Lupae
Lupa Capitolina
Lupa: origine di un nomeQuando l’improvvisata navicella di salvataggio di Romolo e Remo si arena dolcemente sulla riva del Tevere, i bambini vengono soccorsi da una lupa. Pare che la povera bestia avesse perso da poco i propri cuccioli, vittime di un predatore, e si sia quindi consolata adottando i due trovatelli.
(Pietro da Cortona - Romolo e Remo trovati da Faustolo ) In seguito il pastore Faustolo li trova e se li porta a casa, affidandoli alla moglie Acca Larenzia.
Fin qui il mito, la favola edificante. Sembra però che in realtà la nutrice dei pargoletti sia stata una sola: Acca Larenzia, donna sì, ma anche “lupa”, ossia prostituta.
Dicono i pettegoli (e anche gli storici, che non sono da meno), che la moglie di Faustolo esercitasse il mestiere, non si sa se all’insaputa o meno del marito. Trattandosi di due poveracci, è probabile che lui chiudesse un occhio sui traffici di Acca Larenzia, se essi erano in grado di arrotondare il misero bilancio familiare.
Quindi la leggenda conterrebbe un “piccolo” equivoco, sul quale si preferisce glissare elegantemente. L’abnorme complesso d’inferiorità (come diremmo oggi) dei Romani per le proprie origini non esattamente cristalline li porterà ad inventarsi la discendenza da Enea, l’eroe troiano sfuggito alla distruzione della città con figlio e vecchio padre al seguito e sbarcato, dopo varie avventure, sulle coste del Lazio. Figurarsi se avrebbero accettato come nutrice del mitico Romolo una prostituta: meglio una lupa vera, e Lupa Capitolina sia, lasciando nel vago il ruolo di Acca Larenzia.
Il nome “lupa”, appioppato alle prostitute romane, deriverebbe dal fatto che le lupe a quattro zampe avrebbero appetiti sessuali piuttosto consistenti, anche se, in genere, la prostituta gli appetiti dei clienti li subisce, ma tant’è, ed in fondo non si tratta dell’appellativo peggiore: se quello ufficiale era “
meretrix”(colei che guadagna) ce n’erano di ben più volgari, come “
scortum” (la “pelle”) o peggio ancora “
spurca” (la “sozza”).
Come si diventa MeretrixDiventare una donna di strada non era difficile, perché molte donne, in mezzo alla strada (e non in senso figurato), c’erano già.
Si calcola che, alla fine della Repubblica, Roma fosse una delle megalopoli dell’antichità, con qualcosa come un milione di abitanti.
I nobili, l’alta borghesia di commercianti, imprenditori ed il ceto medio erano un numero piuttosto esiguo, tra i benestanti non tutti erano romani, ma anche greci e stranieri che vivevano in zone loro destinate: il resto della popolazione era composto, oltre che dagli schiavi, da piccoli artigiani, contadini venuti a cercar fortuna, lavoratori a giornata e, scendendo ancora, lestofanti di vario genere, sempre in cerca dell’occasione per spennare qualche ingenuo pollo ben fornito di denaro e, ovviamente, prostitute di basso e infimo rango. Gli ultimi erano gli immigrati, profughi di qualche disastrato paese, schiavi fuggiti da un padrone brutale o gente convinta che Roma, così grande e ricca, fosse piena di possibilità per chi ci sapeva fare. Questa accozzaglia di gente con culture, lingue e dialetti diversi aveva in comune una gran fame e la ricerca continua di un modo per tacitarla, almeno temporaneamente.
Le condizioni di vita, non appena si lasciavano i “quartieri alti”, precipitavano a livelli che, ancora ahimé ai nostri giorni, si possono riscontrare nelle favelas brasiliane, tanto per fare un esempio.
La
Suburra e il
Velabro, i quartieri malfamati, rigurgitavano di questa umanità al limite della sopravvivenza, che si districava tra le conseguenze della miseria più nera: fame, sporcizia, abbrutimento, malattie e morte precoce.
