Il Calderone di Severus

Ele Snapey - Nulla è paragonabile a te, Genere: Sentimentale/Drammatico - Avvertimenti: Nessuno - Epoca: più epoche - Pairing: Nessuno - Personaggi: Severus, personaggio originale

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view post Posted on 28/7/2017, 00:03
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Titolo: Nulla è paragonabile a te
Autore: Ele Snapey
Beta: nessuno
Tipologia: Song fic
Rating: Per tutti
Genere: sentimentale/drammatico
Personaggi: Severus Piton, personaggio originale
Pairing: nessuno
Epoca: 6°/7° anno

Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I personaggi originali di Ele Snapey, i luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.

Riassunto: Un incontro casuale e inaspettato può cambiare davvero la vita delle persone, soprattutto se avviene in condizioni molto particolari…

Note:
1) Scritta per la Severus House Cup – Sfida di Febbraio “A Ritmo di musica”
2) Ispirata a Nothing Compares 2U, di Sinead O’Connor










NULLA E’ PARAGONABILE A TE






Mi chiamo Elizabeth, ho ventotto anni, vivo e lavoro a Londra e in questo momento sto osservando una sedia vuota davanti a me mentre, seduta al tavolino dello stesso pub, con un bicchiere pieno fin quasi all’orlo di birra, continuo a tormentarmi una ciocca di capelli.
Non ho ancora toccato la Brown ale che ho ordinato quasi mezz’ora fa e non so se mai lo farò.
Nella mia testa, affollata da mille ipotesi, l’unica opzione che non ho ancora contemplato è proprio quella di iniziare a berla.
Questo perché finché non riuscirò a capire e ad accettare il motivo per cui lui non sia venuto, so che non riuscirò a mandare giù nemmeno un goccio della mia doppio malto.
Ma forse è meglio che parta dal principio…





Londra, Febbraio 1997.


