Il Calderone di Severus

Sfida Originali n. 2 - E qualcuno bussò al castello

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view post Posted on 3/11/2019, 19:40
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Buca-calderoni

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Bellissima storia, Sara!
Molto inquietante e allo stesso tempo disarmante nella sua pacatezza, nei suoi ritmi ingannevolmente tranquilli.
Devo dire che mi ha dato quel brivido di angoscia di quando leggo un certo tipo di racconti che io chiamo "senza ritorno". Come sprofondare in una palude, solo che non c'è fango, ma acqua chiarissima e ingannatrice.
E le parole finali dello spirito del castello lasciano dentro anche tanta tristezza per questa solitudine che si nutre di altri.
Terribile, ma contemporaneamente, come non provare pietà?
Mi hai lasciato con tante sensazioni contrastanti. Di nuovo, complimenti!
 
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view post Posted on 5/11/2019, 13:27
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GabrixSnape

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Quasi una nenia, con frasi e temi che ritornano, si gonfiano e scivolano via. Una storia che fa breccia sin dalle prime battute: incalzante, ipnotica, misteriosa eppure così svelata.
Complimenti Sara.
 
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view post Posted on 10/11/2019, 09:12
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Con la tranquillità della domenica riesco a rispondervi :3
Vi ringrazio tantissimo!
Come dicevo sono stata ispirata dal giorno e mi è uscita abbastanza inquietante. Il fatto della litania, delle parole che si ripetono... Ammetto che mi diverto troppo ad inserire questo genere di cose, soprattutto nelle storie corte; è come un ricamo che cucio pazientemente in tutta la storia ^^"
Sono contentissima che vi sia piaciuta!
 
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view post Posted on 16/11/2019, 18:32
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Finalmente ho letto la tua storia, Sara.

Mi è piaciuta tantissimo, sia per il contenuto che per la forma: mi ha suggerito fantasie e mistero.
Davvero bella e non so se voluta ho colto una metafora tra il castello e i nostri più profondi desideri: pace, calore e compagnia. La solitudine è dimenticata nel castello, nel castello di ciascuno di noi.

Bravissima, complimenti.
 
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view post Posted on 10/12/2019, 19:57
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I segreti del Mastio



