Il Calderone di Severus

Alaide - Poema sinfonico in un prologo e quattro parti, Tipologia: Storia a Capitoli - Genere: Drammatico - Altro Genere: Introspettivo Avvertimenti: AU - Epoca: Post 7 anno - Pairing: Nessuno - Personaggi: Pers. Originale - Altri Personaggi: Nessuno

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view post Posted on 25/9/2017, 17:31
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Titolo:Poema sinfonico in un prologo e quattro parti


Autore/data: Alaide – luglio 2014
Beta-reader: Chiara53
Tipologia: Storia a capitoli
Rating: Per tutti
Personaggi: Severus Piton, Personaggio Originale
Genere: Introspettivo, Drammatico
Pairing: nessuno
Epoca: Post 7 anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: Il primo ricordo del suo risveglio fu un bicchiere d’acqua.
Nota: Storia scritta per la Sfida n. 7 (disciplina Nuoto) e partecipante al Gioco Creativo n. 14 Severus House Cup.

Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.
Parole: 6890



Poema sinfonico in un prologo e quattro parti





Prologo



San Mungo, dicembre 1998

Il primo ricordo del suo risveglio fu un bicchiere d’acqua.
Qualcosa di semplice, di quotidiano.
Di banale, quasi.
Ci sarebbe stato chi avrebbe detto che l’acqua è fonte di vita e, per un sopravvissuto, ricevere come prima cosa un bicchiere d’acqua sarebbe stata la cosa più logica e naturale.
Ma quell’acqua, si rammentò Severus, pochi giorni dopo la fine del coma a cui l’aveva costretto il morso di Nagini, aveva un sapore strano.
Il sapore di una sopravvivenza non voluta, né cercata.
Il sapore di una sopravvivenza in cui non aveva mai creduto.
La vita era una gran bastarda, si disse.
Gli aveva promesso la morte, nella Stamberga Strillante, poi, con un colpo d’ali, gliel’aveva negata.
Che razza di vita lo avrebbe atteso, poi?
Quale scopo avrebbe avuto la sua vita futura, quando lo avrebbero dimesso dal San Mungo?
Nessuno.
Non c’era vita per chi aveva ucciso e torturato.
Non c’era vita per una spia.
Nelle guerre le spie morivano e venivano dimenticate.
Ed era quello che sarebbe dovuto accadere anche a lui.
Invece era sopravvissuto.
Ma poteva ancora sperare di essere dimenticato.
Ma poteva ancora sperare di morire rapidamente.
Era sopravvissuto per miracolo. Di certo il suo corpo si era indebolito e, con ogni probabilità, la sua vita sarebbe stata più breve di quella di un mago privo di una tale terribile esperienza.
Aveva corteggiato la morte, ma non era riuscito ad averla.
Ed ora era vivo, ma non sapeva cosa farsene della sua vita, di quella vita che non desiderava, ma che avrebbe comunque portato avanti, perché non avrebbe mai nemmeno preso in considerazione l’idea del suicidio.
Non aveva mai, nemmeno nei momenti più cupi e disperati, cercato di porre fine alla sua vita.
E non lo avrebbe fatto nemmeno in quel frangente.
Sarebbe semplicemente andato avanti, sopravvivendo giorno dopo giorno, nella sua casa di Spinner’s End.
Sapeva che non ci sarebbe stato il carcere per lui, per quanto sarebbe stato il luogo in cui avrebbe dovuto concludere la sua terribile esistenza.
Aveva sentito parlare tra loro i Guaritori, quando pensavano che non lo stessero ascoltando.
Ed era giunto ad alcune logiche conclusioni.
Sapeva di essere stato assolto dal Wizengamot, per quanto una decisione del genere gli risultasse inspiegabile.
E sapeva che il suo sistema nervoso era terribilmente compromesso, al punto che i Guaritori credevano che non potesse più essere totalmente autosufficiente.
Ma soprattutto sapeva cosa sarebbe diventato.
Un caso umano.
Un delinquente non condannato.
Oppure una patetica figura con una patetica storia ed un ancor più patetico futuro.
Un futuro senza scopo.
Un futuro dal sapore strano, il sapore di una sopravvivenza non voluta, né cercata.
Un futuro che aveva lo stesso sapore dell’acqua che aveva bevuto poco dopo il suo risveglio.


La giovane donna rimase a lungo in disparte, mentre osservava i movimenti dei Guaritori nella stanza dalla soglia dell’uscio della stanza dove era stato ricoverato Severus Piton.
Sapeva che l’uomo sarebbe stato affidato alle sue cure.
Non c’era nessuna ragione particolare, a dire il vero.
Non aveva studiato per prendersi cura di un uomo che non poteva più camminare.
Non aveva studiato per assistere i feriti o i disabili.
Il suo desiderio, prima della guerra, era stato di diventare una ricercatrice. In quel momento, ciò che aveva sognato un tempo non era importante.
Era riuscita semplicemente ad ottenere quello che voleva.
D’altronde non aveva dovuto penare molto, considerando che nessuno voleva caricarsi di quell’onere.
Aveva dovuto unicamente dimostrate il suo interessamento per convincere i Guaritori.
Era stato facile come bere un bicchier d’acqua.

