Il Calderone di Severus

Durmstrang - Marzo, Albus Silente - Serre di Hogwarts - Arco di Pietra con velo (Ufficio Misteri del Ministero) - Thestral

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view post Posted on 10/11/2021, 19:03
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Scriviamo qui se qualcuno ha già un'idea per la sfida, se é sicuro di partecipare, se vuole fare il campione, oppure se ha dubbi sulla trama, chiedere consigli e tutto quello che ci viene in mente!



Ricordo che qui ci sono tutte le regole della sfida e dei punteggi.

Oltre a Severus occorre inserire nella storia:
- Albus Silente
- Serre di Hogwarts
- Arco di Pietra con velo (Ufficio Misteri del Ministero)
- Thestral



Campione (punti raddoppiati): serpeverde
Portatore delle insegne (punti invariati): bandieraserpe
Scudiero (punti dimezzati): serpescudo
 
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view post Posted on 12/11/2021, 23:58
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Fondi-calderoni

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Anche su questa qualcosina potrei partorire.
 
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view post Posted on 21/2/2022, 10:02
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Forse, ma molto forse, ho un abbozzo di idea per questa sfida. Devo solo capire se effettivamente può funzionare.
 
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view post Posted on 21/2/2022, 10:04
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Benissimo!
Mi sta vendendo anche a me un'idea (anche la mia é solo una bozza ci sto ragionando).
L'unico intoppo é quel maledetto arco, ho un'idea ma se non costruisco bene la storia prima é buttato lì solo perché ci deve essere. <_<
 
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view post Posted on 21/2/2022, 10:18
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Fondi-calderoni

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Ci provo, ma non garantisco niente! Questa è difficile perché abbiamo due luoghi statici che devono coesistere… eh sì che un bel dialogo Severus/Albus sarebbe una cosa che mi andrebbe di scrivere! Uff. Penso, provo, vi faccio leggere e al massimo mi dite di andare ad asciugare gli scogli che faccio meglio.
 
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view post Posted on 21/2/2022, 19:48
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Ok ragazze. Io ho partorito questo. Fatemi sapere cosa ne pensate e se può andare bene.
È scritta piuttosto di getto, però l’idea mi affascina abbastanza. Ho pensato di tenere un filo conduttore tra le storie. Come se una fosse il seguito, seppur non strettamente legato da spazi temporali, dell’altra.
Proseguo con le Severus/Hermione perché è più forte di me 😜


Autore: biboarwen
Beta-reader: nessuno
Tipologia: one-shot
Raiting: per tutti
Genere: drammatico, introspettivo, romantico
Personaggi: Severus Piton, Hermione Granger, Albus Silente
Pairing: Severus/Hermione
Epoca: post settimo anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: Nei frammenti sfocati di un sogno si può trovare la strada per ricominciare a sorridere. In un amico perduto la forza di continuare a sognare. In un peccato che non ci si può perdonare, la capacità di vedere la bellezza delle piccole cose.

Note: storia scritta per la sfida annuale 15 anni con Severus. Mese di marzo. Scuola di Durmstrang

Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.

Caratteri spazi esclusi: 20711 (spazi inclusi)


