Il Calderone di Severus

N.13: Un anno di sorrisi per Severus

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view post Posted on 16/6/2013, 19:25

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C'è quasi tutta la 24a settimana libera: fatevi sotto, gente! :)




Prenotazioni per la 23a settimana di Sorrisi per Severus:


Lunedì 17: Chiara
Martedì 18: kià (ma se qualcun altro si fa avanti, meglio)


Prenotazioni per la 24a settimana di Sorrisi per Severus:

Mercoledì 19: Leonora/Ida (24)
Giovedì 20: Leonora/Ida (24)
Venerdì 21:
Sabato 22:
Domenica 23:
Lunedì 24:
Martedì 25:

Un sorriso per Severus al giorno
toglie il malumore di torno :)

 
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view post Posted on 17/6/2013, 11:04

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CITAZIONE (kijoka @ 15/6/2013, 23:15) 
nr. 23

Errori

Ammetto che qui ho faticato un po' a trovare il sorriso per Severus, ma non mi sono scoraggiata. Ho letto la storia una seconda ed una terza volta e poi, finalmente, ho capito: mea culpa, poichè mi era sfuggito nella trama.
Lucius.
E' lui il perno, almeno in questo caso.

Sono curiose le riflessioni che fai fare agli altri personaggi riguardo Severus. Certo, quello non è il club dell'uncinetto in cui se non si fa bene qualcosa si può sempre disfare e migliorare - perdona il paragone, è il primo che m'è venuto in mente! :lol: - lì c'è in gioco la vita dei seguaci dell'Oscuro, poichè è omino non così incline alla clemenza gratuita.
E tutti dubitano di Severus, in un modo o nell'altro, anche Lucius. Esiste mai veramente un luogo od una persona che non abbia mai dubitato di lui? Oh sì, certo, qui il pensiero vola rapidissimo ad un uomo dagli occhiali a mezzaluna e qui il paragone si fa ancora più straziante.

Ottimi dialoghi, ottima introspezione di Lucius e, come sempre, splendida descrizione degli ambienti: sembrava effettivamente d'essere lì ad origliare la conversazione.
:)
 
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view post Posted on 17/6/2013, 14:34
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Per Severus, perchè sia di nuovo e per sempre felice! :lovelove: :lovelove:
Con tutto l'amore che posso. :D :wub:

SE VUOI PUOI CHIAMARMI SEVERUS



Ama e ridi se amor risponde
piangi forte se non ti sente
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior.


(Via del campo di Fabrizio de André)



Le auto, il traffico, il rumore mi sommergono, mi squassano.
Non ci sono più abituato, per la verità, non ci sono mai stato abituato.
Sono uscito dall’ospedale, ne sono fuori: mi trovo in un angolo squallido e polveroso di Londra, le mani sprofondate nelle tasche; ho scelto di indossare anonimi abiti Babbani.
Sono vivo e questa è l’unica cosa drammaticamente vera.
Decido di perdermi tra queste strade, forse mi sono già perduto, ma non me ne sono accorto; ho smarrito me stesso da tanto di quel tempo che non so più ritrovarmi.
Cammino, ma non so quanta strada posso percorrere prima di sentirmi stanco, non conosco più neanche le possibilità del mio corpo; continuo a domandarmi fin da quando mi sono svegliato in ospedale, per quale sarcastico fato, proprio io, tra tanti che sono ormai sotto terra, ce l’ho ancora e posso usarlo, questo dannato corpo.
La grande città anonima non riconosce nessuno, non si cura di nessuno; i passanti non esistono l’uno per l’altro, sono solo corpi che occupano uno spazio, un fastidio quando capita di voler coesistere in un luogo ristretto.
L’umanità si spintona, si accalca, ma non c’è una briciola di reciprocità, di aiuto, di consapevolezza dell’altro da sé: e a me va bene così.
Mi appoggio ad un muro, in un angolo, in disparte, fuori dalla pazza folla.
Da quanto tempo cammino? Forse non molto, ma dopo due mesi di ospedale mi stanco presto e più di così non ce la faccio, devo fermarmi: le mani nascoste nelle tasche insieme con la bacchetta, mentre la nebbia nasconde il resto di me.
L’insegna colorata di un pub ammicca in fondo alla strada è un luogo per relitti, per coppiette irregolari, per un’umanità stanca: niente di meglio.
Non mi curo degli altri avventori e loro non si curano di me, va tutto bene; il bancone è semivuoto, gli sgabelli liberi; ordino un whiskey e chiedo di avere tutta la bottiglia: posso pagare.
Il primo bicchiere mi brucia nella gola ancora sensibile, ma il secondo e il terzo vanno giù che è un piacere.
Porto via la bottiglia e consegno venti sterline al barista. Non mi chiede perché bevo, né perché sono lì; non gli interesso tranne che per i soldi che gli ho dato in cambio di un liquore di infima qualità, ed è quello che voglio.
Sono stordito, desidero esserlo è il meglio che mi capita da mesi e continuerò così.
Con la bottiglia in mano vado nell’unico posto che mi viene in mente, quella specie di casa a Spinner’s End, se ancora esiste dopo le visite di nemici buoni e cattivi; mi verrebbe quasi da ridere: ho solo nemici, ma anche questo l’ho sempre saputo.
Non ho fretta di rivedere quella catapecchia: evito la smaterializzazione, e poi sono troppo confuso e stanco.
La nebbia si fa più densa e le luci del traffico incessante si aprono un varco tra le spire di quello che sembra fumo spesso e grigio.
Ho la testa ovattata, leggera, i pensieri rallentano. Per non perdere questa sensazione, che pare riempire la voragine che ho dentro, bevo un altro paio di sorsi dalla bottiglia.
Meglio, va molto meglio: forse Tobias non aveva tutti i torti. Chissà perché quando penso a lui non mi viene mai la parola padre, ma non indago.
La ciminiera, il rigagnolo che non merita il nome di fiume e la strada sporca sono qui e in fondo, nel buio, la casa.
La porta è stata scardinata, qualche mio caro amico di una delle due fazioni ha cercato di farmi visita. Non mi ha trovato, ma mi ha lasciato qualche regalo: meritato, secondo lui o loro, forse anche secondo me.
Con la bacchetta riparo la porta e la chiudo alla meglio; non ho voglia di fare conoscenza con qualche balordo di passaggio che si farebbe male, dato che non mi conosce abbastanza.
Raddrizzo una sedia sbilenca e appoggio sul tavolo la bottiglia a metà, ma ancora per poco.
Buon sangue non mente! Nell’ebbrezza mi viene da ridere e rido, rido mentre sento le lacrime che mi bagnano il viso, poi bevo ancora per stordirmi di più, per perdere conoscenza e sensibilità, per non pensare: non ho fortuna, un barlume di lucidità mi perseguita e tutto quanto non ha più tanto senso.
Silenzio… buio… l’ultimo pensiero coerente: sono libero, se non di vivere, almeno di morire o di ubriacarmi; poi rumore di vetri infranti.