La roccaforte si stagliava contro il cielo terso della Vetta del Nido, la cima più alta di quel segmento della catena montuosa del Nord. Era una barriera naturale che divideva il Narrallah dal Deserto delle Illusioni, una delle zone più insidiose per un viaggiatore incauto.
Il vero nome della montagna era Dracinolvar, ma per tutti era più facile ricordarsi Vetta del Nido, aiutati dalle leggende che narravano di giganteschi nidi di draghi protetti nel cuore della montagna. Nidi abbandonati secoli prima.
John osservò il Mastio Draconio, decisamente diverso dal castello di Devonis.
Era una costruzione quadrata con quattro torri tonde. Ai suoi occhi semplice, quasi noiosa. Aveva mantenuto forma e nome del nucleo originario, sebbene nei secoli si fosse ingrandito.
Un po' come il paesaggio che lo circondava: rocce grigie e bianche, un terreno di pietra con qualche macchia di corta erba che sfidava la natura pur di crescere.
Se fosse stato un mago della terra avrebbe sicuramente apprezzato il senso poetico di un filo d'erba che cresce tra le rocce. Oppure i tunnel e le grotte scavate direttamente sotto il mastio, zone d'ombra dove solo pochi potevano entrare, che permettevano al castello di essere totalmente indipendente dal resto del mondo.
Le provviste erano al sicuro in enormi depositi e ghiacciaie scavate direttamente nella montagna, l'acqua veniva presa dalla neve e dai ghiacciai attorno, mischiata in cisterne con quella gelida dei torrenti. Se c'era una cosa che non mancava in quelle aspre terre isolate erano la neve e il ghiaccio, anche quando le temperature erano più miti.
Per i parametri di una montagna miti.
Invece lui era un tecnomante e la sua magia era pressoché inutile tra quelle cime.
Certo era molto incuriosito dalla struttura della roccaforte o dall’ispirazione che aveva spinto i primi draceni a scavare i tunnel, ma tutta la sua curiosità si limitava a questo e non era così forte da convincerlo a viaggiare fino alla Vetta del Nido.
In più sentiva il freddo penetrare anche sotto gli strati dei vestiti pesanti.
Aveva lasciato la scorta, che Re Eduard gli aveva imposto, alla piccola città ai piedi del monte e poi aveva continuato da solo.
Due giorni di viaggio silenzioso e in solitudine, proprio come piaceva a lui.
Aveva cercato di persuadere il suo Re di non aver bisogno di nessuna scorta, ma era stato inutile.
Il Consigliere Reale, a suo dire, non poteva viaggiare da solo senza almeno due guardie reali che osservavano il mondo alla ricerca di potenziali pericoli.
John sapeva bene che le sue conoscenze di battaglia erano limitate, sapeva difendersi, non avrebbe mai potuto viaggiare se non fosse stato in grado di maneggiare una corta spada, ma era da sempre stato più bravo con le parole che con le armi.
Una qualità che aveva sicuramente ereditato dal padre.
Nonostante questo aveva sempre viaggiato da solo, era un'abitudine che non avrebbe mai abbandonato: solo riusciva a concentrarsi meglio e vedeva il mondo sotto un'altra luce.
Durante i suoi viaggi trovava sempre le risposte ai suoi dilemmi, ideava strategie e gli balenavano in mente nuove idee da studiare mettere in pratica.
Ma andare al Mastio Draconio era un'altra faccenda.
Aveva ricevuto la missiva di Dama Raven Mekalasnwinna Kawanras da tre settimane, ma aveva dovuto sistemare molto a Devonis prima di partire.
Eduard gli aveva chiesto se non posticipasse continuamente la data di partenza per non dover affrontare un posto palesemente ostile alla sua magia.
Ci aveva riso di gusto e dopo pochi giorni, abbastanza per organizzare il viaggio e inviare un messaggio ai draceni, era partito controvoglia.
Non che avesse mai avuto davvero scelta.
Il viaggio era stato noioso e fin troppo lungo.
E, visto che ogni passo era supervisionato dalla guardie, neppure proficuo.
Arrivati alla Valle Bianca aveva lasciato i soldati alla locanda più grande che avevano trovato, con l'ordine d’attendere un suo messaggio non appena fosse arrivato al Mastio.
Il primo giorno il sentiero che portava alla cima sembrava infinito, il pendio era ancora dolce e la temperatura sopportabile.
Era più fresco della Culla e questo era uno dei pochi lati positivi che ci vedeva; man a mano che il cavallo proseguiva il pendio diventava più ripido, la vegetazione diminuiva e la temperatura calava.
La fermata a metà della scalata era un baracca utilizzata dai viaggiatori per riposare e ripararsi durante la notte.
Veniva chiamata la Casa Storta perché era stata costruita seguendo il terreno ripido della montagna e all’esterno era a tutti gli effetti una casa con le pareti storte.
Aveva legato il cavallo nella piccola stalla poco attrezzata, gli aveva lasciato qualcosa da magiare e una coperta pesante sul dorso.
Tolta la sella si era rifugiato nella piccola casa costituita solo da una stanza con un vecchio bivacco che puzzava di stantio, una sedia con un tavolo traballante e un camino che probabilmente non veniva pulito da quando i draghi volavano nei cieli di Enalastria.
Aveva consumato un pasto veloce e leggero, lo stomaco gli si chiudeva passo dopo passo; si era rannicchiato sul giaciglio di paglia troppo secca, avvolto nella sua coperta da viaggio e aveva cercato di dormire con il vento freddo che colpiva con forza le pareti di pietra.
Se ci fosse stata sua sorella gli avrebbe detto cosa faceva arrabbiare il quel modo il vento su quelle montagne. Oppure avrebbe narrato le avventure di quel vento così vivace da correre impertinente sui pendii del monte congelando fin nelle ossa i poveri viaggiatori che volevano raggiungere il Mastio.
Probabilmente i figli del Dio del vento lo trovavano uno scherzo divertente.
Forse avrebbe udito qualche vecchia storia sui draghi, antiche novelle trasportate da quella voce che solo le streghe e i maghi del vento sapevano udire.
Aveva dormito qualche ora, con sogni intricati a disturbargli il sonno.
Si era svegliato quando il sole aveva attraversato l'unica finestra presente e l'aveva colpito in faccia.
Si era dato una sistemata, aveva rimesso le sue poche cose nella borsa da viaggio e aveva lasciato quelle fredde mura senza rimpiangerle.
Entrato nella stalla si accorse che il suo cavallo sembrava stanco quanto lui.
- Non preoccupati, amico mio. - disse il mago accarezzandogli il muso – Manca poco. Entro stasera sarai in una stalla più calda con ottimo fieno. Nel frattempo prendi questa. - estrasse dalla borsa una mela e la porse all'animale, che la mangiò senza troppi complimenti – Ti prometto che quando torneremo a casa faremo una lunga cavalcata sotto il sole per toglierci questo freddo dalle ossa.
Intravide il mastio verso le prime ore del pomeriggio del secondo giorno del suo viaggio.
La temperatura era scesa velocemente ad ogni falcata percorsa, ed ora un sottile strato di neve ghiacciata copriva la cortissima erba che cresceva sul duro terreno montano.
Si strinse nel mantello pesante quando una folata di vento freddo lo colpì in pieno, facendolo rabbrividire. Da quando aveva iniziato ad intravedere il mastio i suoi occhi non si erano staccati dalla costruzione di pietra grigia e bianca.
Era stanco, congelato fin nel midollo, sentiva la schiena dolorante e un formicolio alle dita che lo tormentava da quando aveva intravisto le torri in lontananza.
Il castello di Devonis doveva emanare un'aura solenne e austera; era il nuovo fulcro del Narrallah, il simbolo del nuovo regno.
Il Mastio Draconio non aveva questa esigenza. Era stato costruito per accogliere i guerrieri draceni, ordine antico che, secondo la leggenda, discendeva direttamente dagli ultimi draghi che avevano solcato i loro cieli.
Dalle sue letture gli ultimi draghi avevano assunto una forma umana scegliendo personalmente la prima generazione di uomini e donne per portare avanti la loro saggezza e proteggere il mondo da qualsiasi potenziale nemico. Perfino da sé stesso.
Il Mastio sembrava sprigionare saggezza. Gli sembrava di vedere ogni secolo sulle pietre scavate della struttura, come le rughe sul volto di un vecchio.
Era stato costruito quando l'ultimo dei draghi aveva lasciato Enalastria ed ogni pietra, ogni insenatura, ogni graffio e scalfittura era il tassello di una storia ben più grande di tutti loro. Il castello aveva assistito al cambiamento del mondo. Era stato in qualche modo testimone di ogni guerra, ogni lotta al potere.
Aveva visto il declino degli elfi e le grandi battaglie tra i maghi.
Aveva visto il mondo diviso, ed ora unito sotto un unico sovrano.
Man a mano che si avvicinava notò le baliste poste sulle due torri che si affacciavano sull’unica strada che conduceva al castello.
Le armi erano già caricate e pronte a sparare gli enormi proiettili.
Nonostante il periodo di calma e pace i draceni erano sempre pronti per la battaglia.
Arrivato alla Grande Porta un soldato che non aveva più di una ventina di anni lo fissò dal posto di guardia, coperto da pensati vestiti e una pelliccia rossiccia appoggiata sulle spalle.
- Chi siete?
Si sarebbe dovuto stupire che non lo riconoscesse, ma probabilmente era cresciuto nel mastio, mai uscito dalle mura se non per sorvegliare la montagna silenziosa.
Gli riservò un sorriso sincero e benevolo. Non era una minaccia.
- John Cresnanwalle, Consigliere Reale di Re Eduard terzo Striwalch, primo sovrano del Narrallah. La Signora del Nord mi ha mandato una missiva chiedendo di raggiungere il Mastio Draconio il prima possibile.
Il ragazzo lo fissò, aveva la bocca mezza aperta. Forse si aspettava un semplice mercante o viaggiatore sprovveduto perso sui monti.
O forse si aspettava un vecchio mago curvo su un bastone.
- Certo. - disse il giovane impacciato – E’ arrivato un falchetto con un messaggio dalla valle, ci avevano avvisato che aveva preso la strada per venire qui. E' atteso immediatamente nella sala principale.
Corrugò la fronte sorpreso.
- Siete sempre così impazienti?
- Oh no Signore. - disse il soldato afferrando una corda che pendeva accanto alla grande porta di legno e metallo chiusa – Solo in queste ultime settimane.
- Perché?
- Non mi é dato si saperlo, signore.
Tirò con forza la corda. Il suono di una campana echeggiò tra le mura.
Non ci volle molto prima che qualcuno aprisse parte del grande portone.
Questa volta il soldato era molto più adulto del giovane appostato. Il volto aveva lineamenti duri e gli occhi scuri mostravano la sicurezza di chi aveva combattuto in molte battaglie.
- Mio Signore. - disse portandosi il pugno destro all’altezza del cuore, chinando un poco il capo – La stanno aspettando.
John scese da cavallo e seguì il draceno dentro il mastio. Quando sentì le porte chiudersi e la pesante inferriata di ferro calare si sentì improvvisamente in trappola.
Voleva essere ovunque, ma non in quel posto.
Era fuori dal suo ambiente.
Sentiva che stava per vomitare anche quel poco che era riuscito ad ingoiare come colazione.
Lasciò il cavallo allo stalliere e continuò a seguire il soldato nella struttura principale: la vera roccaforte del castello.
Percorsero parecchi corridoi tutti uguali, con muri spogli e spifferi che arrivavano ovunque.
Il castello di Devonis narrava una storia nonostante fosse una costruzione recente. Ogni corridoio aveva dipinti, armature o arazzi che rappresentavano le battaglie che avevano portato ad unire il Regno.
Il Mastio, con le sue pareti spoglie, raccontava un'esistenza di dedizione alle regole, onore e rispetto.
Ogni volto che incrociava era indurito dal freddo della montagna e da quell’etica morale tanto osannata dai draceni.
Il castello ospitava quasi cinquecento persone: soldati, studiosi e maghi erano appartenenti all'ordine. Rappresentavano la maggioranza degli abitanti del mastio, gli altri erano servitori.
Fu condotto nella sala più grande, quella col seggio dove Gunnar Ancren, il Vero Drago, svolgeva il suo compito di Alto Custode, portando avanti la vita al mastio, sia per gli studiosi, sia per i combattenti.
La parola del Vero Drago era da sempre legge nell'ordine. John si chiese se la sua voce avesse più importanza anche dello stesso re per gli abitanti del castello.
La Sala del Drago aveva alle pareti drappi di velluto colorato in onore delle razze di draghi a loro conosciute nei libri di storia. Indicavano anche la presenza della Congrega Ombra: i nove consiglieri del Vero Drago.
Quel giorno la congrega era al completo.
Il tecnomante non staccò gli occhi dal guerriero seduto sul seggio di roccia scura. Scolpiti ai lati c'erano delle teste di drago, gli occhi erano gemme preziose. Leggende antiche dicevano che quelle stesse pietre erano state incastonate direttamente dagli ultimi nani del regno.
Erano solo leggende. Favole per far addormentare i bambini, ma John sapeva che ogni favola e leggenda aveva sempre un fondo di verità.
Gunnar Ancren lo fissava seduto in posizione rigida, le mani appoggiate sui braccioli che richiamavano gli artigli di un drago, la folta barba nera spruzzata di bianco in alcuni punti era curata e lunga, annodata da vari anelli. Ricordava vagamente l'immagine di alcuni nani che aveva visto in antichi libri elfici. I baffi quasi gli nascondevano la bocca, perfino le folte sopracciglia grigie sembrano nascondergli gli occhi verdi come i prati della Culla. Prati che in quel castello arroccato sulla cima del monte, probabilmente non avevano mai visto.
I capelli erano legati in una coda morbida in modo da non infastidirlo. Nonostante il seggio sontuoso su cui era seduto, i vestiti erano semplici, in prefetto stile draceno. La spada era appoggiata a lato dell'imponente sedia di roccia: era il loro modo di dimostrare ai visitatori che erano i benvenuti e non venivano considerati una minaccia.
- Benvenuto nel Mastio Draconio, Consigliere Reale.
- Vi ringrazio, Alto Custode, ma ancora non mi è stato comunicato il motivo di questa convocazione. Come credo sappiate Devonis e il nostro Re hanno bisogno di tutto l'aiuto possibile per prosperare...
L'uomo alzò una mano callosa dal bracciolo di pietra.
- Risparmiate le parole sull'onore, Mastro John. Siete stato convocato perché Dama Raven ha insistito. È uno dei nostri comandanti ed è anche la Signora della Landa del Nord.
- Vi ringrazio per la fiducia, Alto Cutode.
Raven Mekalasnwinna Kawanras emerse alle spalle di un guerriero draceno della Congrega Ombra alto almeno una spanna in più di lei.
Indossava l'armatura dei guerrieri adattata al corpo femminile. Le guerriere dracene era poco più di una ventina, da quello che ne sapeva lui nessuna donna, per quanto brava in battaglia, era mai salita negli alti ranghi della gerarchia militare.
Dama Raven era stata la prima a ricoprire la posizione di comandante. Possedeva tutte le caratteristiche per diventare un membro della Congrega Ombra e, se fosse vissuta abbastanza, forse anche la prima Vera Draghessa dei Draceni.
Sapeva che non era ben vista da molti tra quelle mura.
John chinò il capo nella sua direzione per salutarla, poi concentrò la sua attenzione sull'Alto Custode.
- Posso conoscere il motivo della mia convocazione così urgente?
Il guerriero lo fissò in silenzio per un lungo momento. Il tecnomante si sentiva sotto esame e non ne sapeva il motivo.
Non gli piacque.
Era sempre il Consigliere Reale, doveva avere un minimo di rilevanza in quel castello circondato da rocce e ghiaccio.
Non abbassò lo sguardo, restò fermo, immobile sotto lo sguardo del capo dei Draceni, della Congrega Ombra e di Dama Raven, in attesa di una risposta.
Alla fine il Vero Drago si passò una mano sulla barba, gli anelli tintinnarono melodiosi.
- Cosa sa del Mastio Draconio, Consigliere Reale?
La domanda lo colse di sorpresa, ma non mostrò alcuna emozione.
Era bravo in quello, il ruolo che ricopriva a Devonis non gli consentiva di essere troppo emotivo e impulsivo. Con gli anni aveva imparato a gestire le proprie emozioni, a volte risultando anche freddo agli occhi degli altri.
- Quello che si legge sui libri, signore. - rispose cordiale, accennando un lieve sorriso - So che il Mastio è solo la parte esterna, quella che si vede. So che sotto al castello ci sono chilometri di tunnel che un tempo venivano usati come magazzini o vie di fuga. So che molti di quei tunnel sono in disuso. Le leggende narrano che il mastio sia stato costruito proprio nel luogo dove gli ultimi draghi si radunavano per sorvegliare il mondo. Leggende narrano che in questa montagna ci sia custodito il tesoro dei draghi, altre che avete trovato durante gli anni ossa e squame di drago dai poteri misteriosi. Alcune voci dicono che le else di tutti i Veri Draghi siano intagliate nelle ossa dei draghi.
- Sapete molto.
- Sono un ingegnere in fin dei conti, signore. Mi piace studiare le cose e sapere come sono fatte. - lo sguardo di Gunnar si spostò alle sue spalle, non bisognava essere un mago per capire a chi era riservata quell'occhiata sospettosa - Dama Raven ha sempre tenuto per sé i segreti del Mastio. - precisò - Le mie conoscenze sono frutto di ore di studio e ricerca. Re Eduard ha bisogno di essere circondato da persone capaci che conoscano il regno e non di inetti che passano le loro giornate a bere e allestire banchetti.
Sperò che menzionare la sua natura di studioso e ricercatore potesse chetare l'animo sospettoso del guerriero; in fondo i draceni non apprezzavo una vita legata agli studi e al rispetto delle regole?
Il draceno scrutò ancora un istante Dama Raven alle sue spalle, poi spostò lo sguardo su di lui.
- Vi abbiamo chiamato, Mastro John, perché una delle gallerie più antiche del mastio ha ceduto. In una parete si è aperta una fessura abbastanza larga per far entrare un uomo. - il tecnomante si fece attento - Il cedimento ha rilevato un altro corridoio parallelo che scende di qualche metro e alla fine vi è una stanza. All'interno ci sono resti di quello che é stato valutato come un piccolo insediamento elfico, ma nessuno ha capito di cosa si tratti in realtà. Dama Raven ha insistito a convocarla, dicendo che non conosce nessuno più esperto di voi nella cultura elfica.
Avrebbe voluto voltarsi verso la donna, ma rimase al suo posto fissando il Vero Drago; improvvisamente quel viaggio non gli sembrò così noioso.
La stanchezza sembrò abbandonarlo di colpo; sentiva una scarica elettrica attraversargli il corpo e la curiosità farsi strada.
- Che genere di insediamento elfico?
- Nessuno l'ha capito. Avevamo un tecnomante tra i nostri maghi, ma gli è stato suggerito di studiare in un luogo più… - si fermò come se cercasse la parola giusta - adatto alla sua natura.
A John suonò come una scusa e probabilmente lo era davvero. Sapeva come i tecnomanti venivano accolti dagli altri maghi. Erano considerati poco più che mastri costruttori, la loro magia non era affascinante quanto quella di un elementalista.
Erano considerati maghi di seconda serie. Lo erano sempre stati.
- Volete che esamini la sala che avete trovato?
Il draceno annuì.
- Vogliamo sapere se è un potenziale pericolo per la montagna e il mastio. Sarete nostro ospite, ma solo per un paio di giorni.
John acconsentì, non gli avrebbero concesso più tempo, i draceni erano persone molto riservate ed estremamente diffidenti.
- Devo mandare un messaggio alla città a valle. - spiegò - Le guardie reali che mi hanno accompagnato attendono mie istruzioni. Vorrei informarli che tornerò tra qualche giorno.
- Sulla torre ovest troverà Mastro Murran. Si occupa lui degli uccelli che usiamo come messaggeri. Troverà qualcuno che la scorterà al tunnel, Consigliere Reale. Ascolterò con attenzione le sue conclusioni.
La discussione era finita.
Il tecnomante chinò il capo in segno di rispetto e uscì dalla sala principale dove il soldato che l'aveva accompagnato lo attendeva a pochi passi dalla porta.
- Ho il compito di affiancarla durante la sua permanenza.
Era un modo gentile per dire “tenerla d'occhio”, ma non si offese.
La guerra era finita da troppi pochi anni e i draceni erano sospettosi di natura.
- Grazie. - disse - Temo di non conoscere il suo nome.
- Alexander, mio signore, ma tutti mi chiamano Sasha.
- Bene Sasha, devo andare da Mastro Murran per mandare un messaggio.
Il soldato lo scortò fino alla torre ovest. Parlarono un po’, scoprì che aveva una moglie al mastio e una figlia che fu mandata alla città dalla sorella di lei all'età di dieci anni perché cagionevole di salute e il clima rigido della montagna affaticava il suo fisico.
Scendevano alla Valle Bianca in primavera ed estate, ma quando arrivava il rigido inverno il mastio era completamente isolato dal resto della Landa e gli unici contatti che avevano con la valle erano attraverso i messaggi di Mastro Murran.
Non salì con lui, si limitò ad attenderlo ai piedi della scala a chiocciola, certo che non ci fossero altre strade che potesse prendere da solo.
Mastro Murran era un vecchio mago dell'aria.
Mentre l'anziano mago prendeva uno dei falchetti dalle piccole gabbie, scrisse due righe su una striscia di pergamena. Da un borsello di pelle appeso in cinta prese la ceralacca verde e la scaldò sulla fiamma della candela posta sull'unico traballante tavolino presente nella piccola stanza che puzzava di guano.
Sigillò il messaggio e consegnò il rotolino al mago, che lo legò alla zampa dell'uccello.
Il messaggero prese il volo e si diresse con sicurezza verso la città a valle.
- Può star tranquillo, Consigliere Reale, i miei uccelli portano sempre a termine i loro compiti.
- Non ho dubbi al riguardo, Maestro Murran.
Sasha lo aspettava ai piedi della scala, esattamente nello stesso punto dove l'aveva lasciato.
- Possiamo andare.
- Mi segua, Consigliere Reale.
- Un istante!
Dama Raven camminava verso di loro a passo svelto. Aveva l'espressione dura e lo sguardo severo. Le due lame che usava per combattere pendevano dormienti nei foderi ai lati, pronte per la battaglia.
Sasha si mise subito sull'attenti.
La dracena passò accanto al mago senza degnarlo di uno sguardo.
- Sei sollevato temporaneamente dall'incarico, soldato. Scorterò personalmente il Consigliere Reale.
Sasha sembrava confuso da quel cambio improvviso del programma.
- Non capisco… io….
- Sono precise indicazioni del Vero Drago, Sasha. Vuoi discuterne direttamente con lui?
Il draceno strinse la mascella infastidito dall'atteggiamento della donna. Lei era più giovane, con meno esperienza in combattimento, nonostante avesse partecipato attivamente alla guerra, eppure l'aveva superato nella gerarchia di comando. In più era femmina.
Ed era risaputo che ai soldati draceni non piaceva prendere ordini dalle donne.
- No, signore.
La soldatessa fece un impercettibile sorriso che a John non sfuggì.
- Bene. Puoi andare ad allenarti in cortile con i tuoi compagni. Controllerò personalmente se questo periodo di pace ti ha rammollito.
- Sì, signore. - digrignò tra i denti Sasha.
Il soldato si allontanò a passo veloce sotto lo sguardo di Dama Raven che non si perdeva neppure un minuscolo movimento. Quando sparì oltre l'angolo si voltò a guardarlo.
Per la prima volta da quando conosceva Dama Raven Mekalasnwinna Kawanras si sentì intimorito da quegli occhi scuri come la notte.
- Andiamo. - ordinò sbrigativa.
Si incamminarono nella direzione opposta da dove era sparito Sasha. Dopo la terza svolta si era letteralmente perso.
A Devonis non gli accadeva mai.
Raven, invece, era perfettamente a suo agio. Camminava a passo deciso davanti a lui, senza mai voltarsi per vedere se riusciva a stare al passo e senza parlare.
Lui la fissava, ignorando del tutto la strada che stava facendo. Non la vedeva da diversi mesi, da quando l'ultima riunione del Consiglio Reale si era sciolta con i compiti che ogni Signore delle Lande avrebbe dovuto svolgere nel rispettivo territorio.
Il Nord era uno dei più ostici territori che avesse mai conosciuto, col freddo pungente che arrivava dalle montagne e il popolo del Deserto delle Illusioni alle spalle.
Le fissava la schiena protetta dalla divisa dracena che nascondeva parte del suo corpo. Quando la incontrava al castello indossava l'armatura leggera del Nord. Raramente l’aveva vista con lunghe veste ricamate.
Nonostante indossasse vestiti da uomo per la maggior parte del tempo, non conosceva una donna più femminile di lei.
Con quegli occhi blu scuri, come il cielo notturno che amava contemplare per carpire i segreti delle stelle e i candidi capelli. Mutati in pochi cicli di lune dopo la morte del padre.
Era la prima volta che la vedeva tra i soldati draceni e la trovava completamente diversa da come la incontrava al castello di Devonis o di come l'aveva vista nel Nord, durante uno dei suoi viaggi in veste di Consigliere Reale.
- Non crede di esser stata troppo severa con quel soldato, mia signora?
- No. - rispose decisa - Sasha non rispetta il mio ruolo. Si crede superiore solo perché è un uomo. Deve capire di stare al suo posto e ho tutta l'intenzione di fargli capire che non gli conviene combattere contro di me.
- Così sarà di esempio agli altri.
- Esatto.
- Questo posto vi rende fredda come i ghiacciai. - mormorò con un filo di voce.
- Non è il mastio a rendermi così.
Il mago sospirò e restò in silenzio.
Scesero una lunga scalinata che portava all'interno della montagna.
Superarono varie porticine di legno, molte chiuse. La Signora della Landa del Nord non diede nessuna indicazione su quello che custodivano, mantenendo il riserbo che l'Ordine pretendeva.
Finalmente arrivarono alla fine di un lungo corridoio freddo come il ghiaccio. Nella parete sulla destra si vedeva un varco.
Esattamente come aveva detto il Vero Drago, era abbastanza largo per far entrare in uomo non troppo robusto.
Raven prese una delle torce appese alla parete, ma la bloccò.
- Niente fiamme. - spiegò prendendo un altro dei suoi sacchetti appesi alla cintura. Estrasse due pietre gradi come noci, le avvicinò ed immediatamente le pietre sprigionarono una forte luce, più forte di qualsiasi torcia avrebbe mai potuto fare.
La guerriera le guardò affascinata.
- Cosa sono?
- Luci elfiche. – spiegò John facendo volteggiare le pietre sopra le loro teste con un semplice incantesimo – Se è un insediamento elfico come sospettate ci saranno dei simboli visibili solo con questo tipo di luce. Non sarebbero mai visibili con la normale luce di un fuoco.
Strisciarono lungo l’apertura e iniziarono a percorrere il tunnel. Il pavimento era umido, a tratti inclinato. Scendendo l'eco dei loro passi echeggiava in modo sinistro.
Non era claustrofobico, ma iniziava a mancargli l'aria.
Le luci illuminavano bene buona parte del tunnel, permettendo loro di evitare eventuali ostacoli.
- Sono proprio curioso di vedere queste rovine. - disse all'improvviso cercando di alleggerire la tensione che quel tunnel buio, freddo e all'apparenza interminabile gli creava - Le nostre conoscenze sugli elfi sono sempre frammezzate e incomplete. Riempiamo i buchi in qualche modo, ma ci vogliono anni per ottenere un risultato soddisfacente.
La donna non rispose; camminava un paio di passi davanti. Occhi fissi nell'oscurità e una mano a sfiorare la parete rocciosa.
- Siete silenziosa, mia signora.
- Questo posto mi innervosisce.
- Perché?
- Perché non capisco la magia. Non comprendo gli elfi come voi. Io conoscono le stelle e i combattimenti. - fece una breve pausa, come se avesse paura di continuare - Non mi piacciono i posti stretti, al chiuso e bui.
- Allora perché avete acconsentito alla richiesta di Gunnar?
Dama Raven si voltò di scatto.
- Perché un guerriero draceno affronta ciò che lo tormenta, lo sconfigge e diventa più forte.- quasi urlava - Qui affronto la mia paura più grande!
- Gli spazi chiusi?
- Voi.
Si voltò e riprese a camminare più velocemente.
Le pietre sulle loro teste seguivano il passo di lei; le aveva incantate in modo tale che fosse sempre alla luce, non se n'era neppure reso conto.
Allungò il passo cercando di raggiungerla.
- Raven…
- Non ti voglio parlare! - sibilò irata - Non avrei voluto neppure scriverti quella lettera, ma sei il tecnomante più potente che conosca. L'unico che sembra sapere come usare quel tipo di magia senza problemi. Ho quasi pregato gli dei per non doverti incontrare.
Non sapeva come rispondere. Continuarono a camminare per pochi metri, poi sbucarono direttamente nella sala appena scoperta.
Non sapevano quanto fossero scesi in profondità, ma dal soffitto della sala dedusse che erano parecchi metri sotto il mastio.
Il soffitto, un insieme di imponenti volte a crociera, era stato levigato da mastri costruttori e dalla magia. C'erano diverse colonne che sorreggevano l'alto soffitto, alcune si stavano disintegrando sotto il peso degli anni, altre erano già crollate in un mucchio di sassi.
- Non dobbiamo stare troppo qui. - valutò guardandosi attorno – Non so quanto possano essere ancora stabili queste colonne. Dovrete chiamare uno dei vostri mastri costruttori per rafforzarle, non possiamo sapere che conseguenze possa avere sul mastio il crollo di questo soffitto.
- I nostri capomastri hanno già stabilizzato le colonne più integre; non appena si scoprirà cosa fosse stata questa stanza verrà messa in protezione - rispose la donna – Da dove si inizia?
Il tecnomante prese altri due sassi dalla sacca appesa in cinta e li attivò illuminando ancora di più la grotta; invece di farle volteggiare come le altre si avvicinò alla donna e glieli porse.
Lei fissò le luci nelle sue mani e poi lui: era da sempre stata diffidente riguardo agli oggetti elfici e la magia.
- Prendi queste. Non preoccuparti, non scaldano, puoi tenerle in mano anche tutto il giorno e non ti bruceresti mai.
La dracena toccò appena una delle luci per assicurarsi che le dicesse il vero. Le afferrò e lo guardò.
- Ed ora?
- Avvicinale a tutto ciò che puoi. Ci saranno dei segni elfici da qualche parte.
Iniziarono a lavorare celermente e in silenzio. Percepiva residui di magia elfica, potente, ma così antica che si stava esaurendo. Forse era per questo che la parete era ceduta rivelando la sala.
Le luci illuminavano ogni tanto qualche runa, ma nulla di veramente utile o interessante.
- Ho trovato qualcosa! - urlò Raven.
Lui si mosse in fretta e la raggiunse. La luce elfica aveva illuminato un testo scritto magicamente su una colonna.
John sgranò gli occhi riconoscendo qualche stralcio. La sua espressione non sfuggì all'occhio attento della guerriera.
- Cos'é?
- Un messaggio. - rispose il mago – Questi sono vecchi ruderi di un portale. Sono gli stessi portarli che, secondo le leggende, sono stati usati dagli elfi per abbandonare Enalastra.
- Come fai a essere sicuro che sia un portale?
- Ho trovato stralci di messaggi simili in altri insediamenti elfici che assomigliavano molto a questo.
- E cosa dice?
- Ngwalles alfaivven uahlessmaluav eltasseinal, alfail staandevail. Euosl aemellan, aleunsoonv.
- Che significa?
- Che i difetti di ciò che non é elfico ti ricordino da dove provieni, elfo viaggiatore di mondi. Essi sono inferiori, usali. - sollevò le spalle - Più o meno questo.
- Presuntuoso da parte loro. Ora capisco molte cose.
Si voltò verso di lei.
- Come?
- Sto dicendo che oltre alla magia, avete ereditato la loro presunzione.
- Io sarei presuntuoso?
- Tu prendi decisioni anche per gli altri. Non ascolti e pretendi che si faccia come vuoi tu e basta.
- Io non sono così.
- Sono troppo vecchio, Raven. - gli disse, scimmiottando la sua voce - Non possiamo amarci, Raven. I Custode Cremisi lo scopriranno.
- Sai perché l'ho fatto e tu non hai detto nulla!
- Non me ne hai lasciato il tempo!
Si guardarono negli occhi in silenzio.
Non si vedevano da quel pomeriggio autunnale nel castello di Devonis, dove lui aveva messo la parola fine al loro amore clandestino.
Mentre le foglie morivano attorno a loro per il normale ciclo della natura, lui stava uccidendo entrambi.
Un amore sofferto e nascosto, che durava dalla guerra.
Si vedevano pochissimo e si scrivevano ancora meno, per paura che le loro lettere fossero intercettate.
Si amavano quando le loro strade si incrociavano nella capitale o nel Nord.
E dopo che l'aveva lasciata si era sentito perso, vuoto, incredibilmente solo.
Ma non avevano alternative, non era una storia con un futuro. Non sarebbe mai sbocciato come amore. Sarebbe rimasto sempre nascosto, fuorilegge, clandestino e mai compreso.
Raven non lo meritava.
- Meriti di meglio, Raven.
- Dovete tutti smetterla di decidere cosa sia meglio per me! Sono un guerriero, prima ancora di essere una donna ho combattuto in guerra. Ho portato i miei soldati alla vittoria, mantenendo e proteggendo i confini del Nord. Non ho bisogno né di te né dei miei consiglieri per decidere cosa fare della mia vita.
Il mago la fissò confuso.
- Perché? Cosa vogliono i tuoi consiglieri?
Lei ricambiò il suo sguardo, le luci elfiche illuminavano il suo volto pallido e i capelli candidi che la rendevano magnifica ai suoi occhi.
Non aveva amai visto una donna bella come lei, forte ed eterea nello stesso tempo.
Immaginava gli elfi fatati come lei.
Per Raven non sarebbe stato un complimento.
- Raven… - la incalzò – cosa vogliono i tuoi consiglieri?
- Un matrimonio. - sussurrò.
Tutto il suo corpo si immobilizzò.
Un matrimonio.
Razionalmente sapeva che i consiglieri avevano tutte le ragioni per fare quella proposta alla loro signora.
La minaccia della guerra sembrava passata, i pochi nemici rimasti erano confinati in terre lontane a loro inaccessibili.
Un matrimonio avrebbe rafforzato ancora di più i legami che stavano creando con il nuovo regno.
E poi Raven era l'ultima della sua casata.
Era comprensibile che i consiglieri desiderassero un erede diretto.
- Sei... - deglutì della saliva per cercare di bagnare un poco la gola improvvisamente secca – sei giovane.
- Per voi maghi che invecchiate lentamente come una quercia l'età é solo un numero. Ma per i miei consiglieri l'età é qualcosa che lascia il segno, specialmente se sei una donna. Mi continuano a dire che un discendente con il mio stesso sangue sarebbe preferibile che prendere sotto l'ala della casa dei Kawanras un giovane per addestrarlo. Non dovrebbe essere importante per te, comunque. Merito di meglio, giusto?
Avrebbe voluto avvicinarsi e abbracciarla. Dirle qualcosa che avesse il potere di calmarla, anzi di calmare entrambi.
Invece restò in silenzio, con le luci elfiche che illuminavano quella grotta nascosta per anni, il suo cuore che scoppiava in petto e le lacrime di lei che brillavano sulle ciglia scure.
Le diede bruscamente le spalle e tornò ad esaminare le pareti della sala ignorando il dolore che avvertiva, ignorando la sua presenza.
Finirono in fretta e in silenzio.
Scovò altri due messaggi, ma ormai erano così vecchi, la magia così flebile, che erano appena visibili. Molte parti si erano cancellate con il tempo, rendendo il messaggio del tutto indecifrabile.
Nonostante questo scrisse su un taccuino quello che aveva trovato e fece uno schizzo della sala. Non sapeva se quegli appunti sarebbero potuti essere utili, ma non si conosceva tutto il linguaggio elfico, forse quelle rune trovate potevano aiutare gli studiosi per afferrare meglio le conoscenze dei loro antichi padroni.
Non parlarono più. Tornarono al corridoio del mastio e si divisero: lei sarebbe andata al allenarsi e lui a riferire al Vero Drago quello che aveva scoperto.
Fu una conversazione rapida che il guerriero ascoltò con interesse.
Quando uscì dalla sala principale ritrovò Sasha ad attenderlo; questa volta però aveva un labbro tagliato e una mano fasciata. Dedusse che la lezione di Dama Raven fosse arrivata prima del previsto.
Sarebbe partito la mattina successiva.
Non voleva passare un altro giorno tra quelle mura.
Sapeva che l'avrebbe rivista in quel castello, sapeva che sarebbe stata dura, sapeva che avrebbe sofferto, ma non avrebbe mai potuto pensare a quanto quel dolore lo stesse lacerando.
L'avrebbe persa e, anche se sapeva che era giusto così, non poteva evitare di chiedersi se non ci fosse una via alternativa.
Il suo re avrebbe compreso, l'avrebbe capito e aiutato, era certo di questo.
Eduard sarebbe stato il primo a accettare il loro amore, forse l'avrebbe benedetto, segnando così un nuovo inizio per la comunità magica.
Non sarebbe stato il primo mago ad innamorarsi di un'umana, ma sapeva che i Custodi Cremisi li avrebbero scoperti e sarebbe stata la fine, se non fossero fuggiti oltre Enalastria.
La loro parola aveva più potere di qualsiasi Re e Signore della Landa.
Non importava chi fossero o quanto fosse nobile la loro casata, i Custodi Cremisi li avrebbero uccisi.
E lui non poteva permettere di metterla in pericolo.
Camminò in silenzio, seguendo il draceno verso la stanza che l'avrebbe accolto per quella notte, sapendo già che l'avrebbe rimpianta il giorno dopo, quando avrebbe dormito in quel giaciglio di paglia vecchia e puzzolente alla Casa Storta.
Si bloccò, sentendo il clangore delle lame sui legni degli scudi: il tipico rumore dell’allenamento tra guerrieri.
Si affacciò ad una delle finestre che davano sul cortile interno del mastio.
I soldati assistevano in cerchio al duello tra Dama Raven e un altro draceno che, da quell'altezza, sembrava ben più grosso di lei.
John trattenne ogni sentimento che provava, non mostrò nulla mentre il soldato sembrava vincere, mentre colpiva con forza senza preoccuparsi di chi aveva davanti. Non riuscì però a nascondere del tutto il sorriso quando Raven si rialzò e iniziò ad attaccare il soldato con tutta la grinta e la forza che aveva.
Provò pena per il povero uomo.
Raven non era capitano solo per il suo rango nobiliare.
Sapeva difendersi molto bene e non aveva paura ad attaccare, aveva più esperienza in battaglia di molti soldati ben più vecchi di lei, conosceva le strategie e sapeva muoversi con abilità nei duelli.
Mentre la guardava combattere con la stessa forza e tenacia che avrebbe avuto in guerra ripensò a quando l'aveva baciata per la prima volta.
Non aveva dato importanza all'amore nella sua vita, era un sentimento per lui sopravvalutato che lo distraeva dagli studi, da quella magia – la sua magia - così difficile da far comprendere agli altri maghi.
Non era previsto che si innamorasse, tanto meno di un'umana.
Lui così ligio alle regole; lui che si era dovuto piegare già una volta davanti alle scelte di sua sorella, che aveva dovuto nasconderla andando contro quello in cui aveva sempre creduto.
Non che non avesse mai provato attrazione per una donna.
Quando era solo un ragazzo, un giovane mago apprendista, alla ricerca continua di un maestro da seguire per apprendere la meglio le sue capacità magiche, si era innamorato di una sua coetanea. Maga dell'acqua, calma e pacata, una bella ragazza dai capelli color del grano e la carnagione olivastra.
Credeva che fosse amore.
Non era neppure paragonabile a quello che provava per Raven. Quella sensazione di benessere che avvertiva quando erano vicini, anche solo nella stessa stanza senza guardarsi per evitare che qualcuno notasse qualche occhiata compromettente.
Oppure la passione che scoppiava quando erano soli, isolati da quel mondo che non avrebbe capito.
Si massaggiò la radice del naso e disse a Sasha che aveva bisogno di riposo.