… Mi appoggiai alla balaustra del ponte e guardai lo scorrere tumultuoso delle acque, rese gonfie dalla pioggia che era scrosciata fino a qualche ora prima.
Fissavo il flusso agitato del fiume senza in realtà vederlo, incurante del freddo pungente, la mente annebbiata da pensieri cupi.
Ero sul Lambeth Bridge da qualche minuto, in stato semi confusionale, annichilita dall’ennesima cattiva notizia che il mio cervello si rifiutava di elaborare: l’ennesimo calcio nello stomaco che la vita mi aveva sferrato nel giro di un mese.
Qualche ora prima il capo del personale della società in cui lavoravo da qualche anno mi aveva reso noto come, per un esubero di dipendenti, io e un’altra ventina di fortunati fossimo stati prescelti dalla sorte per essere licenziati.
Naturalmente avremmo avuto diritto ad una sostanziosa buonuscita, ma potevo dire addio ad un posto di lavoro che mi aveva regalato, per più di quattro anni, discrete soddisfazioni e un buon guadagno.
Tenuto inoltre conto del fatto che erano trascorse solo ventiquattrore da che il mio fidanzato storico aveva scelto di darmi il benservito (dopo quasi il doppio del tempo trascorso alla Cyrus & Johnson come contabile) e senza tenere minimamente in conto di come avessi improvvisamente perso il mio adorato padre una trentina di giorni addietro a causa di un infarto, sentii di avere tutto il diritto di potermi considerare “perseguitata dalla sorte”.
Avevo perso tutto, ed era inutile negare come le acque limacciose del fiume stessero esercitando sulla mia psiche vacillante un fascino perverso. La tentazione di scavalcare il parapetto e fare un salto nelle acque gelide si fece sempre più insistente.
Mi guardai attorno per controllare che non stesse passando nessuno e stabilii che quello poteva essere il momento giusto. Le ombre della sera stavano calando velocemente sulla strada e sulla mia mente stanca e confusa, quando determinai di mettere in atto il proposito.
Esitai forse qualche attimo di troppo prima di decidermi ad alzare la gamba perché, all’improvviso, mi sentii afferrare le braccia da due mani nervose e robuste che mi trassero lontano dal parapetto con una certa veemenza.
Persi l’equilibrio e, per non cadere, mi aggrappai al misterioso assalitore, ritrovandomi per un attimo a contatto con il suo corpo solido e asciutto: il corpo di un uomo decisamente alto, vestito di nero.
- Ma che cosa le salta in mente?
Una voce profonda e autoritaria piovve dall’alto come un balsamo benefico ed ebbe il potere di farmi tornare in me.
Mantenni per qualche secondo gli occhi chiusi e, ansimante e tremante, rimasi aggrappata ancora al braccio saldo dello sconosciuto, come a una ciambella di salvataggio.
Quindi, finalmente, riuscii ad articolare qualcosa.
- Sto bene… sto bene… - farfugliai, con voce malferma.
Cercai di raddrizzarmi, ma le gambe sembravano ancora intenzionate a rifiutarsi di sorreggermi.
- Sto bene, davvero… - lo rassicurai di nuovo, evitando di guardarlo perché sentivo crescere in me una sorta di intima vergogna a causa di ciò che avevo appena tentato di fare.
Cercai allo stesso tempo di raddrizzarmi ma un lieve capogiro mi fece barcollare, e se il mio ignoto soccorritore non mi avesse sorretto di nuovo mi sarei senza dubbio accasciata per terra.
Mi ritrovai dunque, senza rendermene conto, con il volto premuto contro il suo petto, mentre la pesante stoffa del suo cappotto mi accarezzava la pelle. Percepii l’aroma di qualcosa che sembrava una strana mescolanza fra cuoio e spezie amare e pensai a come quella fragranza sapesse di buono.
Le sue braccia si chiusero con delicatezza attorno alle mie spalle quando mi strinse lievemente a sé. E io, per qualche infinito secondo, mi concessi il lusso di lasciarmi coccolare da quell’abbraccio inaspettato, caldo, confortevole e confortante; un gesto impensato che giungeva come manna preziosa a consolarmi dopo il terribile gelo patito negli ultimi giorni.
All’improvviso mi riscossi, rendendomi conto del fatto che ero stretta tra le braccia di un uomo del quale non conoscevo nemmeno il viso.
Mi staccai subito da lui, alzando lo sguardo per incontrare finalmente il suo, e incontrai due iridi del colore della notte. Occhi incredibilmente penetranti, come mai mi era capitato di incontrare, mi stavano passando al vaglio con estrema attenzione.
- Sicura che vada tutto bene? – mi chiese di nuovo, con quella voce dal timbro basso e vellutato in cui distinsi un vago accento preoccupato.
Osservai per qualche istante la fisionomia spigolosa, caratterizzata da un naso importante e da una bocca sottile dal taglio rigoroso che mi fecero pensare subito ad una persona abituata a esercitare una certa autorità. E poi quegli occhi…
Insondabili, magnetici pozzi senza fondo in cui sarebbe bastato un attimo per precipitare senza la possibilità di riemergere.
Tornai in me, rispondendo in modo incerto che sì, era tutto a posto, che avevo avuto un brutto attimo di smarrimento ma che ora era passato.
Evidentemente, però, non fui molto convincente.
- Forse è meglio che la accompagni a bere qualcosa di caldo. Credo proprio ne abbia bisogno e io mi sentirò più tranquillo quando la vedrò riprendere un po’ di colore... – mi disse, serio, inarcando le sopracciglia sottili in modo delizioso. – A dieci minuti da qui c’è un piccolo pub che fa al caso nostro.
- Ma no, non si disturbi… mi dispiacerebbe farle perdere altro tempo. Mi creda, ora sto bene…
- Non faccia storie e mi segua. – interruppe, con il tono pacato ma deciso di chi è abituato ad impartire ordini e, nonostante non conoscessi affatto l’uomo che avevo di fronte, sentii che potevo fidarmi di lui.
Lo seguii, obbediente, sbirciandolo di tanto in tanto per cercare di intuire con chi stavo avendo a che fare. Paludato in un pesante cappotto nero, lungo quasi fino ai piedi, aveva capelli dello stesso colore che arrivavano a sfiorare le ampie spalle e, quando si incamminò in silenzio verso le luci di una delle strade più vicine alla zona di Westminster, il suo passo lungo e flessuoso catturò la mia attenzione. Intanto iniziavano a scendere i primi deboli fiocchi di neve.
Durante il percorso continuò a mantenere un atteggiamento piuttosto riservato e non parlò molto. Si rivolse a me solo un paio di volte, per sapere quale fosse il mio nome e che cosa facessi.
