Ed ecco la traduzione dell'articolo di Sheila O'Malley più sopra.
Per la gioia di Chiara che me lo ha chiesto, ho avuto una piccola pausa in ufficio oggi, così l'ho completato.
E' un articolo bellissimo. Sono contenta che abbiate pensato a me.
Mi spiace solo di non aver potuto curare ulteriormente la traduzione, ma il tempo è tiranno...
Alan Rickman: 1946-2016
by Sheila O'Malley
14 gennaio 2016
Alan Rickman non si limitava a parlare: lui masticava le parole, le arrotolava in bocca prima di lasciarle uscire, le assaporava. Prolungava le sillabe, faceva durare le consonanti (chi può mantenere una ‘t’? O una ‘n’? Alan Rickman poteva e lo faceva). Il suo impeccabile stile vocale, così unico, era un marchio della sua educazione teatrale alla Royal Academy of Dramatic Arts, come pure dei suoi anni di recitazione in teatro, il suo primo amore. Forse la rotonda sensualità della sua voce, resa così stupefacente quando era unita a consonanti tronche o allungate, era il motivo per cui era considerato perfetto per interpretare parti da cattivo e da manipolatore sogghignante. Ma molti dei suoi ruoli migliori sono quelli in cui interpretava uomini che soffrivano con grandi emozioni, uomini con abissi di tenerezza. In questi contesti, Rickman era diventato un classico attore principale, mentre la sua voce caratteristica risuonava come lava fusa, esplodendo attraverso la dura crosta del suo aspetto esteriore. Rickman sapeva fondere i cuori. Poteva esser parte di un contesto fantasy o realistico, di una situazione ambientata nel 19mo secolo o nel 20/21mo secolo. Il suo accesso a sé stesso, a tutti gli aspetti di sé stesso, il crudele, il tenero, il suo humor, la sua sessualità (o la sua repressione) sono il motivo per cui la sua carriera è durata 40 anni, e la ragione per cui non è mai stato senza lavoro sin dal giorno in cui ha cominciato la sua carriera.
Rickman iniziò come graphic designer: aveva studiato al Chelsea College of Art e al Royal College of Art. In seguito, aprì il suo studio di graphic design, gestendolo per un paio di anni prima di decidere di fare un’audizione alla Royal Academy of Dramatic Arts. Aveva 26 anni. Un po’ tardi per iniziare. È un dettaglio intrigante riguardo a quest’uomo. Si è allontanato dalla carriera a cui si era votato, si è ritirato da un’altra arte in cui era bravo, per gettarsi nella pura incertezza dello show business. Ha scelto deliberatamente di recitare. Quando ha iniziato in teatro, non interpretava ruoli maschili giovani, come succede ai ventenni che invadono il mercato ogni paio d’anni. Lui ha cominciato interpretando “ruoli”. Era già leggermente stagionato, con occhi acuti pieni di esperienza. Non gli sarebbe toccato perder tempo interpretando “innocenti”.
La prima volta di Rickman in America fu una produzione del 1987 di Les Liaisons Dangereuses, targata Broadway, in cui interpretava il Visconte di Valmont (il ruolo di John Malkovich nel film) opposto a Lindsay Duncan come Marchesa di Merteuil (Duncan sarebbe stata di nuovo la sua co-star nell’acclamato revival del 2002 di Private Lives di Noel Coward, a Broadway). Rickman vinse il Tony Award per la sua performance. L’anno seguente, fece il suo indimenticabile debutto cinematografico americano come il genio del crimine Hans Gruber, nel fenomeno che è stato “Die Hard”. La sua ombra si estese immediatamente oltre la scena, perché tutti videro quel film, tutti notarono Rickman, tutti amarono la deliziosa determinazione delle sue battute, il suo disinteresse psicopatico per le vittime coinvolte.
Rickman avrebbe potuto avere una bella carriera come interprete di ruoli da cattivo. Ma il film “Truly Madly Deeply” del 1990, diretto da Anthony Minghella, capovolse le aspettative. Rickman interpretava Jamie, il fantasma dell’innamorato scomparso di Juliet Stevenson. Il personaggio della Stevenson aveva pianto questa perdita per un anno, ed una notte lei si siede a suonare il piano. Mentre lei suona, si sente improvvisamente un violoncello fuori dallo schermo, e vediamo “Jaimie”, che aveva suonato il violoncello nella vita reale, seduto dietro di lei. L’incontro che segue è talmente struggente di emozioni da mettere in imbarazzo Ghost. È scarsamente romantico. I due si aggrappano l’uno all’altra, si stringono, piangono e si scambiano parole d’amore, singhiozzano. Come “Jaimie”, Rickman è sia comico (è sempre gelido e scontroso), sia tragico (se lei non può lasciarlo andare, neanche lui allora può lasciar andare lei). Un intero nuovo mondo si aprì per Alan Rickman, almeno in termini del pubblico che lo aveva visto solo in un gigantesco blockbuster nei panni di un cattivo-terrorista multinazionale. Quando Jaimie dice a Nina, “Grazie perché ti sono mancato”, il suo tono è quieto e pensoso, ma Rickman ha dato alla battura un senso quasi di umiltà: “Questa donna meravigliosa ha pianto la MIA perdita così intensamente? Ho davvero tutto questo valore?” Il modo con cui porge la battuta apre in due il cuore del film.