* * *


La stanza era piccola, ma confortevole.
Il fuoco era già acceso quando vi entrò e dal tepore che avvertiva era stato acceso al suo arrivo in modo che la stanza non fosse fredda quando vi fosse entrato.
Sulla scrivania era appoggiato un vassoio con della zuppa ancora calda, pane morbido e una brocca di vino speziato.
Il letto era coperto da pesanti e morbide pellicce di leone di montagna, grigie e bianche.
Si era sdraiato guardando il soffitto, senza riuscire e prendere sonno, ignorando del tutto la cena.
I pensieri si aggrovigliavano tra di loro e tutti avevano lo stesso soggetto: Raven.
Fermo nella notte a fissare il soffitto di un castello che non conosceva, in un ambiente ostile alla sua magia, si chiedeva cosa avrebbe potuto fare per placare il dolore che avvertiva in petto.
Si chiese se la notte, quando le decisioni ufficiali erano rimandate all'alba successiva, anche Eduard avesse gli stessi cupi pensieri.
Se il vuoto che avvertiva lui fosse più forte del suo. Lui che aveva, comunque, assaporato un poco di felicità.
Invece a lui gli sembrava preclusa del tutto.
Perché gli dei l'avevano fatto innamorare di un'umana? Perché il suo destino era quello di vivere un amore clandestino, mal compreso e con una condanna di morte sulla testa?
Si diceva che Raven meritava di meglio, ma in realtà, non voleva che nessuno la toccasse. Voleva essere al suo fianco. Non gli interessava vegliare sul Nord assieme a lei, voleva solo essere il suo compagno di vita lunga o breve che fosse.
Lei sarebbe invecchiata prima di lui, lo sapeva, l'avrebbe vista lasciare quella terra per raggiungere gli dei e, forse, rinascere sotto una nuova forma, ma le sarebbe rimasto accanto. L'avrebbe sempre amata anche quando le rughe avrebbero solcato il suo bel volto, quando le mani sarebbero state nodose e i capelli più radi e fini.
Come poteva un amore così intenso essere qualcosa di proibito?
Chiuse gli occhi cercando di prendere sonno. Passò solo qualche minuto prima che qualcuno bussò alla porta della camera.
Indossava ancora la sua veste, non aveva avuto le forze di cambiarsi né di rinfrescarsi.
Quando la porta fu abbastanza aperta vide solo una figura entrare di corsa nel suo alloggio.
Gli bastò sentire il profumo per richiudere l'uscio velocemente.
- Raven...
Aveva abbandonato la divisa dracena e le sue armi.
Indossava una veste blu notte con ricami d'argento, i capelli sciolti come li amava lui.
Aveva un livido sullo zigomo destro.
- Voglio che me lo ripeti, John.- gli disse a bruciapelo – Dimmelo di nuovo che merito di meglio. Dimmi che i miei consiglieri hanno ragione, che devo seguire le loro indicazioni.
Sarebbe stato facile dirglielo, lasciarla libera dal quell'amore tossico e sterile.
Poteva dirlo.
Doveva dirlo.
Eppure non usciva neppure un suono dalle sue labbra.
- Dannazione John! Dimmelo!
Scosse solo il capo. Era completamente impotente di fronte a lei.
Si fissarono negli occhi, il silenzio rotto solo dal crepitare del fuoco nel camino.
Si mossero insieme: le prese il volto con le mani e unì le loro labbra in un bacio urgente e passionale.
Quando avvertì le mani di Raven cercare la sua pelle promise a se stesso che non avrebbe mai permesso a nessuno di potargliela via.

* * * *



Quando il portone del mastio si chiuse alle sue spalle non si sentì né più leggero né più libero.
Lui e Raven si erano amati avvolti dalle mura silenziose di quel castello, promettendosi di amarsi per tutta la vita.
Lei aveva giurato che non si sarebbe mai sposata con un altro, che il suo cuore, la sua anima e il suo corpo sarebbero stati solo suoi.
Le aveva lasciato una delle luci elfiche dicendole che loro erano come quelle pietre: insignificanti se separati, ma luminosi uniti.
Le promise che presto anche loro avrebbero brillato.
Di fronte a tutti.
Alla luce del sole.
Con quei pensieri si avviò col suo cavallo lungo il sentiero.
Non si voltò mai indietro a guardare un’ultima volta il mastio.
 
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view post Posted on 17/12/2019, 15:48
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I ♥ Severus


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Finalmente sono riuscita a leggerla.
Una descrizione iniziale molto intrigante che introduce in una storia davvero intrigante, da vero fantasy classico: brava, complimenti!
Ho capito quasi subito chi è John, quindi mi sono ritrovata bene all'interno della cornice dell'altra storia che sta scrivendo (quando la continui?).
Un racconto (stralcio) bello e intenso, interessante e intrigante, deliziosamente fantasy.
Brava!
 
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view post Posted on 18/12/2019, 08:08
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Un brano che va inserito nella trama della storia più ampia che stai scrivendo.
Descrizioni affascinanti in un mondo e una società che preclude come spesso accade nel fantasy la libertà completa ai sentimenti.
Il castello è un'entità viva e i protagonisti ne fanno parte: personaggi tormentati, ma uniti indissolubilmente, inutile usare la ragione, qui vince il cuore.
Sei stata davvero brava e se questo è un assaggio, penso che stai creando qualcosa di davvero importante.
Bello, sinceramente molto bello!
 
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Grazie!
Sono felice che vi sia piaciuta.
 
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I ♥ Severus


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CITAZIONE (ellyson @ 3/9/2018, 09:00) 

Partecipanti alla sfida



ellyson - Inserito
Ida59 - Inserito
Chiara53
Alaide
Gabrix
Lady Memory - Inserito
PandaNemo
Ele Snape
Mitsuki91 - Inserito


Allora, come siete messi?
La scadenza è vicinissima, il 31 dicembre.
Oppure avete bisogno di qualche giorno in più?
 
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view post Posted on 28/12/2019, 10:35
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GabrixSnape

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Sono riuscita a passare da quasi 16.000 parole a circa 11.000. Un primo traguardo! :wacko:
 
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I ♥ Severus


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Lacrime



Ricordo ancora il giorno in cui è giunta, fresca sposa, con i capelli quasi bianchi, come la luce dell'aurora, perfettamente acconciati ed un’espressione nobilmente superba sul volto. Lui la fissava innamorato, felice.
Erano perfetti insieme.
La copia ideale, avrebbero detto in molti.
Rammento ancora le loro parole sussurrate a mezza voce, l’aprirsi e il chiudersi delle porte. Una in particolare, dietro la quale Gwenn1 amava rifugiarsi, cigolava leggermente sui cardini. Era una stanza sempre illuminata dalla luce rosata dell’alba. Un luogo pieni di fiori rossi.
Era un bel luogo per pensare e riflettere.
Era un bel luogo per piangere.
E Gwenn iniziò a piangere ad un certo punto, per quanto non ne abbia mai saputo il motivo. Non ha mai avuto il coraggio di confidarmelo.
Pianse fino a non avere più lacrime ed il suo pianto fu estenuante, fino a farla sparire.
E quando Gwenn si spense, anch’io versai la prima lacrima.


