| 15. Phoenix, AZ
Non avevo mai visto un cielo così grande, uno spazio infinito sulle nostre teste, e noi eravamo minuscoli. Avevamo preso una Passaporta per raggiungere alla Riserva Indiana dove si trovava Amalya, la madre di Artemis. Non era molto distante da Phoenix. Il clima era secco ed era quasi l’ora del tramonto. Ci impiegammo circa mezz’ora di cammino per arrivare alla Riserva. Diverse case di legno e roulotte nel mezzo del deserto. Nessuna pianta, nessun albero, nessuna strada, solo terra, sabbia e cielo. Gli uomini erano il nulla rispetto ai quattro elementi terrestri. Mio figlio era lì da tre mesi senza poter contemplare il cielo cangiante e minaccioso e la sabbia di giorno arida e ardente, di notte fredda come brina. Un tramonto rosso che rendeva il cielo di fuoco e la terra come bruciata. Artemis mi prese per mano.
“Quando entriamo dagli sciamani, dobbiamo farci vedere uniti. Devono percepire quanto siamo legati l’uno con l’altra.” Disse Artemis mentre i nostri passi lasciavano tracce sulla terra. Mi fermai, le strinsi più forte la mano e la baciai sulle labbra. Avevo paura di vederlo per la prima volta, di conoscerlo, non sapevo come avrei reagito, che emozione avrei provato. Se non gli fossi piaciuto? Se domani si sarà già dimenticato di me? Privato dei suoi primi sei anni con lui, mi avrebbe potuto odiare. Dove sei stato per tutto questo tempo? La mamma parla sempre di te. La mamma ha un amico che mi tiene compagnia. Fui sommerso da tanti pensieri. Avevo bisogno di sentire Artemis davvero presente dentro di me. Kallistos era la prova più concreta del nostro amore, c’era bisogno che io lo sentissi completamente dentro di me. Così il tocco delle sue labbra e il sapore della sua lingua dovevano diventare miei. Se mi fossi avvicinato a Kallistos, avrebbe sentito il profumo di sua madre.
Ci accolse Amalya insieme a sua sorella Soraya e dopo aver abbracciato Artemis fui guardato dalla testa ai piedi e alla fine le due sorelle mi sorrisero. Quella notte ci saremmo sposati. I testimoni c’erano, lo sciamano della Riserva Navajo era anche il loro sacerdote. Magia e religione erano strettamente unite in quella tribù. Ci fecero strada e lo sciamano era all’interno della casa di legno più grande, dove c’era Kallistos.
Era steso su un letto. Il mio cuore si fermò. Magro, una bella carnagione rosea, i capelli alle spalle lisci neri, un viso delicato che accennava un sorriso, le labbra di Artemis. Nelle sue vene scorreva il mio sangue. Tremavo mentre lo guardavo dormire, rilassato, sugli occhi due foglie di una pianta che a distanza non seppi riconoscere. Mi avvicinai e lo sciamano rimosse le foglie dalle palpebre di Kallistos. Indossava una camicia bianca di cotone molto largo. Salutai con un inchino lo sciamano e gli chiesi se potessi accarezzargli la fronte. Mi permise di farlo e si allontanò, lasciando me e Artemis accanto a nostro figlio. Artemis non smetteva di guardarlo con un volto sereno, fiduciosa che sarebbe guarito presto. Amalya e Soraya venivano a farci compagnia. Comprendevo perché Artemis non aveva paura di lasciare Kallistos a sua madre e a sua zia. Non avevo visto nessun bambino così amato, non era qualcosa a cui ero abituato.
Restammo almeno un paio d’ore accanto a lui, fino a quando non decisi che era arrivato il momento di uscire, sotto il cielo stellato e di sposarci. Volevo che mio figlio mi conoscesse come suo legittimo padre, che portasse il mio cognome, che non sentisse mai alcuna paura di non essere stato voluto da suo padre. Non è mai stato abbandonato. Mi resi conto di amarlo più di quanto il mio pensiero si potesse immaginare.
Ci preparammo, Artemis indossava un vestito blu notte con ricami lilla, io avevo un mantello verde smeraldo e una camicia bianca ricamata. Lo sciamano pronunciò una formula davanti al fuoco e ci mise sul capo due corone di fiori. Artemis portava sempre il bracciale di mia madre. Sospettai che per tutti questi anni non l’avesse mai tolto. Mi rilassai, provai a non pensare al passato, ai fantasmi che mi facevano visita, alle insicurezze di non essere stato amato in ogni attimo della sua vita. Che importava? Lei mi rassicurava ogni volta che sentiva la mia paura emergere e in quel momento eravamo lì, aveva scelto me. Eravamo insieme e l’indomani il nostro Kallistos si sarebbe svegliato e avrebbe avuto una mamma e un papà, che si amavano più di quanto non avessero mai fatto con loro stessi. In due erano forti, in due superavano le singole debolezze. In tre trovavano il senso di tutto. Era la prima volta che mi sentivo di avere una famiglia, di appartenere a qualcuno, appartenevo tanto ad Artemis quanto a Kallistos.
