Il Calderone di Severus

Alaide - Sonata in quattro movimenti, Tipologia: One Shot ( 500) - Genere: Drammatico - Altro Genere: Introspettivo Avvertimenti: Nessuno - Epoca: Post Malandrini - Pairing: Severus/Lily - Personaggi: Altro - Altri Personaggi: Nessuno

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view post Posted on 26/9/2017, 17:39
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Titolo: Sonata in quattro movimenti

Autore/data: Alaide – gennaio 2014
Beta-reader: nessuno
Tipologia: Breve storia a capitoli
Rating: per tutti
Genere: Drammatico, Introspettivo
Personaggi: Severus Piton
Pairing: Severus/Lily (sottinteso)
Epoca: Post Malandrini
Avvertimenti: Missing moments
Riassunto: Quattro brevi momenti della vita di Severus, dal momento in cui prende il Marchio Nero fino a quando decide di rivolgersi a Silente.

Nota: Storia scritta per il Gioco creativo n. 4 A ritmo di musica e partecipante al Gioco creativo n. 14, Severus House Cup.

Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.
Parole: 3120

Sonata in quattro movimenti



1. Da oscure potenze mi circondo



A quest’ora, la sua finestra è senza dubbio aperta, […]
Quando le foglie si muovono e sussurrano. […]
Ma io, di oscure potenze mi circondo;
La disperazione mi assale, lo scherno mi tortura.
O, nessun raggio trapasserà questa notte?
Regna dunque un cieco destino? […]
La disperazione mi assale, lo scherno mi tortura.(1)




La notte era calata da tempo sull’Inghilterra, avvolgendola come un manto. Era una notte senza luna, oscura, come le vesti che indossava.
Era una notte d’estate, ma spirava una brezza fredda.
Oppure era semplicemente lui a tremare, perché aveva preso una decisione e quella notte avrebbe reso definitiva quella scelta.
Severus respirò a fondo, poi riprese a camminare nell’oscurità della notte, rischiarata malamente dalla luce che emanava la punta della sua bacchetta.
Era una notte d’estate, una di quelle notti in cui Lily teneva la finestra della sua stanza aperta.
L’aveva vista tante volte, quand’era ancora suo amico, prima che la perdesse, prima che rovinasse l’unico raggio di luce che era rimasto nella sua vita.
Il raggio si era spento e nessuna luce illuminava la sua notte.
E nessuna luce l’avrebbe mai più illuminata.
Immaginò, mentre avanzava lento, la finestra della casa di Lily con i vetri aperti per far entrare la lieve brezza estiva, che smuoveva le foglie degli alberi.
Forse lei era in attesa, quella notte.
Forse stava presentando Potter ai suoi genitori.
Forse stava pensando a lui, affacciata alla finestra, illuminata dai lievi raggi della luna.
Non importava che quella fosse una notte oscura.
La luce doveva illuminare Lily, che era essenza di luce.
Ma l’oscurità illuminava il suo cammino e la sua anima.
Aveva compiuto una scelta ed in quella notte buia sarebbe diventato un Mangiamorte. E da quella notte sarebbe uscito circondato da oscure potenze.
Avrebbe ottenuto il potere, un potere – lo sapeva perfettamente – malvagio e distruttore.
Un potere che avrebbe messo fine allo scherno.
Un potere che avrebbe riempito il vuoto del suo cuore, quel vuoto che si era fatto insopportabile da quando Lily non illuminava più le sue giornate.
Avrebbe ottenuto il potere.
Avrebbe ottenuto la conoscenza.
Ed era nella conoscenza che risiedeva il potere più grande.
Era tramite la conoscenza – anche la conoscenza del male – che poteva diventare potente.
Era tramite la conoscenza che poteva ottenere la sua vendetta.
Aveva trascorso anni ad essere oggetto di scherno.
Aveva trascorso anni ad aggrapparsi alla speranza di un futuro illuminato dalla pura luce di Lily.
Non gli rimaneva, in quel momento, che l’oscurità e la notte.
Era forse quello il suo destino, fin da quando era stato messo al mondo, in una casa priva d’amore?
Era forse stato uno sciocco a sperare di poter sfiorare la luce?
Sarebbe entrato nella notte oscura a cui apparteneva, da cui non aveva mai potuto risollevarsi.
Avrebbe posto fine allo scherno, unendosi ai Mangiamorte.
Avrebbe posto fine alla disperazione che gli riempiva il cuore ogni qualvolta pensasse a Lily e a quello che aveva perso.
Lo attendevano potenze oscure e dannate.
Lo sapeva perfettamente.
Non era uno sciocco e non si illudeva circa quello che avrebbe significato diventare un Mangiamorte.
Ma era un prezzo che era disposto a pagare.
Il prezzo per la suprema conoscenza.
Il prezzo per ottenere un potere che non aveva mai posseduto.
Il prezzo per avere la propria possibilità di vendicarsi.
Nessuna luce avrebbe illuminato la sua vita, nemmeno se lo avesse chiesto, nemmeno se lo avesse desiderato.
In quel momento, la luna doveva illuminare la casa di Lily, nel centro della cittadina dove erano cresciuti. E la sua finestra doveva essere aperta, per far entrare la brezza estiva.
Riuscì quasi a figurarsela addormentata, serena e bella, mentre i rami degli alberi sussurravano per non destarla.
Un lampo squarciò improvvisamente l’oscurità che circondava Severus.
Quella era l’unica luce in cui poteva sperare, si disse, scacciando quell’immagine dalla mente, sentendo però in bocca il sapore amaro del vuoto che regnava nel suo animo.
La luce della tempesta.
La luce della morte.
Una luce terribile, che gli avrebbe dato ciò che desiderava.
La conoscenza del male ed il potere oscuro che da questa derivava.