Ricordo ancora il giorno in cui è giunta, fresca sposa, con i capelli di un biondo caldo, come il sole di mezzogiorno, raccolti in una treccia ed un’espressione vivace sul volto. Lui la fissava innamorato, felice.
Erano perfetti insieme.
La copia ideale, avrebbero detto in molti.
Rammento ancora i loro canti intrecciati durante le ore centrali della giornata, l’aprirsi e il chiudersi delle porte. Gwrez2 non aveva una stanza preferita, ma vagava liberamente per il castello.
Evitava unicamente la camera piena di fiori rossi dove si era spenta Gwenn.
Ma un giorno iniziò a fare domande. Non ho mai capito quali queste fossero, ma so unicamente che lui non voleva rispondere.
E quelle domande iniziarono a renderla sempre più spossata, fino a farla sparire.
E quando Gwrez si spense, versai un’altra lacrima accanto alla prima.


Ricordo ancora il giorno in cui è giunta, fresca sposa, con i capelli rossi, lasciati sciolti sulle spalle, come i raggi del sole al tramonto ed un’espressione tranquilla sul volto. Lui la fissava innamorato, felice.
Erano perfetti insieme.
La copia ideale avrebbero detto in molti.
Rammento ancora le loro parole, pronunciate nella stanza che guarda a occidente, ogni sera. Le porte rimanevano però chiuse. Alcune erano state volutamente chiuse a chiave, nascondendone la vista a Skarleg3. Altre erano aperte, ma lei non sembrava mai volerci entrare.
Questa sposa era molto loquace. Mi poneva delle domande su coloro che l’avevano preceduta, su Gwenn e Gwrez.
E sulle porte chiuse.
Ma io non potevo darle alcuna risposta.
Come avrei potuto farlo?
Non sapevo far altro che piangere lacrime che luccicavano cremisi nella luce del tramonto.
Poi smise di fare domande e si fece così silenziosa che quel silenzio l’avvolse fino a farla sparire.
E quando Skarleg si spense, versai un’altra lacrima accanto a quelle che già avevo versato.


Ricordo ancora il giorno in cui è giunta, fresca sposa, con i capelli neri, raccolti in due lunghe trecci, scuri come la notte e un’espressione incuriosita sul volto. Lui la fissava innamorato, felice.
Erano perfetti insieme.
La copia ideale avrebbero detto in molti.
Rammento ancora il loro vagare nei corridoi e le loro parole sussurrate nel cuore nella notte. Le porte erano ormai tutte chiuse. E le chiavi erano gelosamente custodite.
Ma nulla riuscì a vincere la curiosità di Tenvaled4.
Potevo sentire le sue domande.
Potevo sentire i silenzi di lui.
E poi l’aprirsi delle porte.
Ricordavo, in quei momenti, le altre tre: Gwenn dai capelli quasi bianchi, Gwrez dai capelli biondo caldo e Skarleg dai capelli rossi.
Ricordavo per quanto tempo le avessi viste.
E so ancora oggi con certezza che Tenvaled fu quella che durò di meno, fu quella che pose domande su domande e quelle domande la spossarono, fino a farla sparire.
E quando Tenvaled si spense versai un’altra lacrima accanto a quelle che già avevo versato.


Tenvaled fu l’ultima.
Non ricordo cosa accadde dopo.
Non ricordo quando anche lui sparì, né se il rosso delle mie lacrime è veramente il rosso del sangue sparso.
O se di quel sangue hanno parlato unicamente i poeti.
Una cosa so: nessuna delle quattro spose è mai uscita dalle mie porte.
Sono giunte con lui. E qui si sono spente.
A volte sento avvicinarsi dei curiosi che vogliono svelare il segreto nascosto dalle mie mura.
Ma io non posso far altro, se non piangere lacrime cremisi.5

-----
1. Gwenn in bretone vuol dire bianco.
2. Gwrez in bretone vuol dire calore.
3. Skarleg in bretone vuol dire scarlatto
4. Tenvaled in bretone vuole dire oscurità
5. La storia è ispirata ad una nota fiaba, filtrata attraverso la trasposizione operistica fattane da Bela Bartok.

 
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view post Posted on 29/12/2019, 22:16
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I ♥ Severus


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Ho trovato un fascino intrigante nelle tue parole, anche se per un po' eviterò di entrare in un castello-fortezza, perchè così me lo sono immaginata.
Difficilissimi i nomi bretoni, ma perfetti i significati.
Ho solo una vaghissima conoscenza della fiaba originale, ma ho visto la trasposizione operistica che hai citato, quindi ho seguito facilmente questo lavoro che, pur di derivazione, ha trovato una sua intrinseca originalità.
 
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view post Posted on 30/12/2019, 10:01
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GabrixSnape

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Lacrime -
Quasi una ballata.
Il castello, protagonista assoluto -per quanto muto e immobile - appare mutevole e minaccioso, quasi sia lui responsabile di aver spento tutte quelle vite.
Ho riconosciuto la fiaba che ti ha ispirata e che hai reso in modo così poetico. Complimenti
 
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view post Posted on 30/12/2019, 15:58
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GabrixSnape

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N.B.: ad eccezione del luogo che ha ispirato il racconto, che è Castel del Monte (comunque adattato alla storia che ho raccontato), i fatti e i personaggi del racconto sono di mia invenzione.

“La donna portata dal temporale”

L’estate volgeva al termine. La terra si ribellava alla crudele siccità estiva.

Da una finestra al secondo piano del castello, un uomo osservava i lampi che graffiavano il cielo e le chiome degli alberi scompigliate dal vento impetuoso. Arretrò istintivamente vedendo il fulmine che si abbatteva su un maestoso albero del frutteto.
“Che peccato, un noce secolare,” pensò, osservando le scintille levarsi ed estinguersi immediatamente nella pioggia.

Il fragore dei tuoni saturava l’aria quando l’uomo udì uno scomposto martellio, come una dissonanza in quella sinfonia di percussioni.

“Il battente? Possibile che ci sia qualcuno fuori?” si chiese, guardando l’ingresso.

Una sagoma scura stava davanti al portone. Ma chi, con quel tempaccio, era così avventato da spingersi fin lì?

L’uomo si decise ad andare ad aprire. La silhouette, avvolta in un ampio mantello, si sgonfiò fra le sue braccia appena la porta fu aperta.

Assecondando la caduta, il castellano accompagnò il fagotto fino al pavimento e richiuse velocemente la porta. Osservò con stupore le lunghe ciocche inanellate color oro appesantite dall'acqua e sparse scomposte sul volto dai tratti delicati e perfetti.

“Una donna?” si chiese interdetto mentre il bagliore dei fulmini illuminava a tratti il bosco vicino. Negli anni che aveva abitato al castello era stato abituato alle visite di qualche ragazzo fuggito dalla vicina Casa di Correzione, ma una donna non si era mai spinta sin lì.

Era davvero molto giovane. Il castellano si piegò ancora per constatarne meglio lo stato: un tenue rossore ne colorava le guance, e la fronte scottava.

Rotto ogni indugio, la sollevò dal pavimento e, esclusa da subito la possibilità di sistemarla con lui al secondo piano, si risolse a collocarla in una delle stanze al primo piano tra la cucina e i laboratori. Adagiò il corpo inerme sul giaciglio di pagliericcio e accese le candele sulla scrivania; un lieve chiarore si diffuse nell'ampia volta della stanza. Quindi, abbandonato temporaneamente l’ospite inopportuno per provvedere alle necessarie incombenze, salì fino al secondo piano, e dalla cassapanca ai piedi del letto recuperò una delle sue camicie da notte ed un asciugamano pulito. Rientrato nella stanza, si riavvicinò al giaciglio dell’ospite e cominciò a liberarla dagli indumenti bagnati, tutti di ottima fattura. Quando ebbe sfilato la camicia, i tenui bagliori delle candele rivelarono due piccoli seni torniti. Si affrettò a rivestire la giovane donna e fu distratto per un attimo da una voglia rossa a forma di cuore all'altezza dello sterno. Tuttavia, l’imbarazzo gli impedì di indugiare e, dopo averla coperta con un lenzuolo candido, uscì velocemente dalla stanza.

I propositi di liberarsi presto della donna furono però traditi dalle sue condizioni di salute. La febbre e i deliri si protrassero per tre interi giorni, durante i quali la giovane rimase in stato di incoscienza. Nel corso dei vaneggiamenti, la ragazza sembrava volersi sottrarre a qualcosa di molesto, ma le sue rare e confuse parole non consentivano di comprendere cosa l’affliggesse. In quei giorni, il signore del castello riuscì solo a somministrarle qualche cucchiaio dei suoi infusi e poche gocce d’acqua.

*****



Era da tempo che Niccolò, questo era il nome del castellano, non partecipava alla vita pubblica. Esattamente da dieci anni, da quando Sofia, la ragazza che amava, sorella del vescovo e figlia di una delle famiglie più influenti dell'epoca, aveva preferito sposare il figlio del giudice di Andria, a cui spettava di diritto un posto nel corpo dei magistrati, così come era stato garantito dal Ministro della Giustizia in persona.

“Un alchimista non può darmi nessun futuro” gli aveva confessato Sofia l'ultima volta che si erano incontrati.

“Medico e alchimista,” aveva provato a ribattere.

“In paese si dice che praticate la magia,” aveva esclamato la ragazza, imbarazzata.

“Conosco il corpo umano, studio le erbe e le combinazioni dei minerali… non mi sembra disdicevole prestare soccorso agli infermi,” si era difeso Niccolò.

Ma in lui, all’epoca venticinquenne, qualcosa si era rotto per sempre, e il sentimento forte e incrollabile che gli aveva scaldato il cuore per oltre un anno si era trasformato in una cocente delusione.

Sofia aveva sposato il suo futuro magistrato e Niccolò aveva ottenuto l'uso del castello abbandonato.

“Un’ottima buonuscita per i miei servigi di medico,” aveva concluso sarcastico, considerando di aver curato alcuni tra i personaggi più influenti della comunità.

La lontananza dal paese, le sue nobili origini e la promessa di non interferire più nella vita di Sofia gli avevano anche garantito un’immunità perpetua, che si era tradotta nella non ingerenza nei suoi studi e nelle sue attività mediche.

Dopo dieci anni dalla dolorosa separazione, aveva mantenuto la parola data: si era tenuto lontano dalla vita pubblica, nella quale i suoi natali gli avrebbero dato diritto ad un posto d'onore. In cambio, dalla città nessuno aveva osato mettere piede in quella che era ormai la sua dimora né avevano mai intralciato la sua opera. Tutti sapevano che gli efficaci rimedi medici in circolazione provenivano da lui, e in tutti quegli anni le autorità cittadine avevano smesso anche soltanto di nominarlo.

*****


All'alba del quarto giorno, l’ammalata tornò in sé. Si risvegliò nella penombra di quel luogo sconosciuto, in cui la luce filtrava dalle spesse calate che erano alle finestre. Si guardò intorno e vide l’uomo.

Spaventata, strinse le ginocchia al petto, schiacciandosi verso il muro.

“Felice di vedervi finalmente sveglia; ho molte cose da chiedervi!” esclamò il castellano, colpito dall'effetto della propria apparizione. Poi si avvicinò alla finestra, scostò i due lembi della tenda e spinse le ante. La fresca brezza mattutina, carica dell'odore del bosco, irruppe nella stanza.

L'uomo respirò a pieni polmoni e poi si girò verso l’ospite, che lo studiava muta.

“Ma la mia curiosità può ancora attendere,” disse. “Credo che voi abbiate altre priorità,” aggiunse, osservando la donna rannicchiata sul letto, rossa di vergogna.

“Io vi conosco,” mormorò la giovane incredula, facendosi scudo con il lenzuolo “Voi siete Niccolò Del Bene!” esclamò infine.

A tutti in paese era nota la storia dell’uomo.

Mago, guaritore, alchimista, stregone ed eretico. Gli appellativi affibbiati erano molteplici. Dicevano che era stato scoperto mentre recitava formule magiche, praticando rituali per evocare il demonio e vendicarsi del rifiuto opposto da Sofia Losavio, preferendogli il figlio del giudice Pietrasanta. Ma persone illuminate come il padre di Virginia sapevano che le voci erano frutto di ignoranza e non ne facevano mistero, difendendolo anche in pubblico e ricordando a tutti la sua generosità e la dedizione alla medicina.

Che Sofia Losavio lo avesse rifiutato era un avvenimento notorio almeno quanto il fatto che lui aveva salvato sua madre dal tifo. Virginia sapeva anche che era discendente di una delle famiglie di più antica nobiltà del paese e che avrebbe avuto diverse carte da giocare per pareggiare il conto di quell’affronto. Ma la scelta di Del Bene dimostrava che non avrebbe mai potuto accettare una vittoria basata sulla forza in affari nei quali era il cuore a dover vantare le sue ragioni.

“Voi avete salvato mia sorella dalla scarlattina!” dichiarò Virginia, cercando conferma della propria affermazione.

“Ho curato molti in paese prima che mi accusassero di stregoneria,” tagliò corto l'uomo.

“Quanto tempo sono rimasta incosciente?” chiese allora la giovane.

“Tre giorni,” fu la risposta.

“E chi si è occupato di me?” indagò lei con tono apprensivo.

“In realtà non ho potuto fare molto,” rispose l'uomo.

“Che giorno è oggi?” chiese ancora la ragazza, che non smetteva di guardarsi intorno.

“20 settembre 1792… intendete conversare tutta la mattinata?” replicò l'uomo, non contento di essere ancora trattenuto.

“Avrei bisogno di lavarmi e d’indossare qualcosa di appropriato,” esclamò la donna, abbassando lo sguardo.

L’uomo sorrise. “Nessun problema,” annunciò, abbandonando la stanza con un leggero inchino.

La ragazza rimase in ascolto. Il rumore di oggetti metallici, di acqua e dei passi dell’uomo che, con ogni evidenza, si stava dando da fare per prepararle il bagno, la raggiungeva nella stanza. Raccolte tutte le forze, la donna provò ad alzarsi. Ma per quanto vi tentasse, una volta posati i piedi per terra le gambe vacillavano e non rispondevano ai suoi comandi; anche le braccia, mentre cercava di darsi la spinta, tremavano visibilmente.

Quando l'uomo riapparve sulla porta, la vide seduta sul bordo del letto con aria frustrata.

“Non riesco ad alzarmi,” confessò con aria sconfitta.

“Ma certo che non ci riuscite,” constatò l'uomo con un timbro di voce meno ostile. “Dopo tre giorni di febbre alta e chissà quali altri strapazzi prima,” le disse, avvicinandosi al letto per offrirle il suo sostegno.

“Non osate!” gli intimò la ragazza, intimorita dall’improvvisa vicinanza allo sconosciuto.

L’uomo la guardò offeso, ma non indietreggiò. “Non abbiate timore,” mormorò, sostenendola alla vita. La condusse quindi nella sala da bagno e lì la lasciò, chiudendosi alle spalle la porta.

*****



Al centro della sala campeggiava un'ampia vasca di rame fumante, sul cui bordo erano posati un guanto bianco di tessuto dalla trama spessa e varie ampolle dai colori vivaci.

Virginia, questo era il suo nome, si guardò intorno. Si avvicinò alla finestra e diede un’occhiata fuori: solo alberi a perdita d'occhio. Senza pensarci troppo, spinse la sedia fino alla porta e infilò lo schienale sotto la maniglia, in modo che da fuori non fosse possibile aprire. Poi, sentendosi più sicura, si spogliò e si sedette nella vasca. Socchiuse gli occhi e immerse anche la testa. Quando fu sott’acqua, riaprì gli occhi: la vasca di metallo amplificava i rari rumori della casa restituendoglieli ovattati, e la luce che entrava dalla finestra disegnava nell’aria delle strisce biancastre. Finito il bagno, si asciugò e indossò gli abiti puliti poggiati sulla mensola. Spostò la sedia ed uscì, guardandosi intorno alla ricerca di tracce della presenza del suo ospite. Seguendo la scia odorosa, raggiunse la cucina. In un paiolo sul fuoco sobbolliva qualcosa di estremamente appetitoso, ma la cucina era deserta e dal castello non provenivano suoni.