Avevo scelto gli anelli a Londra prima di partire per New York, li avevo comperati a Diagon Alley. Erano di oro forgiato dai folletti, dentro c’erano i nostri nomi per esteso, uno accanto all’altro. Lo sciamano si soffermò a guardare la profonda cicatrice sul mio braccio sinistro. Eravamo finalmente uniti sotto la benedizione delle stelle e della nostra galassia, del cielo più grande che avessi mai visto. Passammo la notte accanto a Kallistos, che dormiva sotto le coperte e spesso si girava sul letto. Io e Artemis ci addormentammo accanto a lui, con gli abiti della cerimonia, macchiati di vino, su un tappeto per terra, abbracciati.
Quando aprii gli occhi, intravidi Kallistos seduto sul letto che sbadigliava. Aprii gli occhi e credetti di non aver visto nulla di più bello prima di allora. Il suo sguardo, anche se assonnato, era magico. Il suo occhio nero era profondo e vivace. Aveva preso gli occhi sorridenti di Artemis. L’occhio di ghiaccio argenteo era fisso ma ipnotizzava. Ero sicuro che ci fosse della magia in quell’occhio e non una maledizione. Lo sciamano non sembrava preoccupato, ma incuriosito da quegli occhi così speciali. Vidi che mi guardò. Non potevo sapere cosa vedesse, ma non smetteva di fissarmi con l’occhio scuro. Chiuse gli occhi e chiamò la mamma. “Mamma, mamma, chi è? Papà? Papà sei tu?” Alla sua voce squillante io e Artemis ci svegliammo. Artemis lo sollevò e lo prese in braccio dandogli un bacio sulla guancia. “Mamma ti ha fatto una sorpresa, amore mio. C’è papà!”
“Papà?” mi chiamò Kallistos.
Mi avvicinai a lui, sorridendogli. “Sì, Kallistos, amore mio. Sono papà”.
Artemis mi guardò e sorrise, come non aveva mai fatto. Non avevo mai detto ‘amore’ a nessuno, neanche a lei, che era l’amore della mia vita. Non riuscivo a chiamarla così, ma con mio figlio fu diverso. Sentii un richiamo profondo venire da dentro, un istinto mai provato. Fu qualcosa di spontaneo, di incontrollabile. Avevo tanta voglia di abbracciarlo stretto, ma come potevo? Lui doveva abituarsi a me. Artemis avvertì la mia gioia, che non era paragonabile a nessun’altra. Mi prese la mano davanti a Kallistos e gli disse: “Questo è il tuo meraviglioso papà, quello che hai visto nelle fotografie.” Mi meravigliai della sua affermazione. Quando mi aveva fatto delle fotografie?
“Quelle del libro che mi hai dato?” chiese Kallistos speranzoso. “Non ti vedo bene, papà, vieni più vicino”. Vidi che provava a mettermi a fuoco ma capivo che non ci riusciva. Iniziò a stropicciarsi l’occhio. “Mamma ha fatto un libro con le tue foto. Sei bello papà!” Mi sentii indifeso davanti a tanto amore. Continuava a stropicciarsi gli occhi. Ero inginocchiato per guardarlo alla stessa altezza e gli presi la mano: “Attento, non farlo. Non ti stropicciare l’occhio. Guardami, Kallistos, figlio mio, bellissimo”. Venne verso di me, senza guardarmi, e mi avvolse con le sue braccia sul mio collo. “Papà” continuava a dire. Non riuscii a trattenere le lacrime. Non riuscii a trattenere neanche i singhiozzi. Non piangevo così dalla morte di Lily. Il pianto di dolore mi consumava fino a farmi voler morire, questo mi riempiva il cuore da farmelo esplodere. “Papà, perché piangi?”. Artemis venne in mio soccorso e prese in braccio il bambino. “Papà piange perché è tanto felice di vederti, papà ti ama tantissimo, amore”.
Mi ci volle qualche ora per riprendermi da quell’emozione. Trascorsi il resto della giornata con lui, a raccontargli storie. Mi ero portato il libro delle Fiabe di Beda il Bardo che mi aveva dato Hermione e che mi avevano fatto compagnia quando ero io malato. Gli raccontai di come sua madre e una mia studentessa molto coraggiosa, in groppa ad un Ippogrifo, mi avevano salvato da una terribile battaglia contro un mago cattivissimo. Vedevo che Kallistos conosceva già la storia, ma voleva ascoltarla ancora una volta da me, non da sua madre, e sentire nuovi dettagli. “Papà, è vero che sai volare? Ma non come la mamma che si trasforma in uccello, tu sai volare senza ali!” Come potevo dirgli che non ero più sicuro? Mi sentivo esattamente come lui, che non sapeva se avrebbe mai ripreso a vedere, e io non sapevo se avrei mai ripreso completamente i miei poteri.