*************************
Mi sono svegliato disteso sul pavimento, sono caduto e devo aver vomitato: bravo Severus, mi complimento!
La bacchetta mi aiuta e faccio sparire lo sporco e i cocci della bottiglia.
La testa mi fa male da impazzire, ma forse pazzo lo sono già.
Sono uno a cui hanno tagliato i fili che lo reggevano, che lo facevano camminare, parlare, muoversi; i burattinai se ne sono andati e mi hanno buttato nell’immondizia; non servo più, sono rotto, sporco, inutile.
Qui, dentro questa baracca, ho vissuto i periodi peggiori della mia vita, ma non ho altro posto dove stare, l’alternativa è la strada o il marciapiede.
Hai finito di tenere la schiena dritta, Severus: hai finito di fingere.
****************************

Come ogni giorno torno dal market con la spesa: pane e tre bottiglie di whiskey.
Nel buio incontro tre individui, sono ladruncoli di passaggio.
Toglietevi dalla mia strada; sono un Mangiamorte: sento esplodere una risata cattiva, e mi accorgo che sono io a provocarla.
Credono di farmi paura quei tre, uno ha un coltello: sarebbe veramente ridicolo farmi ritrovare ucciso nel vicolo da un ragazzino, dopo essere sopravvissuto ad un serpente di cinque metri.
- Lasciatemi stare. – Dico con una voce roca che non sembra la mia: non la uso da tanto tempo e mi esce così. - Andatevene, vi fate male. – aggiungo sfoderando un ghigno che dovrebbe preoccuparli.
Ma insistono:
- Avanti, barbone, dacci le tue bottiglie!
Vogliono solo l’whiskey, non pensano che abbia denaro.
Uno spintone da dietro mi fa cadere: le bottiglie si rompono, mentre sono a terra si divertono a prendermi a calci, non sanno che sono un osso duro.
Senza pensarci impugno la bacchetta e mi sale alla bocca, insieme al sangue, una maledizione che conosco anche troppo bene.
- Crucio. – pronuncio con tutto l’odio e la rabbia che conservo gelosamente. – Crucio, Crucio.
Li vedo stupiti torcersi, improvvisamente, per il dolore inatteso e mi godo la scena, non provo nessuna pietà per questa umanità volgare e vigliacca: attaccare tre contro uno, che bastardi!
Cadono a terra storditi, ora ci vorrebbe un Avada, ma mi guadagnerebbe il resto della vita ad Azkaban.
Mi domando cosa sia peggio, se questo limbo confuso dall’alcool in cui vivo o un carcere di massima sicurezza…
Una bottiglia si è salvata, la raccolgo e proseguo, ma credo che quei disgraziati mi abbiano rotto qualcosa, una costola forse, e fa male; mi curerò con una sbronza: rimedio perfetto, professor Piton!

Deve essere giorno, da un po’ credo di stare male.
Non riesco ad alzarmi ed uscire, non mi reggo in piedi: il fianco mi fa un dolore cane.
Il guaio è che ho finito anche l’alcool e non c’è nessuna boccetta o flacone qui vicino che non sia stata fatta a pezzi, il contenuto sparso dovunque.
Mi assopisco, ma mi sveglio sudato, urlo: di nuovo ho sognato lampi verdi, sangue e buio tanto buio…
Bussano, mi sveglio di nuovo, non smettono.
Entrano con la forza.
- Venite, è qui! – Dice una voce conosciuta
Potter, ancora lui.
Ci sono anche i suoi amichetti: vorrei dire qualcosa di disgustosamente sarcastico, ma… di nuovo chiudo gli occhi.

******************************
(Harry)

Finalmente l’abbiamo trovato, è sparito da un mese.
Tre giorni fa una traccia magica ci ha portato in zona.
Al Ministero si sono mossi finalmente e qualcuno aveva l’indirizzo Babbano di Piton.
La casa è in rovina, sporco dovunque, polvere, odore di whiskey e vomito.
Professore come hai potuto? Cosa ti sei fatto? Cosa ti abbiamo fatto per ridurti così?
Noi, i buoni, forse ci siamo comportati peggio dei “cattivi”.
Hermione sta cercando di rendere abitabile una stanza al piano di sopra.
Io e Ron lo abbiamo messo sul letto, Ron continua a dire che nonostante tutto è un bastardo, anche adesso.
Non è uno che cambia facilmente idea, ma mi aiuta e gli diamo una ripulita.
Piton ha la febbre alta e sta delirando, crede di essere alla presenza di Voldemort nel cerchio dei Mangiamorte e cerca la sua maschera d’argento; dalle frasi sconnesse capisco che non la trova e si agita ma, anche nell’incubo, non chiede aiuto.
E’ fatto così, anche nel delirio o nell’inferno peggiore sa che può contare solo su se stesso, è solo, come non ho mai conosciuto nessun altro.
Hermione lo sta curando, porta sempre con sé la borsa che contiene di tutto.
Cerca di far scendere la febbre, gli da qualcosa per il dolore e una pozione per aggiustare le ossa.
Ma questo è il meno.
Piton è malato dentro, l’ho capito quando siamo entrati in questa casa e l’abbiamo trovato sporco e svenuto sul pavimento, tra le pagine strappate dei libri, in mezzo ai resti degli ingredienti e delle ampolle che li contenevano: libri e oggetti conservati con meticolosa cura per anni, distrutti, come lui.
Abbiamo fatto il possibile per il suo corpo, ma l’anima e la mente sono perse, forse per sempre.
Resto a dormire qui stanotte, non posso lasciarlo in queste condizioni; Ron ed Hermione torneranno domani: anche se non lo sai, non sei solo, professore.


******************
Stamattina, abbiamo preparato qualcosa da mangiare e Hermione ha fatto il caffè nero, quello che Piton predilige: glielo porta ora che è sveglio.
- Granger, ti faccio pena? – sentiamo che le chiede con voce rabbiosa. – Il bastardo vi fa pena?
Dannazione, ha sentito le parole di Ron, ieri.
Salgo le scale, ma ho poche speranze di farlo ragionare.
Mi guarda con occhi che mi sembrano ancora più neri, ancora più determinati, con uno scintillio rabbioso in fondo alle iridi di carbone:
- Vattene, andatevene! Non mi serve niente, da nessuno! – Dice.
Poi parla con più pacatezza e forse è peggio:
- Se vi scordate questo indirizzo mi fate un favore. Potter, hai fatto buon uso dei miei ricordi, è ora che li dimentichi… tu non mi devi niente e io ho concluso il mio compito.
Lo guardo con gli occhi di mia madre, ma stavolta non serve.
Restiamo in silenzio per un altro minuto, poi ce ne andiamo:
- Arrivederci professore…
- Addio, Potter, non tornare!
Per ora non si può fare nient’altro; ci chiudiamo la porta alle spalle.