Alla seconda domanda risposi che non facevo nulla, perchè avevo appena perso il lavoro.
- E non solo… - aggiunsi, debolmente. Si voltò a guardarmi con espressione imperturbabile, inclinando la testa, e una ciocca dei lunghi capelli corvini cadde davanti agli occhi.
La risistemò con gesto sobrio ma elegante e non fece alcun commento alla mia postilla.
Non domandò altro, fino a che giungemmo al piccolo locale illuminato all’interno da una luce intima e rassicurante.
L’uomo spinse con decisione la porta in legno, sopra cui spiccava la scritta dorata Silver Cross.
Era come se fosse abituato a frequentare da sempre quel posto; mi precedette in un ambiente pulito e ben tenuto, che più che ad un pub somigliava ad un’ottima pasticceria d’altri tempi.
Mi investì un piacevole calore, profumato di cioccolata alla cannella, brioche e focaccine. L’arredamento era costituito da un grosso bancone rivestito di legno scuro, così come le suppellettili e le pareti, mentre i tavolini erano ingentiliti da graziose tovagliette ricamate; nell’aria si stavano diffondendo le note soffuse di una vecchia canzone di Billy Joel che davano un tocco accogliente all’atmosfera.
Mi guardai attorno, rinfrancata, mentre lo sconosciuto si dirigeva senza alcuna titubanza verso uno dei tavolini più appartati del locale; erano presenti pochi altri avventori, per lo più coppie di giovani e qualche anziana signora intenta a sorseggiare il proprio the, assorta nella lettura di una rivista.
Sedemmo e pochi istanti dopo l’uomo che era al bancone del piccolo pub, e che ci aveva accolto con un sorriso cordiale, si avvicinò.
- Buonasera professore, è un piacere rivederla. Che cosa posso servirvi in una serata fredda come questa? – domandò, affabile e discreto.
- Qualcosa di forte che riscaldi le ossa… – affermò il mio misterioso soccorritore, esibendo a sua volta un rapido sorriso. - Due punch andranno bene, grazie. – concluse, liquidando in modo conciso la questione.
- Professore? – non riuscii ad impedirmi di sottolineare, una volta che il proprietario del locale si fu allontanato.
- Sì, insegno… chimica… – Sulle prime sembrò quasi infastidito dalla mia piccola intrusione nella sua vita privata, ma poi volle puntualizzare. – In un college della Scozia.
- Oh, adoro la Scozia! Quale motivo l’ha costretta a venire a Londra? – insistetti, incuriosita, senza rendermi conto che continuavo ad essere forse un po’ invadente.
- Mi capita spesso, per effettuare ricerche nel mio campo… - rispose, scandendo le parole.
Intanto si era liberato del cappotto sotto il quale erano apparsi una giacca e un maglione con il collo a lupetto, neri anch’essi. Mi fissò con uno sguardo divenuto all’improvviso affilato.
- Sovente vengo qui a bere qualcosa. E’ un posto tranquillo, dove ognuno bada agli affari propri.
Mi ritrassi, istintivamente, addossandomi allo schienale della sedia.
Che strano individuo; eppure sentivo provenire da lui una sorta di forza misteriosa che mi turbava e affascinava al tempo stesso.
- Comunque non siamo qui a parlare di me, ma di lei, e di ciò che le è successo. – continuò, blandamente, invitandomi così a dare libero sfogo a quello che mi portavo dentro da un mese a quella parte.
Davanti a occhi insondabili come le profondità degli abissi, mi fidai di nuovo di un perfetto estraneo al quale non avevo nemmeno chiesto il nome.
Gli raccontai, interrompendomi più volte per soffiare il naso, di come mio padre se ne fosse andato per sempre appena un mese prima; di come quel bastardo di Daniel mi avesse piantato, del lavoro che avevo perso e di come ormai non mi rimanesse più nulla per cui vivere e lottare.
Lui ascoltò in perfetto silenzio, sorseggiando il punch che nel frattempo ci era stato servito, incoraggiandomi ogni tanto con un lieve cenno del capo a proseguire.
- E dunque, la soluzione ai problemi sarebbe stata quella di buttarsi nel Tamigi… - considerò alla fine, nello stesso tono quasi indolente, mentre osservava un punto indefinito sulla tovaglia giocherellando con il bicchierino ormai quasi vuoto.
- Non lo so. Sì, forse sì… Sono una fallita, una mezza tacca, una che non vale niente e non ha alcuna prospettiva davanti a sé.
Rialzò di scatto gli occhi, agganciando i miei con uno sguardo inflessibile e sentii una scossa correre lungo la spina dorsale.
- Se si rendesse realmente conto di quello che sta dicendo.
- Di che cosa dovrei rendermi conto? Non ho più alcun motivo per continuare ad andare avanti… - pigolai, incassando le spalle.
- Ha davanti a sé tutta la vita, Elizabeth: bella, brutta, disperata, dannata o fortunata che sia. Ma lei può scegliere… - era scattato in avanti, come un cobra pronto a colpire, gli occhi tenebrosi ora scintillanti di rabbia fredda e contenuta. – Mentre c’è gente che non può farlo! Lei è qui e può ancora decidere se continuare a commiserarsi, sedendosi a guardarla passare senza muovere un dito, o se rialzare la testa e combattere.
- Io non so se ne ho ancora voglia... – obiettai, debolmente.
- Non è la voglia che deve ritrovare, ma il coraggio. Qui dentro. – proseguì, appoggiando una mano sul petto all’altezza del cuore. – Detesto chi non sa fare altro che perdere tempo prezioso a compatirsi, anziché sfruttare la propria intelligenza per cercare le soluzioni necessarie a superare i problemi. Dimostri di non appartenere alla deplorevole, smidollata categoria di chi non ha coraggio. Lo faccia prima di tutto per se stessa, e capirà come ci sia sempre qualcosa per cui vale la pena di vivere ancora.
Lo guardai, incapace di ribattere. Sentivo altre lacrime tornare a bruciare agli angoli degli occhi; mi aveva salvato la vita una prima volta, sul Lambeth Bridge, e ora stava cercando di farlo ancora, provando a darmi le motivazioni necessarie a ripartire.
- E’ tutto così difficile. – gemetti, lasciando scorrere di nuovo un pianto liberatorio.
- Certo che lo è, così come l’esistenza di ognuno. La vita non è giusta, Elizabeth. Ma sarà infinitamente più fiera di sé quando l’avrà sfidata, superando ogni difficoltà, e l’avrà domata, piegandola ai suoi desideri. Allora sarà una persona nuova, diversa, più forte, fiduciosa dei propri mezzi: sarà una persona vera… - mi allungò il suo fazzoletto, notando come avessi esaurito quelli di carta. – Si renderà conto e sarà fiera di essere una donna forte, indipendente, libera, e non una mezza tacca che a quest’ora galleggerebbe inutilmente sull’acqua sporca di un fiume se non fossi passato di lì in tempo per evitare che commettesse una sciocchezza.