ADDIO, AMICO MIO

Parlami, maledizione! Parlami ancora una volta, una solamente.
Fammi capire meglio perché è stato giusto. Perché ho dovuto farlo.
Ricordami quello che il tuo sacrificio e il mio peccato hanno concesso al mondo.
Ho bisogno di sentirtelo dire. Una volta ancora.
Dimmi che non hai sofferto, mentre rovinavi giù dalla torre più alta, nel castello che avevi difeso con ogni briciolo di forza. Fammi capire che quell’incantesimo, scagliato tra lacrime asciutte, è stato efficace come tutti quelli che avevo elargito nella mia lunga vita sporca. Che ti ha tolto il respiro nella frazione di un secondo, senza farti sentire alcun dolore.
Dimmelo questa notte, l’ennesima in cui mi sono trascinato qui, nelle viscere più nascoste del mondo, nove piani sotto alla luce del sole, con il mio lasciapassare da eroe marcio che mi consente l’accesso al regno degli indicibili.
Fammi scorgere la tua voce tra le mille che mi accusano. Tra le mille appartenute alle mie vittime, di cui talvolta non conosco neppure il nome.
Dimmi perché, Albus.
Sei felice, adesso? Ti senti appagato mentre tutti acclamano il nome del grande mago bianco, che ha sacrificato la vita per una nobile causa?
Ti sei reso conto, almeno per un attimo, che in mezzo alla tua gloria eterna ci è rimasta incastrata la mia anima?
No, non lo hai fatto.
Sei sempre stato così pazzo da non vedere niente, al di là dei tuoi piani assurdi. Da non calcolare le conseguenze dei tuoi lampi di genio.
Sono io, la conseguenza.
Gli altri hanno vinto una guerra. Io mi trascino in una divisa da santo che non mi è mai appartenuta. Un santo camuffato da mostro.
Non sono mai stato né l’uno né l’altro. Tu lo hai sempre saputo. Loro no.
O meglio, non tutti.
Come posso spiegarlo?
Mi lascio trascinare dalla corrente, alla bene meglio, tra una felicità inaspettata, fumi di alcol e rigurgiti di bile.
Lei mi guarda, Albus. E non capisce. O forse capisce addirittura troppo. E nella sua intelligenza, quasi inappropriata per i suoi venti anni, mi osserva senza parlare. Lasciando ai miei demoni lo spazio che meritano.
Sei tu, il mio demone. L’unico che non mi accusa solo nei sogni, ma che mi prende a schiaffi l’anima anche da sveglio. Con che parole posso spiegarglielo?
Avrei dovuto mandarti affanculo nel momento esatto in cui mi hai chiesto di ucciderti. Non credevi che avessi già sofferto abbastanza? Probabilmente sì, e ancora più probabilmente te ne sei fottuto di me come te ne sei sempre fottuto di tutto.
Punto lo sguardo al di là del logoro telo nero. So che non posso vederti. So che non puoi vedermi.
Eppure, come un cretino, tendo l’orecchio per cercare di riconoscere la tua voce tra le mille appartenute ai miei fantasmi.
Sono seduto a terra, su un pavimento di pietra che sembra più freddo dei miei incubi. Le gambe incrociate. La bacchetta, che mi ha fatto da complice in un omicidio di troppo, stretta tra le dita della mano.
Un soffio di vento muove improvvisamente l’aria statica di una stanza nascosta nel centro della terra.
Le voci si assottigliano di colpo. Succede ogni notte. E ogni notte, come un idiota, immagino che si scansino e si zittiscano per un attimo, per concedere il passaggio al grande mago, sepolto nella tomba bianca ai confini del prato.
Non succede mai. Io resto in silenzio, con i sensi tesi fino allo spasmo. E dopo un attimo tutto torna immobile.
Lo farà anche questa volta.
Mi lascio sopraffare le labbra da un sorriso amaro. Dopo la vita che ho vissuto avrei dovuto perdere la capacità di sperare in qualsiasi cosa. Eppure ogni notte, in questo momento, trattengo il respiro.
«Sei lì dietro, maledetto vecchio pazzo?» è solo un sussurro che mi sfugge dalle labbra. Non era mai successo. Forse non sono così impenetrabile come credevo di essere.
Un’altra folata di vento più forte. Il telo trema all’interno del grande arco di pietra.
Fa freddo. Di colpo, intorno, sembra ancora più freddo.
Poi tutto si arresta. Si arresta il vento, si arrestano le voci, si arresta il gelo impietoso.
«Perché vieni qui ogni notte, Severus?»
Il respiro mi si incastra nella gola, strozzandomi per un istante. Mi alzo in piedi, la bacchetta tesa in avanti, pronto ad attaccare, così come la vita mi ha insegnato a fare.
Un moto di disgusto mi risale l’esofago come se fosse vomito. Ho già sguainato la bacchetta una volta davanti alla tua voce implorante. Una delle tante immagini che non sarò più in grado di dimenticare. La più crudele. Quella che più di tutte mi disgusta fino a farmi nascere lacrime secche agli angoli degli occhi.
«Perché vieni qui ogni notte, Severus?» lo ripeti. È la tua voce. Potrei riconoscerla tra mille voci. La stessa che mi ha convinto a fare quello che nessun’altra voce sarebbe riuscita a fare.
Azzardo un passo in direzione dell’enorme arco velato di nero. Trattengo il tremito delle mani con tutta l’abilità che mi ha permesso di sopravvivere. Ritrovo una calma che il mio corpo ha sempre recitato con maestria assoluta.
«Sei così sicuro di dovermelo chiedere, Albus?» lo dico con rabbia, rivolto verso il nulla che mi si para davanti.
«La tua ira non è scemata, vedo. Sono ancora l’uomo che ti piace maledire ogni notte, non è vero?»
«Potresti darmi torto?» lo ringhio nel buio spesso come melassa.
Ti sento ridere al di là del velo. Di quella tua risata squillante, velata di una lieve nota di pazzia.
«No, non posso. Ma vedi, Severus, tutto è andato come doveva andare. Non vorrai dirmi ora che non sei felice?»
Silenzio. Non sono in grado di rispondere a voce alta.
Stringo la bacchetta tra le dita, quel tanto che basta a sentirla scricchiolare impercettibilmente sotto la tortura delle mie nocche.
«Eppure ti ho visto sorridere. Ti ho visto abbandonare il travestimento da mostro sul pavimento dei tuoi sotterranei, mentre strappavi quello da studentessa saccente ad una giovane donna che ti ha fatto dimenticare il passato. Ti ho visto addormentarti tra le sue braccia. Ti ho visto accendere una risata nella scarsa luce di un camino. Perché non provi a dimenticare anche me? Non sono morto per punirti, Severus. Malgrado quello che tu continui a pensare.
Forse è giunto il momento che tu mi perdoni. E che provi a perdonare te stesso.»
Deglutisco a fatica.
«Per essere teatrale come vorresti ti manca un “Severus, ti prego…”
Non lo aggiungi per chiudere magistralmente il tuo monologo, Albus? Ci starebbe così bene! Proprio quello che continuo a sentirmi risuonare in mezzo alle tempie, nella veglia e nel sonno…»
Ridi di nuovo.
«Vivi, e lascia in pace i morti. Ogni vita che hai spezzato ha portato alla pace. Di questo prima o poi dovrai dartene atto. Hai mai pensato per un attimo che, grazie alla mia morte, è viva anche lei? Avresti preferito barattare la vita della donna che ami con quella di un vecchio mago che aveva già vissuto la vita che doveva vivere?»
Maledizione quanto mi fa incazzare il tuo avere sempre ragione, Albus. Maledizione quanto mi fa incazzare la noncuranza che hai sempre riservato alla pazzia.
«Cosa vuoi che ti risponda? Dovresti essere abbastanza vecchio per sapere che il confine non è sempre così preciso, Albus.»
«Lo sono. E tu lo sei abbastanza per capire che un uomo, ad un certo punto, può anche concedersi il lusso di essere felice? Felice e basta?»
Silenzio. Ancora una volta, davanti a te, non riesco a parlare.
«Avvolgiti nel tuo mantello nero, Severus. Esci da questa stanza nascosta nelle viscere del mondo, lascia che il sole ti baci la faccia e che il vento ti scompigli i capelli.
Respira l’odore dell’alba.
Corri su un prato fino a perdere il fiato. Raggiungi il castello che è diventato la vostra casa. Prendila tra le braccia e permettile di essere il più luminoso e il più ingombrante dei tuoi pensieri. Baciala senza un passato, senza una maschera e senza qualcosa di cui vergognarti. Amala senza altro che l’amore stesso. Così come ti ama lei, con tutta l’ostinazione della sua giovinezza.
Lei se lo merita, ragazzo mio. Ma soprattutto, più di ogni altra cosa, lo meriti tu.»
Fai una pausa. Forse aspetti una mia reazione che non arriverà mai. Poi prosegui.
«Lasciami il mio posto nel passato. Ricordami come qualcuno che ti ha concesso di vivere il presente.
Io ho avuto la vita che volevo vivere. Sono morto come volevo morire. Non permettere che io lo abbia fatto invano. Goditi la tua vita, il tuo amore, la tua redenzione meritata in ogni più impercettibile oncia. Severus, ti prego…»
Mi paralizzo nel buio di una stanza in cui l’aria rarefatta comincia a farmi sbiadire i pensieri.
Sorrido amaramente. Abbasso lo sguardo sul pavimento umido e gelido.
Un sospiro profondo è l’unica debolezza che mi concedo.
Punto di nuovo gli occhi sul logoro telo nero che nasconde la tua voce.
Maledetto vecchio pazzo. Così abile nel fornire argomentazioni incontrovertibili. Così capace di far vacillare ogni mia ferrea convinzione. Così astuto nel tirare fuori l’uomo che, per primo, hai visto sotto la casacca nera.
«Ti piace da morire sentirti dire che hai ragione, non è vero?» sibilo.
«Effettivamente mi da qualche soddisfazione, Severus!»
Una risata impregnata di sarcasmo abbandona le mie labbra.
«Allora, per l’ultima volta, vaffanculo, Albus.» resto immobile per un attimo. Sento le lacrime premere sotto le palpebre, mentre, con gli ultimi brandelli di finta apatia di cui so travestirmi, cerco di ritrovare una voce che mi consenta di non soccombere al pianto. Non ci riesco. E allora, semplicemente, resto in silenzio, ancora una volta.
«Lascia stare i morti, Severus. Guarda a quanta vita hai permesso di continuare ad esistere. Per l’ultima volta: addio, amico mio…»



~



«Sei qui…»
La tua voce mi raggiunge alle spalle, in questa serra ancora deserta.
Il primo sole di un’alba di inizio estate importuna le grandi vetrate di un luogo seminascosto, ai piedi del castello.
«Ti sei svegliato presto? Di nuovo il tuo strano sogno?»
Mi avvolgi le braccia intorno alla vita. Appoggi la fronte tra le mie spalle.
«Sì.»
Il tuo calore mi trascina fuori dai pensieri che mi hanno accompagnato per tutta la notte.
«Vorrai mai parlarmene, Severus?»
Mi volto, ti osservo.
Un raggio impertinente ti si appoggia delicatamente sull’accenno di seno che la camicia lascia scoperto.
«No...» distolgo lo sguardo.
So già che nel tuo vedrò quella scintilla di tristezza che da sempre lo possiede, quando mi ostino a nasconderti uno dei miei mille segreti.
Fai un cenno con la testa, mi lasci scivolare una carezza sulla guancia.
Poi ti volti, le tue mani cercano velocemente un paio di cesoie che trovano dopo un istante, abbandonate sul tavolo tra i bulbi e i primi segni di una fioritura imminente.
«Ti serve qualcosa di particolare per la dispensa? Già che sono qui e che Pomona non può guardarmi in cagnesco ogni volta che mi azzardo a potare un’erba nel modo sbagliato, colgo l’occasione per aiutarti.»
Maledizione quanto sei bella, Hermione. Quanta pazienza riservi ai miei tormenti e alle mie paure malamente sepolte. Quanto entusiasmo metti nello starmi accanto malgrado il mio carattere impossibile.
Il sole si infrange sulle vetrate, illumina il tuo ottimismo con caleidoscopiche luci colorate.
Tutto resta fermo e muto per un istante che mi sembra troppo lungo.
Un soffio di vento spalanca di colpo la porta della serra in fondo al tavolo di legno pieno di schegge, di terriccio, di arnesi in disordine e di crepe.
Chiudo gli occhi. Il frammento di un sogno raggiunge ancora una volta i miei pensieri.