La ragazza si avvicinò alla porta lasciata accostata e la varcò. Si trovò accecata dalla violenta luce del mezzogiorno, e mentre si affannava per vincere l'avversione alla luminosità abbacinante, schermandosi con l'avambraccio destro, fu raggiunta da una risata.

“Che avete fatto ai capelli?” le chiese l'uomo da una posizione indefinita ai piedi della scalinata.

Con la mano poggiata di taglio sulla fronte per creare sugli occhi un cono d'ombra, Virginia guardò nella direzione della voce.

“Vi avrei giusto chiesto una spazzola,” disse con tono offeso.

“Una spazzola?” rise l'uomo. “Vivo solo nel castello e non uso spazzole!” aggiunse divertito. “Ma se può servire, ho uno strumento che serve a cardare la lana delle pecore.”

Si allontanò rapidamente senza darle l'opportunità di protestare e dopo qualche minuto ritornò, consegnandole una specie di spazzola rettangolare dai denti di metallo. “Non ho altro,” si scusò porgendogliela.

La donna prese l’arnese tra le mani e, interdetta, rientrò nella sala da bagno dove, dopo averlo ben lavato, lo utilizzò per districare i capelli. Quando la massa indistinta di ricci concentrati sulla testa fu sciolta, la folta chioma si sparse di nuovo sulla schiena in morbidi anelli biondi. A quel punto, la ragazza tornò nella stanza e constatò con piacere che tutto era stato messo in ordine: le lenzuola erano pulite, la paglia che faceva da materasso era evidentemente nuova e profumata.

“Grazie,” pensò, stendendosi sul letto, dove si riaddormentò.

Qualche minuto dopo, il castellano entrò nella stanza da letto dove la ragazza si era assopita.

“Un angelo,” considerò tra sé guardando i tratti distesi del bel viso, circondato dai lunghi capelli biondi inanellati. Avrebbe voluto lasciarla dormire, ma nell’indietreggiare la scarpa scricchiolò, rivelando la sua presenza nella stanza.

Così come era accaduto la mattina, la giovane si ritrasse istintivamente contro il muro, raccogliendo al petto le ginocchia.

“Non avete nulla da temere da me,” si affrettò a dire l'uomo corrucciato, tornando sui suoi passi. “Sono solo venuto ad informarvi che, se avete fame, il pranzo è pronto,” aggiunse, chiudendosi la porta alle spalle.

*****



Virginia mantenne la posizione per qualche istante, poi la fame, tenuta a bada per interminabili giornate, la convinse ad alzarsi e a raggiungere la cucina.

Seduto a tavola di fronte alla porta, Niccolò sollevò la testa dal piatto all’apparizione della ragazza. “Bene, avete fame,” commentò.

“Mi sembra un buon passo verso la guarigione,” aggiunse poi, indicando il piatto accanto al focolare.

“Riempitelo a piacer vostro,” la invitò con cortesia.

La giovane si avvicinò alla pentola sospesa sul fuoco, sollevò il coperchio inalando il gustoso profumo che si sprigionava, poi riempì il piatto e si accomodò a tavola per assaporare la zuppa.

“Deliziosa!” esclamò dopo la seconda cucchiaiata, sorridendo imbarazzata.

“Ora che vi siete rifocillata, potreste dirmi chi siete e a cosa devo l'onore della vostra visita?” chiese Niccolò con un sorriso traverso sul volto, quando ebbero finito di mangiare.

La ragazza lo guardò, esitante. La vergogna che provava per la sua storia la fece arrossire, ma dopo essersi presentata, cominciò a raccontare.
Non si era accorta da subito dei secondi fini di quell’uomo così potente. Tutto era cominciato qualche anno prima durante le confessioni: lei aveva solo sedici anni. Ricordò che spesso lui le aveva chiesto se amava toccarsi. Quella domanda l’aveva turbata, ma, inesperta e ingenua com’era, non ne aveva compreso fino in fondo il senso e, dopo aver negato, aveva cambiato argomento: sarebbe stata un medico come suo zio.
Quanto aveva riso il Vescovo alle sue affermazioni!
“Una donna medico?” l'aveva schernita. Poi però aveva dovuto ricredersi quando, proprio nel giugno passato, si era intossicato con i frutti di mare. Virginia aveva consegnato alla sua perpetua una tisana disintossicante, e, una settimana dopo, le avevano fatto sapere che il Vescovo stava meglio e che presto l’avrebbe ringraziata di persona.
Virginia, ormai ventenne, era raggiante per aver dimostrato le sue capacità facendo ricredere quell’uomo.
Sul finire di agosto, era stata convocata negli appartamenti di sua Eccellenza.
“Vuole ringraziarti!” le aveva riferito la madre, radiosa. L'aveva raggiunto dopo pranzo, come richiesto, ma, dopo aver bussato alla porta, si era stata stupita di non trovarsi davanti la perpetua. Il Vescovo in persona le aveva aperto. Era solo.
“Agnese dopo pranzo riposa, è vecchia e grassa” le aveva comunicato con un sorriso ambiguo.
Lei, seppure a disagio, era entrata. Consapevole dell'importanza del prelato, non si era sentita di rifiutare la manifestazione della sua gratitudine. Ed infatti il Vescovo aveva iniziato con convenevoli e ringraziamenti. L'aveva adulata chiedendole di parlargli dei suoi studi, ed ancora era tornato a ringraziarla, questa volta prendendole una mano tra le sue. Virginia si era sottratta a quel contatto e, per controllare l’ansia, aveva finto interesse per un volumetto poggiato sulla scrivania sotto la finestra. Forse avrebbe potuto attirare l'attenzione di qualcuno in strada. Ma le strade di Andria, con il caldo dei pomeriggi di agosto, erano deserte. Si era sforzata di distrarre il padrone di casa con altri argomenti, ma lui era determinato. Ogni argomento era stato liquidato in una battuta per tornare ostinatamente a trattare quell’affare scabroso. Gli si era avvicinato con fare lascivo e aveva provato a convincerla a concedersi. E quando lei gli aveva ricordato che lui stesso avrebbe celebrato le sue nozze con il giovane Guidelli il prossimo primo novembre, il Vescovo era apparso visibilmente seccato e lei aveva usato quell’attimo di distrazione per liberarsi dall’assedio. Ma mentre scivolava tra l’uomo e la finestra, la camicetta si era impigliata nel gancio dello scuro, lacerandosi.
Il vescovo aveva osservato sorpreso ed eccitato la macchia rossa a forma di cuore sotto i seni della giovane. “Il marchio della strega…” aveva mormorato compiaciuto, “Ora, se ti è cara la vita non rivelerai a nessuno le mie richieste,” aveva proseguito, biascicando rancore per il rifiuto oppostogli.
“Marchio della strega?” aveva chiesto incredula Virginia. “Ma che uomo siete voi?” gli aveva urlato contro, prima di lanciarsi verso le scale. Aveva corso a perdifiato per le strade deserte del paese. Raggiunta la sua camera senza essere vista né dai genitori né dalla servitù, velocemente si era cambiata la camicetta lacerata e intrisa di sudore per la corsa. Nella sua disperata solitudine, si era abbandonata alle lacrime.”


“È tutta colpa mia,” disse infine “Se fossi stata una ragazza migliore, non avrei avuto un’avventura simile; questa è senz’altro la punizione che il cielo mi ha mandato per la mia mancanza di fede e per la mia cieca dedizione alla scienza,” concluse, abbassando gli occhi.
Poi Virginia raccontò al suo ospite di essersi macerata in quei tormenti per giorni, giustificando lo scarso appetito e l’aria smarrita con un malessere persistente.

“Sarà colpa dell’afa prolungata?” si chiedeva la madre.
“Non vi preoccupate, signora,” le rispondeva Severina, la governante, con aria complice, “Sarà l’emozione per le nozze imminenti!”
Il protrarsi del suo stato di salute le aveva consentito di sottrarsi al viaggio a Rutigliano per i fuochi. Ogni anno la famiglia vi prendeva parte, ma quell'anno, quando la carrozza fu pronta, Virginia annunciò che non sarebbe partita. Rimessa alle cure di Severina, rimase a casa.
Il giorno dopo la partenza della famiglia, verso sera, mentre leggeva nella sua camera aveva udito delle urla provenire dalla strada.
“Consegnateci la strega e non fate resistenza!” dicevano.
Era una calda sera di fine estate e il cielo era illuminato da un sottile spicchio di luna calante. Virginia aveva indossato di fretta gli abiti che usava per andare a cavallo, afferrato i pochi oggetti che pensava potessero tornarle utili, tra cui una scatola di fiammiferi, e mentre Severina si chiedeva sgomenta cosa stesse accadendo, era uscita dal cancello posteriore della casa, correndo disperatamente verso la campagna e i boschi e lasciandosi alle spalle il paese.
L’avevano braccata per un po’, ma lei li aveva seminati quando uno degli inseguitori aveva preso una storta nei pressi della masseria Leonetti. Aveva utilizzato la concitazione del momento per saltare il muretto a secco, poi era corsa verso le stalle e, affondata la mano nella tasca destra del giubbetto, aveva prelevato la scatola di fiammiferi afferrata nella fuga. Accesone uno, lo aveva lanciato nel fienile. La paglia aveva preso fuoco all’istante, sprigionando fiamme altissime. A quel punto era corsa verso i bacini comunicanti nei quali correva l’acqua utilizzata per l’orto e il frutteto, sperando di far perdere le tracce ai cani. E così era accaduto. Aveva udito gli uggiolii degli animali, disorientati dal fumo e dall’intenso odore di bruciato, e le urla rabbiose degli inseguitori che cercavano di indirizzare i segugi verso il frutteto. Ma quelli, spaventati, giravano in tondo continuando a guaire. Mentre lei era già verso i confini della proprietà, una voce impostasi su tutte aveva ordinato di richiamate i cani.
“Riprenderemo la ricerca domani a cavallo, tanto la puttana del demonio a piedi non riuscirà ad allontanarsi troppo,” aveva urlato.
Per evitare di essere riconosciuta e per sopravvivere al caldo torrido delle giornate di fine estate, la ragazza aveva camminato per altre tre interminabili notti fino all'alba, attraversando boschi e frutteti e nascondendosi come poteva durante il giorno.
All'alba del quarto giorno, aveva visto il complesso di otto torri di cui aveva tanto sentito parlare e che rispondeva al nome di Castel del Monte.
In quell’edificio, che aveva l’aspetto di un’imponente corona ottagonale adagiata sulla sommità di un'altura, tutto rivelava la rigida logica matematica e geometrica del suo progettista.
La gente del paese non vi si avvicinava perché c’erano tanti racconti sulla costruzione, teatro, secondo alcuni, di strani fenomeni. Infatti tanti giuravano di aver visto intensi fasci di luce verde levarsi verso il cielo dalle otto possenti torri. Ma lei non aveva scelta.

*****



La ragazza s’interruppe. Accolse il viso tra le mani e cominciò a piangere.

Niccolò aveva ascoltato il racconto con disgusto e raccapriccio.

Conosceva benissimo il Vescovo: era uno dei tre fratelli della sua Sofia. Gli erano ben note le sue inclinazioni, assecondate e coperte sin dalla più giovane età. Un solo decennio e sarebbero stati nel 1800; da oltre cinquant’anni, la Chiesa in tutta Europa aveva preso posizioni nette in merito alla stregoneria, ma il Vescovo di Andria, approfittando della ingenuità di tanti dei suoi fedeli e della soggezione di taluni di loro, continuava a mascherare i ratti a fine di libidine con processi sommari e penosi che continuavano ad essere inscenati alla presenza di medici e autorità cittadine, aizzati da lui.

Niccolò si alzò dalla tavola e, raccolto il piatto della sua ospite, le posò una mano sulla schiena. “Via, non piangete,” le disse gentilmente.

Virginia scosse leggermente il capo e cercò di riprendersi.

“Scusatemi…” mormorò imbarazzata, tentando di soffocare i singhiozzi.

“Non credo che abbiate niente di cui scusarvi,” la incoraggiò l’uomo, deponendo il piatto sporco nel lavabo. Poi, voltandosi verso la donna, “Ora dovremo fare in modo che la vostra famiglia sappia che siete al sicuro e state bene,” concluse.

Virginia guardò il suo interlocutore con leggera apprensione, e il suo viso si arrossò all’improvviso.

“Lo sono davvero?” si lasciò sfuggire la ragazza.

“Prego?” replicò l'uomo, con aria interdetta.

“Sono davvero al sicuro?” chiese ancora la ragazza, sostenendo lo sguardo del suo interlocutore.

“Non credete che, se avessi voluto consegnarvi alle autorità, o farvi del male, avrei già potuto farlo nei giorni in cui siete rimasta senza conoscenza?” la esortò l'uomo. “In fondo, chi avrebbe potuto biasimarmi? Una sconosciuta, arrivata di notte nella tempesta, senza documenti, senza nome …” dichiarò osservando la sua interlocutrice con sguardo fermo.

Virginia abbassò il capo. Lei per quell’uomo aveva sempre nutrito profonda stima e ammirazione: aveva avuto la forza di prendere le distanze dalle maldicenze e non cedere alla vendetta.

“Perdonatemi, non volevo offendervi. Sono molto scossa” si giustificò la ragazza.

“Posso comprendere le vostre difficoltà, non angustiatevi oltre,” rassicurò l’uomo. “Immagino che nel vostro stato avrete bisogno di ritirarvi nella vostra stanza e riposarvi un po’,” constatò concessivo.
“In ogni caso, spero mi perdoniate se vi lascio da sola. Ho del lavoro da completare.” annunciò congedandosi.

Virginia salutò il suo ospite e, dopo qualche istante, uscì dalla cucina con l’intenzione di tornare nella stanza nella quale si era risvegliata, per ripensare agli ultimi avvenimenti e riposarsi. Ma quando oltrepassò la porta e si trovò nella stanza accanto, fu affascinata dalla struttura del castello e cominciò, senza averlo programmato, a vagolare da un ambiente all’altro, guardandosi intorno. Scoprì che le camere al primo piano, tutte a pianta ottagonale, erano concatenate e comunicanti attraverso porte poste sui lati opposti e che molte stanze ospitavano laboratori, le cui pareti erano interamente coperte da librerie e interrotte da un’unica bassa monofora. Virginia rimase per un po’ ad osservare alambicchi e libri di formule, incuriosita dal gran numero di esperimenti in corso e conquistata dalla semplicità espositiva degli appunti trascritti su alcuni quaderni aperti sui tavoli da lavoro. Quanto desiderava che qualcuno la considerasse alla pari per il suo interesse per la medicina e la chimica e che non ritenesse tempo perso il confronto con una donna!

Quasi in trance, Virginia salì al secondo piano. Anche lì c’erano otto stanze concatenate: sette laboratori e una camera da letto.

Poi vide una scala a chiocciola che si arrampicava verso l'alto, la percorse e, quando fu in cima la luce del sole del tramonto le rivelò un panorama mozzafiato.

Nel cielo tinto di rosso spiccava all'orizzonte la sfera scarlatta, resa ormai inoffensiva. Virginia ne sfidò la luminosità, osservandola mentre spariva nel blu fitto che saliva dal basso. Quando nei suoi occhi la luce si stemperò, notò una sagoma, avvolta da un’aura azzurra, raccolta sul tetto di una delle torri ottagonali. Era Niccolò, seduto con le ginocchia al petto: l’ampia camicia bianca gonfiata dalla brezza di settembre, la cintura scura come i pantaloni a serrargli la vita stretta e i lunghi capelli lisci spettinati dal vento. La donna strizzò gli occhi e, quando li riaprì, la luce azzurrognola era sparita, e rimase incantata nella contemplazione della scena, dubbiosa riguardo a ciò che aveva poc’anzi visto. Probabilmente la luce diretta del sole le aveva giocato un brutto scherzo. Prima ancora che la ragazza potesse valutare l'opportunità di manifestarsi, l'uomo si risollevò e, voltatosi verso di lei, la vide.

“Vedo che vi siete svegliata,” osservò infastidito dall’intrusione. Tuttavia, cercando di dissimulare il malcontento si congedò con la scusa di provvedere alla cena. “Vi aspetto di sotto,” disse, e sparì inghiottito dalla scala a chiocciola.