Annuii, singhiozzando, con il naso tuffato nel fazzoletto che aveva la stessa fragranza buona - fatta di cuoio e spezie amare - del suo cappotto. Attese in paziente silenzio che la mia crisi si esaurisse. Quando riemersi dal quadrato di stoffa bianca, che avevo inzuppato per bene di lacrime, mi accorsi che era intento ad ascoltare le note del nuovo brano che aveva sostituito la compilation di Billy Joel.
Riconobbi musica e parole: era Nothing compares to you, una bellissima canzone di Sinead O’Connor che avevo sempre amato alla follia.
- Nulla è paragonabile a te… - mormorò, rimarcando le parole del ritornello. Poi mi guardò con aria significativa. – Lei è unica, irripetibile e speciale, Elizabeth, come lo è ognuno di noi. Come può solo pensare di non valere niente e di non meritarsi più nulla dalla vita? – si chinò leggermente verso di me, al di sopra del tavolino, e puntò lo sguardo profondo nei miei occhi ancora umidi; i suoi erano incredibilmente carichi di un’energia potente e ammaliante. – Nulla è paragonabile a te, Elizabeth.
La sua voce calma e vellutata ebbe il potere di farmi provare una straordinaria sensazione di pace.
Fu un attimo, e avvertii che qualcosa di magico e straordinario stava avvenendo in me.
Era come se la mia anima fosse venuta in contatto con una parte di quella dell’uomo che avevo seduto di fronte, e le mie ferite più profonde si stessero lentamente rimarginando.
A quel punto però lui si alzò, infilando di nuovo il cappotto e lasciando sul tavolo alcune sterline per pagare le due consumazioni.
- Ora devo proprio andare. Posso fidarmi a lasciarla tornare a casa da sola o vuole che chiami un taxi? – chiese, osservandomi con espressione grave.
- Oh no, non è necessario. Le prometto che non compirò altri gesti insani. – risposi, un po’ più rinfrancata, e mi alzai, seguendolo con prontezza mentre si dirigeva di nuovo a lunghe falcate verso l’ingresso del pub. Passando davanti al bancone indirizzò un breve cenno di saluto al proprietario del locale, che ricambiò con un “A presto, professore” molto deferente.
Uscimmo in strada, incamminandoci senza pronunciar parola.
Il nevischio che volteggiava nell’aria umida e fredda della sera ci avvolse quasi con spensieratezza, e fu incredibile sentire come la percezione del mondo che avevo in quel momento fosse cambiata rispetto a un’ora prima; la realtà ora era fatta di colori e odori diversi, che non erano certo più quelli della disperazione.
Guardai il mio angelo custode, nero e imponente, rendendomi conto ad un tratto che fino a quell’attimo la sua forte presenza aveva contribuito a farmi sentire protetta, come avvolta in un bozzolo caldo e sicuro; ma mi sarei ancora sentita così una volta tornata ad essere sola?
Fu come se mi avesse letto nel pensiero.
- Disciplini la sua mente, Elizabeth, e approfitti del percorso verso casa per pianificare quello che inizierà a fare da domani, senza permettersi di tornare su pensieri improduttivi. – mi raccomandò, rivolgendomi un’occhiata penetrante e, dal momento che eravamo giunti ad un piccolo incrocio, fece per accomiatarsi.
Allora tentai l’ultima carta, perché non volevo che quella fosse l’ultima volta che l’avrei visto.
- Il suo fazzoletto… come faccio a restituirglielo pulito? – istintivamente tesi verso di lui il pugno che stringeva ancora la pallottola umida.
Considerò il lembo di stoffa stropicciato stretto nella mia mano, sollevando un sopracciglio.
- Mi dica se passerà un’altra volta da Londra e, in tal caso, se ci si potrà vedere da qualche parte; o, altrimenti, mi dica dove potrei farglielo avere… - insistetti, quasi in tono di supplica, temendo che rispondesse di tenermelo pure senza problemi.
E dopo un istante, lungo una vita, finalmente rispose ciò che avrei voluto sentirmi dire.
- Tra un mese esatto potrei trovarmi ancora a passare da queste parti. Le andrebbe bene sempre il Silver Cross, alla stessa ora? – acconsentì, in tono asciutto e sbrigativo, avviandosi lungo una via laterale.
- Ci sarò, senz’altro… – mi affrettai a puntualizzare, prima che cambiasse idea. - Ma aspetti un momento, non le ho nemmeno detto quanto le sono grata per quello che ha fatto! Mi dica almeno qual è il suo nome… - gli gridai dietro mentre si allontanava, spedito, mescolandosi tra le ombre del percorso che aveva imboccato. Non si fermò e nemmeno si voltò, così presto lo persi di vista.
L’unica cosa che mi rimaneva di lui erano un fazzoletto e la speranza nel cuore che fosse un uomo di parola.
Ma, soprattutto, un uomo in carne ed ossa e non un essere ultraterreno come mi venne da sospettare un paio di volte mentre, tornando a casa, continuavo a ripensare al nostro incontro.
E comunque feci come mi aveva consigliato: iniziai a pianificare.
L’indomani mi alzai piena di un’insolita energia; guardando oltre i vetri della finestra che dava sui Newington Gardens, ebbi la sorpresa di scoprire come quel giorno in cielo brillasse perfino un magnifico sole.
Feci un’abbondante colazione, poi aggiornai il curriculum vitae: volevo cominciare a spedire domande di lavoro quel pomeriggio stesso.
Era vero, poi, che avevo perso un padre al quale ero stata molto affezionata, ma avevo pur sempre ancora una madre.
Con lei non ero mai andata troppo d’accordo, soprattutto dopo la loro separazione; forse adesso era davvero arrivato il momento di riallacciare i rapporti.
Subito dopo pranzo quindi la chiamai; fu piacevolmente sorpresa di sentirmi, ma ancora più piacevolmente sorpresa di apprendere che avrei cenato da lei quella sera.
Inoltre, ripensando a Daniel, dovetti ammettere che da qualche mese la nostra relazione non funzionava più come una volta, anzi, si trascinava ormai senza entusiasmo e senza più alcun dialogo costruttivo da troppo tempo.
Ebbi modo di riflettere parecchio durante quel primo giorno denso di progetti su come, con tutta probabilità, tutto il male che mi era piombato addosso nell’ultimo periodo non fosse poi venuto solo per nuocere.