(1) I Versi sono tratti dall’Aria di Max nel Freischuetz di Carl Maria von Weber. Riporto di seguito la versione originale tedesca:
Jetzt ist wohl ihr Fenster offen, […] / Wenn sich rauschend Blätter regen, / […] Doch mich umgarnen finstre Mächte! / Mich fasst Verzweiflung, foltert Spott! O dringt kein Strahl durch diese Nächte? Herrscht blind das Schicksal? […] / Mich fasst Verzweiflung foltert Spott!



2. E mentre uccido, io piango



Un dì m’era di gioia
Passar fra gli odi e le vendette,
Puro, innocente e forte.
Gigante io mi credea…
Son sempre un servo!
Ho mutato padrone.
Un servo obbediente di violenta passione!
Ah, peggio! Uccido e tremo,
E mentre uccido io piango! (2)



Era una fredda giornata invernale.
Dai vetri, appannati e sporchi, vedeva la neve depositarsi sul terreno. Non erano fiocchi bianchi, come quelli che aveva visto a Hogwarts il gennaio dell’anno precedente. I fumi delle fabbriche li ingrigivano, così come era ingrigita la sua anima.
Severus trasse un sospiro, che produsse una nuvoletta di vapore.
Non si era nemmeno preoccupato di riscaldare la casa di Spinner’s End. Vi si era unicamente rintanato, quel giorno, dopo che aveva visto morire una famiglia la notte precedente.
Dopo che aveva ucciso una madre.
Avrebbe quasi voluto che la sua vita terminasse in quel momento.
Ma sapeva che era impossibile.
Cercò con tutte le sue forze di non portare lo sguardo sul braccio sinistro, sul quale, celato dal tessuto nero, campeggiava il Marchio Nero.
Aveva compiuto la sua scelta, alcuni mesi prima.
Aveva raggiunto la maturità e, raggiungendola, si era dannato.
Non si era mai fatto illusioni circa ciò che quella scelta comportasse. Sapeva che avrebbe dovuto compiere delle azioni orribili, ma non gli era importato.
E tentava, in quel momento, con le grida delle vittime della notte precedente ancora ben fisse nella sua mente, di convincersi che non gli importava affatto.
Aveva ricercato la gloria ed il potere. Si era sentito forte, nei primi tempi. Aveva provato quel senso di onnipotenza che si sperimenta quando si può disporre a proprio piacimento di un’altra vita. Era precipitato da un delitto all’altro, assaporando il potere, sentendosi un gigante.
Ma in quel momento tremava d’orrore, per quello che aveva fatto e per quello che aveva visto.
Non sapeva perché fosse stata proprio la tortura e l’uccisione di quella famiglia ad averlo colpito tanto, a farlo vacillare.
Forse era perché avevano ucciso un bambino che non aveva mai fatto nulla di male a nessuno. Forse era perché la donna che aveva torturato ed assassinato aveva lo sguardo simile a quello di sua madre, in quelle rare occasioni in cui gli aveva raccontato una fiaba, quand’era un bambino che ancora sapeva sognare.