Lascia che il sole ti baci la faccia.

Sorrido nel silenzio del mattino, nella prima luce di un nuovo giorno.

Che il vento ti scompigli i capelli.

Muovo un passo verso di te. Ti volti, mi osservi. Un’espressione incerta ti rende rosate le gote, facendoti, se possibile, ancora più bella.
«Se non mi dici niente faccio io, ma poi non ti lamentare quando sarai sepolto fino agli occhi in una delle tue pozioni e non avrai gli ingredienti necessari.»
Sollevo un sopracciglio, lasciandomi divertire dalla penuria di pazienza che devo averti attaccato come un morbo contagioso.
«Prendiamo della Belladonna, del Dittamo e un po’ di Fico Avvizzito dell’Abissinia. Sono così pieno di puerile entusiasmo primaverile da ipotizzare l’insegnamento della pozione restringente al branco di teste di legno del secondo anno.» lo dico senza cambiare espressione.
Sono bravo nel nascondere ogni cosa. Ogni tumulto della mia anima crepata.
Ricambi il mio sguardo per un istante, poi ridi di gusto, portandoti una mano davanti alla bocca e rivolgendomi una nuova occhiata maliziosa.
«Sei così ottimista che quasi non ti riconosco, professore!»
Ti dirigi verso i vasi a ridosso dell’ingresso. Leggi distrattamente i cartellini che Pomona, maniacalmente, dissemina su ogni più piccolo arbusto, su ogni zolla di terra.
Sei diventata la professoressa di trasfigurazione con la più strabiliante cultura di erbe magiche al mondo. L’effetto fortuito di dormire accanto a quello che, forse, è il più grande e burbero pozionista del mondo.
Ti chini sulla Belladonna. Con un colpo secco di cesoia tagli in obliquo, esattamente sotto alle ultime foglie appena spuntate. Persino Pomona non avrebbe nulla da ridire.
Un tuo gesto frettoloso fa scivolare il magro raccolto all’interno di un cestino che, magicamente, ha preso forma tra le tue dita.
Ti dirigi verso il Dittamo. La tua maestria non viene meno al cospetto del primo accenno dei suoi fiori purpurei. Archivi anche quelli nella tua piccola dispensa portatile.
Ti sposti di qualche metro. Raggiungi un nuovo ingrediente. Osservi il vaso con attenzione, poi ti porti una ciocca di capelli dietro all’orecchio.
«Il Fico Avvizzito non è ancora al giusto punto di fioritura. Secondo me dobbiamo aspettare qualche giorno per poterlo raccogliere.»
Mi punti negli occhi lo sguardo di chi ha sempre saputo di essere il primo della classe. Quello di chi è consapevole della propria preparazione. In un modo così impertinente da farmi avvertire un battito inatteso del cuore.
Faccio un altro passo verso di te. Ancora uno. I miei occhi non abbandonano i tuoi finché non raggiungo la piccola pianta, seminascosta dalle foglie di un Formicaleone.
Uno sguardo distratto mi conferma senza troppa sorpresa la tua teoria.
«È una “E”, signorina Granger.» mi lasciò sfuggire un sorriso appena accennato.
«Un risultato inaspettato, professor Piton. In anni come sua studentessa non sono mai riuscita a meritare tanto.»
«Ora non sei più una mia studentessa.»
«Decisamente no. Direi che avremmo avuto più di qualche problema, se così fosse…» sorridi anche tu. Le guance ti si colorano di rosso, ancora un po’ di più.
Con un gesto rapido di bacchetta rimpicciolisci il cestino, lo fai scivolare nella tasca dei jeans che, malgrado il tuo ruolo, ti ostini a non toglierti di dosso.
«Adesso rientro. Ho una classe a cui cercare di insegnare a tramutare un topo in una teiera…»
Accenno un sì con la testa.
Tu mi abbandoni un delicato bacio sulla bocca. Ti volti, superi la porta.
Ti incammini sul prato che porta al castello. Una brezza leggera muove i fili d’erba, disegnando arabeschi mutevoli sulla distesa verde smeraldo.
Quanto ti amo, ragazzina. Vorrei davvero che tu lo sapessi.

Respira l’odore dell’alba.

Riempio di fiato i polmoni, beandomi del profumo che mi hai appena lasciato sulle labbra. Sa di certezze e di semplicità.
Ti allontani velocemente, vittima eterna della tua puntualità estenuante.

Corri su un prato fino a perdere il fiato.

Faccio un passo, poi un altro. I miei stivali affondano velocemente nell’erba ancora bagnata dalla rugiada del mattino.
Il portone immenso di Hogwarts incornicia il tuo corpo sottile. Sta per nasconderti al mio sguardo.

Raggiungi il castello che è diventato la vostra casa.

«Hermione!» la mia voce è rotta dalla corsa recente.
Ti volti di scatto. Sollevi un sopracciglio in un’imitazione involontaria della mia sempiterna espressione.
Qualcosa di simile allo stupore si insinua nel tuo sguardo.

Prendila tra le braccia e permettile di essere il più luminoso e il più ingombrante dei tuoi pensieri.

«Vieni qui…» te lo dico velocemente.
Ti avvicini piano. Non capisci cosa ti stia succedendo intorno. Cosa stia succedendo al gelido mago nero che, contro ogni pronostico, ti sei scoperta ad amare.
Ti stringo tra le braccia tanto forte da renderti difficoltoso il respiro.
L’odore della tua pelle mi entra nei polmoni con la facilità di un coltello rovente che affonda nel burro.
Appoggio le labbra sulla tua fronte. Uno dei mille boccoli indisciplinati mi si infila nella bocca e mi solletica le narici.
Lascio scivolare le dita tra i tuoi capelli, cercando di tenerti tanto vicina da diventare un unico corpo.
«Ti amo, Hermione.» te lo sussurro sulla tempia.
Tu tremi.
«Anche se non te l’ho mai detto….»
Una lacrima ti sfugge dagli occhi. Ne sento l’umidità intrufolarsi oltre la sciarpa di seta, nel colletto della camicia.

Baciala. Senza un passato, senza una maschera e senza qualcosa di cui vergognarti.

Ti allontano lentamente. I tuoi occhi lucidi mi schiaffeggiano la faccia.
Ti bacio in mezzo ad una scuola che si sveglia. Tra i possibili sguardi di coloro che sono sopravvissuti e di quelli a cui è stato concesso di vivere.
Non me ne frega più niente.
Adesso ci siamo solo io, te, e un futuro che forse può assaporare il gusto sublime della libertà.

Amala senza altro che l’amore stesso. Così come ti ama lei, con tutta l’ostinazione della sua giovinezza.

«Cosa succede, Severus?» me lo domandi in bilico tra l’incredulità e le lacrime.
Io ti sorrido, ancora.
Questa volta è un sorriso lasciato uscire allo scoperto, alla luce del sole. Qui, dove tutti possono vedere che aspetto ha un uomo risorto.

Lei se lo merita, ragazzo mio. Ma soprattutto, più di ogni altra cosa, lo meriti tu.

