Riportato da http://lorenzofalli.idstudio.org/866-2/Tratto da “L’arte moderna 1770/1970” di G.C. Argan – capitolo primo
Parte seconda: PITTORESCO E SUBLIME
Per il “pittoresco” la natura è un ambiente accogliente e propizio, che sviluppa nell’individuo i sentimenti sociali;
per il “sublime” la natura è un ambiente duro e ostile, che sviluppa nella persona il senso della propria individualità, della propria solitudine, della fondamentale tragicità dell’esistere.
Le poetiche del “sublime” e dello Sturm und Drang, benché concordemente riconosciute come pre-romantiche, indicano come supremi modelli le forme classiche e costituiscono dunque uno dei fondamenti del Neo-classicismo: gli artisti neoclassici assumono di fatto, nei confronti dell’arte classica, un atteggiamento nettamente romantico. Si può dunque affermare che il Neo- classicismo storico non è altro che una fase della concezione romantica dell’arte.
Il pensiero dell’Illuminismo, che è all’origine della cultura moderna, non pone la natura come una forma data e immutabile, che si può soltanto imitare o rappresentare: la natura che gli uomini percepiscono con i sensi, interpretano con l’intelletto, mutano con l’agire (è infatti dal pensiero dell’Illuminismo che nasce la tecnologia moderna, che non ripete la natura ma la muta) è già una rappresentazione mentale che ha nella mente tutti i suoi possibili sviluppi.
Distinguendo un “bello pittoresco” ed un “bello sublime” Kant distingue due giudizi che dipendono da due tipi di atteggiamento dell’uomo nei confronti della realtà: su di essi, e sulla loro relazione dialettica, fonda infatti la “critica del giudizio”.
Prima di essere assunto da Kant a categoria del bello, il concetto di “pittoresco” era stato posto da un pittore e teorico inglese, A. Cozens (1717 circa- 1786) come fondamento di una poetica del paesaggio, i cui capisaldi sono:
1) la natura è una sorgente di stimoli a cui corrispondono sensazioni che l’artista interpreta, chiarisce, comunica;
2) le sensazioni si danno come gruppi di macchie più chiare, più scure, variamente colorate e non in una forma costruita, come quella che l’arte classica rappresentava mediante la prospettiva, le proporzioni, il disegno;
3) il dato sensorio è comune a tutti, ma l’artista lo elabora e chiarisce con la propria tecnica mentale e manuale, e così guida la società ad una esperienza migliore e fa opera educativa;
4) il chiarimento non consiste nel decifrare nelle macchie la nozione dell’oggetto a cui corrispondano, distruggendo così la sensazione primaria, ma nel chiarire il significato e il valore della sensazione ai fini dell’esperienza del reale.
Le sensazioni possono essere piacevoli o spiacevoli; poiché si cerca il piacere e si evita il dolore, ciascuno è interessato a fare una scelta per orientare il proprio comportamento; l’interesse, cioè l’attività della mente, sarà maggiore quanto più vivaci (cioè quanto meno uniformi e più variati) saranno gli stimoli sensori.
Principio estetico fondamentale è dunque la varietà: in un paesaggio, per esempio, la presenza di cose varie (rocce, alberi, acque, nuvole, animali, figure), a ciascuna delle quali corrispondono diversi tipi di macchie. Naturalmente le macchie sono variabili secondo il punto di vista, la luce, le distanze. Ciò che la mente “attiva” afferra è dunque un contesto di macchie diverse ma in relazione tra loro; la macchia corrispondente ad un albero non muta soltanto col tipo dell’albero, ma col suo essere vicino o lontano, illuminato o controluce. L’interesse non consiste solo nel modo in cui si compie l’esperienza, ma anche nel modo con cui ci si accosta alla realtà: un sereno tramonto suscita un sentimento di calma, una bufera un sentimento di timore. Il processo dell’artista, secondo la poetica del “pittoresco”, va dalla sensazione visiva al sentimento; in questo processo dal fisico al morale, appunto, l’artista è guida ai suoi contemporanei.
La natura non è soltanto sorgente del sentimento, induce anche a pensare. Vediamo, ma sappiamo che quello che vediamo non è che un frammento della realtà; riflettiamo che, al di qua e al di là di quel frammento, infinita è l’estensione dello spazio e del tempo, poderose ed oscure le forze cosmiche che producono i fenomeni; sconfiniamo col pensiero oltre il veduto e il visibile, nel dominio del sogno, della memoria, della fantasia, delle divinazioni, delle intuizioni. Ciò che vediamo perde ogni interesse, ciò che non vediamo eppure pensiamo essere s’impone e ci sgomenta con la sua infinità che ci dà l’angoscia della nostra finitezza. Questa realtà trascendentale è il “sublime”.
Quando si varca la soglia del “sublime” le sensazioni visive dileguano per lasciar trasparire, come in una visione messianica, i segni o i simboli delle verità supreme.
Poetica dell’assoluto, il “sublime” si contrappone al “pittoresco”, poetica del relativo.
Nel secolo della ragione il “sublime” riapre il problema dell’irrazionale, che è poi il problema stesso dell’esistenza; ma soltanto dal punto di vista della ragione si può porre il problema di ciò che l’oltrepassa.
(Si ammira in Michelangiolo il genio ispirato, eroico, solitario, sublime: ma che altro è mai il trascendentalismo di Michelangiolo se non il superamento del classicismo inteso come equilibrio razionale di umanità e natura?)
E’ vero che la poetica illuminista del “pittoresco” vede nell’artista l’individuo integrato nell’ambiente naturale e sociale, e la poetica del “sublime” l’individuo che paga con l’angoscia e il terrore della solitudine la superbia del proprio isolamento; ma le due poetiche si integrano e nella loro contraddizione dialettica riflettono il grande problema del tempo, la difficoltà del rapporto tra individuo e collettività. L’esistenza, che non si giustifica più con un fine oltre il mondo, deve trovare tutto il suo significato nel mondo: o si vive interamente del rapporto con gli altri e l’io si dissolve in una relatività senza fine, o l’io si assolutizza ma rompe ogni rapporto con ciò che è altro da sé. Nessuna delle due soluzioni è possibile senza l’altra: chi vive del rapporto col mondo sentirà sempre l’ansia di ciò che è oltre, chi vive oltre il mondo sentirà sempre l’assurdità della propria solitudine.
Nell’arte moderna, che è tale proprio perché è totalmente disgiunta dalla concezione classica dell’arte, la dialettica dei due termini muterà continuamente aspetto, ma rimarrà sostanzialmente immutata. La storia dell’arte moderna, dalla metà del Settecento ad oggi, è la storia spesso drammatica della ricerca, tra l’individuo e la collettività, di un rapporto che non dissolva l’individualità nella molteplicità senza fine della collettività e non la ponga al di fuori come estranea o contro come ribelle.