Londra, Marzo 1997.

Trascorse un mese. In quel tardo pomeriggio di quasi primavera uscii dal 30 St Mary Axe, il Gherkin, in tutta fretta.
Da una settimana lavoravo in prova presso l’agenzia assicurativa proprietaria del fantascientifico palazzo di vetro a forma di cetriolo, svettante nella City, e le cose parevano andare a gonfie vele.
Era tutto perfetto, compreso lo stipendio che, se la mia assunzione fosse stata confermata, mi avrebbe permesso di portare a casa quasi il doppio dei soldi che prendevo alla Cyrus & Johnson.
Ma al di là della splendida opportunità di lavoro che mi era capitata, quel giorno stava per verificarsi un altro preciso avvenimento: tra poco meno di un’ora avrei dovuto trovarmi di nuovo al Silver Cross, con un bel fazzoletto lavato e accuratamente ripiegato in borsetta da restituire al legittimo proprietario.
Durante il viaggio in metropolitana iniziai però a dubitare che il mio misterioso angelo custode si sarebbe presentato.
Quando spuntai in superficie e attaccai a percorrere il tratto che mi separava dal pub, fui assolutamente certa che non sarebbe venuto.
Perché mai avrebbe dovuto rammentare un simile appuntamento, fissato oltretutto in modo piuttosto approssimativo?
Arrivai al locale ed entrai, comunque. L’atmosfera era calda e accogliente, così come la ricordavo. L’uomo al bancone mi rivolse lo stesso sorriso cordiale: forse anch’egli rammentava la ragazza che era entrata assieme al professore in una fredda serata di un mese prima, e che l’aveva trascorsa a consumarsi di lacrime.
Volsi timidamente lo sguardo verso il tavolino in disparte a cui ci eravamo seduti la volta precedente e, come avevo temuto, non vidi nessuno.
Nonostante durante il percorso mi fossi preparata a quell’evenienza rimasi male lo stesso.
Guardando l’orologio mi accorsi che mancavano ancora tre minuti all’ora prestabilita, perciò decisi di sedermi lo stesso ad aspettare.
Il padrone del pub mi osservò con discrezione mentre prendevo posto e continuò a sistemare i bicchieri sul bancone.
Osservai distrattamente la clientela, appartata e tranquilla, e stabilii che avrei atteso al massimo una ventina di minuti, consumando qualcosa, poi me ne sarei tornata a casa.
Nell’aria che sapeva ancora di cioccolato alla cannella stavano fluttuando le note rarefatte di Us and Them dei Pink Floyd. Quando, cogliendomi alla sprovvista, la porta di ingresso si aprì all’improvviso e lui apparve sulla soglia.
- Buonasera, professore. – lo salutò come di consueto il proprietario e io lo fissai, ipnotizzata, quasi incapace di credere ai miei occhi.
Diresse i suoi, che sembravano fatti di onice prezioso, verso il tavolo dove ero in attesa, indirizzandomi un rapido cenno di saluto. Io mi illuminai, sciogliendomi dall’ansia che mi aveva assillato fino a un secondo prima, e provai perfino una piacevole sensazione di sfarfallio nello stomaco.
Nel breve arco di tempo che gli occorse per raggiungere il tavolo si liberò, con un gesto fluido e aggraziato, dell’impermeabile nero che indossava e occupò il posto vuoto di fronte a me.
- Lo sa che mi ha reso felice? – lo salutai con un ampio sorriso, non appena fu seduto. Mi guardò, con aria interrogativa e iridi impenetrabili.
- Si è ricordato del nostro appuntamento: le confesso che pensavo non sarebbe venuto, e invece eccola qui… - chiarii, animata da innocente entusiasmo.
- E lei ha ricordato di portarmi il fazzoletto, brava. – osservò, con un lieve accento ironico, indicando il quadrato di stoffa che avevo posato sulla tovaglietta ricamata.
- Non era il motivo principale per cui volevo rivederla. – attaccai, arrossendo. Notai come si fosse irrigidito, temendo forse da parte mia un approccio che avrebbe potuto metterlo in imbarazzo.
- E’ che l’altra volta non ero nelle condizioni giuste per imbastire un pensiero connesso… - ridacchiai, un po’ sulle spine. – Quindi non l’ho ringraziata, come avrei voluto e avrebbe meritato, per avermi salvato la vita e per essermi stato vicino fino a che non mi fossi ripresa.
Accennò ad un sorriso impercettibile ma bellissimo, che gli sfiorò le labbra dolce come la carezza di un’ala di farfalla, e socchiuse blandamente gli occhi.
La sua fisionomia austera si era ammorbidita per una frazione di secondo, ma tornò subito a cristallizzarsi in un atteggiamento vigile.
- Lei è stato il mio… ehm… il mio angelo custode e… ecco, ci tenevo a dirglielo e volevo aggiungere che gliene sarò grata per il resto della vita e che… che penso che lei sia una persona unica e speciale… una persona davvero straordinaria. – l’ultima considerazione mi era venuta fuori talmente veloce e spontanea da sorprendere anche lui. Vidi i suoi occhi inaccessibili accendersi per un attimo, e la sua espressione rivelare un certo stupore.
- Ho agito come chiunque, nei miei panni, avrebbe fatto. – commentò, essenziale, alzando un sopracciglio come gli era tipico fare.
- Non lo darei così per scontato. Credo invece che la maggior parte della gente avrebbe fatto finta di nulla fino a che non mi fossi buttata.
- Ha così poca fiducia nel genere umano? – mi stuzzicò, in tono ancora leggermente beffardo.
- No, ma la mia enorme gratitudine nei suoi confronti è per ciò che mi ha detto dopo avermi ascoltata con pazienza e attenzione, seduto con me a questo tavolo. Da lì il mio atteggiamento è cambiato! Dovevo assolutamente farle sapere come questa trasformazione mi abbia già permesso di ottenere dei risultati incredibili. Io penso davvero che lei sia una persona fuori dal comune e ci tenevo a dirglielo.
- Me ne compiaccio anche se, desolato, ma devo deluderla riguardo l’ultima valutazione nei miei confronti: io non sono una persona fuori dal comune, né speciale, né straordinaria… anzi.
- La smetta di scherzare. Lei lo è, lo sento, non mi sbaglio mai a proposito delle persone. Anche adesso sono convinta che…
- Potrei farle conoscere un esercito di persone in possesso di ottimi argomenti a confutazione della sua tesi. – mi interruppe, brusco, con un sorriso obliquo che sapeva di amaro. Quindi mi scoccò un’occhiata affilata e abbassò subito lo sguardo sulle mani che teneva incrociate sul tavolo.
Lo guardai spiazzata e, al contempo, avvertii una fitta al cuore.
Era come se le nostre anime si fossero toccate di nuovo, dopo la sera in cui mi aveva salvata, e vidi chiaramente come quell’uomo racchiudesse in sé una sofferenza sconfinata.
Un male di vivere che sapeva gestire e nascondere allo sguardo degli altri in modo esemplare ma che, in quel preciso istante, per un non so quale oscuro motivo, avevo avuto il permesso di spiare da una microscopica crepa che si era venuta a formare nella corazza impenetrabile che lo proteggeva.
Un brivido mi scosse: lui che mi aveva insegnato a ridare un senso alla vita, viveva egli stesso in una sorta di muta disperazione, raccolta e silenziosa.
Si irrigidì di nuovo e la minuscola fenditura oltre la quale avevo avuto quella percezione si richiuse velocemente. Gli occhi d’ebano dell’uomo erano tornati a scrutarmi, freddi e diffidenti.
- Forse non è stata una buona idea, quella di rivederci. – mormorò, scandendo le parole. – Lei in fin dei conti non sa nemmeno chi sono.
- E’ vero, non so nemmeno il suo nome. Me lo dica, allora. – cercai di provocarlo.