«Questa notte qualcuno mi ha fatto capire che è tempo di andare avanti.» lo sussurro appena, ad un centimetro dalle tue labbra.
Mi prendi il viso tra le mani. L’immagine del tuo volto mi fa capire finalmente che aspetto ha la felicità.
Osservo il tuo sguardo superarmi la spalla, infrangersi su una tomba bianca ai confini del prato.
«Adesso la smetterai di urlare il suo nome nel sonno, Severus?» lo chiedi accarezzandomi una guancia.
Un’espressione di stupore è tutto quello che riesco a concederti.
«Credi che non lo sappia? Pensi che io non abbia passato più di una notte insonne, a guardarti dormire, cercando di capire come trascinarti fuori da ricordi che non ti avrebbero mai permesso di vivere del tutto?»
Una lacrima mi sfugge dagli occhi.
Sei reale, ragazzina?
Davvero mi merito accanto una donna tanto scompigliata da sapermi guardare dentro, fino in fondo all’anima?
«Evidentemente doveva pensarci lui… in qualche modo, follemente, ancora una volta, ha aggiustato tutto.» me lo dici stringendomi le mani.
Già, ancora una volta.

Lasciami il mio posto nel passato. Ricordami come qualcuno che ti ha concesso di vivere il presente. Io ho vissuto la vita che volevo vivere. Sono morto come volevo morire. Non permettere che io lo abbia fatto invano. Goditi la tua vita, il tuo amore, la tua redenzione meritata in ogni più impercettibile oncia, Severus. Ti prego…

«Adesso è ora di lasciarlo andare…» te lo dico tra due lacrime che mi rigano le guance.
Per la prima volta, dopo trent’anni, assaporo il piacere di sentire il dolore che evade dagli occhi e si dissolve nel vento.
«Credo di sì, amore mio.»
Mi abbracci. Con un gesto delicato mi volti verso il panorama infinito che si perde all’orizzonte.
Tra le serre e la tomba bianca uno stormo di Thestral si alza in volo.
«Sono bellissimi, non credi?» mi domandi con la testa appoggiata sulla mia spalla.
«Sì, lo sono.» ti bacio ancora la tempia.
«Ormai possiamo vederli quasi tutti. La morte non ha lasciato scampo a nessuno…» un velo di tristezza ti attraversa la voce. Lo riprendi quasi subito nel terrore che una qualsiasi cosa possa guastare questo momento in cui sono crollati castelli di disperazione costruiti in anni di solitudine e colpe inconfessabili.
«Sì, possiamo vederli quasi tutti.»

Lascia stare i morti, Severus. Guarda a quanta vita hai permesso di continuare ad esistere.

«Grazie a coloro che sono morti possiamo vedere ancora tantissimi vivi. Tantissime storie ancora da raccontare, tantissime albe libere nascere in fondo all’orizzonte, Hermione…» lo dico così piano che le mie parole rischiano di confondersi nel vento.
Ma tu le senti. Ti volti, sorridi.
Mi baci piano. Mi passi le dita tra i capelli.
«Ti amo, Severus.»
Sorrido anche io. Ti stringo in un nuovo abbraccio.
Lentamente mi volto verso il castello che è diventato la nostra casa. Un altro giorno rivendica il suo spazio nelle nostre vite. Un’altra normalità da assaporare fino in fondo.
Ti fermi sui tuoi passi un istante.
Distrattamente ti volti verso il confine del prato.
«Grazie, Albus…» sussurri fugacemente nell’alba che si sta trasformando in mattina.

Per l’ultima volta: addio, amico mio…

«Per l’ultima volta: addio, amico mio…» sono parole così sottili da poter assomigliare ad un pensiero fugace.
Eppure laggiù, nella tua tomba bianca, per un attimo, riesco a vederti sorridere.

FINE



Edited by biboarwen - 21/3/2022, 12:34
 
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view post Posted on 21/2/2022, 19:55
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Ellamadonna Bianca!
Già scritto! :lol:
Devo finire di leggere le storie di febbraio.
Stilare la classifica per gennaio e poi leggo questa.
Perdonami se non riesco subito
 
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view post Posted on 21/2/2022, 20:04
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CITAZIONE (ellyson @ 21/2/2022, 19:55) 
Ellamadonna Bianca!
Già scritto! :lol:
Devo finire di leggere le storie di febbraio.
Stilare la classifica per gennaio e poi leggo questa.
Perdonami se non riesco subito

Ma stai tranquilla, Elena. Io ho sfruttato la mia giornata in aeroporto e mi sono messa a scrivere. Per un volta che ho un po’ di tempo…
In questi giorni sarò parecchio in viaggio, quindi magari riesco a ritagliarmi qualche ora. Cerco di leggere tutto anche io 😜
La storia è qui. Io mi riservo il lusso di rivederla e correggerla quando il jet lag mi avrà abbandonata.
 
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view post Posted on 21/2/2022, 21:31
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Bellissima storia, Bianca! L'ho letta tutta d'un fiato e l'ho trovata bene scritta e capace di integrare gli elementi richiesti dalla sfida.
 
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view post Posted on 21/2/2022, 22:13
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CITAZIONE (Alaide @ 21/2/2022, 21:31) 
Bellissima storia, Bianca! L'ho letta tutta d'un fiato e l'ho trovata bene scritta e capace di integrare gli elementi richiesti dalla sfida.

Grazie mille! 😊
 
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view post Posted on 22/2/2022, 20:11
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Ho finito di scrivere la storia. La lascio riposare un giorno o due prima di rileggerla, cercare un titolo e postarla (sono molto, ma molto incerta di quello che è venuto fuori).
 
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view post Posted on 22/2/2022, 20:14
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CITAZIONE (Alaide @ 22/2/2022, 20:11) 
Ho finito di scrivere la storia. La lascio riposare un giorno o due prima di rileggerla, cercare un titolo e postarla (sono molto, ma molto incerta di quello che è venuto fuori).

Ti aspettiamo! Io sono curiosissima!!
 
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view post Posted on 22/2/2022, 20:32
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E vabbeh!
Siete avanti.
:lol: :lol:
 
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view post Posted on 23/2/2022, 21:37
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Ho riletto due volte la storia. Sono molto indecisa dell'escamotage che ho utilizzato per far capitare Severus di fronte all'arco di pietra, ma non sono riuscita a trovare di meglio.
Non sono nemmeno troppo sicura di aver dato il giusto spazio ad Albus. O meglio non sono per niente certa di aver ben centrato la sfida.
Vi lascio comunque alla lettura.

Autore/data: Alaide – febbraio/marzo 2022
Beta-reader: nessuno
Tipologia: One-Shot
Rating: Per tutti
Personaggi: Severus Piton, Albus Silente
Pairing: nessuno
Epoca: Post 7 anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: E da esso sembravano provenire delle voci indistinte.
La ferita pulsava, ma non ci fece caso, mentre cercava di distinguere qualcosa tra quei sussurri.
E gli parve di sentire il suo nome.