Virginia raggiunse presto il suo ospite in cucina. “Domani, se me lo permettete, vorrei avere il piacere di preparare io un pasto per voi,” dichiarò prima di ritirarsi nella sua stanza dopo cena.

“Se è ciò che desiderate…”, commentò Niccolò riponendo le posate in un cassetto e augurandole la buonanotte.

*****



La mattina successiva Virginia si svegliò di buonumore. Per la prima volta dopo tanti giorni si sentiva finalmente in forze e aveva cominciato a nutrire la speranza di accedere alla miniera di informazioni che intuiva essere custodita in quella enorme biblioteca del castello.

Aveva deciso che avrebbe tenuto un comportamento discreto e si sarebbe astenuta da ulteriori intrusioni nella vita del suo generoso ospite. Così, nonostante desiderasse manifestargli il suo interesse per l’attività di ricerca e gli esperimenti che evidentemente conduceva, proponendogli i suoi servigi, giacché per il tempo che restava al castello non aveva altro da fare, si tenne in disparte e, così come aveva annunciato la sera prima, preparò il pranzo.

Poiché era ormai mezzogiorno, e dalla sera prima non aveva più notizie del suo benefattore, la giovane cominciò a vagare da una stanza all'altra.

Ad un certo punto fu attratta da un paiolo fumante in uno dei camini. Si concentrò stupita ad osservare un grosso mestolo che si muoveva da solo al suo interno. Ma c’era troppo vapore per essere certa di ciò che vedeva e mentre col capo inclinato da una parte si avvicinava incredula al camino, Virginia fu raggiunta dalla voce secca di Niccolò. “Debbo chiarirvi una volta per tutte che non amo i ficcanaso,” esclamò.

“In verità vi cercavo,” si giustificò Virginia, “E’ da ieri sera che non vi vedevo e desideravo informarvi che il pranzo è pronto.” Sorrise imbarazzata, esaminando il suo ospite che indossava sugli abiti un voluminoso e spesso grembiule.

“In tal caso siete perdonata,” esclamò l’uomo osservandola in tralice. “Vi raggiungerò al più presto,” dichiarò congedandosi.

Qualche minuto dopo, Niccolò si presentò in cucina, la camicia candida con le maniche rimboccate sugli avambracci, i primi tre bottoni lasciati aperti a rivelare la parte alta dell’ampio torace magro ma vigoroso. I capelli lisci e neri che incorniciavano un volto pallido e scarno sul quale spiccavano gli occhi neri, caldi, acuti e profondi. “Avete doti nascoste!” esclamò con aria sorniona, inspirando profondamente gli odori della minestra. Aveva un tono decisamente meno ostile.

“Ogni fanciulla che si rispetti e in età da marito ha le mie stesse doti,” osservò laconicamente Virginia, versando un mestolo di minestra nel piatto. “Sono altre le qualità di cui vado fiera!” affermò poi con alterigia, prima di intercettare uno sguardo interrogativo dell’interlocutore, sottolineato da un ampio sopracciglio alzato.

“Mi dichiaro assolutamente curioso!” replicò l'uomo, guardando il viso della ragazza violentemente imporporato.

Consapevole di aver espresso quel concetto con leggerezza, Virginia prese posto a tavola e mandò giù il primo cucchiaio di minestra. Poi, facendo appello a tutta la fermezza d'animo con cui i suoi genitori amavano dipingerla, trovò il coraggio di proseguire il discorso che, a causa del suo entusiasmo, aveva preso una piega imbarazzante.
“Lasciatemi accedere ai vostri laboratori e vi mostrerò quel che so fare. Permettetemi di aiutarvi per ripagarvi della vostra ospitalità; scoprirete che non esagero,” esclamò con audacia.

“Ah, è a quelle doti che vi riferite?” replicò l'uomo con un sorriso ironico e deluso allo stesso tempo. “A quello che mi avete raccontato sui vostri studi botanici? Avevo dimenticato che siete un’erborista,” aggiunse con aria sprezzante.

“Per la verità, sono un aspirante medico,” replicò offesa la ragazza.
“Ho già appreso tutto sul corpo umano, sulle proprietà delle erbe e delle sostanze chimiche,” protestò.

“Sono molto colpito,” replicò l’uomo, sempre sfoggiando un educato sorriso ironico, “e se mi è permesso, posso chiedervi dove avete condotto i vostri studi?”

“Beh,” riprese la giovane, “alle donne non è consentito accedere agli studi universitari, così ho approfittato della ricca biblioteca di un mio zio medico,” affermò.

“Ho studiato tre diversi trattati di anatomia: oltre cinquemila pagine. E numerosi testi di chimica e botanica,” proseguì con ardore. “Inoltre, ho avuto la possibilità di mettere in pratica ciò che ho appreso sia affiancando qualche volta mio zio sia curando i domestici di casa. Niente di grave, si intende,” si affrettò a precisare, sottolineando le parole con un gesto di assenso della testa, “ma sono orgogliosa di affermare che le mie intuizioni si sono sempre rivelate corrette!”

Niccolò la osservò mentre descriveva con fervore la sua attività di studio. Scorse negli occhi della ragazza la scintilla della passione per gli interessi che lui stesso condivideva.
“Va bene,” disse infine, “Giacché siamo condannati a questa convivenza forzata, fino a quando rimarrete con me potrete darmi una mano per i miei esperimenti!” esclamò, guardandola con curiosità.

“Dite sul serio?” chiese Virginia con un impeto che lei stessa non aveva previsto d’imprimere alla voce.

“Devo interpretare questo entusiasmo come accettazione della mia proposta?” chiese ironico Niccolò, osservando la donna visibilmente imbarazzata.

Lei annuì ma, prima di aggiungere altro, l’uomo riprese a parlare. “Devo avvertirvi che nei miei laboratori sono io a condurre gli esperimenti e indirizzare gli studi. Niente che non sia stato discusso con me può essere messo in pratica e, soprattutto, non amo le chiacchiere quando lavoro!” concluse con uno sguardo d’intesa.

Virginia trattenne il disappunto, che la fece ancora avvampare. “Sia come preferite,” rispose fredda.

“Tuttavia,” riprese l’uomo, “prima di ogni altra cosa, dobbiamo occuparci di far arrivare a casa vostre notizie senza esporvi a pericoli.”

Virginia trasalì. Solo il pensare di dover giustificare tutta quella situazione la gettava nello sgomento. “Suvvia, non vi preoccupate, ho ancora diversi amici fidati in paese,” la rassicurò l’uomo. “Pensavo che potremmo far consegnare a vostro padre un messaggio che lui possa essere sicuro provenire da voi,” spiegò, attendendo che la ragazza collaborasse ad affinare l’idea.

Virginia lo osservò spaventata. “Chi consegnerà il messaggio al vostro amico?” chiese impaurita prefigurandosi la risposta.

“Io stesso” affermò Niccolò, confermando i tumori della giovane donna.

“E mi lascereste qui, da sola?” domandò sempre più atterrita Virginia.

“Nessuno sa che voi siete qui; se in mia assenza non farete qualcosa di avventato, non vi scopriranno di certo,” le rispose Niccolò. “Piuttosto,” la incalzò, “pensate a ciò che desiderate scrivere e raggiungetemi di sopra tra mezz’ora: metterò a vostra disposizione lo speciale inchiostro di mia invenzione, capace di essere letto solo dal destinatario.” dichiarò conclusivo.

“E come potete essere sicuro di questo?” domandò Virginia incredula.

“Non fate domande a cui non posso rispondere,” la bloccò l’uomo. “Ditemi solo se avete un oggetto che appartiene alla vostra famiglia?” chiese brusco.

La giovane sfilò dal collo una collana con un medaglione. “Era di mia nonna,” disse porgendola all’uomo, “Ma …?” provò a insistere.

“Non fate altre domande, perché non avrete risposte,” esclamò Niccolò, uscendo dalla cucina.

*****



Mezz’ora dopo, Virginia salì al secondo piano e, seguendo la luce, entrò in uno dei laboratori. Le poche fiaccole che illuminavano l’ambiente non consentivano una perfetta visibilità. Niccolò era su un lato del tavolo, ben lontano dalla porta d’ingresso e, con l’aiuto di un pennello, cospargeva un foglio con una sostanza che a quella distanza alla ragazza sembrò rilucente. Ma forse a conferire quella strana luminosità a quell’angolo della stanza era un candelabro a cinque braccia posato sul piano di lavoro. Di certo, ciò che la impressionò di più fu la sensazione che il medaglione di sua nonna galleggiasse sopra il foglio a mezz’aria. Ma anche di questo Virginia non poteva essere certa giacché, appena ebbe salutato il suo ospite, questo si voltò andandole incontro con il medaglione in mano, senza che lei potesse ricordare il modo in cui l’oggetto era finito lì.
“Vi aspettavo,” disse con cortesia Niccolò. “Avete pensato al messaggio da scrivere a vostro padre?” chiese restituendole il medaglione.

“Ditemi cosa devo fare,” domandò la ragazza, mettendosi al collo il prezioso monile.

L’uomo la invitò a sedersi e le porse un calamaio e una penna. “Scrivete ciò che desiderate far sapere a vostro padre e chiudete il foglio con questo sigillo di ceralacca.”

Virginia scrisse al padre. Poco dopo aver vergato ogni parola, vedeva le lettere scolorire e sparire. Quando ebbe terminato, chiuse il messaggio in una busta e lo sigillò.

“Ecco!” esclamò consegnandogli la busta.

“Domattina presto partirò per andare in paese,” dichiarò Niccolò.

“Non tardate a tornare o morirò di paura,” gli rispose Virginia, augurandogli la buonanotte.

“Non temete,” provò a rassicurarla Niccolò.

*****



La mattina dopo Virginia si risvegliò al rumore di zoccoli di cavallo che pestavano la ghiaia sotto la sua finestra. Trasalì spaventata, ricordandosi che avrebbe trascorso l’intera giornata da sola, giacché non aveva mai smesso di temere che potessero darle ancora la caccia. Si accostò con cautela al vetro della finestra e vide Niccolò intento a stringere le cinture della sella ad un magnifico cavallo nero. Senza pensarci due volte, si precipitò fuori.

“Manterrete la vostra promessa?” lo interrogò Virginia trattenendolo per una mano.

“Tornerò appena possibile, non abbiate paura,” tagliò corto Niccolò, guardandola imbarazzato. “Spero che al mio rientro vorrete usarmi la compiacenza di indossare qualcosa di meno sconveniente,” le disse poi voltando il cavallo in direzione del paese.

Virginia trasalì confusa e uno strano calore si diffuse sul suo volto. Nella fretta di ottenere nuove rassicurazioni non si era preoccupata di coprirsi in modo adeguato. Afferrò istintivamente i lati dell’ampia camicia da notte e li incrociò serrando le braccia al petto, assalita da un profondo senso di vergogna.

*****



La giornata al castello trascorse lenta e pigra.

Niccolò nel frattempo aveva galoppato veloce e, abbandonato il suo destriero poco prima di entrare in paese, assicurandolo ad un ramo robusto, aveva mutato il proprio aspetto in quello del messo. Aveva quindi consegnato personalmente il messaggio di Virginia, affidandolo alla governante che aveva aperto la porta. L'orologio della chiesa batteva sei rintocchi quando, riprese le sue sembianze, era rimontato a cavallo per affrontare il viaggio di ritorno.

*****



Virginia era rimasta alla finestra fino a quando il sole le aveva consentito di distinguere i confini del bosco. Ma Niccolò ancora non arrivava. Allora la ragazza aveva raggiunto la cucina, dove aveva acceso qualche candela. Poi, illuminando il cammino con una bugia, tenuta saldamente nella mano destra, aveva percorso il castello scrutando l'esterno da ogni finestra. Il cuore le galoppava nel petto all'idea che potesse essere successo qualcosa di brutto al suo ospite. Era animata da una strana frenesia e inquietudine. Incapace sia di assopirsi sia di fermarsi, aveva continuato a passare da una stanza all’altra, esaminando il buio. Era trascorsa da molto la mezzanotte quando Virginia sentì finalmente il rumore degli zoccoli di un cavallo sulla ghiaia. La luna illuminava la notte e la ragazza, riconosciuta la sagoma del suo benefattore, si precipitò fuori dal castello con una fiaccola.

Niccolò aveva legato il cavallo e lo stava spazzolando. “Avevo paura che vi fosse accaduto qualcosa,” esclamò Virginia scoppiando a piangere, travolta dall’ansia che l’aveva animata per tutto il giorno.

“Ho fatto prima possibile, ma ci sono oltre sei ore di galoppo per il paese,” rispose Niccolò visibilmente stanco.

“Avrete fame,” affermò Virginia osservandolo mentre rientravano nel castello.

“Preferirei fare un bagno prima di sedermi a tavola,” rispose.

Una volta chiuso il portone, Niccolò raggiunse la sua camera e si sedette sulla poltrona. Sfilò lo stivale destro e lo lasciò cadere pesantemente al suolo. Era stanchissimo ma aveva onorato la sua promessa: era rientrato quella stessa notte.

Virginia gli annunciò dalle scale di aver riempito la vasca e lasciato qualcosa da mangiare in tavola, poi rientrò nella sua stanza per la notte. Udì i passi dell’uomo percorrere la scala e dirigersi verso il bagno ma poi si addormentò, ormai distrutta dalla stanchezza, al rumore dell’acqua agitata nella vasca.

Prima di ritornare nella sua stanza per la notte, Niccolò si affacciò alla porta della camera di Virginia. Alla tenue luce della bugia che portava con sé, intravide il volto dolcissimo della ragazza, che dormiva serenamente.

*****



La mattina seguente, nonostante le poche ore di sonno, entrambi si alzarono presto: Niccolò per abitudine e Virginia a causa del desiderio di conoscere ogni particolare del recente viaggio. Ma le ambizioni di Virginia incontrarono nelle reticenze di Niccolò un ostacolo insormontabile. Infatti l’uomo si limitò a riferirle di aver consegnato il biglietto e che sarebbe presto tornato in paese per sincerarsi della presenza dell’attesa risposta, poi si barricò in uno dei laboratori per completare un esperimento segretissimo.

Neppure a pranzo Virginia riuscì ad estorcere al suo ospite qualche particolare in più. Ed anzi, stanco per la giornata precedente, Niccolò abbandonò la cucina senza neppure attendere la frutta. Entrato nella sua stanza, si sedette sul bordo del letto il tempo necessario a sfilare gli stivali, e quindi si stese espirando rumorosamente. Era davvero spossato e snervato: era difficile ammetterlo, ma tornare nel luogo dal quale si era sentito cacciato, gli provocava sempre una forte sofferenza.

Tormentato dalle emozioni negative, ma animato dalla speranza che i familiari della sua ospite potessero avere presto notizie della ragazza scomparsa, Niccolò si addormentò profondamente.

Si ridestò più tardi, intuendo una presenza estranea. Aperti gli occhi raccolse lo sguardo preoccupato di Virginia.

“Perdonatemi, non intendevo disturbarvi,” disse la giovane, ritraendo la mano che aveva poggiato sul petto dell’uomo all’altezza del cuore. “Ma è quasi il tramonto, e, non vedendovi arrivare, ho temuto che non steste bene,” si giustificò impacciata.
Poi provò a risollevarsi, ma una mano serrata al suo polso la trattenne.

“Quanta premura,” mormorò accigliato Niccolò. “Rimorsi? Avete forse aggiunto qualcosa alla mia zuppa, per assicurarvi di agire indisturbata per qualche ora e carpire qualcuno dei miei segreti?” chiese, osservando l’espressione di stupore che si dipingeva sul volto della sua interlocutrice. E, mettendosi a sedere, sempre mantenendo salda la presa: “Perché tanto disappunto e stupore? Ho indovinato i vostri piani o vi ho suggerito un’opportunità che non avevate ancora considerato?”

“Non dite sciocchezze!” esclamò la giovane saltando in piedi e, incrociando le mani sul petto, assunse un'aria risentita.
Alla vista di tanta ostinata compostezza, Niccolò scoppio di nuovo a ridere.

“Quanta dignità,” osservò. “Suvvia, so quello che ci vuole per fare pace,” aggiunse mettendosi in piedi e, calzati gli stivali, scese allegramente in cucina.

Virginia lo attese ancora imbronciata.

“Coraggio, seguitemi,” la esortò Niccolò attendendola sulla porta. Aveva in mano due bicchieri colmi di un liquido verde.

