento esponenziale del peso della sue colpe.
Quello che aveva compiuto, i delitti che aveva commesso, diventavano più netti, più evidenti ai suoi occhi.
Era come se i sorrisi della bambina gli gridassero le sue colpe.
I lampi continuavano a rischiarare la stanza, facendo rabbrividire Judith.
Sapeva che lì c’erano Melusine ed il signor Piton e che non poteva accaderle nulla.
Ma era comunque spaventata.
Melusine si alzò lentamente in piedi.
Sapeva che Judith era terrorizzata. Nei primi giorni del suo arrivo all’orfanotrofio, quando ancora non riusciva a parlare, era spaventata dal buio, dai lampi e dalla luce pallida della luna.
In quel momento avrebbe voluto dire qualcosa, ma le parole che aveva sulle labbra le sembravano inutili e sciocche.
Fece per avvicinarsi a Judith, ma si bloccò di colpo.
La bambina si alzò in piedi di scatto e, senza dire una parola, si avvicinò all’uomo.
Un lampo illuminò la stanza, quando Judith, come avrebbe fatto una figlia con il proprio padre, si sedette sulle ginocchia di Severus, abbracciandolo in cerca di conforto.
La bambina colse l’uomo di sorpresa, facendogli percepire in maniera terribile quanto le sue colpe avrebbe dovuto rendere impossibile un gesto del genere.
Era un assassino e nessun bambino avrebbe dovuto cercare conforto da lui.
Non da lui che aveva le mani sporche del sangue di troppi innocenti.
Non da lui che non avrebbe mai trovato il perdono.
Un altro lampo illuminò la stanza.
Severus cercò lo sguardo della signorina Fairchild e notò, nel lucore rapido, che stava sorridendo.
Un sorriso dolce e gentile, che parve aumentare di intensità quando notò che la stava osservando.
Quella giovane non avrebbe dovuto sorridergli in quel modo e la bambina non avrebbe dovuto cercare conforto in lui.
Quel sorriso e quell’abbraccio gli fecero sentire tutto il peso delle sue colpe.
Avrebbe dovuto scacciare la bambina, allontanare da lui la donna, ma non lo fece.
Forse fu perché nessuno aveva mai cercato realmente conforto in lui. Nessuno gli aveva mai sorriso in quel modo.
Forse in quella bambina esisteva una speranza di perdono.
O semplicemente v’era la consapevolezza che né la bambina, né la signorina Fairchild gli chiedevano nulla in cambio.
Eppure non poté far altro che sentire amarezza, l’amarezza insita nella solitudine di una bambina che cercava conforto da lui.
Dall’assassino.
Eppure, per un attimo, gli parve che ci fosse qualcosa di stranamente confortante nella presenza di quella bambina. V’era la sensazione di quello che avrebbe potuto essere se egli non avesse compiuto quella scelta tremenda.
Tutto avrebbe potuto essere diverso.
E quel pensiero non fece che rendere le sue colpe un fardello immenso che gravava sulle sue spalle pronto a sommergerlo.
La luce ritornò all’improvviso, rischiarando freddamente la stanza.
Melusine Fairchild gli stava ancora sorridendo gentile.
Un sorriso che aumentò il peso che soffocava la sua anima.

***

Atto III. Scena I
Una domanda


Il sole illuminava la cittadina, rendendo meno austere le mura vittoriane dell’orfanotrofio, ma nulla poteva contro lo squallore dell’ospedale, né delle pareti giallastre delle sue stanze.
Judith sedeva nella camera di Severus, come sempre con un sorriso sulle labbra, un sorriso disteso.
In quel momento erano soli.
Melusine era andata a parlare con il direttore dell’ospedale e lei era rimasta con il signor Piton.
Forse, si disse, era quello il momento adatto per fargli la domanda che tanto le stava a cuore, la domanda che le frullava nella mente dal giorno in cui l’aveva visto.
Non sapeva però come porre quella domanda.
Si limitava a sorridere all’uomo.
O forse cercava di comunicargli con quel sorriso ciò che non era in grado di domandargli.
Era un sorriso riconoscente.
Disarmante, quasi.
Severus lo osservava con un senso di disagio crescente.
Non si trattava unicamente del fatto che sentiva sempre più il peso delle sue colpe, quanto piuttosto che, dal giorno in cui la bambina aveva cercato conforto rifugiandosi sulle sue ginocchia, gli pareva di aver già tenuto Judith contro di lui.
Ed era un pensiero inquietante, poiché gli veniva in mente una sola occasione in cui avrebbe potuto prendere in braccio una bambina.
Sapeva, d’altronde, di non essere mai stato prima di allora in quell’angolo di Inghilterra e, solitamente, i piccoli orfani venivano accolti dall’orfanotrofio della loro zona. E, per quanto ne sapeva, Judith avrebbe potuto rimanere orfana dopo la fine della Guerra Magica.
Eppure quella sensazione rimaneva persistente.
Per tutta la durata di quella settimana, aveva rievocato ogni particolare della Guerra. Esisteva una sola occasione in cui avrebbe potuto incontrare Judith.