Nota: Storia scritta per l’iniziativa 15 anni con Severus. Sfida del mese di marzo. Scuola: Durmstrang.
Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.
Lunghezza: 28.437 caratteri

Voci



La ferita al collo pulsava.
Lo sentiva chiaramente, mentre sedeva sulla sedia dove due Auror lo avevano lasciato da pochi minuti. Non si erano nemmeno peritati di legarlo, ma, d’altronde, dovevano essersene accorti anche loro che non sarebbe riuscito a fare molti passi.
O forse avevano capito perfettamente che non aveva alcuna volontà di fuggire.
Non sapeva nemmeno perché lo avessero confinato lì dentro.
O meglio, gli avevano dato una spiegazione, quando lo avevano trasferito dal San Mungo, dove si era svegliato alcuni giorni prima dal breve coma dovuto al morso di Nagini. Aveva sentito vagamente, mentre lo facevano alzare dal letto, qualcuno che protestava in suo nome.
Ma non gli era importato.
Aveva ascoltato gli Auror spiegargli che non avevano spazio per tutti quelli che dovevano processare, che non li avrebbero trasferiti ad Azkaban fino a dopo il processo, che avevano dovuto addirittura chiedere agli Indicibili di utilizzare alcune stanze dell’Ufficio Misteri.
Poi lo avevano lasciato lì.
Poteva muoversi per la stanza, tentare di risalire i gradini da cui lui avevano fatto scendere a forza poco prima, andare fino al letto che avevano posizionato, come la sedia, proprio sotto ad una piattaforma di pietra.
Ma le sue forze erano poche e scarse e non aveva alcuna intenzione di inerpicarsi sulla piattaforma, né men che meno di risalire quella specie di anfiteatro che circondava l’arco.
Al San Mungo gli avevano detto che il suo corpo aveva risposto rapidamente alle cure, che era bastata poco più di una settimana perché riprendesse i sensi.
Non potevano fare nulla di più, gli avevano comunicato, senza troppi giri di parole, qualche giorno dopo il suo risveglio, prima che gli Auror lo venissero a prendere.
La ferita pulsava di un dolore sordo e costante.
Non si sarebbe mai rimarginata del tutto, lo avevano informato, senza fornire molte spiegazioni, per quanto non sarebbe stata nemmeno mortale [1].
Forse anche in quel momento, sotto le bende, stava sanguinando leggermente.
Ma non gli importava, non in quel momento, mentre sedeva solo, sotto la piattaforma, nella vasta stanza illuminata fiocamente. Guardò un attimo verso l’alto e vide, per quanto di sghembo, un arco di pietra, che appariva bisogno di un restauro, con un velo nero che pareva chiuderlo malamente.
Ne aveva sentito parlare da Silente, l’anno in cui Potter era caduto nella trappola ordita dall’Oscuro Signore e sapeva che Black era caduto oltre il velo e che era morto.
Si mosse sulla sedia, cercando di osservare meglio quel manufatto, ma da dove si trovava non riusciva a vedere l’arco nella sua interezza. Il velo era però ben più visibile e pareva ondeggiare appena mosso da un’aria invisibile.
E da esso sembravano provenire delle voci indistinte.
La ferita pulsava, ma non ci fece caso, mentre cercava di distinguere qualcosa tra quei sussurri.
E gli parve di sentire il suo nome.
Con ogni probabilità era unicamente un’illusione, uno scherzo giocato dalla mente e da quel posto spettrale, lugubre e nero come la morte che era stato certo di incontrare dopo che Nagini l’aveva morso.
Chiuse per un istante gli occhi, mentre le voci continuavano a sussurrare e quei sussurri gli parvero improvvisamente molto simili a quelli che aveva sentito un tempo a scuola, quando era ancora un ragazzo, quando stava già cadendo nel precipizio oscuro che l’avrebbe portato a credersi potente per poi scoprirsi null’altro che uno schiavo dell’Oscuro Signore.

Era il crepuscolo, quando raggiunse le serre.
Non sapeva nemmeno perché fosse arrivato fin lì, perché non fosse tornato nella sala comune di Serpeverde.
Forse voleva unicamente stare lontano dal mormorio della scuola.
Era soltanto il cinque settembre e già gli sembrava che fossero trascorsi anni. Lily non lo aveva degnato di uno sguardo, né sull’espresso, né a scuola. Non l’aveva nemmeno fissato con odio, né con disprezzo. Era come sei lui non esistesse.
Aveva sperato che avesse saputo della morte di sua madre, che questo la portasse almeno a rivolgergli una parola.
Ma nulla.
Se non un’indifferenza che era più crudele dell’odio.
Le serre erano silenziose al crepuscolo e questo le rendeva degli edifici confortevoli, un ottimo rifugio, in mezzo alle piante curate dalla Professoressa Sprite, in mezzo a quelle piante che sarebbero diventate degli ottimi ingredienti per qualsiasi pozione.
Aveva portato con sé il libro di Pozioni appartenuto a sua madre. Forse pensava di osservare una di quelle piante, sempre che fosse riuscito ad entrare in una di quelle serre. O forse l’aveva portato con sé come una specie di strana abitudine.
Una delle serre era illuminata e da dove si trovava riusciva a vedere oltre il vetro la sagoma della Professoressa Sprite e del Preside.
Si allontanò di qualche passo, sperando di non essere stato notato. Non sapeva nemmeno perché sentisse l’esigenza di allontanarsi. Non era ancora l’ora del coprifuoco e nulla gli vietava di trovarsi in quel luogo preciso, ma si sentiva reticente. Forse non voleva vedere gli occhi azzurri del Preside, forse non voleva che lo vedessero con quel libro di seconda mano tra le braccia.
Eppure, non fece nemmeno due passi, prima di fermarsi di colpo. Gli sembrò di essere osservato. Portò lo sguardo oltre il vetro della serra, ma il Preside e la Professoressa Sprite stavano ancora confabulando tra loro e nessuno dei due aveva voltato la testa.
Si guardò allora intorno e vide due occhi bianchi, privi di pupille, fissarlo. O forse non stavano nemmeno fissando lui, ma la luce fioca del crepuscolo.
Si voltò verso quegli occhi e fece un mezzo passo indietro, mentre cercava di mettere meglio a fuoco quella sagoma scheletrica.
Aveva visto l’illustrazione di un Thestral su un libro, ma non aveva pensato di vederne uno, anche se avrebbe potuto immaginarlo, considerando che aveva visto la malattia portarsi via sua madre. L’aveva trovata lui, morta, nel letto che Eileen condivideva con Tobias, fredda e pallida, ben più fredda e pallida di quanto non fosse mai stata prima.
Lo sguardo privo di pupille dell’animale lo rendeva inquieto, per quanto non provasse timore. Era uno sguardo di certo più neutro di quelli che incontrava a scuola e l’animale era, quanto meno, silenzioso.
Forse gli ispirava una certa inquietudine dovuta alla certezza che aveva già visto la morte, ma era un’inquietudine ben diversa da quella che provava abitualmente, in mezzo al continuo mormorio che attraversava la scuola e da cui si sentiva completamente lontano.


Ed i sussurri, provenienti dal velo, possedevano la voce della morte.
Severus si alzò lentamente dalla sedia e provò ad allontanarsi dalla piattaforma e da quel velo nero pieno di quei mormorii che lo avevano portato con la memoria a quei momenti lontani che, per anni, aveva quasi dimenticato.
Era malfermo sulle gambe, ma se lo aspettava dopo tanto tempo trascorso in un letto, per lo più incosciente. Sperava unicamente che si sbrigassero, che il suo processo si svolgesse quanto prima e che poi lo gettassero nella cella di Azkaban a cui sarebbe appartenuto.
Non si aspettava nulla di diverso.
Non si era nemmeno aspettato di vivere, se per questo. Al contrario, era sempre stato consapevole che le spie non sopravvivono alle guerre a cui partecipano. Invece era sopravvissuto. E non sapeva cosa farsene della vita in cui si ritrovava ad esistere.
Si trovava, in quel momento, dritto di fronte al velo che ondeggiava appena al di sopra della piattaforma, con la ferita al collo che pulsava e che sanguinava appena, forse.
Continuava a sentire i mormorii e gli parve, per un istante, che fossero quanto mai invitanti.
Forse poteva seguire quelle voci.
Forse poteva farla finita, salire sulla piattaforma ed incontrare la morte che l’avrebbe aspettato oltre il velo.
Il bruciore della ferita sarebbe scomparso, allora.
L’insopportabile consapevolezza di essere sopravvissuto, quando tanti altri, migliori di lui, erano morti sarebbe scomparsa per sempre.
Fece un passo in avanti, ma si fermò di colpo, prima ancora di provare a montare sulla piattaforma di pietra.
Gli parve, per un istante, che una delle voci prendesse forma e che gli fosse possibile distinguere alcune parole. Era come si sentisse dire cosa stai facendo?
Erano parole così simili ad altre pronunciate anni prima nella serra quattro di Hogwarts, quando era più giovane, quando la sua anima era già macchiata dalle scelte sbagliate e dal sangue versato.