Parte I



Spinner’s End, febbraio 1999

Un bicchier d’acqua stava appoggiato sul tavolo, i raggi pallidi del sole invernale giocavano con il liquido trasparente e con il vetro.
Ma, a Severus, non sembrava che questo portasse alcuna reale luce all’interno della casa dov’era nato e dove stava vivendo, relegato su una sedia, a causa del morso di Nagini che aveva compromesso il suo sistema nervoso.
I Guaritori erano riusciti a tenerlo in vita, a sconfiggere la morte che lo aveva quasi afferrato.
Ed ora viveva in quella casa desolata, da cui non poteva muoversi.
Da cui non aveva alcuna intenzione di muoversi.
Era certo che, anche se fosse stato perfettamente autosufficiente, la sua vita non sarebbe stata molto differente.
Si sarebbe ritirato comunque nella casa di Spinner’s End.
Avrebbe comunque vissuto una non vita in compagnia dei fantasmi del suo passato.
Delle morti che aveva causato.
Delle sofferenze che aveva provocato.
Non vi sarebbero state differenze, lo sapeva.
Avrebbe unicamente avuto il lusso della più completa solitudine.
Doveva invece sopportare la presenza della donna che il San Mungo aveva messo a sua disposizione, perché lo aiutasse.
La sua era una situazione inaudita nel Mondo Magico, dove certe situazioni ben presenti tra i Babbani parevano impossibili.
Ma il morso di quel maledetto serpente non era qualcosa a cui si potesse facilmente sopravvivere, ancor meno se si rimaneva a lungo sulle soglie della morte, prima di essere trasportato al San Mungo.
E questo gli impediva di rimanere nel bozzolo della solitudine che desiderava e a cui era abituato.
Con la mente e l’animo immersi nel passato, senza riconoscere il presente o il futuro.
D’altronde non v’era alcun vero futuro per lui, di questo era più che certo.
Traendo un lieve sospiro, allungò una mano verso il bicchiere e bevve un sorso d’acqua.
Nella sua bocca non sentì freschezza, ma soltanto tutta l’amarezza delle sue colpe, dei suoi peccati, dei suoi errori che non sarebbero mai stati perdonati.
Non v’era perdono per lui, né dalla comunità magica.
Men che meno da se stesso.
Men che meno dalla giovane donna che era andata a comprare alcuni libri nella rinata Diagon Alley.
E non v’era perdono nemmeno in quell’acqua dal sapore amaro.
Sapeva che quel sapore era dovuto unicamente al suo imperituro senso di colpa, ai delitti che aveva commesso durante la sua vita, agli sbagli che aveva fatto.
Era la voce della sua coscienza a parlare attraverso quel bicchiere d’acqua.
Eppure l’acqua era fonte di vita.
Avrebbe dovuto dargli nuova linfa vitale e non farlo sprofondare nella più profonda depressione.
Farlo cadere in un baratro, sul cui fondo stavano le vittime che aveva assassinato, le quali tendevano verso di lui le loro mani scheletriche, come a voler indicare al mondo le sue imperdonabili colpe.
E tutto quello si trovava in quell’acqua, che la donna gli aveva posto accanto prima di andare in cerca dei libri che le aveva chiesto.
Quell’acqua era specchio dell’immobilità del suo presente e del suo futuro.
Avrebbe anche potuto farvi cadere dentro del veleno, ma rifiutava ancora il suicidio, come aveva sempre fatto, per quanto vi fossero dei momenti in cui l’idea si presentava alla sua mente e pareva sedurlo, come non aveva mai fatto, quando aveva dovuto affrontare momenti ben peggiori di quello che stava vivendo.
Ma forse, in quel momento, in cui non aveva alcuno scopo, in cui sopravviveva senza vivere, vedeva quanto inutile fosse divenuta la sua vita.
E mai, come in quelle lente giornate, pesava su di lui la sporcizia della sua anima, il sangue delle sue vittime, il fardello dei suoi errori.
Bevve un’alta sorsata d’acqua.
E l’amarezza tornò a riempirgli la bocca.
Avrebbe potuto essere anche l’amarezza del veleno.
Era unicamente, invece, l’amarezza del veleno della sua vita.
E l’arrivo della giovane donna con i libri che era andata ad acquistare non dissipò quella terribile sensazione.
«Stanno ricostruendo Diagon Alley ad una velocità impressionante.» commentò la nuova arriva, posando i volumi sul tavolo, accanto al bicchiere ormai vuoto.
Severus non rispose, limitandosi ad annuire.
Per quel che lo riguardava, più quella donna taceva, meglio era. Non aveva di certo bisogno delle chiacchiere petulanti di quella che era stata una Corvonero silenziosa e stancamente diligente.
Quando l’aveva rivista, il giorno in cui era stato dimesso dal San Mungo, quasi non si ricordava più di lei. Abigail Shadow non era una persona che spiccava tra la massa e forse il suo cognome le rendeva giustizia. Non sapeva nemmeno cosa avesse scelto come carriera una volta terminata Hogwarts sei anni prima.
E francamente non gli interessava.
«Vuole dell’altra acqua?» domandò Abigail osservando per qualche istante l’uomo.
Si era ormai abituata ad una certa routine nella sua nuova vita nella squallida casa di Spinner’s End. Aveva imparato a parlare poco, come pareva desiderare l’uomo e quel silenzio era stranamente confortante.
Non avrebbe dovuto, forse, ma lo era, in una certa strana misura.
«No.» rispose soltanto l’uomo.
La giovane annuì soltanto, lasciando vagare per qualche istante lo sguardo sul volto pallido dell’uomo che, un tempo, aveva chiamato professore.
Poi si allontanò da lui, facendo qualche lento passo, prima di fermarsi.
«Sono felice che lei sia sopravvissuto.» disse in un soffio, prima di proseguire rapidamente il suo cammino.
Severus non disse nulla alle parole della signorina Shadow.
Era una frase priva di senso, dettata da una malriposta pietà, con ogni probabilità.
Ed anche quella parole avevano qualcosa di amaro proprio come l’acqua intrisa di colpa che aveva appena bevuto.


Abigail si fermò soltanto quando si ritrovò nella piccola cucina della casa di Spinner’s End. Si sfregò nervosamente le mani, chiedendosi se avesse fatto bene a dire quelle parole, proprio in quel momento.
Era forse stata una mossa azzardata.
Non riusciva a comprenderlo, ma era certa che presto o tardi avrebbe dovuto dire quelle poche frasi.
In fin dei conti, si disse, mentre si versava un bicchier d’acqua, corrispondevano alla più assoluta e semplice verità.
Era effettivamente felice che l’uomo fosse sopravvissuto.
Non aveva mentito e sapeva perfettamente che, con qualcuno come Severus Piton sarebbe stato impossibile mentire.
Aveva detto la pura e semplice verità, per quanto non sapesse se avesse fatto bene a farlo.
Bevve una lunga sorsata d’acqua.
Ne sentì la freschezza.
Ne sentì la dolcezza.
Ne sentì l’amarezza.
Quell’acqua era come il suo irremovibile proposito.
Era dolce e amara.
Come la vendetta.