Non riusciva, però, a stabilire se la bambina, incontrata due anni prima, con il visetto tondeggiante ed i capelli tagliati a caschetto era la stessa che gli stava davanti con i capelli lunghi ed il volto leggermente affilato.
Nella mente rivedeva ciò che era accaduto quella sera d’estate.
Sapeva che Judith aveva paura dei lampi e sapeva che quella notte la luna illuminava la stanza.
Aveva pensato, in un primo momento, che quel terrore fosse collegato alla morte dei suoi genitori.
Ma forse così non era.
«Melusine ci insegna a cantare.» disse improvvisamente la bambina rompendo il silenzio. «Ed è bello. Quando cantiamo dimentichiamo quello che è successo. Non solo io, ma tutti noi che siamo all’orfanotrofio.
«Dimentichiamo tutti che i nostri genitori sono stati uccisi.»
Le parole della bambina aumentarono il sospetto che da alcuni giorni stava tormentando la mente e l’animo dell’uomo.
In bocca sentiva il sapore amaro della colpa.
V’era qualcosa di strano e terribile in quell’orfanotrofio.
Un luogo che accoglieva soltanto bambini i cui genitori erano stati uccisi.
Ed improvvisamente si chiese se tra di loro vi fosse qualcuno a cui avesse assassinato il padre e la madre. Qualcuno oltre a Judith, sempre che i suoi sospetti fossero veri.
Ed egli voleva averne la certezza.
“Da che parte dell’Inghilterra vieni?” scrisse rapidamente, porgendo il quaderno alla bambina.
Il sorriso di Judith si allargò.
Era la prima volta che l’uomo si rivolgeva a lei e la bambina fremeva di curiosità e speranza.
Forse non avrebbe dovuto porre quella domanda che premeva sulle sue labbra per uscire.
«Il Norfolk. Abitavamo nella campagna vicino a Fakenham.»
Severus deglutì. L’amaro della colpa parve spandersi per tutto il corpo, insieme al dolore.
Nelle settimane successive all’uccisione di Silente, quando la sua anima era macchiata anche del sangue di quanto di più simile ad un padre avesse mai avuto, il Norfolk era stato preso di mira dall’Oscuro Signore.
Ed egli era stato spesso presente, impossibilitato a salvare le vite di quegli innocenti, impossibilitato, il più volte, a donare una morte veloce a quegli innocenti.
«Quando sei arrivata qui?» chiese l’uomo, benedicendo il dolore che gli attraversò il corpo ad ogni sillaba.
«Nell’agosto del 1997.» rispose prontamente Judith.
Severus sentì montare la bile in bocca.
Od era forse unicamente il sapore della colpa che stava centuplicandosi al punto che ne sentiva il peso, un peso che si trasformava nel dolore fisico che gli attraversava il corpo.
Era l’ultima conferma.
Tutto ciò che gli serviva per collegare Judith a quella notte, per confermare un sospetto che, probabilmente, la sua anima aveva sempre nutrito inconsciamente.
La bambina lo stava osservando, in attesa.
Forse, quando avrebbe capito che aveva davanti a sé l’assassino dei suoi genitori – colui che non era riuscito a salvargli – il sorriso che aveva sul volto si sarebbe spento.
E si sarebbe trasformato, com’era logico, in un sorriso colmo d’odio.
«Si ricorda di me?» domandò Judith, senza più riuscire a trattenere la domanda.
Severus annuì, attendendo, quasi con sollievo, il sopraggiungere dell’odio.
Invece il sorriso della bambina si fece più netto, colmo di riconoscenza e sollievo, quasi avesse avuto paura che lui negasse.
«Ne sono felice.» mormorò la bambina. «Ho sempre sperato di poterla incontrare di nuovo.»
Judith non aggiunse altro. Era certa che l’uomo avrebbe capito, che avrebbe compreso che voleva ringraziarlo perché le aveva salvato la vita.
Ed era per quello che gli sorrideva riconoscente.
Sarebbe stato bello se anche i suoi genitori si fossero salvati, ma credeva che quell’uomo fosse stato veramente un eroe, perché l’aveva salvata nonostante vi fossero gli uomini cattivi nella stanza di mamma e papà.
Severus sentì nuovamente la bile montargli in gola, quando la bambina pronunciò quelle parole, quando gli sorrise nuovamente.
Era tutto drammaticamente sbagliato.
Era l’odio ciò che meritava.
Non la riconoscenza.
Non un sorriso.
Avrebbe voluto gridare alla bambina di andarsene e lasciarlo solo, ma sapeva di non esserne in grado.
Avrebbe voluto gridare alla bambina di fuggire da lui che aveva ucciso i suoi genitori.
Da lui che non era riuscito a salvarli.
Da lui che aveva assistito impotente alla loro sofferenza e alla loro morte.
Li aveva uccisi.
E poco importava che non l’avesse fatto materialmente.
Ed il sorriso della bambina gli pareva ancora più terribile.
La bambina forse non l’aveva collegato agli assassini dei suoi genitori.
Doveva essere così.
Per quello gli stava sorridendo.
Ma quel sorriso avrebbe dovuto essere d’odio.
Perché era l’unico sentimento che meritava.
Che avrebbe sempre meritato.