«Cosa stai facendo?»
Il giovane uomo tentò di non mostrare che il Preside l’aveva colto di sorpresa.
Era notte fonda e non si aspettava che qualcuno si recasse nelle serre, dove si era rifugiato per fuggire ai suoi incubi, per metterli a tacere in mezzo agli odori, a volte pungenti, a volte dolci, delle piante presenti in quella particolare serra.
«La Professoressa Sprite mi ha detto che posso venire in qualsiasi momento nel caso mi occorrano degli ingredienti.»
Nel parlare si era voltato verso Silente. L’uomo lo stava osservando con attenzione, come se stesse valutando cosa fare di preciso di lui, come se si stesse chiedendo se, quando fosse giunta l’ora, avrebbe fatto veramente quello che aveva promesso il giorno in cui Lily era morta.
Silente non commentò le sue parole, ma a Severus pareva chiaro che non si fidasse di lui.
Ed era forse anche naturale che non lo facesse.
E non importava se Severus fosse certo che non avrebbe più ascoltato il richiamo velenoso dell’oscurità. Quello era ciò che lui sapeva con certezza, ma ciò di cui il Preside non poteva ancora essere del tutto certo.
E lui voleva che l’uomo arrivasse a fidarsi di lui, che arrivasse persino a stimarlo, che arrivasse, forse, con il tempo a considerarlo un amico o financo un figlio.


Non ricordava altro di quella notte, se non quel desiderio di trovare nel vecchio Preside una figura paterna, quella figura paterna che non aveva mai conosciuto in vita sua.
E, forse, anche in quel momento, anche se Albus era morto, anche se doveva portare il peso di quella morte sulla coscienza già carica di altre morti e di altre colpe, gli sembrava di voler cercare l’approvazione paterna.
Era un pensiero sciocco, lo sapeva, ma che gli diede la forza di non cedere alla tentazione della facile fuga.
Avrebbe sopportato la vita che si dipanava davanti a lui, in qualsiasi direzione lo avesse portato.
Ma non avrebbe scelto il suicidio. Anche se, in altre occasioni, ne fosse stato tentato, avrebbe resistito al suo richiamo. Forse, se non fosse stato certo del suo destino di futuro galeotto, avrebbe potuto immaginarsi intanto a portare avanti delle ricerche per capire se fosse possibile trovare un unguento, forse contenente erbe d’Arabia [2], che permettesse alla ferita di rimarginarsi.
Ma – e non si faceva illusioni in proposito – sarebbe finito ad Azkaban.
Non importava nemmeno quel che Potter avrebbe potuto dire davanti al Wizengamot – sperava almeno che non mostrasse al mondo i suoi ricordi, ma non aveva alcun controllo su quello che il ragazzo avrebbe potuto fare o non fare –, rimaneva il fatto che egli aveva commesso innumerevoli delitti.
Ed era certo che il Wizengamot avrebbe voluto che lui pagasse.
Alla fine di una guerra nessuno avrebbe avuto parole di assoluzione per una spia, che era diventata tale non perché il piano era stato fin dall’inizio quello di infiltrare qualcuno tra i nemici, ma perché era stata, un tempo, uno di questi.
Il Marchio Nero era stato inciso sul suo avambraccio perché aveva desiderato diventare un Mangiamorte in cerca di un riconoscimento che era stato sommerso dal sangue che aveva versato.
E Albus aveva sempre saputo quella verità.
L’aveva avuta sicuramente ben chiara quella volta quando lo aveva scrutato nella serra, a poco meno di un anno dalla morte di Lily.
E l’aveva avuta ben chiara in altre occasioni.
Forse, durante ogni singola parola che si erano scambiati.
I sussurri provenienti dal velo si erano quasi assopiti, in quel momento, mentre si sedeva sul letto che era stato posizionato poco distante da lui, sotto la piattaforma su cui si ergeva l’arco di pietra.
Il materasso era duro, non molto dissimile da quello su cui aveva dormito da bambino a Spinner’s End, quando aveva dato il nome di padre a Tobias.
Quello di Hogwarts era ben più confortevole. E quando era stato un insegnante aveva iniziato a pensare ad Albus come ad una sorta di padre.
Come era accaduto quella notte, poco prima che l’Oscuro Signore tornasse, quando il Marchio Nero diventava sempre più scuro, sempre più attivo.

Era notte e la serra era silenziosa. Le piante magiche parevano dormire tranquille nei loro vasi, perfettamente curate da Pomona. Ma lui non dormiva.
Al di fuori una sagoma si muoveva, scheletrica e nera, come il cielo privo di stelle e di luna.
Non l’aveva notata subito, quando aveva raggiunto quel luogo solitario, in cui, a volte, quando gli incubi diventavano troppo duri da sopportare, era solito rifugiarsi.
Non sapeva nemmeno come avesse fatto a notarla, nera com’era contro le sagome nere della notte.
Non era la prima volta che vedeva un Thestral e non sarebbe stata l’ultima.
L’animale lo stava fissando, o almeno così gli sembrava facessero i suoi occhi bianchi. Alcuni lo avrebbero detto un presagio di morte.
Ma per lui era unicamente il simbolo di ciò che era diventato per sua libera scelta.
Il primo lo aveva visto dopo la morte di sua madre e lo aveva reso inquieto.
Poi, ogni anno, da che era diventato insegnante ne aveva visto uno. E non era più la prima morte che aveva sperimentato a venirgli in mente, ma quelle di coloro che aveva ucciso.
E non mancava molto al momento in cui avrebbe rivisto altre persone morire, in cui avrebbe incontrato altre morti.
E anche le piante di quella serra, normalmente portatrici di profumi a volte discordanti, ma comunque sia, gradevoli, sembravano esalare l’odore nauseabondo della morte.
«Sei qui, Severus.»
L’uomo si voltò verso Albus. Aveva sentito aprire la porta della serra. Il Preside illuminò l’ambiente con la punta della sua bacchetta e, quella luce improvvisa dovette spaventare il Thestral che volò via verso la Foresta Proibita.
«Il Marchio è ancora più pronunciato oggi.»
Il Preside non disse nulla per diverso tempo. O, forse, non ce n’era bisogno. Entrambi sapevano cosa volesse dire quel fatto, lo sapevano da molti mesi ormai.
E Severus sapeva ciò che lui avrebbe dovuto fare, ciò che avrebbe dovuto dire all’Oscuro Signore e ciò che quei fatti avrebbero significato per la sua anima.
Si era preparato per anni all’ineluttabile ritorno dell’Oscuro Signore. Eppure, non era riuscito ad impedirsi, a volte, di sperare che Albus avesse sempre avuto torto. Aveva nutrito per qualche piccolo e breve istante l’inutile e sciocca speranza che l’Oscuro Signore se ne fosse veramente andato. Ma erano momenti brevi che svanivano subito e che, da mesi, erano stati resi vani.
«Quando sarà il momento, farò quello che devo.»
Non aveva bisogno di dirlo, ma sentiva il desiderio di capire se il Preside fosse giunto a fidarsi di lui, a considerarlo, forse, un figlio quanto lui lo considerava un padre.
«Di questo non dubito affatto, Severus.»