- Perché si è fidata di me? – si ostinò, scavandomi dentro con quello sguardo di ossidiana che incuteva soggezione, ma non mi fece desistere.
- Perché ho capito da subito che avrei potuto mettere tranquillamente la mia vita nelle sue mani, nonostante ora stia cercando di convincermi del contrario! E lei perché è tornato qui?
Tacque per un po’, continuando ad esaminarmi attraverso le palpebre socchiuse.
- Perché le avevo dato la mia parola. – rispose infine, serio, e lasciò che cadesse il silenzio per qualche interminabile attimo; sostenni il suo sguardo senza abbassare il mio, pur con un certo disagio.
Nel frattempo il proprietario del locale ne aveva approfittato per avvicinarsi al tavolo e chiederci che cosa desiderassimo.
Ordinammo due calici di vino bianco, frizzante, poi lui mi rivolse di nuovo una totale attenzione.
- Mantengo sempre un impegno ma, per altri versi, potrei anche deluderla profondamente, Elizabeth. – riprese, cauto.
- Oh, ne è così certo? Io sono convinta del contrario, invece. Lo vede? Ricorda perfino il mio nome, significa che per lei sono una persona che conta, in un certo senso, e ce la metterà tutta per non deludermi mai. – replicai in tono un po’ di sfida, cercando di sdrammatizzare quel suo blando tentativo di auto commiserazione che ero sicura non gli appartenesse.
Sospirò, fulminandomi con un’altra penetrante occhiata, ma non contestò la mia affermazione.
Nel frattempo erano arrivati i due calici di vino. Presi tra le dita lo stelo del mio e lo sollevai, indirizzando al mio interlocutore un sorrisetto malizioso.
– Vorrei fare un brindisi alla nostra… conoscenza avvenuta in circostanze così particolari. Vorrei dedicarglielo, se me lo permette, ma non so ancora il suo nome.
Ebbe un’esitazione e i muscoli del suo volto si contrassero di nuovo.
- Tobias… - mormorò, infine, guardandosi bene dal rivelare anche un cognome.
E io, chissà perché, pensai a come quel nome non gli si addicesse, ma evitai accuratamente di farglielo notare.
- Allora alla sua, Tobias… professore di chimica, se non ricordo male.
- Corretto. – aggiunse, in tono asciutto.
- E grazie per essere passato sul Lambeth Bridge in una fredda serata di febbraio… - Poi azzardai, nel tentativo di sapere qualcosa in più circa quell’uomo così impossibile da decifrare: – Sono troppo indiscreta se le chiedo dove fosse diretto, prima che una povera ragazza fuori di testa la obbligasse a fermarsi per impedirle di commettere una follia?
- Sì, lo è. – mi gelò e toccò appena il mio calice con il suo, bevendo un piccolo sorso del vino fresco e frizzante. - Ciò che avrei dovuto fare non ha rilevanza.
Quindi, resosi conto di essere stato un po’ troppo scostante, riprese il discorso in tono più colloquiale.
- Gradirei sentire piuttosto che cosa le è successo di interessante nell’ultimo mese: credo sia questo l’argomento più importante, oggi, non crede? – inarcò le sopracciglia, inclinando il capo.
Inutile insistere: aveva eretto di nuovo un muro a difesa della sua privacy.
Rassegnata confermai come stessi giusto per aggiornarlo su alcune apprezzabili novità e attaccai a raccontargli che, dopo diversi anni, avevo ricominciato ad intrattenere dei rapporti con mia madre. Inoltre c’era la concreta possibilità che la Swiss Re mi assumesse a tempo indeterminato, pagandomi un più che ottimo stipendio.
Ascoltò il mio dettagliato resoconto con consueta, estrema attenzione, centellinando il suo vino e annuendo di tanto in tanto. Quando conclusi iniziammo a scambiarci le debite considerazioni su ciò che avrei dovuto fare (o aspettare di fare) per il consolidamento dei miei obiettivi.
I suoi consigli, puntuali e preziosi, contribuirono a farmi di nuovo sentire avvolta in un involucro caldo e protetto.
Un paio di volte lasciai perfino vagare la mente, al suono profondo e tranquillizzante della sua voce, e immaginai di essere ancora stretta tra le sue braccia così come quella sera sul Lambeth Bridge.
Entrambe le volte però mi riscossi in fretta da quelle fantasie, che intuivo bene non potevano avere un seguito. Ma come lo avessi intuito, nemmeno io ero in grado di spiegarmelo.
Ad un tratto si interruppe e diresse lo sguardo verso l’orologio a muro del locale appeso sopra al bancone. Gli occhi si incupirono leggermente.
- Mi dispiace, Elizabeth, devo andarmene. Ho un appuntamento importante e non mi sono accorto di come fosse già molto tardi.
Afferrò l’impermeabile che aveva posato sullo schienale della sedia vuota accanto a lui e si alzò.
Se anche notò la mia evidente espressione dispiaciuta, fece comunque finta di nulla.
- E’ già arrivata l’ora di salutarci? – mormorai, cercando di mitigare la delusione senza successo.
- Purtroppo i momenti piacevoli passano sempre troppo in fretta. – osservò, lasciando ancora alcune sterline sul tavolo per pagare la consumazione.
- La prossima volta voglio offrire io! – esclamai, d’impulso: sapevo che se gli avessi lasciato varcare l’ingresso del pub senza tentare un’ultima carta, non avrei più avuto alcun modo di rivederlo.
- Perché dovrebbe esserci ancora una prossima volta? Il fazzoletto me l’ha già ridato. – considerò, con aria lievemente divertita.
- Dovrò pur raccontarle i miei progressi futuri. – dichiarai, sfoderando il miglior sorriso; la sua espressione invece era tornata ad essere seria e controllata.
- Non so se e quando passerò ancora da Londra. – sostenne, con un leggero tentennamento.
- La prego… è importante per me. – Mi sentivo un po’ in colpa per come stavo approfittando della sua disponibilità, ma allo stesso tempo mi rendevo conto di aver ancora assolutamente bisogno di lui. L’idea di non poterlo più rivedere mi stava facendo salire di nuovo il livello d’ansia.
- Non deve affezionarsi a me, Elizabeth… – mi ammonì, con uno sguardo strano, velato di tristezza.
- Ti prego… - non so come mi fosse venuto fuori, anzi, non mi ero proprio resa conto di essere passata dal lei al tu.
Rimase immobile a riflettere per un istante. Poi sollevò il capo, rivolgendomi un regale cenno di assenso e specificò che non mi avrebbe concesso un appuntamento preciso, ma che mi sarebbe venuto a cercare non appena gli fosse capitato di trovarsi di nuovo nella capitale.
Acconsentii, dal momento che la sua proposta non mi lasciava alternative e in fin dei conti era pur sempre meglio che niente.
– Ma mi deve promettere che si concentrerà solo e unicamente sulla sua vita e sugli obiettivi che si è prefissata: non sul patto che abbiamo appena stipulato… - precisò, prima di allontanarsi, dedicandomi una piccola smorfia divertita.
- Promesso… - annuii, con aria da brava bambina obbediente, e lo salutai con un breve cenno di mano. Quindi lo guardai incedere verso l’ingresso con quel suo passo morbido e silenzioso, per poi vederlo sparire oltre la porta in legno.
Intanto, per una strana coincidenza, proprio in quel momento nel locale si erano diffuse ancora le note di Nothing compares to you. E udii di nuovo la sua voce nella mia testa…
“Nulla è paragonabile a te, Elizabeth”.
Pensai a come già mi stesse mancando.
Allora afferrai la borsa e corsi fuori dal locale, guardandomi attorno nella speranza di scorgerlo ancora, anche solo in lontananza, per un’ultima volta.
Ma di lui non c’era più traccia.