Parte II



Spinner’s End, marzo 1999

Quando fu sola, Abigail Shadow buttò giù un sorso d’acqua, cercando di vincere il nervosismo e l’ansia che le riempivano l’animo.
Non sapeva da dove le venissero quell’ansia e quel nervosismo, ma nondimeno li provava e le sembrava di ritrovarli nell’acqua fresca che stava bevendo.
Avrebbe già dovuto agire da tempo, lo sapeva perfettamente, ma non riusciva mai a trovare il momento giusto.
Forse temeva di fallire.
Forse si stava affezionando al silenzio confortante che circondava l’uomo di cui si stava occupando.
Posò con forza il bicchiere sul tavolo, facendo ondeggiare l’acqua che ancora vi stava dentro.
Le parve di vedere in quella superficie fluida un cedimento nel suo giusto proposito.
Buttò giù un altro sorso d’acqua.
E la trovò nuovamente fresca.
E la trovò nuovamente dolce.
E la trovò nuovamente amara.
Sentì ancora una volta il sapore della vendetta.
Doveva portare avanti quello che aveva iniziato, per quanto non sapesse ancora che giorno avrebbe scelto per porre fine alla vita del Mangiamorte che sedeva in un’altra stanza.
Sapeva che, con ogni probabilità, non era stato Severus Piton a compiere fisicamente l’atto, ad uccidere la sorella e il marito.
Ma non importava.
Non era affatto giusto che quell’uomo, quell’assassino fosse sopravvissuto, che fosse stato assolto, quando Antonia e Philip erano morti, loro che non avevano alcuna colpa, loro che non meritavano di lasciare anzitempo il mondo.
Sapeva anche che la morte di Piton non avrebbe riportato in vita la sorella ed il cognato, che non avrebbe restituito una figlia ai suoi genitori, che non avrebbe ridato una madre e un padre ai suoi nipoti, che erano vivi unicamente perché, quel giorno, si trovavano ad Hogwarts.
Eppure sentiva il dovere di vendicare quelle morti.
Sentiva la dolcezza e l’amarezza della vendetta, quella stessa dolcezza e quella stessa amarezza che aveva bevuto, nel suo animo e nella sua mente.
E soprattutto sapeva che Severus Piton era stato preside di Hogwarts e che Claire e Thomas avevano sofferto enormemente durante quell’anno terribile.
I suoi nipoti non avevano meritato tutta quella sofferenza.
E quell’uomo, sopravvissuto ed assolto, era stato compartecipe del loro patire.
Le avevano raccontato gli incubi che li avevano tormentati durante tutta l’estate. Erano due ragazzini smarriti, privi di genitori, privi della pace, perché nel Mondo Magico esistevano uomini come Severus Piton, uomini malvagi che riuscivano con abili menzogne a rimaner fuori dal carcere.
Quel criminale era riuscito ad ingannare anche Harry Potter.
E quello era un pensiero inquietante.
Finì, affannosamente, l’ultimo sorso d’acqua.
E percepì nuovamente il nervosismo e l’ansia che aveva tentato di scacciare poco prima.
Forse era nervosa e ansiosa perché non aveva mai ucciso nessuno, perché non aveva mai nemmeno immaginato di poter uccidere qualcuno.
Ma doveva farlo.
Avrebbe vendicato Antonia e Philip.
Avrebbe vendicato Claire e Thomas, che avevano perso l’innocenza dell’infanzia, che erano diventati adulti quando avrebbero dovuto ancora pensare unicamente a giocare.
Deglutì, lisciandosi appena la veste, mentre prendeva in mano un bicchiere pulito.
In gola sentì il retrogusto lasciato dall’acqua che aveva bevuto.
Era il gusto dolce e amaro della vendetta.
E presto l’avrebbe compiuta.