Non lo sapeva, ma in quel momento i delitti che aveva commesso lo colpivano con forza, al punto che dovette appoggiarsi alla parete, accanto alla finestra.
Aveva ricercato la conoscenza – forse era stato quello più di ogni altra cosa a spingerlo –, il sapere assoluto.
Ed aveva trovato la conoscenza, si disse, ma non quella che aveva sempre desiderato.
Era giunto a conoscere l’odore della morte.
Aveva imparato a togliere una vita.
Aveva compreso quanto fosse facile uccidere, una volta che lo si è fatto una prima volta.
Ma non v’era alcuna gloria in quella conoscenza.
In quel momento si sentiva invece senza più forze e si rendeva perfettamente conto che la strada che aveva scelto era una strada senza via d’uscita.
In quel momento comprendeva fino a che punto si era irrimediabilmente lordato l’anima.
In quel momento possedeva la conoscenza di cosa volesse dire essere uno schiavo.
Gli sembrava quasi di aver mutato padrone. Era passato dalle umiliazioni della sua adolescenza alla servitù assoluta ad un signore privo d’anima e di pietà.
Era diventato schiavo perché aveva voluto seguire la sete di rivalsa, la sete di conoscenza, l’odio.
Non era altro che un servo dell’Oscuro Signore, legato in catene impossibili da spezzarsi.
Incatenato.
Per sempre.
Udì nuovamente le grida della famiglia morta la notte precedente, mentre la neve continuava a cadere al di fuori.
E sentì lacrime amara come il fiele colargli lungo le guance pallide.
Sentì il sapore salato della colpa.
E comprese con pienezza di aver gettato la sua vita.
Uccideva.
E dopo aver ucciso, piangeva.
Aveva già ucciso in precedenza, ma aveva celato persino a se stesso il dolore che infliggeva alla sua anima. Aveva ignorato la sofferenza che lo spezzava sempre di più. Aveva finto di non provare altro se non l’inebriante sapore del potere.
Ma in quel momento il potere aveva un sapore amaro.
Il sapore delle sue lacrime, lacrime che avrebbe dovuto celare al suo padrone e al mondo.
Non v’era alcuna grandezza in quello che aveva fatto della sua vita.
L’aveva sempre saputo, ma non aveva voluto ammetterlo.
Aveva volutamente ignorato il senso di malessere fisico che provava dopo ogni delitto.
Aveva ignorato la realtà della sua vita.
Aveva ignorato di essere diventato il peggiore degli esseri.
Un assassino.
Uno schiavo.
Si era incatenato ad una vita da cui non v’era via di scampo. Avrebbe continuato ad uccidere.
E la sua anima avrebbe continuato a lacrimare per quei delitti.

(2) I versi sono tratti dall’Aria di Carlo Gérard tratta dall’Andrea Chénier di Umberto Giordano.


3. Ed io deforme, orribile così





Come splendido e grande il sol tramonta! […]
Natura! Oh sei pur bella!
Sei pur bella e stupenda; ed io deforme,
Orribile così! (3)