***********************************

I ragazzi, se ne sono andati. Non li voglio intorno, mi ricordano chi ero… Chi sono adesso, ancora non lo so, e non ho voglia di saperlo.
Il fianco non mi fa più così male, ma la mente snebbiata e lucida è un tormento che non voglio sopportare a lungo: dovrò uscire per rifornirmi di oblio.
Il caffè di Hermione è caldo e buono, non ne ricordavo il sapore amaro e l’aroma gradevole, se chiudo gli occhi vedo la Sala Grande all’ora di colazione, Albus che imburra il pane e chiacchiera: non me lo posso permettere, è insostenibile, dopo aver provato il bene o qualcosa che gli somiglia, sopportarne la perdita; non ho più spalle abbastanza grandi.
Ho deciso che il mio letto sarà il vecchio divano sfondato. Non sopporto di dormire in un letto vero è come se risvegliasse i miei incubi peggiori, mentre la precarietà del divano mi offre un po’ di sollievo di tanto in tanto.
Stanotte sono particolarmente insonne, sento rumori e mormorii; animo il buio di ombre ancora più scure, poi sento dei passi: qualcuno è entrato e bisbiglia.
Estraggo la bacchetta con un riflesso condizionato e la punto verso la fonte dello scalpiccio:
- Lumos. – Pronuncio.
Due paia di occhi spaventati mi guardano; appartengono ad una donna giovane e ad un bambino che avrà sette o otto anni: sono terrorizzati.
Accendo la luce Babbana che ho sempre conservato in questa casa, retaggio di mio padre.
La donna è giovane, piccola di statura, minuta, ha i capelli castani spettinati e sporchi e pare messa male.
Mi guarda e sembra riconoscermi:
- Signor Piton, non si ricorda? Sono la figlia piccola dei vicini, mia madre era amica della sua. Sono Teresa…- Aggiunge, ma non mi sovviene né chi fosse la vicina né tanto meno chi sia lei.
- Cosa ci fai qui, vattene a casa tua, allora! - le dico con rabbia, anch’io ho avuto un attimo di sconcerto sentendoli entrare.
- Non ce l’ho una casa, i miei sono morti e da quando ho perso il lavoro io e mio figlio veniamo a dormire qui. Era da tanto che lei non si faceva vedere. Non faccio niente di male; ci ripariamo, fuori è freddo, piove e Nicholas ha paura.
Mi guarda con gli occhi sbarrati, con apprensione.
Non le rispondo e torno sul divano: che restino pure se si accontentano del pavimento, di spazio ce n’è in abbondanza.
Faccio cenno alla ragazza di chiudere la porta: devo ricordarmi di mettere qualche incantesimo anti-Babbano, quando sono sobrio.
- Possiamo restare? - Chiede piena di speranza, mentre mi guarda fissamente, impaurita.
Teme un rifiuto: non rispondo e lo prende per un sì.
Dal fagotto che tiene in mano tira fuori una coperta che ha visto giorni migliori, la stende sul pavimento e l’arrotola intorno a sé ed al bambino: si addormentano abbracciati.
Cerco di dormire anch’io.
Mi sveglio e c’è odore di caffè e pane tostato.
Quella donna ha preparato una frugale colazione con il poco che ha trovato:
- Signor Piton vuole una tazza di caffè? – mi chiede imbarazzata, e me la porge senza una parola. Comincio a berla. Strofina le mani tra loro e, senza che io le chieda spiegazioni, me le offre:
- Ho usato poco di quello che c’era, ma il bambino aveva fame, ho pensato che non avrei fatto male a nessuno se preparavo un caffè anche per lei.- Abbassa gli occhi vivaci, ma segnati dalla stanchezza: l’ascolto, non so cosa dire.
- Siamo venuti a dormire qui solo quando era molto freddo o se pioveva; dopo che sono venuti quegli uomini strani che hanno scardinato la porta.
Mi guarda titubante e precisa:
- Non sono stata io a fare questo disastro e il disordine…
- Ma neanche hai cercato di sistemarlo! - Soggiungo sarcastico.
Il caffè è buono, forse per questo non l’ho ancora buttata fuori insieme con il figlio.
Il bambino è seduto a tavola e mangia, mentre mi guarda senza una parola. Ha molta fame.
- Devo uscire. – Dico – quando torno non voglio ritrovarvi qui.
Annuisce.
Quando torno se ne sono andati, ma la cucina è leggermente più pulita e il pavimento intorno al divano è lavato.
In un angolo ha ammucchiato ordinatamente le pagine strappate e le costolature dei libri distrutti.
Appoggio sul tavolo la bottiglia di whiskey insieme con pane, uova, latte e burro: non si sa mai mi venisse fame…
A notte fonda sento bussare piano, è lei.
Senza alzarmi, con un gesto della bacchetta apro la porta: mi chiedo come mai non si stupisca di nessuna stranezza.
Non dice una parola e stende la coperta, poi l’arrotola intorno al bambino e lo abbraccia stretto.
Li guardo dormire e invidio tanta serena fiducia in uno sconosciuto che li ospita sul pavimento di una casa devastata.
Nel silenzio e nel buio mi accorgo di piangere lacrime silenziose e calde, non so bene il perché: forse è il respiro calmo della donna. Penso a mia madre, quando mi abbracciava e mi teneva stretto. Poche volte in realtà. Ma è una sensazione che dura pochi attimi e un ricordo troppo sbiadito per consolare.
Il bambino, ora, non smette di tossire e ansima, la madre non riesce a calmarlo, così mi alzo e accendo la luce.
- Fammi visitare il bambino. – Le ordino, ma lei ha paura, e lo stringe più forte a sé.
Cerco di usare un tono meno imperioso, ma sono impaziente.
- Voglio solo vedere cos’ha, non mi fa dormire con quella tosse. – le dico con il tono più pacato che riesco a tirare fuori.
Finalmente acconsente: il bambino scotta per la febbre e respira male.
- Portalo nella camera di sopra. – Ingiungo - In fretta!
Li precedo e li faccio entrare nella stanza che aveva pulito Hermione per me.
- Metti il bambino nel letto, e resta con lui.
Mi guarda con gli occhi impauriti e pieni di lacrime; non sopporto uno sguardo così e me ne vado di sotto a cercare qualcosa di utile.
Dove diavolo sarà finita la mia scorta segreta di pozioni multiuso? Poi ricordo una nicchia nell’armadio in fondo alle scale nascoste da una libreria.
Scendo veloce con la bacchetta accesa, la testa snebbiata, l’adrenalina in circolo: le provette sono intatte e le pozioni integre, ne prendo tre e torno di sopra
Sotto gli occhi stupefatti e terrorizzati della madre, sollevo la testa del bambino e gli faccio inghiottire le prime due pozioni.
Poi cerco di tranquillizzare Teresa e con una gentilezza che non ricordavo di avere, le dico che tornerò tra un’ora, di controllare suo figlio e chiamarmi se peggiora.
Mi sono rammollito, una donna, un bambino malato e mi comporto come Chips.
Mentre chiudo la porta e scendo sento che dice:
- Grazie! L’ha mandata il Cielo.
Faccio finta di non aver sentito perché forse l’inferno è quello che più probabilmente mi ha risputato.
*********************************