Nel corso degli anni, Rickman ha esplorato il suo dono in ogni modo possibile, tirando fuori una qualità e nascondendone altre, come un maestro. La storia dettava il suo stile. Era un vero professionista. Non c’era egocentrismo nel suo lavoro.
Nel 1995, apparve in “Sense and Sensibility” di Ang Lee, anche se la genesi del progetto era di Emma Thompson, che aveva adattato il romanzo di Jane Austen. Rickman interpretava l’onesto Colonnello Brandon, un uomo così corretto, così perfettamente educato da confondersi praticamente con il mobilio. Forse il segreto dell’efficacia di Rickman in questo ruolo è che non c’è autocommiserazione nel ritratto (l’autocommiserazione l’avrebbe distrutto). Vi mette in grado di credere che il Colonnello Brandon, anche se sprovvisto dei fuochi d’artificio di Willoughby (Greg Wise), può offrire a Marianne (Kate Winslet) qualcosa di molto più essenziale.
Uno dei momenti più potenti del film appartiene a Rickman. Marianne è mortalmente malata e i dottori hanno perso le speranze. Brandon prende Elinor da parte e le chiede cosa può fare. Elinor declina l’offerta, dicendogli che ha già fatto abbastanza, e Brandon, schiacciandosi contro il muro a pannelli di legno come se avesse bisogno di un supporto, replica con la battuta seguente: “Datemi qualcosa da fare, Miss Dashwood, o diventerò matto.” Questo è l’effetto “lava fusa” della sua voce, il sentimento che sgorga da un uomo non abituato a mostrare le sue emozioni. È una performance meravigliosamente ricca, ed ha l’effetto di un attacco a sorpresa. Willoughby è l’ostentazione, Marianne è l’emozione, Elinor è la repressione forzata, e tutti i personaggi secondari sono cialtroni incredibili. Ma il Colonnello Brandon ha un cuore nascosto in petto, una fiamma che tremola sommessamente prima di esplodere di luce. È difficile immaginare un altro attore in quella parte.
Durante gli anni ’90, Rickman appare in piccoli e grandi film come “Galaxy Quest”, “An Awfully Big Adventure”, “Robin Hood: Prince of Thieves”. Lavora con Neil Jordan in “Michael Collins”, interpretando Éamon de Valera, fondatore del Fianna Fáil e successivamente presidente dell’Irlanda, una scelta di casting geniale, i due uomini si somigliano davvero tanto fisicamente. È divertentissimo in “Dogma” di Kevin Smith, in cui interpreta l’incavolato e sporco angelo Metatron. Quando appare per la prima volta nella camera da letto di una ragazza, come se si fosse appena svegliato da una sbronza, lei brandisce una mazza da baseball, urlandogli di uscire. Lui risponde, minacciosamente, “Oppure cosa farai, esattamente? Mi colpirai con quel
fffffffffish (pesce)?” (E la mazza di baseball si trasforma in un pesce). Di nuovo, chi sceglierebbe di trascinare la “f” in quel modo? Allungare la “f” cambia quello che avrebbe potuto essere solo uno stupido gioco visivo in qualcosa di eccentrico, legato al personaggio, e molto ma molto più divertente. Rickman ha esplorato ogni possibile angolo del linguaggio, scoprendo possibilità che prima non c’erano.
J.K. Rowling ha detto che quando stava scrivendo i libri di Harry Potter, aveva già Alan Rickman in mente per il deliziosamente malevolo (ed anche ambiguo) Severus Snape. Rickman l’ha ispirata mentre lei lo creava. Il look di Rickman come Severus comportava un paggetto stile dandy in nero assoluto, che ricorda John Cazale in “Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani” o Javier Bardem in “Non è un Paese per Vecchi”. È un caschetto demenziale. Libero da richieste di realismo, Rickman si immerge, sprofonda in Severus, ed ogni sguardo sfuggente, ogni scintillio degli occhi, ogni mormorio in disparte, ogni oltraggiato dilatare di narici contribuiscono ad aumentare l’effetto finale. Ma la performance non è un puro concentrato di tic. Appare vissuta e sentita, il che la rende anche più assurdamente piacevole. Il pubblico più giovane che non aveva mai visto “Die Hard” ha ricevuto così il primo assaggio di quello che le generazioni più grandi già sapevano: questo tipo potrebbe fare tutto. Tutto.