Il sole al tramonto tingeva di rosso le acque del fiume e chiazzava le foglie degli alberi.
In quel momento persino la ciminiera della vecchia fabbrica sembrava scomparire. Era la natura a prendere il sopravvento.
La sua incredibile bellezza.
E per un istante Severus si perse nella contemplazione di quel paesaggio noto, di quel paesaggio dove aveva trascorso tante giornate in compagnia di Lily.
Anche allora la natura gli era parsa bella e si era voluto illudere di farne parte.
Ma non era per lui quella bellezza.
Non era per lui la grandiosità del sole al tramonto, che riusciva a rendere bello quel fiume inquinato e quegli alberi che lottavano ogni giorno per non soccombere ai fumi delle fabbriche.
Mai come in quel momento toccò con mano la sua deformità.
Una deformità che partiva dal braccio sinistro e dal suo orrido Marchio, per poi risalire in ogni parte del suo corpo.
Si era votato alla magia oscura, all’assassinio, alla tortura.
Era diventato un essere orribile.
Qualcuno che pareva ancora più orribile se paragonato allo splendore della natura.
Aveva volutamente distrutto la sua vita. Se n’era reso pienamente conto in una fredda giornata di gennaio.
Era precipitato in un baratro tinto di un rosso ben diverso, rispetto a quello splendido del tramonto.
Il rosso del sangue.
Un rosso che gli macchiava le mani sempre più di sovente.
E la natura così bella e stupenda lo rigettava.
Non apparteneva alla bellezza.
Non era mai appartenuto alla bellezza.
Era solo un essere orribile, con l’anima deformata da ciò che aveva commesso e da ciò che avrebbe commesso in futuro.

Al delitto incatenato,
dalla terra io son reietto,
maledetto io son dal Ciel.


Si osservò le mani pallide, su cui si posò un raggio fiammeggiante del sole al tramonto.
Era il rosso del sangue.
Era il rosso dei delitti.
Si era incatenato alla morte e alla distruzione.
E non poteva nemmeno trovare giustificazioni perché sapeva che non ne aveva.
La scelta che aveva compiuto era stata libera. Nessuno l’aveva costretto. Avrebbe potuto terminare la scuola ed iniziare un’onorata carriera. Avrebbe potuto fare molte cose, ma aveva scelto di diventare un Mangiamorte, di farsi marchiare come uno schiavo sul braccio, di uccidere e portare distruzione.
Ed ora, che vedeva fin dove era precipitato, sapeva di non poter tornare indietro.
Non v’era alcuna possibilità.
Era incatenato.
Per sempre.
Sarebbe stato fedele compagno del delitto.
E non importava se, una volta giunto a casa, si ritrovasse sempre più spesso a vomitare.
Non importava se sentiva la sua anima spezzarsi ogni volta.
Non importava se era giunto a maledirsi.
Era incatenato al delitto e non poteva infrangere la sua catena.
Non avrebbe mai potuto.
Gli parve che la terra, chiazzata dal rosso del sole del tramonto, volesse rigettarlo, perché un mostro come lui non era degno di calpestarne il suolo.
E gli sembrò che dal cielo piovesse una voce che lo maledicesse.
E quel luogo, che fino a pochi istanti prima, gli era sembrato testimone della bellezza della natura, gli sembrò diventare un inferno.
Un tempo aveva amato quel luogo e vi si era recato, quel giorno, nella speranza di trovare un attimo di quiete – per quanto avesse saputo fin dall’inizio che era un desiderio impossibile -, ma in quel momento i ricordi dei giorni vissuti con Lily erano simili ad una pugnalata.

Se mi corre a te la mente,
pesa più la mia catena.


Gli parve per un istante di riascoltare la voce di Lily, la sua voce di quando era bambina, di un tempo lontano e perduto per sempre, unicamente a causa della sua cecità.
E quel pensiero parve sovrastarlo ed avvolgerlo, al pari della luce del sole al tramonto.
E quel pensiero lo schiacciò come un macigno.
Gli parve di sentire una catena stringerlo intorno al colo, come un prigioniero.
Come uno schiavo.
Prigioniero delle sue stesse sventurate scelte.
Schiavo di un padrone che ordinava morte e distruzione e al quale, egli, da bravo servo, obbediva ogni volta.
Non aveva nessun’altra possibilità.
Non dopo la scelta che aveva compiuto.
L’immagine di Lily, così pura ed innocente, non faceva altro che centuplicare il peso di quella catena che lo incatenava al delitto e alla morte.
Aveva scelto l’oscurità e ne pagava il prezzo.
Avrebbe potuto scegliere, se non la luce, per lo meno una vita non deforme, com’era diventata la sua.
Sentì la bile montargli in gola, mentre vedeva dinnanzi a sé gli occhi verdi di Lily, immersi nella luce del sole al tramonto.
E sentì il peso della catena dello schiavo gravargli ancora di più sulle spalle.
Ma dovette ingoiare la bile, quando il marchio della sua schiavitù bruciò dolorosamente.
Lanciò un’ultima breve occhiata al fiume inondato dagli ultimi raggi del sole, prima di andare dal quel padrone che lo teneva per la catena di una schiavitù che lui stesso aveva scelto.