(Teresa)

Che uomo strano, a volte mi fa paura. Lo ricordo fin da bambina quando tornava a casa per le vacanze dal collegio in Scozia, sempre vestito di nero, con lunghi capelli e uno sguardo cupo .
Credevo volesse buttarci fuori, invece la prima notte ci ha lasciato dormire e adesso si è preso cura del mio Nicholas.
Stamattina il bambino sta meglio, non tossisce quasi più e ha ripreso colore.
Non mi ha detto nulla, ma come per un tacito accordo, io e Nicholas siamo rimasti nella camera di sopra.
Mi guardo intorno e mi pare che questa casa abbia bisogno di una ripulita, se il signor Piton me lo permette ho deciso di farlo, anche per ringraziarlo dell’aiuto.
Quando mi ha visto con secchio e stracci non ha detto niente, non sembrava infastidito, ma è uscito subito.
Ho pensato di lavare le finestre per fare entrare più luce e le tende.
Ho visto in un angolo dei vestiti sporchi, laverò anche quelli, non mi sembra vero di poter tornare a fare queste cose.
La casa è malmessa, ma ci vorrebbe solo qualche lavoretto e tornerebbe come quando c’era ancora la signora Eileen.
Quando torna mette sul tavolo della cucina latte, frutta, carne, verdure e cioccolato.
Non mi ricordo più da quanto tempo non vedo tanto ben di Dio, mi vengono le lacrime agli occhi:
- Grazie! - Gli dico.
- Non è per te, è per il bambino: dagli frutta e carne; ne ha bisogno se deve rimettersi, così potrete andarvene.
- C’è anche della cioccolata. – osservo. – Tuo figlio ha bisogno di zuccheri, dagliene con moderazione.
Sembra seccato come se avessi detto qualcosa di sbagliato o lo avessi colto in fallo.
Non aspetta la mia risposta, si mette a raccogliere e sistemare i fogli e i libri che qualcuno ha strappato. Sarà un lavoro lungo a giudicare dalla carta che vedo sparsa in giro.
Ci si dedica con pignoleria e precisione, ma chissà perché non l’ha fatto prima?

********************************************************

Sono passati quasi due mesi ed è inverno, tuttavia devo decidermi a mandarli via, meglio che stia solo, inoltre non ho più potuto ubriacarmi in pace da quando sono qui quei due.
Il marmocchio non fa che chiedere tutti i perché del mondo. Io non gli rispondo, quando posso… ma spesso insiste.
E’ un ragazzino tranquillo, inoltre non è una testa di pietra totale, ascolta le mie spiegazioni e legge anche i libri per bambini che ha trovato, non so come, tra i miei, sono quelli che ho conservato perché me li aveva comperati mia madre.
Li legge con interesse.
Guardo dalla finestra quella pazza che si è messa a strappare erbacce in giardino, dice che si ricorda com’era quando ci veniva da bambina; io dovevo essere ad Hogwarts, per questo non mi ricordo di lei né di sua madre.
Ma Teresa, si ricorda bene di Eileen e del suo bel giardino, curato e con le erbe profumate.
Mia madre le coltivava per farne decotti e tisane da vendere: anche lei strappava le erbacce.
Ad un tratto vedo Teresa lanciare un grido ed esco, pensando sempre al peggio, come mia abitudine.
Invece sorride con gli occhi scintillanti: in un angolo ha trovato una pianta di lavanda interrata da mia madre e raddoppia gli sforzi per liberarla completamente dalle infestanti.
Non ci posso credere; fisso la pianta profumata, sopravvissuta a tutte le ingiurie degli uomini e della natura, pianta rude, testarda, che si accontenta di poco, ma profumata e benefica: somiglia alla sua scopritrice che mi guarda infreddolita, con aria soddisfatta.
Nicholas esce incuriosito, mi prende la mano per ottenere la mia attenzione; mi allunga un pezzo di carta:
- E’ per lei. – Mi dice serio
E’ un disegno, sono io, vestito di nero, con i capelli lunghi, un grosso naso, un libro in mano e un sorriso sulle labbra. Ma quando mai questo moccioso mi ha visto sorridere?
Sotto ha scritto “Grazie signor Piton”.
- Mi chiamo Severus, puoi chiamarmi Severus, se vuoi.- Gli dico, e mi accorgo di sorridere.
Davvero.
Sento le lacrime che pizzicano agli angoli degli occhi, forse è come per la pianta sopravvissuta di mia madre, forse anche per me non tutto è perduto, forse con un po’ di amicizia, di affetto disinteressato e strappando le erbacce dal cuore posso aspettarmi di fiorire di nuovo, magari negli occhi di un bambino.
 
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view post Posted on 17/6/2013, 22:02
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Venerdì 21 mi prenoto io con il sorriso n. 16.
 
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view post Posted on 17/6/2013, 22:37

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Martedì 18: kià (ma se qualcun altro si fa avanti, meglio)


Prenotazioni per la 24a settimana di Sorrisi per Severus:

Mercoledì 19: Leonora/Ida (24)
Giovedì 20: Leonora/Ida (24)
Venerdì 21: Elly (16)
Sabato 22:
Domenica 23: Ida (poesia)
Lunedì 24:
Martedì 25:

Un sorriso per Severus al giorno
toglie il malumore di torno :)



Edited by Ida59 - 18/6/2013, 19:59
 
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view post Posted on 18/6/2013, 08:21

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Data: febbraio 2013
Beta-reader: nessuno
Tipologia: one-shot
Rating: per tutti
Genere: generale, introspettivo
Personaggi: Severus Piton, sorpresa
Pairing: sorpresa
Epoca: post 7 anno
Avvertimenti: what if
Riassunto: Mai dire mai, specialmente se l'Amore è nell'aria.
Parole/pagine: 1603/5
Note: storia scritta per la Sfida FA n. 5 "San valentino!".