“Cos'è?” chiese la ragazza con fare sospettoso.

“Menta freschissima!” esclamò Niccolò, bevendone una buona sorsata.
Voltò quindi le spalle e si avviò sul terrazzo del castello facendole strada. Questa volta era stato lui ad invitarla a salire fin lassù.
L’uomo si mise a sedere sulla torre che fronteggiava il tratto di cielo dove il sole si avviava al tramonto e la invitò ad imitarlo, porgendole un bicchiere.

Guardarono il panorama e bevvero la menta, squisita e freschissima.
Virginia osservò il suo ospite con curiosità, percorrendo con lo sguardo il suo profilo e soffermandosi su ogni particolare. Certo, le proporzioni di quel naso erano davvero imponenti e la sua spigolosità conferiva al volto un aspetto duro e austero. Ma la ragazza non valutò con avversione la caratteristica, trovando che invece aggiungesse al profilo tratti di importanza e regalità. Osservò le ciglia, della cui lunghezza si accorgeva solo in quel momento, cui attribuì la capacità di pervadere di dolcezza lo sguardo dell’uomo dall’atteggiamento severo e rigoroso. Si soffermò poi sulle labbra leggermente dischiuse e sull'ampia porzione scoperta di collo. Un senso di improvvisa leggerezza le invase lo stomaco e un calore, mai fino a quel momento provato, le occupò il ventre e risali fino al petto. La giovane distolse istintivamente lo sguardo nel momento in cui, con stupore, una sorprendente consapevolezza si faceva largo nei suoi pensieri.

“Era forse quella la sensazione che avrebbe dovuto provare per l'uomo che presto sarebbe stato il suo sposo e che invece le era del tutto indifferente?”

Si volto ancora a guardare Niccolò; di nuovo il calore si irradiò dal ventre verso le gambe, e Virginia si sentì sconvolta dalla potenza del suo desiderio. Abbandonò il bicchiere ormai vuoto alle sue spalle, ma non si accorse che il piano era irregolare e scosceso. Il bicchiere si sbilanciò e rotolò rumorosamente verso l'esterno, infrangendosi una quindicina di metri più sotto, senza che Virginia riuscisse a fermarlo.

“Cosa fate? Volete cadere di sotto anche voi?” le chiese Niccolò, serrandole un polso e costringendola a sedersi di nuovo.

Il contatto rinnovò le emozioni che l'avevano poco prima sorpresa. Tornò a sedersi senza trovare il coraggio di guardarlo negli occhi.

“Pensavo di andare a preparare la cena,” esclamò poco dopo, rimettendosi in piedi con l’unico scopo di sfuggire al suo imbarazzo.

“Non vorrete perdere lo spettacolo di questo meraviglioso tramonto!” disse Niccolò, e a Virginia non restò che tornare a sedersi.
Guardarono l'orizzonte fino a quando il sole fu completamente scomparso ed in cielo i tenui bagliori rossastri andarono dissolvendosi nel buio della sera. A quel punto Niccolò si alzò, raccolse il bicchiere e tese una mano alla sua compagna per aiutarla ad alzarsi.
“Presto le giornate si accorceranno e il clima non sarà più così dolce,” disse, guardandola da vicino con una luce diversa negli occhi. Ed anche quel contatto e la prospettiva del protrarsi della contiguità fisica fecero trasalire Virginia. Niccolò la condusse per mano fino alla scala a chiocciola. Scesero muti fino alla cucina.

*****



Gustarono cibo semplice e appetitoso parlando di ricerche e studi medici. Niccolò illustrò alla ragazza qualcuno degli esperimenti che stava eseguendo, diffondendosi in particolari. Constatò con soddisfazione che le spiegazioni consentivano a Virginia di comprendere la portata delle sue imprese e che la ragazza, così come gli aveva raccontato, era effettivamente in possesso di un gran numero di informazioni che rendevano possibile una collaborazione. Rispose compiaciuto a diverse domande pertinenti e stimolanti, e sentì che la diffidenza nutrita andava via via attenuandosi.

“Non tutte le donne mentono,” considerò tra sé nel tempo in cui Virginia descriveva, infervorandosi, l'effetto miracoloso di una tisana da lei preparata. La osservò mentre sul suo volto si alternavano le espressioni di stupore di quelle persone che ne avevano constatato l'efficacia, e di quella che doveva essere stata la sua espressione soddisfatta e vittoriosa quando le avevano riconosciuto il merito delle conseguenti guarigioni. Seguì le mani della ragazza tracciare in aria i gesti delle misture e ricreare gli oggetti via via nominati. La ricordò nella sera in cui l'aveva raccolta, fradicia di pioggia, davanti al portone del castello. La sorpresa e l'imbarazzo provati scoprendo di aver accolto nella sua dimora una donna, proprio lui che aveva giurato a se stesso che mai più avrebbe avuto rapporti con una di loro. E gli ritornò in mente il turbamento provato la mattina, prima della partenza, quando la luce del sole aveva sottolineato le forme gentili del corpo della ragazza avvolto solo dalla camicia da notte. Un brivido gli attraversò il corpo all'idea di tanta intimità.

“Ma mi state ascoltando?” gli chiese all'improvviso una voce, facendolo riemergere dalle sue considerazioni.

“Accidenti quanto parlate!” considerò ironicamente. “Non ci sono ancora conferme nei trattati di anatomia, ma pare proprio che la prima parte del corpo delle femmine che si sviluppa durante la gestazione sia la lingua,” aggiunse quindi in tono scherzoso.

“Mentre le ultime che si sviluppano nei maschi sono le orecchie,” lo incalzò Virginia, piccata dalla scarsa attenzione riservatale.

*****



I giorni si susseguirono velocemente. Virginia si era rivelata davvero un'ottima collaboratrice.

Niccolò la osservava compiaciuto mentre era assorta nella lettura di testi della biblioteca, ne ammirava la precisione nei dosaggi, la misura nei movimenti, la compostezza e la serietà nell’impegno. Apprezzava il suo entusiasmo mai pago, la sua dedizione al lavoro e la capacità di non trascurare neppure gli aspetti pratici della vita.

La ragazza era capace di preparare una zuppa senza smettere di studiare e di mettere in ordine la casa mandando a memoria formule chimiche appena studiate. Dal canto suo Niccolò, abituato da sempre a provvedere da solo alle esigenze quotidiane, aveva scoperto il piacere della condivisione e collaborava senza risparmiarsi a quelle incombenze, gustandosi la compagnia.

Aveva cominciato ad apprezzare persino asciugare le stoviglie, giacché in quei frangenti era capitato spesso un imprevisto e insperato contatto. Ormai era qualche tempo che si logorava per il desiderio che avvertiva crescere dentro di sé, che lo svegliava nel cuore della notte facendolo sentire audace al punto di fargli considerare la possibilità di raggiungere la sua ospite, ma che poi lo inchiodava al letto presentandogli tutti i punti a suo svantaggio.
“Sono troppo più vecchio di lei. E troppo brutto…” Si ripeteva allora, scuotendo il capo per allontanare da sé l’idea che lo tormentava e tornando a pensare alle nozze imminenti.

Il tempo trascorso insieme aveva amplificato anche il sentimento di Virginia. Quell'uomo, che in principio le era sembrato tanto ostile, le aveva aperto le porte della sua conoscenza, e lei sperimentava con apprensione l'intensità delle emozioni che la sua vicinanza le provocava.

“Come poteva abbandonarsi a pensieri così sconvenienti?” si domandava, non ritrovando più nei suoi sogni l’ingenuità che solo qualche settimana prima li animava.

*****



A colazione, una settimana dopo il primo viaggio, Niccolò annunciò che il giorno dopo sarebbe tornato in paese per verificare se ci fossero risposte della famiglia di Virginia.

La ragazza apprese la notizia con sgomento. L'idea di rimanere da sola al castello, morendo di paura come era accaduto nell’occasione precedente, la tormentava.

“Portatemi con voi, non lasciatemi qui da sola,” chiese con apprensione.

“Per esporre voi e me ad un rischio maggiore?” rilanciò Niccolò con un tono che non ammetteva repliche. “Qui sarete al sicuro,” aggiunse poi con voce più dolce.

Virginia trascorse la giornata occupandosi delle sue annotazioni. Si stupì della lucidità che riuscì a mantenere e quando giunse la notte, dopo aver acceso qualche candela, rientrò nella sua stanza da letto e si addormentò.

Stanca com’era non udì nemmeno il rumore degli zoccoli del cavallo sulla ghiaia davanti al portone del castello. Si svegliò trasalendo al contatto di una mano sulla guancia. Riaprì gli occhi in quelli cupi e scuri di Niccolò. Era seduto sul bordo del letto e la stava guardando. La contentezza di riaverlo accanto le fece vincere qualunque convenienza. Gli buttò le braccia al collo e lo baciò con trasporto.

Lo stupore di Niccolò si estinse in quel bacio inaspettato. Strinse il corpo di Virginia a sé, e il contatto del seno della donna sul petto amplificò il suo desiderio. La fece stendere sul letto e, continuando a baciarla, ne percorse il corpo con la mano libera, insinuandosi sotto la camicia da notte. Le accarezzò le gambe fino a sfiorarle il sesso e la sentì gemere e stringersi ancora a lui, cercando i suoi baci e le sue carezze.

D'improvviso si arrestò. Accolse il viso della ragazza tra le sue mani, lo contemplò, conteso tra il desiderio di baciarlo ancora e l’inquietudine, e se ne allontanò.

“Cosa sarebbe stato di lei se avessero ceduto a quell'impulso? Che posto avrebbe ancora potuto occupare nella società, se si fosse sparsa la notizia che era stata sua?” pensò, voltandosi dall’altra parte.

Quasi avesse potuto leggere i suoi pensieri, Virginia gli chiese, “Che differenza vuoi che faccia? Quando sapranno che mi sono nascosta per tutto questo tempo con te nel castello, il resto lo daranno per scontato,” disse con aria scontrosa, le guance arrossate dalla vergogna e dal desiderio.

“È per me che fa la differenza,” affermò Niccolò risollevandosi dal letto. “Dal momento in cui ti ho accolta nella mia casa, ho assunto l'impegno di proteggerti e le responsabilità che ne conseguono. Cosa penserebbe tuo padre di un uomo che non ha saputo rispettarti?” le chiese a bruciapelo.

Virginia arrossì. Non aveva esperienza in quelle faccende. Non aveva letto libri a quel proposito. Non erano cose di cui fosse conveniente parlare in giro. Si mise a sedere sul letto e la sua espressione si incupì.
“Non era mia intenzione fare qualcosa di sconveniente,” si scusò, sentendosi improvvisamente nuda e a disagio. Si strinse quindi le braccia sul petto e abbassò lo sguardo. Ora aveva l'aria di una bambina alla quale fosse stato mosso un ingiusto rimprovero.

“Non hai fatto alcunché di sconveniente,” provò a consolarla Niccolò, “ma ciò che sogniamo non può accadere,” le disse, accarezzandole la testa.
“Ho notizie da casa tua,” aggiunse poi, consegnandole una lettera e abbandonando la stanza.

Il desiderio pulsava ancora nei suoi pantaloni quando entrò in camera sua e cominciò a prepararsi per la notte.

*****



La mattina dopo Virginia entrò in cucina più tardi del solito. Aveva raccolto i capelli in una coda e i suoi occhi rivelavano che aveva pianto. Niccolò la trovò ancora più bella e desiderabile di quanto non gli fosse apparsa quando era abbandonata tra le sue braccia.

Pallida e silenziosa, la ragazza gli porse il piccolo foglio di pergamena che le era stato consegnato la notte prima. Poche parole: “Stiamo provvedendo a rimuovere ogni ostacolo causato dal tuo improvviso allontanamento da casa. Vorrai tenere una condotta consona al tuo rango nel tempo che ti separa dalle tue nozze già fissate per la mattina del 1° novembre, festa d’Ognissanti e data della prossima indulgenza plenaria.” La firma del padre di Virginia chiudeva quel breve messaggio.

Niccolò lasciò scivolare il foglio sul tavolo. “Le mie congratulazioni,” sussurrò, impallidendo.

Virginia lo osservò incredula. “Non hai altro da dire?” chiese, non riuscendo a trattenere le lacrime.

“Sai tutto ciò che è necessario,” mormorò pensieroso. “Coraggio! Siediti a mangiare,” disse poi, porgendole una tazza di latte.

“Non ho fame!” gli urlò contro Virginia, fuggendo via dalla cucina.

Niccolò la trovò in una delle stanze del secondo piano, accanto all’esperimento che le aveva chiesto di seguire. Stava trascrivendo qualcosa su un quadernetto. Si avvicinò al tavolo, le prese la mano, la invitò ad alzarsi e la abbracciò.

“Cosa ti rimarrebbe se ti mettessi contro anche la tua famiglia?” le chiese, accarezzandole la testa.

“Mi rimarresti tu…” rispose esitante Virginia, affondando il viso nel suo petto.

“Io ci sarei in ogni caso,” disse Niccolò, “ma la tua famiglia ha preso un impegno anche per te e disonorarlo comporterebbe delle sicure conseguenze,” osservò con gravità.

“Non voglio onorare i loro impegni,” protestò Virginia, continuando a stringersi al suo petto.

“Smettila di comportarti come una bambina,” la redarguì allontanandola da sé. “Dimentica ciò che è successo ieri notte nella tua stanza. Per quanto tempo potrebbe bastarti, se dovesse essere la tua unica risorsa?” concluse bruscamente.

Virginia lo osservò incredula senza la forza di replicare, poi lo vide uscire dalla stanza e, appigliandosi a quello che era stato da sempre il suo rifugio dal mondo, ritornò alle sue annotazioni, allontanando i pensieri che la turbavano.

Qualche ora dopo abbandonò il laboratorio, attraversò gli altri ambienti del secondo piano per raggiungere la scala che l’avrebbe condotta al primo e passò nella stanza di Niccolò. Si era addormentato sul suo letto, evidentemente stanco per la lunga cavalcata. I tratti del volto, contratti da una smorfia di disappunto, tradivano il suo umore.

“Portami via, te ne prego,” mormorò sottovoce. Poi, vincendo il desiderio di svegliarlo per abbandonarsi tra le sue braccia, fuggì via.

Niccolò vide la figura esile ed elegante di Virginia allontanarsi, e strinse i pugni per trattenere un gemito di disperazione.

*****



La sera cenarono in silenzio.

“Ho un lavoro da terminare, ti auguro una buona notte,” disse Niccolò dopo aver abbandonato il piatto nel lavabo.

“Non posso aiutarti?” chiese Virginia.

“Preferisco di no,” dichiarò uscendo dalla cucina.

Virginia lo osservò sparire nelle ombre della stanza buia adiacente. Dopo aver lavato le stoviglie, entrò in uno dei laboratori al primo piano dove si stava occupando di un esperimento. Questa volta non poteva avere dubbi: le sembrò di vedere distintamente una provetta che versava il contenuto in un alambicco più grande. Ma come poteva essere sicura di ciò che vedeva se la luce era così fioca, l’atmosfera satura dei vapori del calderone poggiato sul fuoco del camino e i suoi nervi così tesi per lo stress di quei giorni?
Quando sentì il vuoto nello stomaco e vide la stanza girarle intorno, provò a sostenersi al tavolo ma ottenne solo di trascinare con sé, nella caduta, un paio di libri e qualche provetta di vetro vuota.

Al piano di sopra Niccolò fu raggiunto dal rumore di un tonfo e si precipitò dabbasso. Vide Virginia abbandonata ai piedi del tavolo e si inginocchiò per soccorrerla. La sollevò e la trasportò nella stanza, che lei occupava ormai dal suo arrivo al castello. La coprì con una coperta e andò a prendere un bicchiere d’acqua.

“Cosa ho visto prima nel laboratorio?” domandò Virginia dopo aver sorbito una sorsata di acqua fresca.

“Non farmi domande, non sei pronta,” rispose Niccolò scuotendo il capo.

“Mettimi alla prova,” lo sfidò Virginia, sostenendo il suo sguardo.

“Perché non vuoi capire che ti condannerei a un’esistenza infelice?” disse il castellano, abbassando gli occhi tristemente.

“Come pensi che io possa ancora essere felice?” domandò allora Virginia, mandando giù un altro sorso d’acqua.
“Sei davvero un mago, non mi sbaglio!” insistette caparbiamente.

“Non pensare a questo, prova a riposare un po’” rispose accarezzandole i capelli.