Severus Piton non riusciva a concentrarsi sulle pagine del raro libro di pozioni che si era fatto procurare dalla signorina Shadow.
La sua mente non riusciva a far altro che vagare verso il passato, verso quelle notti passate insonni, su volumi altrettanto rari, per trovare un’impossibile cura per Silente.
Il senso di colpa, reso più forte dalla sua sopravvivenza, lo stava avvolgendo come un manto strettissimo ed asfissiante.
Non avrebbe dovuto essere vivo.
Ed era certo che molti all’interno del Mondo Magico la pensassero nel medesimo modo.
Però era sopravvissuto ed era suo dovere continuare a sopravvivere.
Bevve un sorso dell’acqua che gli aveva portato la signorina Shadow che stava scrivendo una lettera, poco distante da lui.
Come altre volte l’acqua aveva il sapore amaro della colpa, un sapore che si faceva sempre più terribile, al punto che gli parve che quell’acqua sapesse di morte.
Forse l’acqua che stava bevendo, voleva invitarlo a compiere un atto che aveva sempre escluso.
Forse quell’acqua era una sirena che parlava di suicidio, di incontrare finalmente la morte, nella speranza di trovare la pace, allora.
Nella speranza di poter rivedere Lily.
Nella speranza di poter rivedere Silente.
Scosse il capo infastidito, prima di ritornare sulla pagina che stava leggendo, ma qualcosa gli impedì di proseguire.
Il silenzio della stanza si era fatto più pesante ed intenso.
Non si udiva più nemmeno il rumore della penna sul foglio di pergamena.
L’uomo alzò il capo e notò che la signorina Shadow non stava più scrivendo.
La donna stava osservando quella pagina come se da questa dipendesse la vita di qualcuno. La penna giaceva abbandonata accanto alla pergamena, notò poco dopo, mentre prendeva nuovamente in mano il bicchiere.
Fu solo a causa del silenzio, si disse più tardi, che udì il singhiozzo soffocato della giovane donna, che parve amplificarsi nell’assenza di altri rumori, fino a confluire nell’acqua che parve concentrare in sé, quando ne bevve un sorso, le lacrime della signorina Shadow.
L’amarezza era sconvolgente.
E l’acqua sapeva di colpa.
E l’acqua sapeva di morte.
Severus era cosciente che, in quel momento, mentre lo colpiva la realizzazione che forse quella donna aveva perso qualcuno durante la guerra, se nel bicchiere si fosse trovata una sostanza velenosa l’avrebbe ingoiata senza battere ciglio per poi attendere l’arrivo liberatorio della morte.
Forse Abigail Shadow aveva avuto un parente ucciso.
Forse poteva averlo ucciso egli stesso.
O forse non era riuscito ad evitarne la morte.
Era colpevole anche nei confronti di quella donna che aveva rispettato il suo silenzio, che si era occupata di lui, in quei mesi, con tranquilla cura, che gli aveva detto – e nelle sue parole non aveva percepito alcuna falsità – di essere felice della sua sopravvivenza.
La signorina Shadow parve riscuotersi e riprendere a scrivere, ma la penna non scorreva con regolarità e, osservandola con maggiore attenzione, Severus notò che il suo corpo era scosso da un singhiozzo silenzioso.
Abigail avvertì lo sguardo di Piton su di sé e tentò di frenare le lacrime, senza molto successo.
Avrebbe dovuto versare il veleno nel bicchiere da cui l’uomo beveva, quando ne aveva avuto l’occasione, ma non l’aveva fatto.
Non voleva commettere un omicidio il giorno che precedeva il compleanno di Claire a cui stava scrivendo una lettera.
Ma le parole le uscivano lente, difficoltose, in quel momento.
Ed inghiottiva, di tanto in tanto, una lacrima amara, come la vendetta che voleva compiere, amara come la vita che stava conducendo in quel momento, amara come il veleno che avrebbe somministrato a Piton quando sarebbe stato il momento giusto.
L’uomo la stava ancora guardando.
Doveva aver notato che stava piangendo.
Forse quell’assassino stava intimamente godendo della suo debolezza, così come doveva aver goduto della debolezza delle vittime che aveva ucciso.
Si asciugò con rabbia le lacrime, cercando di ricacciare indietro quelle che dovevano ancora scendere.
In altri anni, avrebbe preparato il compleanno di Claire con Antonia e, soltanto due anni prima, aveva scritto insieme alla sorella una lettera per la ragazzina, che stava frequentando il suo primo anno ad Hogwarts.
Ma Antonia era morta e non rimaneva che lei a scrivere quelle poche righe.
Un’altra lacrima le bagnò le labbra.
E sentì il dolore della perdita.
E la volontà di vendetta farsi più forte e potente.
Non avrebbero mai dovuto mandare i ragazzi a Hogwarts l’anno scolastico precedente. Anzi Antonia e suo marito avrebbero potuto andarsene, come avevano suggerito i genitori di Philip, dall’Inghilterra e raggiungere il continente dove sarebbero stati più sicuri.
Ma scioccamente avevano pensato che a loro non potesse accadere nulla.
Non erano Nati Babbani e l’ultimo matrimonio con un Babbano nella sua famiglia retrodatava a quattro generazioni prima.
Philip aveva creduto che non potesse accadere nulla di grave, che se avessero tenuto la testa bassa nessuno avrebbe nuociuto ai ragazzi, né a loro. Seguendo quel ragionamento aveva mandato Claire e Thomas a Hogwarts, raccomandando loro di non contraddire nessuno, di rimanere in disparte.
Ma si era drammaticamente sbagliato.
Claire era stata la più colpita dei due.
Abigail non aveva mai capito per quale motivo fosse stata presa di mira dai fratelli Carrow.
La nipote non ne aveva mai parlato, nemmeno quando l’era andata a cercare dopo uno di quegli incubi che le impedivano di dormire. Forse era stata la sua mitezza e la sua gentilezza a metterla nei guai, forse quei mostri non avevano nessun motivo reale per tormentare degli innocenti.
E l’uomo che la stava fissando in quel momento era stato il preside che aveva permesso che Claire avesse quegli incubi.
Abigail ingoiò le ultime amare lacrime, che risuonavano del terrore degli incubi della ragazzina e del volto pallido di Thomas.
Firmò rapidamente la lettera e si alzò in piedi.
Soltanto allora si voltò verso Piton e ne osservò il volto reso ancora più pallido dai capelli neri.
Non riuscì a leggerne l’espressione, ma le parve che nei suoi occhi ci fosse qualcosa di strano, qualcosa che non riusciva a comprendere.
O che forse non sapeva comprendere.
Qualcosa di molto simile al tormento di chi è torturato dal senso di colpa.