Happy Valentine’s day






Ad Hogwarts anche i ritratti respiravano a pieni polmoni l’atmosfera melensa di San Valentino. Un’attempata damigella – tutta pizzi, merletti e molto poco buon gusto – si esibì in un finto svenimento davanti ad un cavaliere sgraziatamente impegnato in un baciamano. Severus passò accanto alla cornice stringendo i pugni in una morsa serrata, mentre il suo stomaco faceva le triple capriole per il disgusto.
Che fosse ben chiaro, lui non odiava San Valentino.
Aveva troppo dolore dentro di sé, troppi sensi di colpa per potersi permettere di provare odio per quella ricorrenza che giudicava comunque insulsa.
I suoi studenti nel corso degli anni gli avevano lanciato alle spalle malignità di ogni genere per spiegare il suo aspetto da pipistrello e la sua solitudine. Non sapevano, non potevano sapere, che sotto quell’armatura serrata da una lunga fila di neri bottoni c’era un cuore che ancora piangeva, implorando un perdono che non sarebbe mai giunto. Il rimorso era il miglior deterrente che esistesse al mondo per impedirsi di provare qualsiasi buonismo verso se stesso: ne soffocava ogni palpito sul nascere, prima ancora che provasse a germogliare.
Gli era molto più facile fingere che quella festa non esistesse, punto.
Niente amore per lui, mai, in nessun tempo ed in nessun luogo.
Quello che avrebbe voluto dare, che aveva sognato nelle notti della sua adolescenza, lo aveva gettato al vento, calpestato e ferito da una parola di troppo pesante come un macigno ed impossibile da cancellare.
L’amore che aveva tanto desiderato ricevere, bramandolo come il fiore di campo anela al raggio di sole ed alla goccia d’acqua, non era invece mai arrivato, se non in una qualche rara carezza materna il cui ricordo era spesso nascosto tra le pieghe della memoria.
Affrettò il passo e l’elegante svolazzo del mantello lo accompagnò fedelmente. Scese le scale quasi di corsa per arrivare il prima possibile a destinazione. Almeno nel suo studio aveva una discreta quantità di lavoro da svolgere che gli avrebbe impedito di meditare a quel che era stato e che non sarebbe mai più ritornato. O a quel che non era mai stato, in fondo era solo questione di punti di vista.
Svoltò l’angolo in preda ad un’intricata foresta di pensieri ed il ritorno alla realtà presente non poté presentarsi a lui in un modo più incredibile.
La bacchetta fu subito in mano, fulminea, pronta a lanciare uno Schiantesimo a regola d’arte se ce ne fosse stato bisogno.
Non poteva che essere un’altra delle assurde creature assunte da quel pazzo di Allock per celebrare quel giorno infausto. Si avvicinò con cautela, fino a quando la luce fioca delle torce che illuminavano le volte di pietra con sinistri bagliori non gli svelò la verità nuda e cruda.
Deglutì, cercando l’inganno che negasse l’evidenza.
L’intruso si dovette certo sentire osservato, perché si voltò nella sua direzione squadrandolo con strano cipiglio e con le mani minacciosamente sui fianchi.
Severus Piton non si sarebbe mai definito una persona impressionabile. Aveva visto troppo, di qualsiasi genere, per potersi spaventare davanti all’insolito. Nonostante ciò, il suo primo pensiero fu “guai in vista”.
L’atteso era lui.
«A-ha! Pallino Acido, ti sembra questa l’ora di arrivare?»
Un Petrificus avrebbe avuto meno effetto di quelle parole. Ma se la mano era tenacemente stretta intorno alla bacchetta e gli occhi dilatati per lo stupore, la mente invece si era già tuffata in un mare di congetture di ogni genere, sollevando spruzzi di spiegazioni una più improbabile dell’altra.
«Su su su! Cos’è quella faccia da Tritone spiaggiato?» gli venne detto tra uno svolazzo di ali candide ed uno sbatacchiare di frecce nella faretra. «Mai visto prima d’ora un Cupido?»
Qualcosa di dorato gli passò fulmineo davanti agli occhi, scintillando inquietanti riverberi.
Un Boccino, un incantesimo… qualsiasi cosa, sperò con tutte le sue forze, sentendosi improvvisamente senza saliva per deglutire.
La speranza fu vana. Quello nella mano sinistra del bambino alato era un arco. Per qualche istante di troppo Severus non seppe su cosa concentrarsi, se su Cupido, sull’arma o sulle frecce del medesimo colore che tintinnavano fastidiose. Quell’intruso non stava fermo un attimo e svolazzava attorno al Potion Master come un Billywig molesto. Altro che amorino alato dispensatore di buoni sentimenti, Severus in quel momento provò l’impulso di stenderlo con le sue stesse armi.
Non aveva bisogno di Cupido per ricordarsi che l’amore era qualcosa che non si sarebbe mai potuto permettere. Fiori, cioccolatini, parole sussurrate al chiaro di luna che stillavano di melenso… che tutto questo fosse per gli altri. La sua unica compagna di vita l’aveva già scelta da anni e si chiamava solitudine.
Dardeggiò l’occhiata più truce del suo repertorio e lanciò l’incantesimo non verbale che avrebbe sancito la fine di quell’inutile perdita di tempo e pazienza.
Il bimbo sbatté le palpebre, incredulo, fissando i suoi occhi azzurri in quelli d’ebano del mago.
Una volta.
Due volte.
La testa incorniciata da riccioli dorati si piegò lievemente di lato, in un atteggiamento di pura meraviglia.
Il cuore di Severus quasi mancò un battito. Non era mai successo che un suo incantesimo si rivelasse inefficace. E ora?
Non gli fu dato il tempo di formulare un secondo pensiero.
La dura pietra gli premette d’un tratto contro le spalle, ma mai come la freccia dorata che gli venne puntata contro, dritta al centro del petto.
«Pallino Acido, è tutto più semplice se stai fermo.»
«Io non… Aspetta, come mi hai chiamato?» la voce di Severus era poco più che un sussurro.
«Perché, non ti piace? E sì che ti si addice.» Cupido tese l’arco, chiudendo un occhio per prendere meglio la mira. «Ci arrivi da solo a capire il perché o ti devo fare un disegnino?»
Un oceano in tempesta, spumeggiante di rabbia, rimorso e dolore. Severus poteva sentire la punta acuminata del dardo attraverso la casacca e la camicia, all’altezza del cuore, là dove faceva più male, mentre all’interno di lui il mare dei sentimenti mugghiava feroce. Che ne sapeva, quell’insulso di Cupido, di lui, della sua caduta, della sua risalita che mai avrebbe meritato alcuna indulgenza? Amore, poi, meno che meno!
«Io e te non abbiamo nulla a che fare.» proclamò con apparente calma. «Non abbiamo mai avuto nulla a che fare.» soggiunse e questa volta il sussurro fu debole come un soffio.
«È proprio questo il punto!» rispose Cupido, agitando a più non posso le ali in segno d’impazienza. «Ti rendi conto di cosa ti stai perdendo? Su, da bravo, fatti colpire, tanto poi finirai per ringraziarmi.»
Per la barba di Merlino, cosa doveva usare contro quel bimbetto irriverente per riuscire a scrollarselo di dosso? Fu una mossa folle dettata dalla disperazione. Si slanciò in avanti, nel tentativo di fermare a mani nude quello svolazzante dispensatore di sospiri d’amore.