Virginia provò a parlare ancora, ma le palpebre erano diventate di piombo e la lingua non si scollava dal palato. Cadde in un sonno profondo.

“Come potrei condannarti a questo nulla?” mormorò Niccolò abbandonando la stanza della ragazza.

*****



Il mattino dopo, al risveglio, Virginia ebbe la dolorosa sensazione di aver dimenticato qualcosa d’importante ma, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a ricordare di cosa si trattava.

“Il tuo matrimonio è ormai prossimo,” le disse Niccolò vedendola entrare in cucina per la colazione. “Presto dovremo separarci, forse non è più il caso che tu continui con gli esperimenti.”

Virginia deglutì spaventata; il pensiero la sconfortava e l’atterriva. Il tempo trascorso con Niccolò era volato e si sentiva sempre più legata a lui e niente affatto pronta per l’evento.
“Pensi sia necessario ricordarmelo?” insorse Virginia, tornando immediatamente sui suoi passi.

Niccolò la seguì con lo sguardo. Le ultime gocce della loro vita insieme, scandita dal ritmo degli studi e degli esperimenti, stavano evaporando.
I loro desiderio, che si era manifestato con prepotenza, era stato tenuto a bada con difficoltà, e nessuno dei due sembrava rassegnato, benché si astenesse da qualsiasi iniziativa.
Virginia accoglieva ogni nuovo giorno con la disperata consapevolezza di chi sa che presto dovrà per sempre rinunciare al suo cuore, e Niccolò con la triste rassegnazione di chi vede inghiottito dal buio il raggio di luce che sperava potesse di nuovo illuminare la sua vita.

*****



Poco prima di mezzogiorno, Virginia vide Niccolò arrampicarsi sulla scala a chiocciola che conduceva al tetto, recando con sé un grosso cavalletto.
“Ti aiuto?” chiese, incuriosita.

“Non ora,” rispose l'uomo, affaticato.
Fu la volta di un enorme tubo massiccio. Niccolò lo fece rotolare dalla sua stanza fino alla base della scala.

“Come pensi di tirarlo su?” chiese interdetta Virginia, considerando ad occhio il peso dell’oggetto.

“Non preoccuparti di questo! Piuttosto, se vuoi fare qualcosa di utile, prendi la sacca nera dall'armadio dell'ingresso e portala qui,” la invitò seccamente Niccolò.

Quando Virginia ebbe recuperato la sacca, ritornò alla scala ed ebbe la bella sorpresa di non trovarvi più Niccolò. Salì fino al tetto con aria titubante e, con immenso stupore, constatò che il tubo era stato montato sul cavalletto.
“Come ci sei riuscito?” domandò interdetta.

“Sottovaluti la mia forza,” replicò Niccolò con voce divertita, togliendole dalle mani la sacca e cominciando a tirar fuori degli oggetti.

“Vuoi darmi qualche spiegazione?” chiese stizzita Virginia, che cominciava anche a sentire freddo.

Niccolò sospirò.
“Consideralo un regalo speciale per il tuo matrimonio,” disse infine Niccolò. “Uno spettacolo straordinario al quale possono assistere solo pochi eletti, e io voglio riservarlo a te,” esclamò. “Stasera, con l'aiuto di questo telescopio, potremo osservare il perfetto allineamento della Terra con Saturno, un evento che si può ammirare solo ogni 29 anni,” illustrò con enfasi.

Virginia osservò il suo benefattore che continuava a montare lenti e manici. Quando vide che finalmente copriva lo strumento con un telo impermeabile, si rallegrò al pensiero di poter rientrare. “Meno male, mi stavo congelando,” disse varcando la porta del terrazzo.

*****



Dopo cena Niccolò si alzò da tavola con un entusiasmo che non dimostrava da tempo.
“Vieni con me?” chiese alla ragazza abbandonando la cucina.

Virginia lo raggiunse dopo aver recuperato un pesante mantello dalla cassapanca ai piedi del letto e, avendo constatato quello strano buon umore, si rabbuiò. Presto il suo destino si sarebbe compiuto, e l’uomo che aveva imparato ad amare sarebbe stato strappato via dalla sua vita.

Niccolò considerò con attenzione la donna che aveva accolto solo poco tempo prima. Dal suo arrivo era diventata ancora più bella. O forse era il suo desiderio a renderla così attraente.
“Non dovresti corrugare così la fronte. Cosa penserà il tuo futuro marito se ti vedrà sempre così angustiata e sofferente?” chiese con tono dolcemente canzonatorio.

Virginia lo guardò con risentimento. “Continui a preoccuparti del mio sposo?” chiese indispettita.

“Di lui e di ciò che potrebbero pensare della mia ospitalità i tuoi parenti,” affermò con un sorriso traverso Niccolò.
Virginia provò ad allontanarsi, esasperata.

“Aspetta, non intendevo offenderti,” disse allora Niccolò trattenendola per un polso. “E’ di te che mi preoccupo,” mormorò pensieroso. Poi, cercando di farle recuperare il buon umore, “L'allineamento ormai sarà presto completo, non perdere questo spettacolo!” la pregò dolcemente, tendendole una mano e invitandola ad avvicinarsi all'apparecchio.

“Non vedo niente,” protestò Virginia dopo aver avvicinato l'occhio allo strumento ed essersene subito allontanata.

“Riprovaci ancora,” le suggerì Niccolò.
Virginia si abbassò di nuovo sul telescopio e finalmente lo vide. Il pianeta con l'anello era lì, davanti a lei. Si voltò quindi verso Niccolò con un’espressione elettrizzata da bambina.

“Grazie!” esclamò raggiante, “è il regalo più bello che abbia mai ricevuto!” dichiarò con foga guardando Niccolò che era proprio davanti a lei e poi - non seppe mai da chi era partita l’iniziativa - si ritrovò tra le sue braccia, e l'entusiasmo condiviso si tramutò in passione. Le loro bocche si cercarono mentre le mani, mai paghe di carezze e abbracci, esploravano il corpo dell’altro.
Virginia sentiva crescere il desiderio e avvertiva quello dell'uomo compresso sul suo ventre.

“Che stiamo facendo?” domandò all’improvviso Niccolò, allontanandola da sé con decisione.

“Niente che anche il cielo non voglia,” mormorò Virginia tornando a baciarlo.

“Mi odierai per questo,” sussurrò il castellano incapace di resistere oltre.
Ma aveva appena finito di pronunciare quelle parole che dal fitto del bosco cominciarono ad emergere dei cani. Abbaiavano ed erano seguiti da uomini che impugnavano fiaccole.

“Ecco finalmente il castello maledetto!” esclamò l'uomo che guidava il gruppo.

“Secondo le informazioni del vescovo, la cagna di Satana si trova qui!” ringhiò un secondo uomo corpulento.

“Il Barone Guidelli sarà contento almeno quanto il vescovo di celebrare il processo della strega e liberare il figlio dall’impegno preso,” affermò ad alta voce un uomo alto e muscoloso.

“Povero Conte Luisi! Pensava che saremmo venuti a prendere la figlia per il matrimonio!” esclamò ridendo un altro uomo più basso e tarchiato.

“Come ha potuto credere che davvero la famiglia Guidelli avrebbe accolto quella puttana, dopo che ha vissuto sotto lo stesso tetto con lo stregone?” replicò l'uomo corpulento.

Virginia e Niccolò ascoltarono con apprensione quei discorsi.
“Hai fiducia in me?” chiese Niccolò, prendendola per mano e conducendola attraverso la scala a chiocciola e poi nella sua stanza da letto.

“Ne dubiti ancora?” rispose Virginia sforzandosi di sorridere nonostante avesse tanta paura.

“Allora rimani qui e non farti condizionare da ciò che potrai vedere ed ascoltare. Promettimelo!” esclamò prima di scioglierla dall’abbraccio.

“Ma come farai ad affrontarli da solo?” gemette Virginia, trattenendolo.

“Promettimi che la tua fiducia e il tuo amore non vacilleranno!” replicò Niccolò. “Ora fa’ come ti ho detto e non venire fuori fino a quando non sarò io a chiedertelo. Qualunque cosa tu possa sentire!” le intimò. E prima che Virginia potesse protestare, “Mi prometti che farai ciò che ti ho chiesto?” le chiese ancora. Virginia annuì e Niccolò si diresse alla porta d'ingresso.

La ragazza udì dei colpi di battente e voci concitate salire dal basso.

Qualcuno chiedeva di lei e la voce di Niccolò affermava con sicurezza di non aver mai visto donne da quelle parti. Ma i cinque sgherri non fecero caso alle sue parole e irruppero in uno dei laboratori del primo piano.

“Ecco la prova della tua attività al servizio di Satana!” esclamò un assalitore con voce stentorea, mentre con un braccio spingeva con violenza le provette, mandandole ad infrangersi al suolo.
Mesi di studi e di osservazioni in fumo,” pensò Niccolò, trattenendo ancora ogni reazione.

Intanto, dalla stanza accanto una voce trionfante attirò l’attenzione di tutti. “Ed ecco anche la prova della presenza della cagna!” esclamò.

Gli altri quattro gli corsero incontro e Niccolò li segui in tempo per vedere uno degli uomini estrarre dalla cassapanca ai piedi del letto alcuni indumenti femminili.

“Aspetta che io ti trovi, puttana!” esclamò, lanciando via alcuni capi di biancheria. Poi si rivolse agli altri. “E voi, imbecilli, che aspettate? Catturate quel furfante e legatelo bene. Sono sicuro che il vescovo sarà felice di fargli qualche domanda… usando i suoi metodi speciali.” E scoppiò in una grassa risata oscena.

A quel punto, Niccolò seppe che non c’era altra strada.

Sollevò entrambe le mani e, posizionatele aperte dinanzi a sé, “Corvus Convertere!” esclamò con rabbia.

Immediatamente i cinque uomini si accasciarono al suolo e dai loro abiti uscirono cinque grossi corvi, che spaventati cominciarono a svolazzare, sbattendo contro pareti e oggetti.
Niccolò posizionò nuovamente le mani nella stessa posizione di prima.

“E ora andate, e portate al vescovo la notizia della nostra liberazione, e che sia maledetto!” ordinò implacabile. E mentre i cinque uccellacci volavano via dalla porta, Niccolò si accasciò in ginocchio.

l castello ripiombò nel silenzio. Virginia rimase a lungo in ascolto e solo qualche istante dopo percepì un respiro affannoso salire dal basso. Con cautela, si avventurò per la scala e, constatato che di sotto c’era solo il suo benefattore, lo raggiunse e gli posò una mano sulla testa.

Lui sollevò verso di lei il viso stanco e addolorato. “Devi andartene al più presto da qui!” le disse. “Sarai per sempre dannata se rimarrai con me,” sospirò, affondando il volto nelle mani.

“Cosa è successo?” chiese spaventata la ragazza.

“Ho inviato il nostro messaggio al vescovo, ma ora sarà impossibile continuare a vivere qui.” Esclamò disperato, non riuscendo a guardarla negli occhi.

“Non avevamo altra scelta, non ci avrebbe mai lasciati in pace!” provò a consolarlo Virginia.

“Avrei dovuto pensare a qualcos’altro, metterti al riparo da tutto questo…” ma i singhiozzi ruppero la voce di Niccolò.

Virginia gli si inginocchiò davanti. “Ti prego, non dannarti ancora. Il destino che ti ha imposto quel vigliacco per tutti questi anni è già troppo crudele,” mormorò abbracciandolo stretto.

“Ma tu non hai paura di me?” le chiese Niccolò, sciogliendosi dall’abbraccio e osservando sorpreso quella strana ragazza.

“No!” rispose Virginia scuotendo il capo; poi avvicinò il volto al suo fino a sfiorargli le labbra.

“Non impazzirai vivendo con me e lontana dalla tua famiglia?” le sussurrò Niccolò.

“No,” ribadì la donna, “Ma credo che potrei impazzire se non mi baci subito,” aggiunse mordendogli delicatamente il labbro inferiore.

Niccolò si sollevò e le prese la mano, aiutandola ad alzarsi. La abbracciò e la baciò con passione. Poi la portò in braccio nella sua camera da letto e la adagiò sul letto, quindi le si stese accanto e la baciò ancora.

L'alba li sorprese addormentati, l'uno tra le braccia dell'altro.

“Dove andremo ora?” chiese Virginia, accogliendo il primo sguardo del mattino del suo uomo.

“Ho molti amici nel nord della Francia,” rispose Niccolò accarezzandole il viso. “Se tu vuoi, potremmo ricominciare a vivere lì,” mormorò incerto.

“Ti seguirò ovunque andrai, se mi vorrai con te,” affermò la ragazza sorridendo dolcemente.

“E non hai paura di essere maledetta da tuo padre?” chiese ancora l’uomo.

“Io sono sua figlia e lui mi ha educata alla libertà, ma se fossi obbligata a scegliere, e Dio non voglia, preferirei vivere senza la sua benedizione che lontano da te,” sussurrò Virginia arrossendo; poi, sollevandosi su un gomito per guardarlo meglio, lo baciò.

*****



Quella stessa notte, protetti dal buio, arrivarono in paese. In casa Luisi il ritorno di Virginia generò un grande trambusto. La ragazza riferì delle ragioni della fuga e dell’accoglienza e protezione ricevute al castello e sua madre pianse per non aver compreso le angosce del suo angelo.

Il Conte Luisi raccontò di quanto fosse stato difficile non cedere alla tentazione di far valere le giuste ragioni della sua famiglia, attendendo che i misfatti e i tradimenti si svelassero da soli. Precisò che, solo dopo aver ricevuto il messaggio di Virginia e aver saputo che era al sicuro sotto la protezione di un uomo rispettabile, aveva ripreso a sperare di poterla riabbracciare. Il Conte riferì poi delle strane circostanze in cui era morto il Vescovo, cadendo misteriosamente da cavallo durante la sua passeggiata mattutina, proprio lui che era un eccezionale cavallerizzo. Disse che, sentendolo urlare, i suoi servitori erano accorsi e avevano intravisto delle strane figure allontanarsi dal luogo dell’incidente. Animali o uomini, non era ancora chiaro. Sul corpo orrendamente mutilato, al quale erano stati cavati gli occhi, erano state rinvenute numerose piume e penne nere, del tutto simili a quelle di corvo.

Virginia e Niccolò ascoltarono quei racconti in silenzio. Poi Niccolò parlò. “Messere, credo di aver tradito la fiducia che da sempre mi avete accordato,” disse rattristato.

“A giudicare dalla gioia che leggo sul volto di mia figlia, immagino che abbiate delle giustificazioni solide,” replicò il conte.
Seguì una lunga conversazione privata tra Niccolò e il conte, conclusa nel migliore dei modi.

I due giovani avevano ricevuto la benedizione della famiglia Luisi e il futuro sorrideva loro, benevolo.

Le nozze furono celebrate quella stessa notte dal parroco della vicina chiesa di San Francesco, alla presenza della famiglia e dei servitori.

I preparativi per la partenza di quella figlia così amata furono affrontati con composta rassegnazione, ma vedere Virginia serena e convinta della sua scelta era un balsamo che avrebbe lenito il dolore della separazione.
*****
Alle prime luci dell’alba, la carrozza, trainata da quattro cavalli, era già pronta.

Gli sposi presero posto, l’uno di fronte all’altra.

Ben presto, stanco per gli avvenimenti degli ultimi giorni, Niccolò si assopì.

Virginia osservò il suo uomo, poi si soffermò sugli anelli nuziali che si erano scambiati da poco e impallidì. “Sarebbero davvero stati felici nel posto in cui erano diretti?

La campagna pugliese con i suoi generosi frutti porgeva loro un saluto benevolo, quando la ragazza vide apparire, su un’altura, l’inconfondibile castello dal quale erano fuggiti. Aprì meglio la tendina e rimase a fissare l’imponente struttura.

“Rimpianti?” chiese Niccolò ridestatosi, quasi rispondendo al richiamo delle antiche mura che l’avevano tenuto prigioniero per tanti anni.

“Nessuno,” disse Virginia perdendosi negli occhi profondi del suo sposo e, osservando l’espressione dolcissima con la quale lui aveva accolto quella risposta, seppe che quella era la verità e che con lui sarebbe stata felice in qualunque parte del mondo. Si alzò dal suo posto e si sedette accanto a Niccolò.

“Non potresti abbreviare il nostro viaggio?” gli chiese con tono allusivo?

“Questo non posso farlo,” dichiarò Niccolò, “… ma forse posso fare in modo da renderlo piacevole,” aggiunse baciandola con ardore.

FINE



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