“Sì, Kallistos, so volare e ti insegnerò a farlo.” Gli risposi cercando di darmi coraggio.
“Mi comprerai una bacchetta? Io non voglio una scopa, voglio volare senza, come te e la mamma!” Il suo entusiasmo era contagioso. Passai diversi giorni con lui e Artemis si faceva da parte per lasciarmi giocare con il bambino. Spesso Artemis si allontanava, girava per gli stati confinanti, il Texas, il Colorado, il New Mexico, la California, per scoprire se ci fossero altre comunità, altre piante, altri incantesimi miracolosi per far guarire presto Kallistos. Sembrava non ci fosse magia che bastava per curarlo. L’umore del bambino era alto e rideva e scherzava sempre con me. Era un ruolo in cui non mi ero mai visto, ma alla mia età mi sentivo pronto per essere un vero padre. Avrei voluto vedere mia madre, mi avrebbe abbracciato e sarebbe stata la nonna più felice del mondo. Un balsamo per tutte le sofferenze familiari che patite insieme. Ho il rimpianto di non aver presentato mai Artemis a mia madre. Era con me al suo funerale e sono sicuro che l’avrebbe accolta tra le sue braccia come una figlia.
La quarta notte decisi di fare quello che da tempo mi ero prefissato di fare, la promessa che avevo fatto a Kallistos. Ero un mago, sua madre gli aveva parlato di me come del mago più potente del mondo. Non potevo non volerlo essere davanti ai suoi occhi. Dovevo finalmente mettere alla prova la mia magia. Sentivo dentro di me un’energia diversa, avevo quasi smesso di zoppicare e il braccio sinistro non mi faceva più male. Uscii da solo, lasciai che Artemis dormisse stretta al suo bambino quella notte.
Ero solo, nel deserto, sotto il cielo immenso di un blu intenso, luminoso e stellato. Tirai fuori la bacchetta dal mio mantello nero. Dovevo provare un incantesimo che racchiudeva più di ogni altro le mie emozioni e la mia potenza magica. Dopo anni, era giunto il momento di evocare un Patronus. Chiusi gli occhi, lasciai fluire le emozioni dentro di me e rividi i più bei momenti della mia vita in un istante. Apparve Lily accanto a me sul prato, l’abbraccio consolatorio di Silente, il primo giorno con l’Ordine della Fenice, gli occhi di Artemis, le lezioni con lei nei Sotterranei, le sue vittorie a scuola, il nostro primo bacio sulla Torre, noi nudi e abbracciati a Spinner’s End davanti al camino, la mano bruciata di Silente sulla mia, gli occhi paterni di Silente, gli occhi di Harry quando credevo di morire, il bacio di Hermione, il ritorno di Artemis a Hogwarts, i nostri giorni d’amore a Londra, Kallistos che mi chiama “Papà”, la gioia più grande di tutte. Guarirai, amore mio. I ricordi belli erano molti di più di uno. Sapevo finalmente cosa volesse dire l’amore di cui parlava Silente. Era il momento: Expecto Patronum!
Una scia argentea si librò in cielo e prese una forma nuova, grande, luminosa e molto più potente. Un uccello che conoscevo. Sui cieli di Phoenix si stagliò imponente il mio nuovo Patronus, una Fenice. “Silente!” esclamò Artemis sorridendo stupefatta, che era alle mie spalle.
Uscirono dalle roulotte e dalle case di legno anche altri maghi della riserva e scoppiò un tumulto di applausi e urla di festa. In cielo si sentì un verso stridulo, che cantava una melodia a me nota. Una Fenice incontrò in cielo il mio nuovo Patronus d’argento e venne verso di me. Non era una Fenice qualunque. Era Fawkes. Era tornata. Sul becco reggeva una bacchetta. La Bacchetta di Sambuco, la Bacchetta di Silente. Capii che arrivava da Harry Potter, era il suo dono, suggerito da Silente. La Bacchetta sarebbe dovuta tornare a me, dall’uomo di Silente all’uomo di Silente. Gli uomini di Silente dovevano continuare a proteggersi a vicenda. Nella città della Fenice ero rinato e avevo un compito, dovevo tornare a completare la missione di Silente. Dovevo tornare a fare quello che sapevo fare meglio, insegnare e amare.
FINE PRIMA PARTE
Edited by NickySnape - 29/7/2021, 16:04
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