***

Atto III. Scena II
Negazione


Non voglio più vedere la bambina.
Quelle parole rimbombavano nella mente di Melusine, mentre camminava lungo il breve tratto di strada che divideva l’orfanotrofio dall’ospedale.
Non aveva ancora detto nulla a Judith.
Non aveva osato.
Quel giorno della settimana precedente, quando era tornata nella stanza, tutto le era parso tranquillo. Eppure l’uomo le aveva passato il quaderno con sopra scritte quelle scarne parole.
Sapeva che avrebbe dovuto dirlo a Judith, ma non era riuscita a farlo.
Non aveva avuto cuore di distruggere il precario equilibrio che la bambina pareva aver raggiunto da quando aveva incontrato il signor Piton.
Era una fortuna, quasi, che Judith avesse preso la febbre il giorno precedente, in modo tale da evitarle una spiegazione, di dirle che il signor Piton non la voleva più vedere.
Sentiva le mani iniziare a farsi sudaticce, non appena entrò nell’ospedale.
Era decisamente nervosa. Era già stato difficile convincere l’uomo ad accettare di incontrare la bambina e non credeva possibile che quella volta avrebbe ceduto.
Non riusciva nemmeno a comprende cosa fosse accaduto durante la sua assenza. Judith pareva essere tranquilla, soddisfatta quasi.
Eppure l’uomo aveva scritto quelle parole.
Melusine strinse con forza la borsa con i libri, quasi questo potesse darle sicurezza, poi bussò alla porta della stanza del signor Piton.
Prima di entrare, trasse un lieve sospiro, per tranquillizzarsi, poi varcò la soglia.
L’uomo sedeva come l’aveva visto la prima volta, lo sguardo rivolto alla finestra da cui si vedeva il cielo plumbeo.
«Le ho portato i libri, signor Piton.» disse la giovane abbozzando un sorriso tirato, mentre estraeva i tre volumi dalla borsa e li posava sul tavolo. «L’ultima volta non ho potuto parlarle come avrei potuto, non davanti a Judith. La bambina è malata e non sa nulla delle parole che ha scritto. Non ho avuto il coraggio di comunicargliele.»
Quando aveva visto entrare la signorina Fairchild, Severus si era aspettato che avrebbe fatto riferimento alle parole che aveva scritto.
Parole inderogabili che nessun sorriso poteva mutare, nemmeno quello che la signorina Fairchild gli aveva rivolto tempo prima, quel sorriso in cui aveva visto Lily.
Ma allora non aveva ancora collegato la bambina a quella notte d’estate.
O forse l’aveva sempre saputo, ma non aveva voluto ammetterlo con se stesso.
Forse era per quello che aveva sempre trovato i sorrisi di Judith così inquietanti.
“Eppure dovrà dirglielo” scrisse, porgendo il quaderno alla giovane.
Melusine lesse la frase, una frase che si aspettava e che non spiegava nulla. Ma lei aveva bisogno di una spiegazione.
«Cos’è accaduto, quando io non ero qui? Judith ha forse fatto o detto qualcosa che le ha fatto prendere quella decisione, signor Piton? Qualcosa di cui non si è resa conto perché sembrava tranquillissima quando sono tornata. Sono certa che…»
“Non è stata la bambina.”
Melusine lesse quelle parole, perplessa.
Era certa che l’uomo non avesse fatto nulla di sbagliato.
Judith gli stava sorridendo quando era entrata. E Judith non avrebbe mai sorriso se il signor Piton avesse fatto qualcosa di grave.
E d’altronde lei credeva che l’uomo fosse una brava persona.
«Cosa intende dire?» domandò infine, abbozzando un sorriso nervoso e teso, accorato, un sorriso simile, si accorse Severus, a quello che gli aveva rivolto il giorno in cui l’aveva convinto a vedere Judith.
Era lo stesso sorriso.
Ma egli lo percepiva come una stilettata, come qualcosa di terribile.
Emergevano nella sua mente le immagini di quella notte. Gli pareva di vedere in quel sorriso i volti sofferenti dei genitori di Judith, due innocenti che non avevano fatto nulla di male, se non trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Il sorriso della signorina Fairchild era il sorriso freddo della morte.
Il sorriso della colpa.
Il sorriso del castigo.
«Non si tratta di ciò che ho fatto la settimana scorsa.» disse Severus, accogliendo il dolore come un balsamo. «Ma ben prima.»
Si interruppe. Il dolore si era fatto insopportabile.
Eppure Severus voleva dire la sua colpa, una delle sue innumerevoli colpe.
Voleva vedere il sorriso accorato della giovane trasformarsi in una smorfia d’odio ad ogni parola che avrebbe pronunciato. Ed allora era certo che la donna avrebbe impedito alla bambina di vederlo. Forse l’avrebbe denunciato alla polizia Babbana, facendogli trovare il castigo che meritava.
«Ho già conosciuto la bambina.» riprese scandendo lentamente ogni parola, sforzandosi di continuare a parlare nonostante le scariche di dolore che dalla gola si propagavano in tutto il corpo. «Non l’ho riconosciuta subito. Ma questo non è importante. Ho già conosciuto la bambina. La notte in cui è rimasta orfana.»
«Era forse uno dei poliziotti arrivati sul luogo?» domandò Melusine, anche se si aspettava una parola diversa.
Fosse stato uno delle forze dell’ordine, non avrebbe dovuto scacciare Judith, ma l’altra ipotesi le pareva surreale perché Judith sorrideva all’uomo.
«Sono l’assassino.» disse infine Severus.
Notò il sorriso svanire dalle labbra della giovane, ma non fu rimpiazzato dall’orrore e dall’odio che sapeva di meritare.
L’odio che avrebbe dovuto vedere sul volto della bambina.
L’odio che egli provava per se stesso.
«Eppure Judith le sorrideva, signor Piton. E non potrebbe sorridere all’assassino dei suoi genitori.» mormorò Melusine.
Era certa che qualcosa le stava sfuggendo.
Un particolare importante.
«La bambina travisa la realtà.» disse l’uomo, mentre il dolore avvolgeva tutto il suo corpo, in maniera intollerabile, in maniera giusta e meritata.
Melusine rimase per qualche istante in silenzio, lanciando un’occhiata al quaderno dell’uomo, chiedendosi per quale motivo si stesse costringendo a parlare. Una delle infermiere le aveva detto che ogni parola era una tortura. La giovane riusciva a trovare una sola spiegazione a quel modo di agire.
Ed era un pensiero terribile.
Eppure non poteva essere diversamente.
L’uomo parlava per punirsi.
Era un pensiero terribile, si ripeté, prima di tornare a concentrarsi sulle parole che l’uomo aveva appena pronunciato.
Parole che potevano spiegare il sorriso di Judith.
Il sorriso riconoscente di Judith.
E fu quel particolare a permetterle di comprendere.
Se Judith gli sorrideva con riconoscenza voleva dire una sola cosa.
«Lei ha salvato la vita a Judith, signor Piton.» disse infine, abbozzando un lieve sorriso. «E Judith le sorride per questo. Forse l’ha anche disegnata una volta, ma io non avevo collegato quell’uomo che pareva proteggerla con lei e…»
«Ho ucciso i genitori della bambina, signorina Fairchild. Quello che dovrebbe fare adesso, sarebbe andare a denunciarmi, farmi arrestare. Non dimostrare uno sciocco entusiasmo.»
Severus strinse con una mano il bordo del tavolo, il dolore ormai insopportabile.
Eppure non era pentito d’avere parlato.
Meritava quel dolore. Meritava quella sofferenza.
Non meritava invece il lieve sorriso che ancora aleggiava sul volto della donna.
«Ma non può negare di aver salvato la vita a Judith.» disse la giovane tranquilla, una tranquillità che era ben lungi dal provare interiormente. «Quello che non ha senso è che lei, se fosse il brutale assassino dei genitori di Judith, abbia salvato la vita ad un testimone. L’unica cosa che la bambina ha mai detto alla polizia è che ha sentito le voci degli assassini, ma di lei non ha mai parlato, di lei che le ha salvato la vita.»
«Non importa quello che lei pensa o crede.» disse l’uomo lentamente, ignorando il quaderno che gli stava offrendo la giovane. «O quello che crede la bambina. Nessun innocente deve rimanere nella stessa stanza di un assassino. Men che meno un bambino. Non rivedrò più la bambina.»
«Signor Piton… Severus, la…»
Le parole morirono in gola a Melusine quando incontrò lo sguardo dell’uomo.
E con le parole morì il sorriso che aveva ancora sulle labbra.
Aveva intuito, osservando quegli occhi neri che celavano un mondo fatto, con ogni probabilità, di sofferenza, che nulla gli avrebbe fatto cambiare idea.
Quell’uomo, che Melusine non poteva fare a meno di definire una brava persona, rifiutava ostinatamente una parte della verità.
Non accettava l’idea che Judith potesse essergli riconoscente.
E lei non poteva far altro che accettare la sua sconfitta.
 