Londra, Maggio 1997.

Un caldo insolito caratterizzava quella splendida giornata di inizio maggio.
Ormai ero a tutti gli effetti un’impiegata della Swiss Re, dove mi avevano regolarmente assunto dopo un breve periodo di prova.
Le cose andavano bene. Il lavoro mi piaceva e guadagnavo molto, tanto da decidere che, appena possibile, avrei sostituito il minuscolo appartamento in cui avevo trascorso gli ultimi anni con uno più ampio e confortevole, nei pressi della City, così da poter raggiungere il posto di lavoro più agevolmente. In più i rapporti con mia madre erano tornati ad essere sereni e affettuosi.
La mia vita girava a pieno ritmo e, se non fosse stato per un subdolo senso di vuoto a livello sentimentale, non avrei potuto desiderare altro.
Inutile negare come ad alimentare il subdolo senso di vuoto avesse abbondantemente contribuito anche l’Uomo dei Misteri, che poco meno di due mesi prima mi aveva lasciato seduta al tavolo di un pub con la vaga promessa di rifarsi vivo.
“Uomini. Tutti uguali…” Era ciò a cui stavo pensando, amareggiata, mentre uscivo dal Gherkin in quel tardo pomeriggio, al termine di un’altra intensa giornata lavorativa.
- Elizabeth!
Mi voltai e sorrisi a Martin, un collega che lavorava nell’ufficio accanto al mio con il quale da una quindicina di giorni condividevo le pause pranzo e caffè.
Aveva un paio d’anni più di me ed era un giovanotto molto carino, educato e simpatico.
Mi aveva avvicinato in sala mensa con fare deliziosamente timido e impacciato. Così era diventato una piacevole alternativa al chiodo fisso che mi era preso, disubbidendo alla promessa che avevo fatto a Tobias.
Tuttavia non avevo ancora perso il vizio di scandagliare con attenzione i volti della gente e le strade attorno al mio ufficio. Inoltre, per ben quattro volte, mi ero spinta fino al Silver Cross.
Per dirla tutta non avevo mai avuto il coraggio di entrare, ma avevo provato a spiare l’interno del locale dalla vetrina, nella vana speranza che una certa persona fosse seduta al solito tavolo.
Martin intanto mi aveva raggiunto. Mi chiese se il giorno dopo, in pausa pranzo, mi sarebbe piaciuto andare con lui a mangiare in un ottimo ristorante thailandese che aveva appena aperto a due isolati da lì. Avevamo scoperto di amare entrambi la cucina orientale e accettai con entusiasmo. Poi camminammo insieme per un breve tratto, scambiando quattro chiacchiere sulla giornata appena trascorsa, fino a che le nostre strade si divisero.
Mi incamminai quindi verso la metropolitana ma, prima di imboccare le scale, mi bloccai in mezzo al passaggio con la bocca aperta e lo stomaco stretto in una morsa.
Era accanto ad un cartellone pubblicitario, vestito con giacca e pantaloni rigorosamente neri, i lunghi capelli corvini appena scompigliati dal vento.
Avanzò quasi con indolenza verso di me e notai un sottile velo di malinconia permeare il suo volto.
– Non ho voluto intromettermi, prima… - esordì, mentre negli occhi nerissimi passava un lampo divertito.
- Oh, no, è solo… solo un collega, che cosa sei andato a pensare? - farfugliai, colta alla sprovvista.
- Ma, piuttosto, da quanto tempo mi stai seguendo? E dov’eri? – deviai il discorso con una risatina sciocca che tradì l’emozione intanto che cercavo, invano, di fare la spigliata.
- All’uscita del palazzo in cui lavori, ma eri così impegnata a discutere con il tuo accompagnatore che non te ne sei nemmeno accorta, così…
- Santo cielo, è solo un collega con il quale stavo pianificando il pranzo di domani… - insistetti nel voler sottolineare come tra me e Martin non ci fosse nulla, e finii con l’assumere un tono vagamente polemico. – E comunque io ti ho aspettato ogni giorno, tutti i giorni, tanto che ormai avevo smesso di sperare di vederti!
Sospese l’aria sorniona con cui mi aveva apostrofato fino a pochi secondi prima. Sul volto pallido tornò l’austera, inaccessibile compostezza di sempre.
- Scusami, non avevo nessun diritto di farti sentire in colpa. – mormorai, precipitosamente, terrorizzata dall’idea che potesse girare all’istante i tacchi, piantandomi in mezzo alla strada.
- Così non fai sentire in colpa me, stai solo prendendo in giro te! – specificò, con freddezza. – Hai trascorso due mesi ad aspettare e sperare in qualcosa che non eri nemmeno certa potesse accadere, invece di concentrare le tue energie mentali e fisiche su ciò che di concreto e importante si va formando nella tua vita. E inoltre mi avevi promesso che non l’avresti fatto.
Mi stava bacchettando, facendomi sentire alla stregua di uno studente che aveva beccato impreparato.
Alzai lo sguardo e nel suo, inflessibile, lessi una delusione che mi fece star male.
Rimanemmo in silenzio per qualche istante fino a quando, vedendomi mortificata, riprese a parlare in tono più conciliante.
- Da ora in poi dovrai imparare a camminare con le tue gambe, Elizabeth.
La frase suonò come un allarmante preludio all’addio. Lo fissai preoccupata e, nonostante stesse sforzandosi di mantenere un’espressione imperturbabile, gli occhi tradirono ancora una grande, intima sofferenza.
- Non pretendevo di incontrarti ogni mese. Io… io mi sarei accontentata di vederti anche per poco... qualche volta. – balbettai, frastornata, arrossendo.
- Ma tu non devi accontentarti delle briciole. Tu meriti di più. E’ giusto che la tua vita sia piena, soddisfacente, felice e io non sono assolutamente la persona della quale hai bisogno al tuo fianco per realizzarla.
- E tu cosa ne sai di ciò di cui ho bisogno? - replicai, delusa.
- Hai bisogno di un uomo gentile, affidabile, presente. Una persona concreta come il collega che hai salutato poco fa, forse. – proseguì, imperterrito.
- E’ che io ho sperato tanto di essere importante per te, così come tu lo sei per me. Scusami, sono sempre stata e sono ancora solo una sciocca, illusa, patetica sognatrice. – riaffermai, sopraffatta dall’amarezza, rinunciando anche all’ultimo brandello di dignità.
Lo vidi tirare un grosso sospiro. Portò le mani dietro la schiena, raddrizzando le spalle, e lasciò vagare lo sguardo malinconico sulla gente che ci stava passando accanto, ignara dell’angoscia che mi stava annientando.
- Elizabeth, se tu non fossi stata una persona importante, per me, non sarei mai venuto ad aspettarti fuori dall’ufficio. Sarei sparito, così come sarò costretto a fare, senza più cercarti.
- Per quale motivo dovresti essere costretto a sparire? – insistetti, ostinata e disperata.
- Per ragioni complicate che non posso spiegarti…
- Perché? – il suo atteggiamento mi esasperava, non avrei assolutamente accettato di non vederlo mai più senza che mi fornisse un motivo più che valido e inappellabile.
- Perché è così, e basta. – rispose, duro, chiudendo la questione con un’occhiata che non ammetteva repliche.
Abbassai mortificata lo sguardo, puntandolo sui bottoni ordinati della sua giacca.
- Ci sono cose di cui non ti posso parlare, che mi impediranno per un lungo periodo di disporre del mio tempo e… che condizioneranno fortemente le mie scelte. – riprese, in tono più gentile.
Rialzai gli occhi, guardandolo intensamente: si era accorto di essere stato troppo brusco con me e di come stessi realmente soffrendo.
– E’ perciò molto probabile che io debba essere costretto ad allontanarmi dal posto in cui lavoro… e da qui, naturalmente. E potrebbe anche essere per sempre…
Sul suo viso passò un’ombra dolorosa talmente devastante che d’impeto allungai le mani ed afferrai le sue, stringendole forte, e dimenticai la mia pena.
Rispose alla stretta chiudendo gli occhi per un attimo che mi sembrò eterno ma, quando li riaprì, aveva già ripreso il controllo delle proprie emozioni.
- Dimmi che cosa posso fare per te, per favore, come posso aiutarti? – sussurrai, smarrita.
- Lo hai già fatto, Elizabeth. In questi mesi mi hai aiutato a capire molte cose e soprattutto quale fosse la scelta giusta da fare. Parlare a te di come accettare con coraggio e determinazione le proprie responsabilità è servito a fare completa chiarezza anche in me, e a convincermi pienamente ad assumere le mie. – mormorò, con quella voce che pareva provenire dalle profondità della terra e aveva il potere di sconvolgermi.
Accennò ad un lieve sorriso, e bastò una leggera pressione delle sue mani forti sulle mie perché mi sentissi autorizzata ad abbracciarlo.
D’impulso passai le mie braccia attorno alla sua vita e mi strinsi a lui, il volto nascosto sul suo petto, più che mai decisa a non scoppiare a piangere, mentre la gente continuava a passarci accanto indifferente.
Mi tenne ancora stretta a sé per qualche minuto, permettendomi di inspirare per l’ultima volta il gradevole aroma di cuoio e spezie di cui era dolcemente impregnata la sua giacca, fino a che non mi sciolsi, con enorme riluttanza, da quell’abbraccio protettivo, delicato e tranquillizzante.
A quel punto lo guardai da sotto in su, con aria risoluta.
- Mi dispiace ma io non posso accettare di non rivederti mai più. – dichiarai, scuotendo la testa con fermezza e un pizzico di audacia. - E tu mi hai insegnato a non desistere mai dagli intenti!
Ricambiò con solennità il mio sguardo ancora umido e si concesse una pausa di riflessione.
Poi inarcò le sopracciglia e sospirò, capitolando.
- Va bene, donna testarda e tenace: la tua irritante ostinazione ha vinto. Ti prometto che ci rivedremo, ma non sarà prima di un anno.
Non riuscii a dissimulare un’espressione che era un miscuglio tra lo sbigottimento, la delusione e la disperazione.
- Vuoi dire che dovrò aspettare il 3 maggio del prossimo anno?! – esclamai, sgomenta, guardando il mio orologio da polso che riportava anche la data. – E prima di allora, nulla? Ma è un’enormità. Ora di quel giorno tu avrai già dimenticato di avermi dato un appuntamento! – provai a protestare.
Mi fulminò con un’occhiata pungente, puntandomi il dito contro con aria inflessibile.
- Attenzione, signorina, la cosa potrebbe essere reciproca; quindi prendere o lasciare, correndo questo rischio. – sancì, senza misericordia.
Abbassai il capo, soppesando ancora una volta la proposta. Era pur sempre una speranza a cui aggrapparsi, là dove l’unica alternativa era quella di perderlo per sempre.
- D’accordo… Ma ricorda che io sarò lì, al Silver Cross, a quest’ora, a qualunque costo, in qualsiasi condizione dovessi trovarmi… - sentenziai, rialzando la testa risoluta.
In risposta alla mia sfida iniziò ad allontanarsi da me.
- Addio, Elizabeth. – mormorò soltanto, con un breve cenno di commiato.
Alzai anch’io la mano in risposta al suo saluto, cercando di mostrarmi forte. Ma la mia voce tremò.
- Arrivederci, Tobias.
Ancora immobile davanti alle scale che portavano alla metropolitana provai a seguirlo con lo sguardo fino all’ultimo istante, scorgendolo che spiccava alto e nero tra la folla variopinta fino a quando sparì dietro l’angolo di uno dei vecchi palazzi della City.
Fu allora che subentrò in me, repentino, un lacerante senso di perdita, come se si fosse portato via un pezzo della mia anima.