Il tonfo gli giunse alle orecchie secco come uno schioccare di frusta.
Sbarrò gli occhi, guardandosi freneticamente attorno. Dov’era Cupido?
Mise a fuoco ogni cosa. Il cuore che martellava nel petto rallentò poco alla volta i battiti, adeguandosi al respiro che lentamente si stava facendo normale.
Il fuoco nel caminetto scoppiettava allegramente ed i suoi bagliori rossastri facevano concorrenza a quelli che il tramonto del sole dipingeva nel cielo terso di metà febbraio. Severus si perdette per qualche istante nelle sfumature cangianti che riusciva ad intravedere attraverso la finestra.
Respirò a fondo, rilassando le mani ancora strette ai braccioli della poltrona, concedendosi infine un breve massaggio alla fronte per schiarirsi ancora le idee. Ecco cosa succedeva a raccontare durante il pranzo la giornata di San Valentino allestita da Allock anni prima: lui e quei suoi nani alati erano arrivati a perseguitarlo anche durante il sonno.
Beh, quello del sogno non era stato propriamente un nano… ma alato lo era senz’altro.
Oh.
Si era addormentato.
Peggio. Si era addormentato mentre stava leggendo ad alta voce, com’era potuta accadere una cosa simile? Scosse la testa, decidendosi ad alzarsi da quella poltrona, se non altro per scusarsi con la mano pietosa che aveva avuto la premura di coprirlo mentre dormiva. A quel pensiero non gli riuscì di tenere le labbra serrate in un’espressione neutra. Piegò con cura la coperta rosa, adagiandola sullo schienale. Raccolse da terra e sistemò con delicatezza le pagine del libro che giaceva per terra davanti a lui: era stato quello a svegliarlo. Nel tentativo di scagliarsi contro Cupido si era mosso nel sonno, facendolo cadere dalle gambe. Le Fiabe di Beda il Bardo fu così adagiato sul tavolino lì accanto.
Sospirò, le labbra sempre più incurvate all’insù, mentre l’ultimo spicchio di sole tramontava in un abbraccio di rosso ed arancio.
Gli rimaneva ancora una cosa da fare.
Percorse in silenzio soltanto pochi passi, appoggiandosi infine allo stipite. Per qualche istante rimase a guardare senza essere notato. Permise al sorriso di rimanergli sul volto, lasciò che gli occhi risplendessero di gioia come e più delle fiamme che ardevano danzanti nel caminetto. Portauovo e saliera ballavano il loro consueto minuetto serale sul tavolo in legno di mogano, un incantesimo regalato da Vitious quasi un anno prima, in occasione di un evento importante. Danzarono in tondo, attorno ad una torta al cioccolato a forma di cuore.
Quel San Valentino l’avrebbero condivisa in tre.
Rise, senza un motivo apparente, solamente per il gusto di farlo. Le nubi oscure se n’erano andate da tempo, così come il mare il tempesta.
«Paaaà!»
Due piccole braccia si tesero verso di lui, agitandosi dalla sedia, chiedendo di essere strette in un caldo abbraccio. Non si fece pregare nemmeno un istante di più.

«Ti rendi conto di cosa ti stai perdendo? Su, da bravo, fatti colpire, tanto poi finirai per ringraziarmi.»

Diavolo d’un Cupido, aveva proprio ragione.

E fu così che continuò a sorridere.
 
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view post Posted on 18/6/2013, 08:49
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Chiamare Severus Pallino Acido é una genialata!
Ah!! Voglio quel portauovo!!! Chi ha il numero di Vitius o un gufo sotto mano? :lol:
 
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CITAZIONE (ellyson @ 18/6/2013, 09:49) 
Chiamare Severus Pallino Acido é una genialata!
Ah!! Voglio quel portauovo!!! Chi ha il numero di Vitius o un gufo sotto mano? :lol:

:lol: :lol: :lol: :rolleyes:
 
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CITAZIONE (pingui79 @ 16/6/2013, 10:55) 
CITAZIONE (Ida59 @ 13/6/2013, 10:35) 
Ed eccovi la loro prima notte insieme...

Sussurri di futuro


Ah... romanticismo a palate: sussurri, baci, la luce della luna ed infine l'alba rosata. Praticamente un idillio.
Severus, te lo meriti tutto questo idillio che Ida ti sta sapientemente regalando. :wub:

Amo il romanticismo e penso che anche un orso scorbutico come Severus possa amarlo, se è messo nelle giuste condizioni per farlo. Anche perchè occorre essere molto coraggiosi per essere romantici, in quanto significa rivelare se stessi e lasciarsi andare togliendosi ogni scudo protettivo, motivo per cui molte persone hanno paura d'essere romantiche. Si si tratta solo di paura...
Ma Severus non ha paura, ne ha passate troppe per tirarsi indietro adesso, quindi intende finalmente vivere, fino in fondo, senza remora alcuna. Anche un amore romantico.


Edited by Ida59 - 19/8/2015, 14:06
 
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Per domenica 23 mi sono prenotata io con una poesia.
Monica dovrebbe prendersi Sabato 22 per la sua storia 24.