Parte III



Spinner’s End, 27 marzo 1999, ore 10,00

L’acqua luccicava alla luce del sole primaverile, che pareva rendere meno grigie le case di Spinner’s End. L’aria stessa sembrava essere meno soffocante ovunque, tranne che nella casa di Piton.
L’uomo sedeva, come ogni giorno, intento a leggere un libro.
Un bicchier d’acqua accanto.
Da quel giorno in cui Abigail Shadow aveva pianto, nulla era parso cambiare in quella silenziosa routine che era diventata abituale nella casa di Spinner’s End.
Eppure l’atmosfera si era fatta più pesante, quasi l’abitazione fosse in attesa di qualcosa.
Di un’azione.
Di un gesto
Di una parola.
Severus aveva riflettuto a lungo sulla donna ed aveva ricordato che la giovane aveva una sorella maggiore, di nove anni più vecchia di lei.
Antonia Shadow.
Era stata sua studentessa il primo anno che aveva insegnato.
Non ricordava granché di lei, ma forse non c’era nulla da ricordare.
Era possibile che quella donna fosse morte o che fosse morto il fidanzato di Abigail.
E, con ogni probabilità, era in quella perdita che doveva ricercare il motivo della presenza della giovane, della sua volontà strenua di occuparsi di lui.
Era un particolare, quello, che aveva scoperto pochi giorni prima, quando un Guaritore del San Mungo era venuto a controllare che il suo fisico non avesse ricevuto altri contraccolpi dal morso di Nagini.
Severus aveva sempre creduto che Abigail Shadow ricoprisse un ruolo assistenziale all’interno dell’ospedale magico.
Invece, a quanto gli aveva spiegato il ciarliero Guaritore, – un Tassorosso che aveva incrociato qualche volta durante i primi due anni della sua vita da studente – la signorina Shadow aveva seguito una carriera nella ricerca, appena conclusa Hogwarts. Ed aveva scelto un campo ben lontano dalla medicina, decidendo di occuparsi di antichi manoscritti magici.
Il Guaritore gli aveva detto che, per quanto fossero rimasti stupiti della volontà della giovane donna, in un momento come quello, con ancora molti pazienti ricoverati in seguito alla guerra, avevano gradito un aiuto esterno.
Severus si lasciò sfuggire uno stanco sospiro.
Ripensando alle poche parole che aveva scambiato con la giovane e al modo con cui, alle volte, lo osservava, si era fatto un’idea ben precisa dei suoi scopi.
Sempre che la sua intuizione iniziale fosse esatta.
Sempre che quelle lacrime amare fosse frutto di una perdita dolorosa.
Prese in mano il bicchiere d’acqua e lo osservò con attenzione.
Il liquido era limpido, immacolato.
Ben diverso dalla sua anima oscura.
Ben diverso, con ogni probabilità, anche dall’anima di Abigail Shadow, sempre che le due idee fossero realistiche.
Prima di portarlo alle labbra, lo annusò appena.
Era inodore.
O forse odorava di una purezza che non gli era mai appartenuta.
Di una pace che non avrebbe mai raggiunto, nemmeno nei suoi sogni più fantasiosi ed ottimisti.
Ne bevve un sorso.
Non v’era alcun sentore nell’acqua, se non l’abituale amarezza della colpa.
L’amarezza per le vite che aveva distrutto.
L’amarezza per le numerose scelte sbagliate che aveva compiuto.
Era amara come la morte.
E credeva di aver compreso che la donna aveva voluto occuparsi di lui per poterlo uccidere, per potersi vendicare.
Non aveva dovuto far altro che osservarne con attenzione il volto, dopo che il Guaritore gli aveva spiegato il motivo della sua presenza in casa sua.
V’erano momenti in cui gli sembra incredibilmente tesa e nervosa.
V’erano momenti in cui sul suo viso dolce si faceva strada un’espressione dura e risoluta.
V’erano momenti in cui gli era parso di leggere il desiderio di vendetta nei suoi occhi nocciola.
Ingollò un altro sorso di acqua.
E la sua bocca seppe, ancora una volta, dell’amarezza della morte.
Forse quel liquido puro era stato macchiato da un veleno inodore e insapore, per quanto i veleni magici avessero tutti un retrogusto ed un effluvio ben particolare e facilmente riconoscibile.
Ma, anche se così fosse stato, ne avrebbe bevuto ugualmente.
L’idea della morte lo chiamava e lo affascinava.
Eppure non aveva il coraggio – o la vigliaccheria – di potersi dare la morte. Riusciva unicamente a formulare l’idea terribile persino ai suoi stessi occhi di non far nulla se qualcuno avesse deciso di ucciderlo per compiere una giusta vendetta.
Bevve un altro sorso d’acqua.
L’amarezza che sentì in bocca era quasi insopportabile.
Sapeva che non era l’amarezza di un veleno.
Era unicamente l’amarezza soffocante della colpa.
E la colpa sembrava sormontarlo, come un gigante che sta per schiacciare sotto il suo piede un piccolo essere che si dibatte inerme.
Ed egli era inerme di fronte alla sproporzione di quello che di terribile aveva compiuto.
Ed egli un piccolo essere colmo di vigliaccheria nei suoi ultimi cupi pensieri.
La verità lo travolse come la corrente di un oceano tempestoso.
Quei pensieri lo stavano trasformando in un mostro peggiore di quello che già era.
Se quell’acqua fosse stata avvelenata e ne avesse bevuto, avrebbe reso quella giovane donna un’assassina, avrebbe permesso che si macchiasse l’anima, come egli stesso se n’era macchiato.
Era stato a tal punto immerso nel suo passato, nel suo senso di colpa, in se stesso, da non rendersi conto delle conseguenze che l’accettazione della morte, che aveva fortunosamente evitato nella Stamberga Strillante, avrebbe condannato al delitto un’anima innocente.
Avrebbe dovuto fare in modo, si disse, mentre posava il bicchiere ormai vuoto sul tavolo, di evitare che Abigail Shadow portasse avanti il suo proposito, sempre che i suoi sospetti fossero fondati.


