Forza e resistenza del Cristallo (giugno-novembre 2007)
Ci sono solo libri, a Spinner’s End, null’altro.
Salvo ricordi, ovviamente infelici.
Tutti questi libri li ho messi io, ho tappezzato tutte le pareti, li ho stipati stretti nelle librerie, affinché i ricordi della mia passata vita in questa casa svanissero. Ma loro sono ancora tutti là, intrappolati nella sottile intercapedine tra muro e libri, tenacemente e dolorosamente vivi, a ricordarmi il bambino che ero ed il giovane che sono diventato. I miei amati libri sono solo una lucente superficie che riflette chi sono io ora, ma non possono annullare il mio passato, non riescono a zittirlo, non sono in grado di modificarlo.
Mi chiedo se sono mai stato veramente felice, nella mia vita, oltre quei brevi istanti con Crystal.
Certo, in quella squallida casa, la felicità non è mai esistita: non per quanto io possa sforzarmi di rammentare.
Solo cupa tristezza, mischiata alle lacrime di mia madre, ed opprimente insoddisfazione, annegata nei liquori scadenti di mio padre.
Ne percepisco ancora il puzzo, insieme con quello della ciminiera, che portava con sé polvere nera che si appiccicava ovunque, sui miei vestiti scompagnati e sui capelli trascurati e sporchi che adombravano un viso troppo magro e pallido.
Così come odo ancora le loro voci stridule e irate, indifferenti alla mia presenza, il rumore secco di uno schiaffo e la bacchetta che rotolava per terra.
Avrebbe potuto fermarlo con un solo gesto, ridurlo all’impotenza con una parola.
Ma non lo ha mai fatto.
Lo amava, come amava me.
A modo suo.
Eppure, ricordo anche i suoi rari baci e le sue carezze affrettate. Ma, soprattutto, rammento l’orgoglio nei suoi occhi neri, proprio come i miei, ed il sorriso che le illuminava appena il volto pallido e arcigno, quando compivo un’involontaria magia.
Poi, le percosse di mio padre, piene di paura per le mie capacità, e quel breve sorriso svaniva dal suo volto, prima che lui se la prendesse anche con lei, accusandola di incoraggiarmi a fare stregonerie.
E gridava, inneggiando a roghi e torture, mentre cercava una nuova bottiglia sul fondo della madia.
Ma non era colpa sua, mi spiegava lei, quando eravamo da soli: non era così, prima di perdere il lavoro, prima che il mondo gli crollasse addosso, prima di scoprire che io ero diverso dagli altri bambini e che anche sua moglie era diversa dalle altre donne.
Non era colpa sua, continuava a ripetermi: Tobias aveva solo paura del nostro potere, perché non riusciva a capirlo.
Così, tanti anni fa, ho commesso la mia prima colpa, senza saperlo, semplicemente venendo al mondo col potere di mago nel sangue.
Perché è stato solo a causa mia che mio padre ha smesso di amare mia madre: quando ha scoperto che io ero un mago e lei una strega.
Aveva ben presto dovuto confessarglielo a seguito delle mie involontarie magie, troppo potere magico che sfuggiva alla mia incapacità di controllo di bimbo di pochi anni.
Non ho impiegato molto tempo a capire che ero io la causa di tutto, anche se mia madre negava: così ho cercato in ogni modo di controllare quel mio potere, di ingabbiarlo e trattenerlo, almeno quando mio padre era presente.
Ma era difficile, troppo difficile, e la magia sfuggiva dalle mie mani infantili, potente ed incontrollabile.
Lui urlava.
Lei piangeva.
Ed io mi rintanavo in un angolo, odiandomi sempre più.
Poi, però, ricordavo il guizzo d’orgoglio negli occhi di mia madre e la sensazione di potere che provavo nel sapere che ero io l’origine di quelle cose strabilianti; così ho incominciato ad esercitarmi, a sforzarmi di trovare dentro di me la chiave di quel potere.
E l’orgoglio balenava ancora negli occhi di mia madre, davanti alle mie crescenti capacità, rendendola bella e di nuovo viva, mentre mi parlava con entusiasmo del mondo dei maghi e del mio brillante futuro, e, violando regole che ancora non conoscevo, m’insegnava incantesimi e sortilegi; per implorarmi, poi, appena passato quell’attimo d’esaltazione, di non usarli mai davanti a Tobias. E, come avevo imparato a fare magie volontarie, usando la sua bacchetta, imparai presto a controllare i miei poteri, che, solo in casi eccezionali, sfuggivano ancora al mio controllo.
Fu tutto inutile: tra i miei genitori vi era ormai l’abisso scavato dalla magia, che mio padre non riusciva né ad accettare né a dimenticare.
Non fargliene una colpa, m’implorava lei, che non aveva mai smesso di amarlo: non è colpa sua, mi ripeteva sempre.
Ma io lo sapevo. No, non era colpa sua.
La colpa era solo mia.
Avevo svelato che esisteva la magia ad un essere troppo fragile per accettarla.
Per anni mi sono chiesto se odiassi mio padre e per anni non ho voluto rispondermi, temendo che la risposta fosse un sì.
Poi, molti anni dopo, ho capito ed ho trovato la risposta sulla sua tomba, prematuramente raggiunta a causa del fegato spappolato dall’alcol. L’ho detto a mia madre, che riposava accanto a lui: aveva voluto raggiungerlo dopo pochi mesi, ritenendosi colpevole della morte dell’uomo, manesco e brutale per paura e per debolezza, che non aveva mai smesso d’amare.
Le ho detto che, sì, l’ho odiato, quando ero ancora troppo bambino per capire che cosa fosse veramente l’odio, ma che dopo, quando ho cominciato a comprendere, mi aveva solo fatto pena, per la sua fragile inferiorità di Babbano in confronto a noi maghi.
Ma che non era colpa sua.
No, non era colpa sua.
Ma neppure mia.
Per quanto tempo, da bambino, mi sono portato dietro questa responsabilità: di aver rovinato il loro amore e le loro vite.
No, non era colpa mia.
No, non lo era.
Però ho impiegato troppo tempo per comprenderlo, ho dovuto compiere tanti errori, troppi, prima di capire la verità.
Me l’ha rivelata un uomo, in una notte nera come questa, piena di disperazione e di sangue.
Me l’ha rivelata il terrore dei suoi occhi, davanti alla mia bacchetta che si alzava su di lui, per ucciderlo, sfogando il mio odio represso.
Me l’hanno rivelata le sue implorazioni, poche parole tremanti mentre si preparava a morire:
- Perché? Perché vuoi uccidermi? Anche io sono un uomo, un uomo come te. Anche se voi mi chiamate Babbano.
Nei suoi occhi, enormi, c’era la stessa paura che albergava in quelli di mio padre, quando mi guardava, bambino, compiere una magia.
- Non è colpa mia, non è colpa mia se sono solo un Babbano.
Ho abbassato la bacchetta e ho chiuso gli occhi.
Erano le stesse parole che mio padre mormorava a mia madre, piangendo, una volta passata la sbornia, pentito di averle fatto del male, ancora una volta.
No, non era colpa tua, papà, non era colpa tua se eri un Babbano.
Perché non è una colpa, non possedere la magia.
La colpa è uccidere.
Ed io l’avevo già fatto troppe volte, fino a quel momento.
Ma non quella sera, non quel Babbano con la stessa paura di mio padre negli occhi.
Questo ho detto a mia madre, sulla loro tomba, ma avrei tanto voluto poterlo dire a lui, a mio padre, che aveva sempre e solo avuto paura d’amarmi.