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Terza Giornata

Prologo
Sicurezza


Un grido rompe il silenzio della notte. La bambina si sveglia di colpo stringendo a sé l’orsacchiotto.
Forse la mamma ha avuto un incubo.
Come quando lei ha sognato un pesce gigante che voleva mangiarla.
Poi un altro grido.
La bambina si alza ed esce dalla cameretta.
Tiene in mano l’orsacchiotto.
Sa che lui non ha paura. Lei invece un po’ sì perché non è normale che mamma e papà abbiano gli incubi.
Quando arriva sulla soglia della stanza rimane immobile.
Ci sono degli sconosciuti.
E mamma e papà stanno gridando.
La bambina vorrebbe chiamare aiuto, ma la voce non le esce. Stringe l’orsacchiotto, mentre qualcuno ride nella stanza.
Un’ombra si avvicina.
Nera.
La bambina piange silenziosamente.
La voce continua a non volerle funzionare.
Si sente sollevare da terra e rapidamente viene messa nell’armadio che sta accanto alla porta e che la mamma ha lasciato aperto a metà.
«Non fare rumore.» un sussurro che la bambina ode a malapena, coperto dalle grida di mamma e papà.
L’ombra si allontana.
E lei rimane sola. Si rannicchia in un angolo dell’armadio e non si muove.
Piange.
E sente le grida della mamma.
Quelle del papà.
Sono grida terribili che le perforano il cuore.
Grida di dolore.
Anche se non ne ha mai sentite prima, le riconosce.
Vorrebbe singhiozzare, gridare, ma non lo fa.
L’uomo le ha detto di non fare rumore. E lei vuole obbedirgli perché l’ha nascosta. E quando l’ha fatto, le ha dato l’impressione che lei fosse al sicuro. Forse l’uomo adesso sconfiggerà chi fa urlare mamma e papà, si dice la bambina, cercando di rincuorarsi.
Le si apre sulle labbra un sorriso disperato.
Le lacrime lo cancellano subito.
Una luce verde pare illuminare per un istante la stanza, poi sente delle voci. Non sono quelle di mamma e papà. Vorrebbe provare a chiamarli, ma l’uomo le ha detto di non far rumore e lei si fida di lui.
Tutto diventa improvvisamente silenzioso.
La bambina riesce a sentire il suo respiro agitato.
Poi sente dei passi lenti. Qualcuno apre l’altra anta dell’armadio. Qualcuno la prende in braccio prima che lei possa uscire e le nasconde il capo contro la spalla.
La bambina sa che è lo stesso uomo di prima.
Sorride appena contro la sua spalla.
E piange.
Stanno scendendo le scale.
E la bambina sorride.
Il sorriso della disperazione perché sa, anche senza chiederlo, che mamma e papà non ci sono più.
Il sorriso della gratitudine perché sa che l’uomo le ha salvato la vita.
E piange lacrime disperate.
L’uomo la posa su una poltrona in salotto. La luna illumina la stanza e la bambina osserva l’uomo. Ne intravede il volto e decide che non lo dimenticherà mai.
«Signore…»
«Qualcuno arriverà presto.» dice rapidamente l’uomo.
«Ma lei rimarrà qui, vero? Con me?» domanda spaventata.
L’uomo scuote unicamente il capo, poi fa qualche passo per la stanza.
La bambina singhiozza.
L’uomo torna e l’avvolge nel plaid che mamma usa quando guarda la televisione.
La bambina vorrebbe dirgli grazie, ma le parole non vogliono uscire.
Gli sorride appena, ma l’uomo si è voltato.
L’uomo è uscito dalla stanza.
Se n’e andato.
Qualcuno arriva poco dopo.
Sono rumorosi. Sembrano poliziotti.
La bambina riesce solo a stringere a sé il plaid che l’uomo le ha avvolto attorno.
La fa sentire al sicuro.
Anche dalle domande che le stanno facendo e alle quali lei non risponde.
Non riesce a parlare.
Stringe con più forza il plaid. Vorrebbe che l’uomo fosse ancora lì. Che ci fosse lui e non quegli uomini. A lui avrebbe potuto parlare, si dice, mentre la portano via.



Judith si svegliò di colpo. Si avvoltolò meglio nelle coperte, il respiro affannato, mentre cercava di riprendere sonno, senza riuscirvi.
Si mise a sedere di scatto, toccando con una mano il plaid sopra le lenzuola. Non importava che fosse ormai vecchio e liso. Glielo aveva dato il signor Piton per farla sentire al sicuro.
Sorrise, come se stesse sorridendo all’uomo.
Con riconoscenza.
Con affetto.
Avrebbe voluto che lui fosse lì.
Era certa che non avrebbe più avuto paura di dormire e di sentire le grida dei genitori.
Tirò il plaid verso di sé e se lo avvolse attorno, come aveva fatto il signor Piton quella notte.
E sorrise di nuovo grata.
Perché il signor Piton l’aveva salvata.
Perché il signor Piton le aveva impedito di vedere i cadaveri dei suoi genitori.
Perché il signor Piton l’aveva avvolta nel plaid quella notte.
E l’aveva fatta sentire al sicuro.

***

Atto I. Scena I
Amarezza


Un commento dell’infermiera, che gli aveva portato la dose giornaliera di antidolorifico, continuava a rimbombare nelle orecchie di Severus.
Era stato un ciarlare a senso unico, come sempre.
Come sempre, non aveva quasi ascoltato la donna, se non quando aveva nominato l’orfanotrofio e l’aumento del numero di bambini tra l’estate del 1997 e la prima metà dell’anno successivo.
E Severus sapeva perfettamente cos’era avvenuto in quel periodo.
Quanti altri tra quei bambini erano sue vittime?
Quanti altri, oltre a Judith, aveva reso orfani?
La bile gli era montata in gola, alle parole dell’infermiera, e con essa il sapore amaro della colpa.
L’antidolorifico stava intonso sul tavolo, accanto ai libri che, quattro giorni prima, gli aveva portato la signorina Fairchild, insieme alle sue assurde parole, al suo lieve sorriso, alle sue suppliche.
Quella donna era miope.
Non riusciva a vedere l’enormità di quello che lui aveva compiuto.
Non riusciva a vedere il sangue che gli copriva le mani.
Si alzò lentamente in piedi, afferrando la boccetta dell’antidolorifico. Sapeva che avrebbe dovuto chiamare l’infermiera, ma, per quello che aveva da fare, non ne aveva bisogno.
Raggiunse la porta del bagno. Si appoggiò per un istante alla parete, prima di aprire l’uscio. Svitò il tappo della boccetta e ne vuotò il contenuto nel lavandino.
Nel liquido che turbinava verso lo scarico, vide il sorriso riconoscente di Judith.
E sentì l’amarezza della colpa montargli in gola.
Si appoggiò per un istante al lavabo.
Nella lucida superficie bianca vedeva il sorriso di Judith.
Il sorriso che non avrebbe dovuto essere per lui.
Per l’assassino.
Tornò lentamente nella stanza.
Si sedette sulla sedia.
Fuori il sole splendeva, forse mai così luminoso da qualche tempo a quella parte.
I raggi illuminavano la stanza, posandosi sul tavolo, sui libri e sulle pareti giallastra, rendendole più squallide.
E nelle screpolature dell’intonaco l’uomo vide il sorriso colmo di sollievo di Judith.
Quel sorriso che avrebbe dovuto essere colmo d’odio.
E che con ogni probabilità lo sarebbe diventato, quando la signorina Fairchild le avrebbe comunicato la sua decisione.
Una decisione irrevocabile.
Riusciva ad immaginare il sorriso della bambina colmarsi dell’odio e del disprezzo che egli meritava.
E che egli provava per se stesso.
Così com’era una giusta punizione il dolore che stava montando dentro il suo corpo.
Un dolore che dovevano aver provato i genitori della bambina.
Gli pareva di udirne le voci, in quel momento, grida che parevano dire la sua colpa imperdonabile.
Gli pareva di udire le risate degli altri due Mangiamorte.
Rammentava vagamente che la bambina gli aveva parlato quella tragica notte, ma ciò che gli balzava alla mente erano unicamente le grida di quei due innocenti.
Quelle grida che per un istante gli parvero risuonare nella stanza, sostituite ben presto da un lieve bussare alla porta.
Severus non si voltò.
Era certo che fosse l’infermiera. Invece fu la voce di Melusine Fairchild a rivolgersi a lui.
«Signor Piton, so che… forse non si aspettava di rivedermi dopo quello che ci siamo detti quattro giorni fa, ma vi ho riflettuto. Ed ho parlato con Judith. Mi ha raccontato quello che è accaduto quella sera.»
L’uomo non si voltò, né fissò la donna, quando la sentì muoversi nella stanza e sedersi.
Forse, finalmente, avrebbe capito che aveva insistito affinché una bambina innocente potesse stare in compagnia di un assassino.
Forse finalmente avrebbe visto l’odio sul volto dolce della giovane.
«Ha quindi compreso che io sono l’assassino.» affermò Severus, assaporando il dolore che divorava il suo corpo e la sua anima.
«Ho capito che lei ha salvato la vita di Judith e che l’ha fatta sentire al sicuro, pur in una situazione del genere.» ribatté la giovane donna.
L’uomo portò lo sguardo sulla signorina Fairchild e notò che gli stava sorridendo.
Non era un sorriso lieve, né un sorriso nervoso, ma il sorriso di chi aveva fiducia nel suo interlocutore.
Un sorriso che non faceva altro che acuire il sapore amaro che aveva in bocca.
Il sapore amaro della colpa.
Un sorriso che la donna – un’adulta, non una bambina che poteva travisare la realtà – non avrebbe mai dovuto rivolgergli.
Non a lui.
Non ad un assassino.
Riusciva ad immaginare fin troppo bene cosa volesse da lui la giovane.
Immaginava cosa vi fosse dietro quel sorriso.
Quale domanda.
Ma egli sapeva che la decisione che aveva preso era irrevocabile e che nulla poteva modificarla.