Rickman ha anche scritto e diretto due film, “The Winter Guest” del 1997, con Emma Thompson e Phyllida Law, dove ha dimostrato grande sensibilità per le atmosfere come regista, e “A Little Chaos” dell’anno scorso (2015), insieme a Kate Winslet, in cui lo stesso Alan Rickman interpreta il Re Sole. Non ho ancora visto “A Little Chaos”, ma il pensiero di Alan Rickman come Re Luigi XIV mi riempie già di eccitazione.
Nel primo decennio del 2000, tra un film di Harry Potter e l’altro, Rickman ha continuato a lavorare costantemente, apparendo nei ruoli di Ronald Reagan in “The Butler” di Lee Daniels, Hilly Kristal in “CBGB”, il Giudice Turpin in “Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street”, e allo stesso tempo prestando la sua voce a vari personaggi dei cartoni animati. Non ha mai cessato di apparire in teatro, e tutti coloro che hanno avuto la possibilità di vederlo sul palcoscenico ne sono così grati!
Nel 2002, un mio amico ottenne dei biglietti per noi per la produzione a Broadway di Private Lives di Noel Coward, che ripresentava Alan Rickman e Lindsay Duncan, di nuovo insieme dopo Les Liaisons Dangereuses di 15 anni prima. Private Lives andò in scena solo per 16 settimane, e divenne una di quelle rarità nel teatro di New York: un “evento”. Private Lives era andato esaurito durante le recite a Londra, e la notizia aveva raggiunto gli amanti del teatro attraverso l’Atlantico. Quando i biglietti vennero messi in vendita, il mio amico era pronto.
Quella produzione è una di quelle che non dimenticherò mai. Io vedo parecchi lavori teatrali, qualcuno buono, qualcuno accettabile, qualcuno da dimenticare. Ma una produzione come Private Lives non salta fuori così spesso, ed anche quando la commedia era in scena, io ricordo di aver pensato, “Sono così felice che un giorno potrò dire di averla vista.”
Le produzioni teatrali professionali e i laboratori di recitazione di Private Lives spesso si concentrano sullo sfolgorante spirito dei divorziati Elyot e Amanda, che si rincontrano di nuovo mentre sono nelle loro rispettive lune di miele con nuovi partner e si lanciano battute brillanti l’un l’altra dai loro balconi. Ma senza il forte legame di collegamento esistente tra questi due personaggi disincantati e sofisticati, la commedia non può palesarsi. Sarebbe come “La Signora del Venerdì” senza l’alchimia tra Cary Grant e Rosalind Russell. Il pubblico deve vedere che i personaggi sono pensati per stare insieme, mentre in sottofondo nasce la domanda: chi altro potrebbe sopportare questi due maniaci?
Alan Rickman e Lindsay Duncan erano così sicuri di loro in quel difficile linguaggio che, quando sono tornata a casa, ho tirato fuori di nuovo la commedia. Volevo sperimentare di nuovo il miracolo di come avevano riempito quel linguaggio, di come lo avevano fatto suonare spontaneo. Rickman e Duncan avevano creato una sensazione emozionante di erotismo tra di loro, il magnetismo di questa alchimia così forte che dovevano sfidarsi a vicenda con battute verbali. La ragione per cui sono così aggressivi non è perché sono malvagi o perché sono “sofisticati”, ma perché fanno fatica a resistere alla passione della loro reciproca presenza.
Vedere Rickman dal vivo era una rivelazione. Alcuni attori cinematografici scompaiono nei grandi teatri: senza l’aiuto del closeup della macchina da presa, non sono in grado di proiettare emozioni. L’emozione di Rickman in Private Lives era tutta nella sua postura eloquente, così corretta nel primo atto, e sfinita di sazietà nella stupefacente apertura del secondo. Era in quella voce, quella bellissima voce fluida e strana, così ben conosciuta dal pubblico in tutta la sua duttilità. La sua voce era uno “strumento” incredibile molto più sul palcoscenico che non in un film. L’ho sempre adorato per la sua voce, ma in Private Lives, la usava per esprimere quello che c’era nel cuore amareggiato e orgoglioso di Elyot, in un modo tale che io, seduta a dieci file di distanza dal fondo del teatro, potevo ascoltarlo e sentirlo nelle mie ossa. Non è qualcosa che possano fare i dilettanti.
Alan Rickman aveva solo 69 anni quando è morto. Avrebbe sicuramente continuato a lavorare fino agli 80, o anche oltre, se fosse vissuto. Era quel genere di attore. Non avrebbe mai smesso di piacerci, sorprenderci, intrigarci. Non metteva in mostra la sua etica di lavoro, non si dannava per la nomination all’Oscar, non aveva ansie di carriera. Faceva il suo lavoro brillantemente, andava a casa, appariva in un lavoro teatrale, dirigeva qualcosa, interpretava brillantemente un altro ruolo in un film, tornava a casa, e ancora e ancora.
Un vero professionista.
Edited by Lady Memory - 5/4/2016, 06:53