Tempio di Marte Ultore( Vendicatore) e muro della Suburra ( foto wikimedia.org/wikipedia/) In questo invivibile ambiente le donne erano sicuramente la categoria più svantaggiata, sin dalla nascita. Una famiglia povera si sbarazzava più facilmente di una neonata femmina che di un maschio, perché se quest’ultimo poteva diventare un paio di braccia in più per procacciarsi da mangiare, la femmina era, nel sentire comune, solo un peso anche se poi lavorava quanto un uomo. Così si ricorreva all’infanticidio oppure, se uno non se la sentiva, si “esponeva” la neonata su un mucchio di spazzatura e non ci si pensava più.
Se la sorte era benigna (per modo di dire), la bambina poteva essere raccolta da chi ne avrebbe fatto una schiava o una lupa (dipendeva dall’avvenenza della creatura), se invece gli dei guardavano altrove, non le restava altro che morire di stenti o sbranata da uno dei numerosi e famelici branchi di cani randagi che circolavano per le strade.
Fine orrenda, sia che vivesse o morisse, ma uccidere o abbandonare neonati non era una prerogativa della plebe abbrutita dalla miseria. Anche nelle famiglie bene era in uso questa esecrabile pratica, pure se per motivi diversi.
Il “
pater familias”, il marito, signore e padrone della famiglia, aveva diritto di vita o di morte non solo sugli schiavi ma anche sulla moglie e i figli. Quando nasceva un figlio, esso veniva deposto dalla levatrice ai piedi del padre, che sollevandolo da terra e tenendolo alto sopra il capo, dichiarava senza troppe chiacchiere di riconoscere il nuovo nato come figlio o figlia e quindi come membro della famiglia, anche in termini di spartizione dell’eredità paterna.
Ma le cose non andavano sempre così lisce. Se il marito aveva qualche dubbio, fondato o meno, sulla reale paternità del bambino, specialmente se maschio, perché avrebbe dovuto tramandare un nome onorato, la creatura restava a terra e veniva immediatamente uccisa o esposta da uno schiavo incaricato della bisogna. Altri motivi potevano essere troppi figli, che avrebbero irrimediabilmente spezzettato il patrimonio di famiglia, o troppe femmine che avrebbero dovuto essere fornite tutte di una dote per sposarsi onorevolmente. Questa tremenda usanza è così radicata nella società romana che verrà abolita per legge solo nel IV secolo dopo Cristo.
Nate, cresciute o precipitate in questo ambiente, le donne sopravvissute si arrangiavano, spesso in condizioni tragiche: le vedove con o senza prole e le orfane, erano destinate a morire di fame se non riuscivano a trovarsi un lavoro qualsiasi.
Qualcuna ci provava, ma la fatica era massacrante e il guadagno molto misero. Ad un certo punto la virtù e l’onestà diventano un peso non da poco, il guadagno “facile” era sempre in agguato, bastava truccarsi ed aspettare davanti alla porta di casa o all’angolo della strada: la necessità e l’abiezione facevano il resto, come accade alla donna citata da Terenzio in
Andria (vv. 69 – 79):
“Tre anni fa, una donna venuta da Andro si stabilì nelle vicinanze di casa nostra. Nell’indigenza e abbandonata dalla famiglia, essa era di una bellezza notevole, e nel fiore degli anni. Da principio, condusse un’esistenza virtuosa, frugale e difficile, guadagnandosi a fatica la vita con la tessitura di lana e tela. Ma quando un innamorato si presentò da lei offrendole una somma di denaro, dato che gli esseri umani sono più tentati dal piacere che dal lavoro, essa accettò un primo impegno, poi un secondo, e finì per prostituirsi.”C’è da chiedersi se Terenzio avrebbe commentato allo stesso modo se fosse stato un uomo, che invece di spaccarsi la schiena con un lavoro faticoso avesse preferito dispensare le proprie grazie a signore o signori danarosi!
(continua)Bibliografia e link
"I bassifondi dell’antichità" di Catherine Salles
www.signainferre.it/
www.homolaicus.com/storia/antica/roma/donne_adulterio.htm
www.romarcheomagazine.com/it/usi-e-costumi/Edited by chiara53 - 20/1/2023, 18:58