***

Atto I. Scena II
Dolore


Melusine stava ancora sorridendo all’uomo. Era da quando il giorno precedente Judith aveva trovato il coraggio di dirle cosa fosse accaduto quella tragica notte di agosto, che la giovane aveva deciso di tornare a parlare con il signor Piton, nel tentativo di convincerlo a cambiare d’avviso, ma le parole che l’uomo aveva pronunciato non le davano molta speranza.
Le pareva che il signor Piton volesse ad ogni costo negare il fatto che aveva salvato la vita a Judith e quello che disse poco dopo le fece male al cuore.
«Non riuscite né lei, né la bambina a vedere la verità. Io sono un assassino.»
«E quale assassino avvolgerebbe un plaid intorno ad una bambina?» domandò Melusine, fissando l’uomo negli occhi, sorridendogli leggermente, con gentilezza. «Non so cosa sia accaduto quella notte, solo quello che mi ha raccontato Judith. E dal suo racconto so con certezza che lei ha salvato la vita della bambina. Perché insiste a negarlo?»
Severus non disse, né fece niente per diverso tempo. Nel sorriso gentile della signorina Fairchild poteva vedere quei sentimenti che vi aveva letto quando gli aveva chiesto, tempo prima, di accettare di vedere la bambina.
Il sorriso che evocava i sentimenti materni che la giovane provava per Judith. Ed egli era certo che ciò di cui avesse bisogno la bambina fosse l’affetto ed il sorriso della signorina Fairchild, non di certo la compagnia dell’assassino dei suoi genitori.
Perché era quello che era.
L’uomo che non era riuscito a salvare quei due innocenti.
L’uomo che aveva lasciato che venissero torturati.
L’uomo che li aveva uccisi.
«È lei, signorina Fairchild, a negare la verità. Io sono l’assassino dei genitori della bambina.» disse infine, articolando ogni parola a fatica, provando una fitta di dolore ad ogni sillaba pronunciata.
«Forse entrambi neghiamo parte della verità, signor Piton.» disse Melusine, giocando nervosamente con le frange del foulard, un sorriso altrettanto nervoso sulle labbra «Eppure io so che Judith ha bisogno di lei. Chiede di lei ogni giorno. Mi ha supplicata di portarla qui in anticipo ed io le ho detto che non potevamo perché l’ospedale ha regole ben precise.»
«Dovrebbe invece dirle la verità.» sillabò Severus.
Le parole furono seguite da un violento attacco di tosse.
Melusine si alzò di scatto in piedi ed allungò una mano per premere il pulsante per chiamare l’infermiera, ma l’uomo le afferrò il polso.
La giovane lo fissò negli indecifrabili occhi neri e sentì montare in lei la più estrema tristezza.
Quell’uomo si stava punendo nel peggiore dei modi, martoriando il proprio corpo, impedendo il minimo gesto di gentilezza. Qualsiasi colpa avesse commesso in passato, fosse questa anche l’aver effettivamente ucciso i genitori di Judith, la stava espiando, l’aveva già espiata, con ogni probabilità, si disse Melusine.
«Signor Piton, credo che Judith veda in lei l’unica persona che possa darle sicurezza.»
L’uomo le lasciò andare il polso.
E Melusine, per quanto avesse voluto chiamare qualcuno che potesse lenire le sofferenze dell’uomo, abbassò il braccio, con un sorriso triste.
«La bambina mi ha raccontato tutto, quando la direttrice dell’orfanotrofio le ha proposto di sostituire il plaid che tiene sul letto, il plaid senza il quale non riesce a dormire. Judith si è agitata ed ha afferrato quella vecchia coperta quasi ne andasse della sua stessa vita.
«Quando sono rimasta sola con lei, la bambina mi ha spiegato perché vuole quel plaid sempre con sé.» Melusine si interruppe, cercando lo sguardo dell’uomo, quello sguardo che le pareva celare una solitudine ed un tormento incommensurabili. «Avevo sempre pensato che fosse qualcosa che le ricordava i suoi genitori. Invece le ricorda lei. Tiene così tanto a quel plaid perché lei, signor Piton, glielo ha avvolto intorno alle spalle quella notte, perché le ha salvato la vita e l’ha fatta sentire al sicuro. Come posso dire a Judith che lei non vuole più vederla? Come posso?»
La voce della donna si era fatta accorata, così come accorato si era fatto il suo sorriso.
Era un sorriso che aveva un che di disperato, si accorse Severus.
Un sorriso che lo colpì come una frustata al pari delle parole della donna.
Ricordava di aver avvolto una coperta intorno alla bambina, mentre aveva sentito montare in lui inesorabile la colpa, che gli aveva fatto ronzare il sangue nelle orecchie. L’ennesima orribile colpa. Era stata l’unica cosa che aveva potuto fare di fronte alla domanda della bambina. Poi l’aveva abbandonata a se stessa, dopo aver ucciso i suoi genitori.
Era un mostro.
Un mostro a cui quella donna non avrebbe dovuto sorridere in quel modo accorato, disperato quasi, ma sempre gentile.
Un mostro il cui corpo avrebbe dovuto essere dilaniato e poi bruciato perché non ne restasse traccia.
Un mostro che sarebbe stato logico odiare.
«Signorina Fairchild…»
«La prego, signor Piton, usi il quaderno.» lo interruppe con un mormorio Melusine.
Severus osservò per un istante la donna e notò che appariva preoccupata, ma egli non meritava quella preoccupazione, né il sorriso accorato della donna.
Fece per continuare a parlare, pronto ad assorbire nuovo meritato dolore, ma si interruppe. Sentiva la gola bruciargli, come se qualcuno vi avesse colato dentro della lava incandescente. Prese in mano il quaderno perché sapeva che non avrebbe potuto sopportare ulteriormente il dolore alle corde vocali.
“Tenga la bambina lontana da me.”
Melusine gli restituì il quaderno con mani tremanti. Non era quella la risposta che avrebbe voluto leggere. C’era qualcosa di terribilmente tragico in quell’uomo che rifiutava di vedere il bene che poteva fare a Judith, il bene che già le aveva fatto.
«Signor Piton… Severus, per l’ultima volta, la scongiuro, la supplico di pensare a ciò che il suo rifiuto può causare nell’animo di Judith.» mormorò Melusine, le mani giunte in una muta preghiera. Senza rendersene conto, si lasciò scivolare in ginocchio, come una supplice. Sulle labbra un sorriso nervoso e triste, nervoso per l’incertezza del futuro della bambina, triste per la vita a cui si costringeva l’uomo. «Non pretendo che lei veda Judith ogni giorno. Possiamo concordare la distanza di tempo che vuole. Una volta al mese… una volta ogni due mesi… qualsiasi cosa, ma non scacci Judith, non mi costringa a comunicarle questa decisione che la distruggerebbe.»
L’uomo avrebbe voluto urlare alla donna di rialzarsi, avrebbe voluto dirle di andarsene, ma il dolore era troppo intenso, così intenso che per un istante fu visibile sul suo volto.
E la sua mente era piena del ricordo di quando era caduto in ginocchio di fronte a Silente, di quando l’uomo l’aveva osservato con giusto disprezzo.
Il disprezzo che la donna avrebbe dovuto provare per lui.
Non quella preoccupazione che aveva mostrato poco prima.
Men che meno quel sorriso triste.
Prese in mano il quaderno, ma gli cadde a terra.
Il dolore gli attraversava il corpo come mille frustate, impossibile da sopportare. Vide la donna alzarsi in piedi sollecita, la sentì mormorare parole preoccupate.
Poi la vide premere il pulsante per chiamare l’infermiera.
E non ebbe la forza di fermarla.