Edited by Ida59 - 19/8/2015, 14:06
 
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Autore/data: Alaide – 8-20 aprile 2013
Beta-reader: nessuno
Tipologia: One-Shot
Rating: per tutti
Genere: Drammatico, Introspettivo
Personaggi: Severus Piton, Personaggio originale
Pairing: nessuno
Epoca: Post 7° anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: Ma sapeva che Judith non meritava nuove sofferenze, che la sua anima innocente avrebbe dovuto essere preservata.
E poteva esserlo accanto a quella giovane che gli sorrideva triste con occhi umidi di lacrime non ancora versate.
Nota: Questa è l’ultimo capitolo di Tetralogia, ma non è la fine della storia. Il progetto iniziale prevedeva un altro finale, che però non aveva spazio bastante perché venisse fuori bene. Ci sarà quindi un’altra serie di sorrisi (Sinfonie) che comincerà, all’incirca, dove ho concluso questa prima parte della storia.
La storia è il continuo di Affetto
Parole: 1570

Tetralogia

14. Terza Giornata. Atto III. Una scelta


Melusine si sentiva incredibilmente nervosa, mentre entrava nell’ospedale. Era la prima volta che il signor Piton le chiedeva di recarsi nella sua stanza. Ricordava perfettamente che quattro giorni prima, quando le aveva passato il quaderno con quelle parole era rimasta stupita.
Non riusciva ad immaginare cosa volesse dirle, soprattutto dopo che aveva negato, mentre Judith era sulle sue ginocchia, la sua muta richiesta.
Quando aveva lasciato l’ospedale non aveva nemmeno osato rimproverare la bambina. Non importava che avesse provato un enorme spavento quando aveva notato che Judith non era all’orfanotrofio. Aveva trovato la bambina immersa in una calma che, forse, sarebbe stata distrutta.
Voleva sperare che il signor Piton l’avesse voluta perché, in realtà, aveva cambiato idea.
Era una speranza vana, lo sapeva, ma non poteva fare a meno di nutrirla.
Forse fu per quello che salutò l’uomo con un sorriso gentile.
«Vorrei ringraziarla per aver badato a Judith, quattro giorni fa.» esordì la giovane, continuando a sorridere all’uomo.
Un sorriso gentile, colmo di un calore che si infranse contro la barriera che circondava Severus, contro il gelo delle sue colpe.
L’uomo era più che certo che la signorina Fairchild avrebbe fatto un altro tentativo per convincerlo a cambiare idea.
Ma non importava quanto gli sorridesse o quanto veemente fosse. La sua scelta era irreversibile.
«Forse mi crederà una sciocca, signor Piton, se le dico che nutro la speranza che lei possa aver cambiato idea circa Judith.» Melusine si interruppe un attimo, un sorriso lieve sulle labbra, quel sorriso che ormai Severus si era rassegnato a non vedere mai colmo d’odio. «Eppure quando ho visto la bambina sulle sue ginocchia, quando ho notato che l’aveva avvolta in una coperta, non ho potuto fare a meno di sperare. Judith si è affidata a lei, signor Piton, all’uomo che le ha salvato la vita.»
Il sorriso e le parole della giovane erano colmi di una speranza che Severus sapeva malriposta. La signorina Fairchild era cieca e non riusciva – o non voleva riuscire – a vedere il sangue che gli insozzava le mani e la lordura della sua anima.
Riponeva fiducia e speranza nella persona sbagliata.
In un assassino.
“La mia scelta è irreversibile”.
C’era qualcosa di perentorio in quelle parole, si disse Melusine leggendole, qualcosa che le fece morire il sorriso sulle labbra.
In quel momento la tristezza prese il posto della speranza. Avrebbe voluto scuotere l’uomo da quell’inflessibilità, da quel continuo negare di aver salvato la vita a Judith. Credeva che quell’irreversibilità volesse dire ben altro del significato della parola stessa. Non era solo la scelta ad essere irreversibile, ma tutto quello che l’uomo le aveva detto.
E celato.
Ed era certa che vi fosse molto, troppo, che lei non sapeva.
Eppure se voleva fare un ultimo disperato tentativo sapeva che doveva fare appello a quello che le aveva detto Judith.
«Io non so quasi nulla di lei, signor Piton.» esordì la giovane donna. «Ma da quel che so, sono convinta che lei sia un uomo buono. Nessun criminale avrebbe…»
«Cosa non le è chiaro della parola assassino?» la interruppe sarcastico l’uomo.
«Eppure ha salvato la vita a Judith. Un gesto illogico se fosse l’assassino che dice di essere.» Melusine si interruppe, aspettandosi che l’uomo la interrompesse ancora una volta, ma la stava fissando. «Judith ha totale fiducia in lei. Ed io condivido questa fiducia, ma ancora più importante è che Judith verrebbe distrutta dal suo rifiuto. La prego, signor Piton… Severus, la scongiuro, non allontani la bambina, non lasci che Judith torni ad essere come nei primi tempi all’orfanotrofio. Troppo spaventata per parlare. Priva di speranza, ancora più priva di speranza di allora. Perché quando è arrivata sperava, almeno, di poter vedere nuovamente l’uomo che le aveva salvato la vita e l’aveva fatta sentire al sicuro. Se lei la scaccia, non le rimarrà nulla.»
Ogni parola della giovane era una pugnalata, una stilla di dolore più che meritata.
Il dolore che meritava un assassino.
La signorina Fairchild lo fissava e Severus notò la disperazione del suo sguardo e la disperazione del suo sorriso. Il sorriso disperato di chi sa che la sua lotta è giunta alla conclusione e la sconfitta è vicina.
Un sorriso disperato che non si sarebbe mai coperto d’odio.
Ricordava la preoccupazione della giovane due settimane prima e ricordava l’affetto della bambina. Ma sapeva che non avrebbe potuto cambiare idea, nemmeno se avesse voluto, nemmeno se fosse riuscito a perdonarsi e a non disprezzarsi.
Voltò la pagina del quaderno e lo porse alla signorina Fairchild perché lei potesse leggere quello che aveva scritto prima che arrivasse.
Le mani della donna tremavano, mentre leggeva rapidamente. Tremavano anche quando parlò, giunta all’ultima parola.
«Ed ha detto anche dei due uomini di cui mi ha parlato Judith? Ha detto che ha salvato la vita alla bambina?»
Severus scosse unicamente il capo, ma pareva che la signorina Fairchild si aspettasse quella risposta.
«Ed io cosa posso dire a Judith? Come posso dirle che l’uomo che le ha salvato la vita, verrà condannato come reo confesso di un delitto che non ha commesso?» mormorò la giovane con voce spenta.
Ed un sorriso triste.
«Era l’unica soluzione possibile.» rispose l’uomo, fissando la giovane donna.
Era l’unica possibilità che aveva per scontare la pena di almeno quella colpa. Era il pensiero che l’aveva guidato nella scelta, una scelta presa dopo il primo tentativo della donna. Aveva meticolosamente costruito il movente e le modalità dell’omicidio, senza lasciare nulla al caso, prevedendo ogni domanda che gli avrebbero potuto porre.
Era l’unica possibilità che aveva per proteggere la bambina da se stesso. Era la consapevolezza che lo aveva animato quando aveva messo in pratica la propria scelta, il giorno successivo alla crisi che lo aveva costretto a letto per una settimana. Era la consapevolezza che era accresciuta dopo che la bambina era arrivata nella sua stanza all’improvviso, coperta d’acqua.
«L’unica soluzione per cosa, signor Piton?» domandò Melusine. «Non è punizione sufficiente il martirio a cui sottopone se stesso? Non è…» la voce le si spezzò leggermente. Deglutì a vuoto per tenere a bada le lacrime che le pungevano gli occhi. Un sorriso colmo di tristezza e disperazione le si disegnò sulle labbra. «Cosa dirò a Judith? La supplico, Severus, dica per lo meno alla polizia che ha salvato la vita alla bambina. La pena, che so che lei non merita, sarà più lieve. Cosa ne sarà di Judith quando la polizia vorrà interrogarla di nuovo, quando scoprirà la verità?»
«Non sarà necessario.» rispose l’uomo, il dolore meno intenso del solito, da quando lo costringevano ad assumere l’antidolorifico. «L’ispettore ha avuto risposta ad ogni sua domanda. alle voci che Judith dice di aver sentito. Alla sopravvivenza della bambina.»
Non aggiunse altro. Non disse quali parole avesse usato per convincerli. Non ce n’era bisogno. Alla signorina Fairchild doveva bastare che a Judith sarebbe stato risparmiato almeno quello.
Aveva dovuto subite, a causa sua, la perdita dei genitori. Era orfana perché lui non era riuscito a salvarli.
Né ad evitare che sentisse le loro grida.
Era una ben che minima consolazione sapere che la bambina non avrebbe dovuto subire nuove domande quando, con ogni probabilità, già riviveva quella terribile notte ogni istante della sua giovane vita.
«Eppure qualcosa dovrò dirle, signor Piton.» mormorò la giovane, il volto triste, come il suo sorriso.
«Le dica che sono stato trasferito in un altro ospedale.» rispose Severus, dopo diverso tempo.
Il giorno in cui aveva visto la bambina nella sua stanza, il momento in cui gli era tornata sulle ginocchia, era riuscito a comprendere le ragioni di Judith, per quanto non potesse condividerle, né accettarle.
Egli era un assassino.
L’assassino dei suoi genitori e nulla cambiava quella realtà.
Ma sapeva che Judith non meritava nuove sofferenze, che la sua anima innocente avrebbe dovuto essere preservata.
E poteva esserlo accanto a quella giovane che gli sorrideva triste con occhi umidi di lacrime non ancora versate.
Sorriso e lacrime che non meritava.
«Permetta almeno che Judith le scriva. Le dirò che l’hanno mandata da qualche parte sul continente, lontano, troppo lontano perché possa vederla, ma non l’abbandoni del tutto, Severus, la prego.»
Le parole della signorina Fairchild erano colme di disperazione e dell’affetto che nutriva per la bambina.
Severus rimase a lungo in silenzio.
Sapeva che doveva dare una risposta a quella richiesta e sapeva quale sarebbe stata.
V’era una sola possibilità, così come l’unica soluzione possibile era pagare di fronte alla legge, per quanto fosse quella Babbana, per una delle sue molteplici colpe.
Egli meritava il carcere, così come non meritava il sorriso della giovane, né le lacrime che stava versando.
Così come non meritava il sorriso di Judith.
Ma ancor di più si rendeva conto che non poteva distruggere l’illusione che Judith si era creata, l’illusione che egli fosse una brava persona.
Un giorno Judith avrebbe compreso ed allora egli avrebbe ricevuto l’odio che voleva e meritava.
Ma in quel momento, Judith si aggrappava a lui, all’assassino dei suoi genitori.
Aveva sfidato la pioggia per lui.
Ed egli non poteva distruggerne l’innocenza.
«Potrà scrivermi.» disse soltanto.
Il sorriso di Melusine si fece colmo di gratitudine, tra le lacrime.
Un sorrise simile a quello di Judith.
Un sorriso che non meritava, si disse Severus.
Il carcere era il luogo che meritava.
E forse in quel luogo, mentre pagava per le sue colpe imperdonabili, sarebbe riuscito ad accettare che quella notte d’estate aveva salvato la vita ad una bambina.
E che Judith gli aveva sorriso riconoscente.
 