Spinner’s End, 27 marzo 1999, ore 17,00

Abigail sentiva il nervosismo aumentare ogni giorno di più. V’erano momenti in cui non riusciva a fermare il tremito delle mani, nemmeno in presenza di Piton.
Il giorno precedente, quando gli aveva portato un bicchiere d’acqua, aveva quasi rovesciato il liquido, nel posarlo sul tavolo.
Non vi aveva ancora messo il veleno che aveva portato con sé e che teneva, ben chiuso nella sua boccetta, in una tasca della veste.
Eppure era come se l’avesse già fatto.
O, per lo meno, nella sua mente il desiderio a lungo coltivato sembrava simile ad una realtà che ancora non si era verificata.
Per tentare di calmarsi bevve un sorso d’acqua.
E le sembrò che quel liquido incolore le volesse comunicare qualcosa.
Non vi sentiva più la dolcezza dei giorni passati.
La dolce ebrezza della vicina vendetta.
Non riusciva più a sentirla, dal giorno in cui aveva scritto quella lettera a Claire.
Ed ancor meno dal momento in cui le era giunta la risposta.
La nipote sembrava più tranquilla e le chiedeva se stesse lavorando ad una nuova ricerca, se avesse sotto le mani un nuovo antico volume che le avrebbe permesso di formulare teorie circa l’evoluzione del pensiero magico.
Claire non era al corrente della sua decisione, così come ne erano all’oscuro i suoi genitori.
Forse erano le menzogne che aveva scelto di raccontare a coloro che amava ad aver sottratto dolcezza alla vendetta che aveva progettato.
Forse era quello che aveva scorto nello sguardo di Piton, il giorno in cui l’aveva sorpresa a piangere.
Per un istante il suo proposito vacillò.
Avrebbe potuto andarsene e non commettere alcun delitto.
Avrebbe potuto affrontare l’uomo di cui si era occupata in quei mesi, in cui aveva atteso il momento opportuno per colpire.
Avrebbe potuto confidarsi con i genitori e chiedere loro consiglio.
Sentì le mani sudarle leggermente.
Non doveva far altro che mettere il veleno nel bicchiere d’acqua che gli avrebbe portato in quel momento e tutto sarebbe finito.
Avrebbe vendicato la morte di Antonia e Philip.
Avrebbe vendicato le sofferenze di Claire e Thomas.
Con ogni probabilità non si sarebbe sentita meglio, ma avrebbe, almeno, rimediato all’ingiustizia che voleva quell’assassino libero e assolto da ogni colpa.
Deglutì a vuoto, la gola secca.
Bevve un altro sorso d’acqua.
E la sentì amara, d’un amarezza che non aveva creduto possibile.
Era l’amarezza della vendetta.
O forse si trattava dell’amarezza dovuta alla consapevolezza che avrebbe, presto, tolto una vita?
Eppure aveva fatto in modo di trovarsi in quella casa unicamente a quello scopo.
Aveva sopportato la presenza di quel Mangiamorte unicamente per poterlo uccidere.
Ma non sentiva più, nell’acqua, la dolcezza che vi aveva percepito tante altre volte.
Non percepiva più la dolce ebrezza della vendetta che voleva compiere.
Forse avrebbe dovuto desistere.
Era un pensiero che le ronzava nella mente da quel giorno in cui si era messa a scrivere la lettera a Claire, un pensiero che aveva tolto qualsiasi dolcezza all’acqua e che l’aveva resa nervosa ed insicura.
Si era messa, da allora, ad osservare meglio quell’uomo, a cercare tracce di quello che le era sembrato di vedere nel suo sguardo.
A voler essere sincera con se stessa, non era stata cosciente di quello che cercava, allora.
Era una consapevolezza che l’aveva colpita in quel momento, dopo che l’acqua le era sembrata così incredibilmente amara.
Lo aveva osservato ed aveva notato quanto, alle volte, mentre leggeva uno dei libri che gli posava sul tavolo, sembrasse impiegare un tempo incredibilmente lungo prima di voltare pagina.
Non poteva immaginare a cosa stesse pensando, perché l’espressione del volto era impossibile da leggere, ma v’erano momenti in cui le era parso di vedere nuovamente nei suoi occhi neri il tormento della colpa.
Forse avrebbe dovuto lasciar perdere ed andarsene.
Forse quello che aveva creduto di vedere negli occhi di Piton era vendetta sufficiente.
Tirò fuori dalla veste la boccetta di veleno, un liquido incolore che ben si sarebbe fuso con l’acqua.
E provò la volontà improvvisa di disfarsene.
Ma ricordò il volto sofferente di Antonia, quando ne aveva visto il cadavere.
E ricordò gli incubi di Claire e gli occhi tristi di Thomas.
Non importava cosa le dicesse l’acqua.
Doveva fare quello per cui era venuta e doveva farlo quel giorno, prima che la risolutezza le venisse meno.
Prese in mano un bicchiere e vi versò dentro il liquido, sperando che fosse insapore come le aveva garantito il negoziante di Nocturn Alley che glielo aveva venduto.