***

Atto II
Affetto


Pioveva.
Le gocce di pioggia ticchettavano contro il vetro della finestra, un ritmo che pareva scandire le sue colpe, si disse Severus. Oppure ogni goccia equivaleva ad ogni sua colpa ed ogni silenzio tra una goccia e l’altra all’impossibilità di ricevere il perdono per ognuna di esse.
Gli pareva che in quelle stille di pioggia vi fossero la sua vita e le sue scelte sbagliate.
Ed il volto di coloro che aveva ucciso.
Di coloro che non era riuscito a salvare.
Colpe per le quali non era ancora riuscito a scontare la pena.
Non si rese conto dell’aprirsi della porta, il rumore soffocato dal ticchettio della pioggia.
«Signor Piton, Melusine mi ha detto che è stato malato ed io…» la voce si spense di colpo, quando l’uomo si voltò.
La bambina era sola.
Ed aveva stampata sul volto un’espressione incerta.
Ed un sorriso affettuoso.
Il sorriso che si rivolge ad un padre.
La vita era crudelmente ironica, si disse l’uomo, se quella bambina sorrideva a quel modo a chi l’aveva privata dei genitori.
“E la signorina Fairchild sa che sei qui?” scrisse rapidamente, passando il quaderno a Judith.
Sperava sinceramente che quello non fosse un disperato tentativo della giovane di fargli cambiare idea.
Eppure era stato chiaro, prima di quella crisi, che l’aveva costretto ad una settimana di immobilità assoluta.
La sua scelta era irreversibile.
«Non propriamente.» rispose la bambina, osservandolo.
Solo in quel momento Severus notò che Judith era totalmente zuppa d’acqua. Sentì il peso della colpa montare dentro di lui, intenso e distruttivo.
Era a causa sua se quella bambina si rivolgeva a lui, all’assassino dei suoi genitori con quel sorriso, alla ricerca di una figura paterna di cui egli l’aveva privata.
«Melusine mi ha detto che è stato malato, signor Piton.» ribadì la bambina, continuando a sorridergli. «E sono dieci giorni ormai. Ed ero preoccupata ed ho pensato che lei era tutto solo qui e non è bello essere soli.»
Severus continuò a fissare la bambina.
Non avrebbe dovuto essere lui ad ispirare quei sentimenti.
Non lui.
Non un assassino.
Invece Judith era lì, ricoperta di pioggia e tremante.
Era andata da lui, senza che nessuno lo sapesse. Aveva sfidato la pioggia battente.
Ed unicamente perché riponeva fiducia ed affetto nella persona sbagliata.
Sentì la bile montargli in gola.
E sentì il sorriso della bambina mescolarsi alla colpa.
Sentì l’assenza di perdono avvolgerlo come una cappa.
E sentì il sorriso della bambina riscaldargli per un istante il cuore e renderlo ancora più certo della scelta, quella scelta che avrebbe dovuto comunicare alla signorina Fairchild.
La bambina tremava, troppo, notò.
Si alzò in piedi, appoggiandosi al tavolo.
Il dolore era insopportabile quel giorno, nonostante l’antidolorifico che lo forzavano ad assumere ogni mattina, ma, come ogni volta lo accolse con gioia perché sapeva che lo meritava, ancor più in quel momento, di fronte alla bambina che rischiava di ammalarsi perché non riusciva ad odiarlo, di quell’odio che egli desiderava e meritava.
Judith seguiva con ansia i movimenti dell’uomo.
Quando Melusine le aveva detto che era malato, si era decisamente preoccupata.
Non voleva perdere anche lui.
Non voleva che capitasse nulla all’uomo che le aveva salvato la vita.
Non voleva perdere il senso di sicurezza che l’uomo le infondeva.
Quando si sentì avvolgere in un panno, tornò a sorridere con affetto, un affetto che Severus sapeva malriposto.
L’uomo tornò a sedersi.
Judith continuava a fissarlo e a sorridergli, un sorriso affettuoso e riconoscente.
Si sentiva al sicuro in quel momento, come non le capitava da tempo, come non le accadeva da prima di quella notte in cui i suoi genitori erano stati uccisi.
Fece qualche passo verso l’uomo, poi, come quel giorno in cui la luce era venuta a mancare, si sedette sulle sue ginocchia, assaporando il senso di calma e di sicurezza che il signor Piton le trasmetteva.
Severus sentì nuovamente montargli la bile in gola.
Sapeva che Judith vedeva in lui una fonte di sicurezza – la signorina Fairchild glielo aveva ripetuto fin troppe volte – e razionalmente poteva comprenderne le ragioni, ma egli sentiva unicamente la colpa, il sangue dei genitori della bambina sulle mani.
Desiderava l’odio di Judith.
Il suo disprezzo.
Invece ne riceveva la fiducia e l’affetto.
E non era ciò che la sua anima nera meritava.
Chiuse per un istante gli occhi, come per mettere a tacere per un istante i pensieri che si rincorrevano nella sua mente.
Ma non era possibile raggiungere un solo istante di pace, com’era giusto che fosse.
La sua pace l’aveva lui stesso distrutta da tempo, da troppo tempo.
E di certo non meritava alcun sorriso.
A meno che non fosse una smorfia d’odio.
La bambina rabbrividì appena.
Severus avrebbe voluto, dovuto scacciarla, chiamare l’infermiera e dirle di riportarla all’orfanotrofio, ma non lo faceva.
E non riusciva a spiegarsene il motivo.
Allungò una mano verso il cassetto del tavolo.
Era forse perché solo Judith cercava conforto in lui?
Aprì il cassetto e ne estrasse la bacchetta.
Era forse perché Judith non gli chiedeva nulla in cambio, nemmeno che lui ricambiasse l’abbraccio?
Un movimento di bacchetta e la bambina fu completamente asciutta.
Era forse perché, per un breve istante, aveva sentito un raggio di luce farsi strada nel suo cuore?
Un raggio che fu subito soffocato dal rimorso e dalla certezza che per lui non vi fosse altro che tenebra e assenza di perdono.
La bambina non si accorse di nulla, non si rese conto di essere improvvisamente asciutta. Era unicamente felice di aver rivisto il signor Piton e di provare quell’infinito senso di sicurezza.
Non si rese nemmeno conto che la porta della stanza si aprì di scatto.
Non vide Melusine entrare, il volto colmo di preoccupazione ed avvicinarsi all’uomo.
Non notò il viso della giovane rilassarsi di colpo.
Non si accorse del sorriso che si disegnò sulle labbra di Melusine.
Severus vide quel sorriso.
Vide la domanda che era celata nello sguardo della donna.
E scosse lentamente il capo.