Ma lui aveva dubitato di sé stesso.
Non della sua volontà di combattere contro l’Oscuro Signore, ma delle sue capacità di riuscire a fare il lavoro che Silente si aspettava da lui. Aveva, in quegli anni di attesa, temuto di deludere l’uomo che aveva voluto vedere come un padre.
Invece, era stato fin troppo capace di fare quello che Albus voleva.
Lo aveva servito con lealtà, fino a spezzare ulteriormente la sua anima già lacerata dalle troppe colpe commesse.
Voltò il capo verso l’arco di pietra, verso i mormorii che sembravano ripetere la parola parricida, in una specie di cantilena inquietante.
Non sapeva nemmeno più se quelle voci fossero un frutto della sua immaginazione o se fossero reali.
Non sapeva nemmeno più quanto tempo fosse passato da quando lo avevano condotto lì dentro.
Per quel che ne sapeva potevano essere trascorsi alcuni minuti oppure delle ore o, financo, dei giorni.
Forse si trattava unicamente di una forma molto creativa di tortura.
Un modo per sostituire i Dissennatori che, gli avevano detto, non sarebbero più stati ad Azkaban.
Sentire – o credere di sentire – quei sussurri che parevano incrementare unicamente le sue colpe, era soltanto un modo diverso per accrescere la disperazione di un uomo.
Si spostò leggermente sul letto, cercando di ignorare il continuo pulsare alla ferita e il mormorio proveniente dal velo, ma non riuscì ad impedirsi di guardarlo.
Il velo si muoveva. Lo poteva vedere anche da dove si trovava.
Gli sembrava quasi di vedere le ali scarnificate di un Thestral.

Il Thestral lo osservava quasi con dolcezza, quando si avvicinò alla serra nelle ore del crepuscolo. Ma forse anche quel silenzioso animale, da tanti ritenuti un presagio funesto, l’avrebbe rifuggito dopo che avrebbe fatto ciò che doveva.
O forse il Thestral era soltanto una personificazione della morte, la nera raffigurazione delle sue colpe passate e delle sue colpe future.
Aprì la porta della serra.
Un tempo quel luogo gli aveva dato una parvenza di calma, con i suoi profumi, con i suoi colori, con la consapevolezza che vi avrebbe trovato molti degli ingredienti di cui aveva bisogno nei rari momenti liberi in cui riusciva a sperimentare.
Ma in quel momento riusciva unicamente a ricordare il giorno in cui Albus gli aveva chiesto di ucciderlo.
In quel momento tutto odorava di morte e decomposizione.
Non sapeva quanto tempo lo separasse da quel giorno, ma ogni minuto lo avvicinava al momento in cui avrebbe dovuto alzare la bacchetta e porre fine alla vita dell’uomo. Sapeva che Albus sarebbe morto comunque.
Ma, nonostante se lo ripetesse a volte per dare un po’ di pace al suo animo dilaniato, non riusciva ad impedirsi di pensare al giorno in cui avrebbe aggiunto anche quel nome a quello degli altri che aveva ucciso.
«Sapevo che ti avrei trovato qui.»
Sembrava quasi che Albus fosse stato chiamato nella serra dai suoi pensieri.
Il mago appariva particolarmente stanco quel giorno, ma i suoi occhi erano ancora lucidi e vigili, come sarebbero stati fino alla fine.
«Se sei venuto a chiedermi se farò ciò che vuoi, sai già la risposta.»
«Questo lo so, Severus.»
Le parole dell’uomo gli parvero incredibilmente dure. Il tono della voce era secco, quasi non volesse ritornare sull’argomento.
Avrebbe preferito qualcos’altro, anche solo una traccia di rimpianto per quello che gli stava chiedendo.
Invece, quando Albus si rimise a parlare fu per ritornare sopra altri dettagli della guerra sotterranea che si combatteva in quel momento e di quella più feroce e palese che si sarebbe combattuta nei mesi successivi.
E, mai come in quel momento, le piante sapevano di morte.


Dal velo gli parve di distinguere una sola voce.
Ed assomigliava a quella di Silente. Pareva quasi dirgli nuovamente di ucciderlo. Pareva quasi supplicarlo nuovamente di portare a termine quel tremendo compito.
Avrebbe voluto che quella voce illusoria gli dicesse che, nonostante le difficoltà e i fallimenti del suo anno da Preside, non aveva fallito, che, alla fine, era orgoglioso di lui.
Albus si era fidato di lui, ma non riusciva a comprendere se avesse mai provato altro nei suoi confronti.
Non riusciva a comprendere se si fosse reso conto che, chiedendogli di ucciderlo, gli stava domandando di compiere quello che per il suo animo era un parricidio.
Sperava che fosse così, ma gli sembrava che i sussurri provenienti dal velo gli stessero dicendo esattamente il contrario.
Gli sembrava che la sua vita fosse stata simile ad una lunga irrisoria ricerca di un padre.
E di non averne mai trovato uno, né nell’uomo con cui aveva condiviso il sangue, né nell’uomo che aveva scelto come padre.
La stanza parve quasi diventare più oscura, come cupi erano quei pensieri che si stava sforzando di scacciare.
La ferita pulsava sorda.
Severus allungò una mano e toccò i bendaggi che la coprivano e li sentì umidi.
Forse stava sanguinando anche in quel momento.
Si chiese se Albus avrebbe avuto parole di conforto nel vederlo in quello stato, ma Severus era certo che il Preside avesse creduto, come aveva fatto lui, che non sarebbe sopravvissuto alla guerra.
Forse al Preside non era nemmeno importato della sua improbabile sopravvivenza.
Per Silente non era stato altro che una delle tante pedine che aveva sapientemente mosso su una scacchiera chiara unicamente a lui.
E intorno a lui sembrò farsi notte, per quanto sapesse che era solo un’impressione generata dalla sua anima stanca.
Una notte triste, colma della consapevolezza delle proprie colpe.