(3) Questi versi e quelli incastonati nel testo sono tratti dall’Aria di Carlo Moor presente ne I Masnadieri di Giuseppe Verdi.



4. Affranta è l’alma dalla lotta crudel




Né gustar m’è dato
Un’ora di quiete; affranta è l’alma
Dalla lotta crudel.
Pace ed oblio indarno io chieggo al Cielo. (4)



Avrebbe voluto unicamente dimenticare tutto.
Forse nell’oblio avrebbe potuto trovare la pace, ma sapeva che quell’oblio non sarebbe mai arrivato. Avrebbe potuto anche pregare, come gli aveva insegnato la nonna quand’era piccolo, ma sapeva che sarebbe stato inutile.
Non v’era alcuna possibilità di giungere all’oblio.
Non v’era alcuna possibilità di trovare un solo momento di quiete.
E non era nemmeno quello che desiderava veramente, per quanto la sua anima fosse ormai esausta, straziata dal male che aveva scelto e dal senso di colpa che provava.
Si era dannato con le sue stesse mani.
Aveva desiderato il potere e la conoscenza.
Aveva incontrato la morte e la consapevolezza di cosa volesse dire uccidere.
Si era incatenato ad una vita da schiavo, soggetto ad una terribile volontà, votata al male.
E se n’era reso conto quand’era troppo tardi.
Non poteva tornare indietro e, così, era andato avanti. Aveva continuato ad uccidere, aveva proseguito, da bravo schiavo, a tentare di compiacere il suo padrone. Aveva perseverato sulla strada terribile che aveva scelto.
Ed ora tutto gli si riversava addosso.
Avrebbe voluto dimenticare gli ultimi giorni, perché nell’oblio avrebbe potuto trovare la pace. Sarebbe stato facile e bello addormentarsi e risvegliarsi senza sapere nulla di quello che si era fatto. L’aveva anche desiderato quella notte, prima di coricarsi.
Ma il sonno aveva portato unicamente incubi ed il risveglio gli aveva ricordato come quegli incubi fossero la vita che aveva scelto.
Severus lanciò un’occhiata al di là della finestra chiazzata di schizzi d’acqua avvelenata dalle esalazioni delle ciminiere.
Ma non vide nulla.
Se non la desolazione che era la sua anima straziata dalla lotta interiore.
Anche la sua anima era inquinata come la zona industriale della cittadina dov’era nato e cresciuto, una zona ben diversa da quella dov’era nata e cresciuta Lily.
Sentì il sapore amaro della colpa montargli in gola, mentre gli appariva davanti agli occhi l’immagine di Lily.
Avrebbe voluto dimenticare di aver origliato alla Testa di Porco. Avrebbe voluto lasciar cadere nell’oblio il modo in cui aveva riferito quel troncone di profezia al Signore Oscuro.
Ma l’oblio sfuggiva e non sarebbe mai arrivato.
La quiete non era fatta per lui e la sua anima straziata.
Aveva rivelato la profezia, come uno schiavo avrebbe fatto con il suo padrone. Anche quando lo stava facendo, sapeva di condannare qualcuno.
Ma lo aveva fatto, perché ancora desiderava il potere, nonostante lo strazio a cui sottoponeva la sua anima ed il suo cuore.
Nonostante ciò che quel desiderio gli aveva portato.
Lo aveva fatto ed aveva condannato il figlio di Lily.
Ed aveva condannato Lily.
Avrebbe voluto dimenticare il modo in cui aveva supplicato l’Oscuro Signore il giorno prima. Il modo in cui si era umiliato per chiedere che risparmiasse Lily, senza aver l’assoluta certezza che il suo padrone l’avrebbe realmente accontentato.
Ma non poteva dimenticare.
Non poteva trovare pace, né un’ora di quiete.