Parte IV



Spinner’s End, 27 marzo 1999, ore 17,30

Il sole della mattinata aveva lasciato spazio a cupe nubi che si erano fatte più incombenti man mano che la giornata proseguiva. In quel momento la pioggia cadeva fitta picchiettando contro la finestra della casa di Spinner’s End.
Severus chiuse stancamente il libro che stava leggendo, quando udì i passi della signorina Shadow.
Notò subito che la giovane donna era decisamente nervosa, al punto che la mano, che reggeva il bicchiere, stava tremando.
Il tempo parve scorrere improvvisamente lento, mentre l’uomo osservava con attenzione il volto mortalmente pallido di Abigail.
Era giunto alle sue conclusioni troppo tardi e troppo tardi aveva compreso che avrebbe dovuto tentare di impedire alla giovane di diventare un’assassina.
Per quanto non ne fosse assolutamente certo, il modo di avanzare della signorina Shadow, lo sguardo che si fissava ovunque tranne che su di lui, il tremore della mano erano tutte prove che i suoi sospetti erano fondati.
Abigail si fermò di colpo a metà strada.
La mano che reggeva il bicchiere era terribilmente sudata e le stava tremando.
La giovane avrebbe voluto che così non fosse, ma era troppo nervosa perché fosse altrimenti.
O forse quel sudore e quel tremito erano dovuti al fatto che Piton la stesse fissando con attenzione.
In quel momento le parve di essere un libro aperto, al punto che temette che l’uomo potesse aver compreso tutto.
Fece un passo avanti, scacciando quel pensiero dalla testa, ma si bloccò subito dopo.
Sentiva ancora l’amarezza incredibile dell’acqua che aveva bevuto pochi minuti prima.
La mano le tremò ancora di più, quando incontrò per un breve istante lo sguardo di Piton.
E comprese che quella non era affatto l’amarezza della vendetta.
Era il senso di colpa che si era fatto strada in lei, la consapevolezza che sarebbe diventata uguale all’assassino che voleva eliminare.
Deglutì a vuoto, senza sapere cosa fare.
Avrebbe voluto fuggire.
Avrebbe voluto andare avanti col suo progetto omicida.
Avrebbe voluto unicamente tornare indietro nel tempo, ai giorni in cui un progetto del genere non sarebbe nemmeno sorto nella sua mente.
Il bicchiere cadde a terra con un tonfo sordo, spargendo l’acqua avvelenata sul pavimento.
Abigail rimase immobile, come impietrita.
Non sapeva cosa fare, né cosa dire.
Forse non doveva fare e dire nulla.
Forse doveva semplicemente raggiungere la porta e lasciare quella casa, senza dare una sola spiegazione.
Sentì le lacrime bagnarle le gote, per quanto non sapesse nemmeno perché stesse piangendo.
Forse piangeva per chi non era riuscita a vendicare.
Forse piangeva per se stessa, che era stata così vicina a commettere un omicidio.
Forse piangeva per quell’uomo invalido, nei cui occhi aveva creduto di leggere il tormento della colpa.
«Non avrei bevuto.»
La voce di Piton squarciò il silenzio che si era avvolto sulla casa come un manto, ovattando anche il rumore insistente della pioggia che ticchettava contro vetro della finestra.
Abigail avrebbe voluto negare tutto, ma le era chiaro che era inutile. L’uomo doveva aver intuito la verità. Forse si era tradita in qualche modo. Forse Piton aveva utilizzato metodi poco ortodossi per poter carpire i suoi segreti.
Non importava.
Il bicchiere giaceva in frantumi a terra.
L’acqua avvelenata sparsa sul pavimento pareva corroderlo.
«Io…» mormorò. Una lacrima amara le rotolò in gola. «Non avrei… io…»
Non sapeva cosa dire, né cosa fare.
In quel momento sentiva unicamente piombare su di sé l’enormità di quello che era stata in procinto di compiere.
E sentiva soltanto l’amarezza salata delle sue lacrime.
Come avrebbe potuto abbracciare nuovamente Claire e Thomas, sapendo che era stata ad un passo dal diventare un’assassina?
E non importava se il sangue di colui che stava per uccidere non era il sangue di un innocente.
Non importava, si ripeté, senza badare a quello che stava facendo l’uomo, che sedeva a pochi passi da lei.
Non notò il momento in cui estrasse la bacchetta ed in cui congiurò, dalla cucina, due bicchieri ed una bottiglia d’acqua, la stessa che la giovane aveva usato poco prima.
«Venga, signorina Shadow.»
Abigail tornò improvvisamente in contatto con la realtà. E notò la bottiglia aperta e l’uomo che stava versando l’acqua nei due bicchieri.
Una parte di lei avrebbe semplicemente voluto uscire dalla casa e tentare di dimenticare, ma, facendosi forza, decise di andare a sedersi dall’altra parte del tavolo.
Per diverso tempo l’unico rumore che si udì nella stanza era il ticchettio della pioggia contro il vetro. Abigail ebbe unicamente la forza di allungare una mano verso il bicchiere e di bere un sorso d’acqua.
Sentì, in quel momento, soltanto la freschezza della bevanda.
Non era amara, né dolce.
Ma semplice acqua che servì a chetare le lacrime che continuavano a scorrere lungo le sue gote.
Forse l’acqua aveva cercato di dirle qualcosa, si disse per quanto quel pensiero le parve sciocco ed ingenuo.
Eppure aveva sentito dolcezza ed amarezza nell’acqua ed aveva creduto di riconoscervi la vendetta che aveva deciso di compiere.
Ed aveva poi percepito unicamente quella terribile amarezza che l’aveva portata a dubitare ed infine a desistere.
In quel momento, invece, l’acqua era fresca, insapore, come avrebbe dovuto essere, quasi che, facendo cadere quel bicchiere, avesse riportato la natura al suo giusto aspetto, alla sua giusta percezione.
«Come è riuscito a capirlo?» domandò, infine, rompendo il silenzio.
«Dalle lacrime che ha versato scrivendo una lettera, dal suo crescente nervosismo, signorina Shadow.»
Severus non aggiunse altro. Non ce n’era bisogno, così come la donna non aveva sentito la necessità di spendere inutili parole.
«Volevo vendicarmi. Sono venuta qui, ho chiesto di occuparmi di lei per poter portare a termine la mia vendetta.» iniziò a dire Abigail.
L’acqua che aveva bevuto le aveva dato un’improvvisa chiarezza e lucidità. Forse era stata la sua freschezza, forse le parole brevi e secche che aveva pronunciato l’uomo. Non lo sapeva, ma credeva di dover una spiegazione a Piton, per quanto lo ritenesse un assassino, un bastardo che avrebbe fatto meglio a ritrovarsi in una cella ad Azkaban in quel momento.