***

Atto III
Una scelta


Melusine si sentiva incredibilmente nervosa, mentre entrava nell’ospedale. Era la prima volta che il signor Piton le chiedeva di recarsi nella sua stanza. Ricordava perfettamente che quattro giorni prima, quando le aveva passato il quaderno con quelle parole era rimasta stupita.
Non riusciva ad immaginare cosa volesse dirle, soprattutto dopo che aveva negato, mentre Judith era sulle sue ginocchia, la sua muta richiesta.
Quando aveva lasciato l’ospedale non aveva nemmeno osato rimproverare la bambina. Non importava che avesse provato un enorme spavento quando aveva notato che Judith non era all’orfanotrofio. Aveva trovato la bambina immersa in una calma che, forse, sarebbe stata distrutta.
Voleva sperare che il signor Piton l’avesse voluta perché, in realtà, aveva cambiato idea.
Era una speranza vana, lo sapeva, ma non poteva fare a meno di nutrirla.
Forse fu per quello che salutò l’uomo con un sorriso gentile.
«Vorrei ringraziarla per aver badato a Judith, quattro giorni fa.» esordì la giovane, continuando a sorridere all’uomo.
Un sorriso gentile, colmo di un calore che si infranse contro la barriera che circondava Severus, contro il gelo delle sue colpe.
L’uomo era più che certo che la signorina Fairchild avrebbe fatto un altro tentativo per convincerlo a cambiare idea.
Ma non importava quanto gli sorridesse o quanto veemente fosse. La sua scelta era irreversibile.
«Forse mi crederà una sciocca, signor Piton, se le dico che nutro la speranza che lei possa aver cambiato idea circa Judith.» Melusine si interruppe un attimo, un sorriso lieve sulle labbra, quel sorriso che ormai Severus si era rassegnato a non vedere mai colmo d’odio. «Eppure quando ho visto la bambina sulle sue ginocchia, quando ho notato che l’aveva avvolta in una coperta, non ho potuto fare a meno di sperare. Judith si è affidata a lei, signor Piton, all’uomo che le ha salvato la vita.»
Il sorriso e le parole della giovane erano colmi di una speranza che Severus sapeva malriposta. La signorina Fairchild era cieca e non riusciva – o non voleva riuscire – a vedere il sangue che gli insozzava le mani e la lordura della sua anima.
Riponeva fiducia e speranza nella persona sbagliata.
In un assassino.
“La mia scelta è irreversibile”.
C’era qualcosa di perentorio in quelle parole, si disse Melusine leggendole, qualcosa che le fece morire il sorriso sulle labbra.
In quel momento la tristezza prese il posto della speranza. Avrebbe voluto scuotere l’uomo da quell’inflessibilità, da quel continuo negare di aver salvato la vita a Judith. Credeva che quell’irreversibilità volesse dire ben altro del significato della parola stessa. Non era solo la scelta ad essere irreversibile, ma tutto quello che l’uomo le aveva detto.
E celato.
Ed era certa che vi fosse molto, troppo, che lei non sapeva.
Eppure se voleva fare un ultimo disperato tentativo sapeva che doveva fare appello a quello che le aveva detto Judith.
«Io non so quasi nulla di lei, signor Piton.» esordì la giovane donna. «Ma da quel che so, sono convinta che lei sia un uomo buono. Nessun criminale avrebbe…»
«Cosa non le è chiaro della parola assassino?» la interruppe sarcastico l’uomo.
«Eppure ha salvato la vita a Judith. Un gesto illogico se fosse l’assassino che dice di essere.» Melusine si interruppe, aspettandosi che l’uomo la interrompesse ancora una volta, ma la stava fissando. «Judith ha totale fiducia in lei. Ed io condivido questa fiducia, ma ancora più importante è che Judith verrebbe distrutta dal suo rifiuto. La prego, signor Piton… Severus, la scongiuro, non allontani la bambina, non lasci che Judith torni ad essere come nei primi tempi all’orfanotrofio. Troppo spaventata per parlare. Priva di speranza, ancora più priva di speranza di allora. Perché quando è arrivata sperava, almeno, di poter vedere nuovamente l’uomo che le aveva salvato la vita e l’aveva fatta sentire al sicuro. Se lei la scaccia, non le rimarrà nulla.»
Ogni parola della giovane era una pugnalata, una stilla di dolore più che meritata.
Il dolore che meritava un assassino.
La signorina Fairchild lo fissava e Severus notò la disperazione del suo sguardo e la disperazione del suo sorriso. Il sorriso disperato di chi sa che la sua lotta è giunta alla conclusione e la sconfitta è vicina.
Un sorriso disperato che non si sarebbe mai coperto d’odio.
Ricordava la preoccupazione della giovane due settimane prima e ricordava l’affetto della bambina. Ma sapeva che non avrebbe potuto cambiare idea, nemmeno se avesse voluto, nemmeno se fosse riuscito a perdonarsi e a non disprezzarsi.
Voltò la pagina del quaderno e lo porse alla signorina Fairchild perché lei potesse leggere quello che aveva scritto prima che arrivasse.
Le mani della donna tremavano, mentre leggeva rapidamente. Tremavano anche quando parlò, giunta all’ultima parola.
«Ed ha detto anche dei due uomini di cui mi ha parlato Judith? Ha detto che ha salvato la vita alla bambina?»