Londra, Maggio 1998.

Il tempo è trascorso veloce e denso di impegni, interessi e novità.
La mia vita si è trasformata in una sorgente ribollente di progetti sia realizzati che in divenire.
Tra le altre cose io e Martin da un paio di mesi abbiamo deciso di andare a vivere assieme.
Con lui sto bene. Abbiamo un sacco di interessi in comune, e poi lui è veramente un uomo gentile, affidabile e presente. Una presenza concreta sulla quale poter contare sempre.
Ora posso dire di essere davvero molto soddisfatta di me stessa e probabilmente, perché no, in certi momenti addirittura felice.
Durante l’ultimo anno, però, sono tornata qualche volta al Silver Cross, ma solo per avere conferma da Harold (il proprietario del locale del quale nel frattempo avevo scoperto il nome) di come il professore non si sia più fatto vedere.
La cosa non mi ha stupito, ovviamente. Tuttavia ogni volta che mi sono seduta al nostro tavolo per consumare qualcosa, ho sentito ancora pizzicare dentro il gran senso di perdita provato davanti alle scale della metropolitana il giorno in cui mi disse addio.
In ogni caso ho sempre tenuto accesa in me la speranza di poterlo rivedere.
E un anno è passato con la consueta incredibile velocità.
Oggi è il 3 maggio e sono uscita dall’ufficio qualche minuto prima, spiegando a Martin che sarei rincasata dopo perché dovevo incontrarmi in un pub vicino al Lambeth Bridge con un amico di vecchia data. Ho voluto dirgli quella che in fin dei conti è la verità.
Mi sono diretta al Silver Cross quasi correndo e con il cuore in subbuglio.
Mi sono seduta come le altre volte al solito tavolo, eppure stavolta è differente: mancano solo pochi minuti all’ora stabilita per un appuntamento che è stato fissato esattamente un anno prima.
Harold mi ha già chiesto se voglio ordinare subito o preferisco farlo più tardi.
Si è accorto che sono decisamente più nervosa rispetto alle altre volte, quindi ha intuito che sto aspettando qualcuno, ma è una persona discreta e non mi ha fatto domande.
Gli chiedo di portarmi una Brown ale: ho bisogno ora di mandare giù qualcosa di abbastanza corposo, ma che sia anche fresco e dissetante perché sento la gola asciutta.
I minuti scorrono lentamente ma quella maledetta porta d’ingresso, verso cui continuo a rivolgere lo sguardo, non si apre. Eppure sono certa che verrà.
Verrà, perché è un uomo di parola!
“Attenzione signorina… prendere o lasciare, correndo questo rischio”.
Risento la sua voce, profonda e rassicurante, e percepisco l’insinuarsi di un’inquietudine maligna.
Intanto il tempo continua a scivolare via e mi ritrovo, con un nodo in gola, a fissare la sedia vuota di fronte a me, al di sopra dell’orlo di un bicchiere colmo di birra ambrata, tormentando una ciocca di capelli.
Potrei sentirmi una perfetta idiota per essermi illusa che avrebbe sicuramente ricordato e rispettato il nostro patto, eppure non è così.
Ciò che sto provando adesso è solo uno smisurato, soffocante peso sul cuore, in risposta al mio “perché non sei qui?”.
Ma, ad un tratto, il mio olfatto percepisce un delicato aroma di cuoio e spezie amare mentre, nello stesso istante, come per incanto le note di Nothing compares to you aleggiano ancora una volta nel locale.

…I can see whomever I choose
I can eat my dinner in a fancy restaurant
but nothing
I said nothing can take away these blues...

'cause nothing compares,
nothing compares to you

It's been so lonely without you here
like a bird without a song
nothing can stop these lonely tears from falling…
1

La voce di Sinead O’Connor scende dolcemente a cercare di lenire il male che ho dentro.
Nulla è paragonabile a te, nulla…
E mentre ascolto le parole e continuo a percepire il suo profumo, le lacrime che ho trattenuto fino a quell’istante iniziano a scendere, lente ma inarrestabili, dedicate al ricordo di chi, ora lo so, non rivedrò mai più.


____________________________________________________


1…Posso vedere chiunque io voglia
posso mangiare in un ristorante di lusso
ma niente,
ho detto niente
può togliermi queste tristezze…

Perché nulla è paragonabile
nulla è paragonabile a te

E’ così vuoto senza di te, qui
come un uccello privo di una canzone
niente può trattenere queste lacrime solitarie dal cadere…

Edited by Ele Snapey - 18/8/2017, 23:25
 
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