«Non so nemmeno se lei abbia partecipato all’uccisione di mia sorella e di mio cognato. Forse li ricorda. Ha insegnato ad entrambi. Antonia e Philip Ward. Eppure sentivo che la sua assoluzione fosse una burla nei loro confronti, che dovessi agire io dove la giustizia aveva fallito. Poi…» Abigail si interruppe, umettandosi appena le labbra. «… poi i loro figli… i miei nipoti erano a Hogwarts quando lei era preside. Claire e Thomas hanno sofferto durante quel periodo ed io volevo vendicare anche loro. Volevo ucciderla, anche se sapevo che questo non avrebbe riportato in vita Antonia e Philip, anche se sapevo che non mi avrebbe fatto sentire meglio.»
Ogni parola della giovane era come una frustata per Severus. Aveva intuito che doveva aver perso qualcuno di caro durante la guerra. Aveva anche pensato alla sorella della signorina Shadow. Ma, più dei morti, erano i nomi dei due ragazzini che ebbero lo stesso effetto di una pugnalata al cuore.
Sapeva che durante il suo periodo da preside, durante quel terribile anno non era riuscito a proteggere i suoi studenti come avrebbe dovuto, come avrebbe voluto Silente.
Non voleva nascondersi dietro a frasi fatte, non voleva nemmeno dire qualcosa di simile a ho fatto quello che ho potuto.
Avrebbe dovuto vegliare maggiormente sulla scuola, avrebbe dovuto impedire che a Claire e Thomas accadesse qualcosa.
E non l’aveva fatto.
Bevve un sorso d’acqua e l’amarezza della colpa lo investì straziante e potente, lasciandolo quasi senza fiato.
«Ha tutte le ragioni per odiarmi e desiderarmi morto, signorina Shadow.» disse infine, fissando il volto pallido della giovane donna, dall’altra parte del tavolo.
Abigail rimase a lungo in silenzio.
Non erano le parole che si era aspettata.
Aveva creduto di sentire della giustificazioni. Era così facile in tempi come quelli. In quanti nella storia umana si erano trincerati dietro alle parole stavo eseguendo gli ordini?
Invece l’uomo che le stava davanti, l’uomo a cui aveva voluto dare un bicchiere di acqua avvelenata, non aveva contraddetto le sue parole.
Aveva ammesso le sue colpe.
Ed era quello qualcosa che la faceva dubitare di tutto quello che aveva pensato.
Bevve un sorso d’acqua, beandosi della sua freschezza e chiedendosi se fosse quella freschezza a farla ragionare con tanta lucidità.
Si era lasciata accecare della rabbia e dalla disperazione per la morte della sorella e del cognato, per quanto era accaduto a Claire e Thomas.
Non aveva nemmeno preso in considerazione che le cose potessero essere andate come era stato riferito dalla Gazzetta del Profeta durante il processo a Piton, celebrato quando l’uomo era ancora in coma in una stanza del San Mungo.
Aveva dato per scontato che quello che un tempo era stato un suo professore avesse ingannato Harry Potter e, con lui, l’intero Mondo Magico.
«Forse no, signor Piton.» mormorò, posando il bicchiere vuoto sul tavolo. «Non ho mai saputo se lei avesse qualcosa a che fare con la morte di Antonia e Philip. E forse sono stata maggiormente mossa dalla consapevolezza che lei era il preside di Hogwarts l’anno scolastico scorso. Ma avrei dovuto credere agli atti del processo che sono stati pubblicati sulla Gazzetta del Profeta, alle testimonianze… sono stata cieca…»
«Invece, signorina Shadow, lei è l’unica che ha visto chiaramente. Dovrei essere ad Azkaban in questo momento.» la interruppe bruscamente l’uomo.
Abigail non ribatté alle parole di Piton.
In fondo era quello che aveva creduto fino a pochi istanti prima.
Eppure, dopo quelle poche parole credeva di aver compreso dove giacesse la verità.
Tutto le appariva chiaro e trasparente come l’acqua che aveva bevuto.
Se soltanto avesse avuto quella lucidità anche prima, non sarebbe mai giunta ad un passo dall’omicidio.
«Credo di essere stata cieca, invece.» ribatté Abigail, asciugandosi le ultime lacrime con una mano. «Ho pensato che la vendetta fosse la migliore soluzione e non ho riflettuto veramente su quanto è emerso dal processo. Non riuscivo ad accettare la sofferenza di Claire e Thomas, né dei miei genitori e non ho compreso, fino a pochi istanti fa, che ucciderla non sarebbe servito a nulla... se non a farmi finire ad Azkaban e provocare nuovo dolore alla mia famiglia.»
Abigail si interruppe per qualche istante. Portò lo sguardo sulla pioggia che batteva contro la finestra e le sembrava che quell’acqua che cadeva dal cielo, al pari dell’acqua che aveva bevuto le dessero nuova consapevolezza e lucidità.
«La prego di perdonarmi, signor Piton.» mormorò infine con un filo di voce.
Severus non riuscì a proferire parola per diverso tempo.
La donna stava chiedendo perdono a lui che non avrebbe mai potuto riceverlo. Aveva commesso troppi delitti, aveva compiuto troppe scelte sbagliate per poter essere realmente perdonato.
Se Abigail Shadow era giunta sull’orlo del baratro, la responsabilità ricadeva su di lui, che non era riuscito a proteggere due ragazzini innocenti, così come non ne aveva protetti tanti altri.
«Questa richiesta dovrei essere io a rivolgerla a lei, signorina Shadow.»
Severus osservò attentamente la giovane, che in quel momento sembrava più giovane di quanto non fosse, con il volto pallido e gli occhi arrossati dal pianto.
Non riusciva ad immaginare che cosa avrebbe potuto rispondere Abigail, anche se non credeva certo di udire parole di perdono.
«Forse entrambi, seppur per ragioni diverse, abbiamo bisogno di essere perdonati e di perdonarci.» affermò Abigail, osservando con attenzione l’uomo. «Se vorrà, potrò rimanere ad assisterla e sono certa che, con il tempo, le darò il perdono di cui ha bisogno. Forse, ora che mi rendo conto del mio errore, ora che capisco che Claire e Thomas avrebbero potuto soffrire anche di più se lei non fosse stato preside, ho già iniziato a perdonarla.»
Severus portò alle labbra il bicchier d’acqua, per nascondere la sorpresa che quelle parole gli avevano procurato.
E non sentì alcuna amarezza nella bevanda.
Ma un sapore fresco e dolce.
Un sapore che lo incitava a vivere.
Un sapore che sapeva di perdono.
Aveva desiderato la morte e l’aveva sentita nell’acqua.
Si era creduto lontano dal perdono e l’aveva sentito nell’acqua.
Ed in quel momento l’acqua, con la sua limpidezza, faceva nascere in lui una scintilla di speranza, una speranza che non aveva forse mai provato prima.
Bevve un altro sorso d’acqua ed in questa sentì riverberare le parole della giovane che, da qualche parte nel suo animo aveva trovato la forza di arrestarsi prima di commettere l’irreparabile e di trovare parole di perdono.
Sarebbe stato un percorso lungo e difficile.
Ma nell’acqua sentiva il sapore dolce del perdono.
Il sapore dolce di quella seconda possibilità che la vita aveva voluto dargli.
E seppe cosa rispondere ad Abigail.
 
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