Era notte fonda, quando uscì dal castello. Pomona non avrebbe di certo apprezzato di vederlo andare nelle sue serre. Un tempo gli aveva detto con un sorriso sulle labbra di raccogliere qualsiasi pianta gli servisse. Ma in quei giorni Pomona lo odiava, come Minerva, come tutti i suoi ex colleghi.
Come doveva essere.
Come Albus aveva, in fondo, voluto.
Gli aveva affidato l’impossibile missione di tenere al sicuro i ragazzi, senza che nessuno potesse realmente aiutarlo, senza che potesse, anche solo per un breve istante, condividere con qualcun altro il peso che gravava sulle sue spalle.
Sapeva che sarebbe stato gravoso, ma mai come in quei giorni si sentiva circondato dal velo opprimente della solitudine.
Le serre erano, come al solito, pacifiche, immerse nella luce della luna crescente.
Si avvicinò ad una di esse, quella che conteneva alcune piante esotiche, che Pomona non aveva mai fatto toccare nemmeno agli studenti che preparavano i M.A.G.O.
Forse avrebbe potuto perdersi tra i profumi di alcune piante balsamiche provenienti dall’Arabia e far riposare per qualche istante la mente.
Un tempo aveva parlato con Albus tra quelle piante.
Ma lui aveva ucciso Albus.
E non sapeva nemmeno se avrebbe veramente potuto riposare la mente tra quelle piante, se, anche in quell’occasione avrebbero avuto il profumo orribile della morte.
Prese in mano la bacchetta, pronto ad aprire la porta che, lo sapeva bene, Pomona teneva ben sigillata. Ma non lo fece.
Accanto a lui c’era una Thestral.
Si chiese per un istante se fosse sempre lo stesso. Quello che aveva visto anche da ragazzo.
L’animale lo stava fissando e Severus non poté impedirsi di cercare anche nel suo muso cadaverico i segni dell’odio che vedeva sul volto di quelli che erano stati, se non degli amici, quanto meno dei buoni colleghi.
Invece il Thestral non sembrava giudicarlo. Era semplicemente lì, solitario, con il suo muso dall’espressione triste, le sue ali nere e il suo corpo ossuto.
Era da anni che riusciva a vedere i Thestral che vivevano nella Foresta Proibita e che trainavano le carrozze della scuola e per anni si era limitato ad osservarli, a leggere in loro le sue colpe, le morti che aveva provocato.
Ma in quel momento, quando sulle sue mani era impresso il sangue di Albus, quando era diventato un parricida, gli parve che quel Thestral gli portasse in dono uno strano senso di comprensione. Forse, era quello il motivo per cui soltanto chi aveva vissuto la morte poteva vederli. Non erano una maledizione, quanto piuttosto un aiuto, una silenziosa compagnia dal volto triste, che partecipava del lutto che aveva colpito l’animo di chi li osservava. Un essere che condivideva il peso della morte con chi l’aveva toccata.
Si chiese se lo stesso valesse anche con chi aveva portato la morte.
Ma il Thestral non lo stava giudicando. Lo stava unicamente fissando con i suoi occhi bianchi e miti.
Allungò cauto una mano e sfiorò per un attimo il muso ossuto dell’animale.
Per ringraziarlo, forse, della sua muta presenza, della sua assenza d’odio e di pregiudizio.
Poi entrò nella serra.
E cercò quella stessa comprensione tra i profumi di quelle piante rare, ma non la trovò.
C’era unicamente l’odore della morte.
E la presenza ingombrante del vecchio Preside.
Gli pareva quasi di veder entrare Albus.
Gli parve quasi di sentirlo parlare, mentre gli spiegava perché dovesse ucciderlo, mentre ripercorreva con lui alcuni dei suoi piani per l’inevitabile guerra.
Ma sapeva che era unicamente un fantasma della sua immaginazione.
Quando uscì, pochi minuti dopo essere entrato, il Thestral era ancora lì e lo stava fissando con i suoi occhi tristi.
Non lo toccò di nuovo, ma si mosse verso il castello. Sentì alle sue spalle il rumore delle ali dell’animale e ne invidiò la libertà.


Per un istante a Severus parve che i sussurri provenienti dal velo lo irridessero.
Non sapeva nemmeno da dove nascesse quell’impressione, né per quale motivo avesse pensato a quella sera.
La ferita pulsava sorda e i sussurri provenienti dal velo parevano crescere di intensità.
Gli parve quasi che ripetessero il suo nome.
Ma sapeva che non aveva senso.
Era unicamente il suo passato a ripetere il suo nome. Gli pareva di sentire con chiarezza ogni singola parola pronunciata da Silente.
Gli pareva di poterne analizzare ogni minima sfumatura.
E gli ultimi brandelli di illusione si frantumarono.
Per tutto quel tempo si era attaccato all’idea che la fiducia di Albus equivalesse all’affetto di un padre.
Aveva creduto che il mago lo avesse visto come un amico.
Ma più ripensava, cullato dai sussurri lievi provenienti dal velo, a tutto quello che l’uomo gli aveva detto, più si rendeva conto di aver nutrito unicamente un’illusione.
Forse se n’era anche reso conto, ma non aveva voluto confessarlo a sé stesso.
Forse lo aveva capito quando gli aveva chiesto di ucciderlo, quando non gli era sembrato quasi importargli dell’ulteriore ferita che avrebbe inferto alla sua anima.
Eppure, aveva continuato a cullare quell’illusione, anche dopo aver ucciso Silente, anche quando aveva sfiorato il muso scheletrico di quel Thestral.
«Severus», la voce di Minerva lo colse di sorpresa. Era a tal punto immerso nei suoi fantasmi e nelle parole del passato che aveva perso il contatto con il presente. «Il processo è finito.»
Si voltò verso la strega, che lo stava fissando con qualcosa di molto simile al rimorso.
«Non avrebbero dovuto convocare l’imputato?»
«Siamo riusciti a convincere il Wizengamot a portare avanti un processo in absentia, a causa delle tue condizioni fisiche.»
Severus non commentò le parole di Minerva. Poteva quasi immaginare ciò che la strega non aveva affermato, il fatto che non si fidasse di quello che lui avrebbe potuto dire al processo. O forse credeva veramente che fosse troppo debilitato per reggere un interrogatorio.
La ferita pulsava, era vero e si sentiva debole, ma era certo che sarebbe riuscito a rispondere delle sue colpe.
«Ti hanno assolto.»
«Da tutte le colpe?»
Non aveva creduto possibile un’assoluzione. Aveva sempre dato per scontato di morire e, nel vago e improbabile caso di una sua sopravvivenza, aveva sempre creduto che sarebbe stato condannato, magari con delle attenuanti, almeno per l’omicidio di Albus.
«Sì. Hanno solo posto la condizione che tu risieda in un luogo in cui possano, se necessario, monitorarti, ma non sei nemmeno obbligato a rimanerci ogni singolo istante.»
Severus annuì, senza dire nulla.
Quando Minerva gli aveva annunciato la sua assoluzione, aveva ritenuto probabile che il Wizengamot imponesse una possibilità del genere, se non altro per quietare quella parte di opinione pubblica che non avrebbe visto di buon grado quella sentenza.
Notò che la strega sembrava voler aggiungere qualcosa, ma lui scosse il capo.
Per parlare ci sarebbe stato tempo, in un’altra occasione.
In quel momento avrebbe unicamente voluto ritrovarsi da solo per poter riflettere sulla vita che si trovava davanti.
Mentre seguiva Minerva, arrancando fino a che il velo e la piattaforma che si trovava sul fondo della sala non erano lontani, con i loro sussurri, si rese conto di quale fosse la sua vera condanna.
Il Wizengamot lo assolveva.
E lo condannava, al contempo, a vivere.
O, forse, quando avrebbe afferrato realmente la realtà della sua nuova situazione, sarebbe riuscito a fare qualcosa della sua vita.
Forse, alla fine, vivere non sarebbe stato realmente una condanna.
Per un istante, si chiese se Albus sarebbe stato soddisfatto di quell’idea appena ventilata, ma si rese conto che, in fondo, non gli importava più.
Lo aveva capito chiaramente durante quel tempo che non era riuscito nemmeno a quantificare: aveva creduto per anni di avere trovato se non un padre, almeno un amico in Albus, ma, alla fine, aveva unicamente incontrato un generale disposto a tutto pur di vincere la sua guerra.
Anche a sacrificare un’anima già spezzata.



---
[1] L’idea di una ferita che non si rimargina è ispirata al personaggio di Amfortas del Parsifal di Wagner.
[2] Anche l’unguento a base di erbe d’Arabia è stato ispirato dal Parsifal di Wagner. Viene proposto da uno dei personaggi per poter curare la ferita di Amfortas

Edited by Alaide - 14/3/2022, 19:57
 
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view post Posted on 28/2/2022, 11:22
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