Or che mi resta! Pietoso Iddio
Tu ispira, illumina il mio pensier…
Al chiostro, all’eremo, ai santi altari
L’oblio, la pace chiegga il guerrier.


Cosa gli restava ora?
Un’anima straziata, portata alla distruzione dalle sue scelte terribilmente sbagliate.
La consapevolezza di aver condannato, nonostante ciò che gli aveva detto l’Oscuro Signore la notte precedente, la donna che amava.
La certezza di non poter mai trovare la pace.
Non aveva via di scampo.
Non l’aveva mai avuta dal giorno in cui il Marchio Nero era stato inciso sulla pelle del suo braccio.
Chiuse per un istante gli occhi, come in cerca di una risposta, di una luce che potesse illuminare il suo pensiero, che potesse indicargli una strada, un modo per poter salvare Lily, un modo per poter salvare quel che restava della sua anima straziata.
Ma non v’era alcuna luce per lui.
Non v’era alcun raggio che potesse illuminare il suo destino.
Aveva intrapreso una strada da cui non v’era ritorno.
Un lieve raggio di sole si fece improvvisamente strada tra le nuvole grigiastre di quella giornata. E per un breve istante gli parve che quel raggio di sole che gli sfiorava parte del viso, potesse essere la luce che aveva invocato.
Sapeva che quel percorso, illuminato dalla flebile luce del giorno, sarebbe stato un percorso che l’avrebbe portato alla morte.
Ma non temeva la propria morte, quanto piuttosto quella che avrebbe potuto dare.
Forse esisteva un modo.
Forse avrebbe potuto salvare Lily, salvare almeno una vita tra tante altre che non aveva nemmeno tentato di salvare.
Sentì nuovamente la bile montargli in gola.
Era unicamente un dannato egoista. Avrebbe potuto vedere quel percorso prima. Avrebbe potuto prendere quella decisione prima, ma, all’epoca non aveva visto alcuna via di fuga.
O forse, non l’aveva voluta vedere.
Si sarebbe rivolto ad Albus Silente.
Nel Preside di Hogwarts, in colui che guidava gli oppositori al suo padrone, poteva risiedere l’unica speranza.
Se lo fosse stato ad ascoltare, quell’uomo avrebbe potuto salvare Lily.
Gli sembrò di essere come un pellegrino, in cerca di un rifugio.
Aveva letto quand’era un ragazzo, diversi romanzi dove era presente la figura di un pellegrino penitente che arrivava, dopo lunga tribolazione, alla pace del chiostro.
O a quella della tomba.
Forse era anche quello il suo destino.
Forse rivolgendosi a Silente, avrebbe potuto fare come quei pellegrini e raggiungere l’oblio e la pace.
Non sapeva nemmeno come fare a raggiungere quel nuovo scopo.
Non sapeva nemmeno che parole usare.
Non sapeva nemmeno come sarebbe stato accolto.
Ma sperava che il Preside lo stesse ad ascoltare.
Ma sperava che il Preside potesse salvare Lily.
In quel momento sentì il suo animo attraversato dalla paura di quello che sarebbe accaduto, se fosse riuscito ad incontrare Silente.
Deglutì a vuoto.
Forse era una scelta suicida, ma non aveva nessun’altra possibilità per ovviare ad almeno uno dei suoi terribili errori.
Non aveva altra possibilità che diventare una nero pellegrino – simile a quelli di cui aveva letto durante la sua giovinezza in vecchi libri Babbani trovati nella soffitta di quella stessa casa – e rivolgere i suoi passi al chiostro.


(4) Questi versi e gli altri che si trovano nel testo sono tratti dal Terzo Atto de La Forza del Destino di Giuseppe Verdi. Non sono riconducibili ad un numero preciso dell’opera, ma fungono da brevi riflessioni di Alvaro prima e dopo il duetto con Carlo di Vargas.
 
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