Severus scosse unicamente il capo, ma pareva che la signorina Fairchild si aspettasse quella risposta.
«Ed io cosa posso dire a Judith? Come posso dirle che l’uomo che le ha salvato la vita, verrà condannato come reo confesso di un delitto che non ha commesso?» mormorò la giovane con voce spenta.
Ed un sorriso triste.
«Era l’unica soluzione possibile.» rispose l’uomo, fissando la giovane donna.
Era l’unica possibilità che aveva per scontare la pena di almeno quella colpa. Era il pensiero che l’aveva guidato nella scelta, una scelta presa dopo il primo tentativo della donna. Aveva meticolosamente costruito il movente e le modalità dell’omicidio, senza lasciare nulla al caso, prevedendo ogni domanda che gli avrebbero potuto porre.
Era l’unica possibilità che aveva per proteggere la bambina da se stesso. Era la consapevolezza che lo aveva animato quando aveva messo in pratica la propria scelta, il giorno successivo alla crisi che lo aveva costretto a letto per una settimana. Era la consapevolezza che era accresciuta dopo che la bambina era arrivata nella sua stanza all’improvviso, coperta d’acqua.
«L’unica soluzione per cosa, signor Piton?» domandò Melusine. «Non è punizione sufficiente il martirio a cui sottopone se stesso? Non è…» la voce le si spezzò leggermente. Deglutì a vuoto per tenere a bada le lacrime che le pungevano gli occhi. Un sorriso colmo di tristezza e disperazione le si disegnò sulle labbra. «Cosa dirò a Judith? La supplico, Severus, dica per lo meno alla polizia che ha salvato la vita alla bambina. La pena, che so che lei non merita, sarà più lieve. Cosa ne sarà di Judith quando la polizia vorrà interrogarla di nuovo, quando scoprirà la verità?»
«Non sarà necessario.» rispose l’uomo, il dolore meno intenso del solito, da quando lo costringevano ad assumere l’antidolorifico. «L’ispettore ha avuto risposta ad ogni sua domanda. alle voci che Judith dice di aver sentito. Alla sopravvivenza della bambina.»
Non aggiunse altro. Non disse quali parole avesse usato per convincerli. Non ce n’era bisogno. Alla signorina Fairchild doveva bastare che a Judith sarebbe stato risparmiato almeno quello.
Aveva dovuto subite, a causa sua, la perdita dei genitori. Era orfana perché lui non era riuscito a salvarli.
Né ad evitare che sentisse le loro grida.
Era una ben che minima consolazione sapere che la bambina non avrebbe dovuto subire nuove domande quando, con ogni probabilità, già riviveva quella terribile notte ogni istante della sua giovane vita.
«Eppure qualcosa dovrò dirle, signor Piton.» mormorò la giovane, il volto triste, come il suo sorriso.
«Le dica che sono stato trasferito in un altro ospedale.» rispose Severus, dopo diverso tempo.
Il giorno in cui aveva visto la bambina nella sua stanza, il momento in cui gli era tornata sulle ginocchia, era riuscito a comprendere le ragioni di Judith, per quanto non potesse condividerle, né accettarle.
Egli era un assassino.
L’assassino dei suoi genitori e nulla cambiava quella realtà.
Ma sapeva che Judith non meritava nuove sofferenze, che la sua anima innocente avrebbe dovuto essere preservata.
E poteva esserlo accanto a quella giovane che gli sorrideva triste con occhi umidi di lacrime non ancora versate.
Sorriso e lacrime che non meritava.
«Permetta almeno che Judith le scriva. Le dirò che l’hanno mandata da qualche parte sul continente, lontano, troppo lontano perché possa vederla, ma non l’abbandoni del tutto, Severus, la prego.»
Le parole della signorina Fairchild erano colme di disperazione e dell’affetto che nutriva per la bambina.
Severus rimase a lungo in silenzio.
Sapeva che doveva dare una risposta a quella richiesta e sapeva quale sarebbe stata.
V’era una sola possibilità, così come l’unica soluzione possibile era pagare di fronte alla legge, per quanto fosse quella Babbana, per una delle sue molteplici colpe.
Egli meritava il carcere, così come non meritava il sorriso della giovane, né le lacrime che stava versando.
Così come non meritava il sorriso di Judith.
Ma ancor di più si rendeva conto che non poteva distruggere l’illusione che Judith si era creata, l’illusione che egli fosse una brava persona.
Un giorno Judith avrebbe compreso ed allora egli avrebbe ricevuto l’odio che voleva e meritava.
Ma in quel momento, Judith si aggrappava a lui, all’assassino dei suoi genitori.
Aveva sfidato la pioggia per lui.
Ed egli non poteva distruggerne l’innocenza.
«Potrà scrivermi.» disse soltanto.
Il sorriso di Melusine si fece colmo di gratitudine, tra le lacrime.
Un sorrise simile a quello di Judith.
Un sorriso che non meritava, si disse Severus.
Il carcere era il luogo che meritava.
E forse in quel luogo, mentre pagava per le sue colpe imperdonabili, sarebbe riuscito ad accettare che quella notte d’estate aveva salvato la vita ad una bambina.
E che Judith gli aveva sorriso riconoscente.
 
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