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view post Posted on 19/6/2013, 10:13

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CITAZIONE (Alaide @ 19/6/2013, 10:38) 

Tetralogia

14. Terza Giornata. Atto III. Una scelta


Urka la peppissima, ci ho azzeccato! :woot:
Come finale avevo immaginato che Severus avesse confessato il delitto e che venisse portato in carcere, ma non avrei mai pensato al dialogo che invece hai fatto svolgere per spiegare la cosa.
Il problema è: questo è il peggio, o il meno peggio di quello che avevi deciso?

A questo punto non so cosa aspettarmi dalla prossima serie di storie, poichè qui comunque hai lasciato aperto un meraviglioso spiraglio di speranza che è il fatto che comunque la bimba possa scrivere all'uomo. E sono certa che lei lo farà, che la piccola vorrà cercarlo in qualche modo, per superare anche quel trauma.

Che faccio, devo temere o sperare? :D
 
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view post Posted on 19/6/2013, 12:30
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CITAZIONE (pingui79 @ 19/6/2013, 11:13) 
Urka la peppissima, ci ho azzeccato!
Come finale avevo immaginato che Severus avesse confessato il delitto e che venisse portato in carcere, ma non avrei mai pensato al dialogo che invece hai fatto svolgere per spiegare la cosa.
Il problema è: questo è il peggio, o il meno peggio di quello che avevi deciso?

Sono felice che tu abbia colto gli indizi che avevo disseminato circa il possibile finale (l'unica soluzione possibile, come sostiene Severus). Il finale in questione è il meno peggio.
Il peggio, che ora posso svelare, era più drammatico e terribile e nemmeno io ho avuto cuore di scriverlo. Nel totale rifiuto di accettare la verità e l'affetto di Judith, Severus ne modificava la memoria, prima di andare in carcere, cancellando, in pratica, tutto quello che è accaduto in Tetralogia, lasciando però alla bambina il ricordo di lui che le salva la vita, lasciandole così la speranza irrealizzabile di poterlo incontrare. Ma era troppo complicato da gestire in pochi capitoli e veramente troppo straziante.

CITAZIONE
A questo punto non so cosa aspettarmi dalla prossima serie di storie, poichè qui comunque hai lasciato aperto un meraviglioso spiraglio di speranza che è il fatto che comunque la bimba possa scrivere all'uomo. E sono certa che lei lo farà, che la piccola vorrà cercarlo in qualche modo, per superare anche quel trauma.

La piccola scriverà ovviamente a Severus e la prossima serie di storie (24, se non sbaglio i calcoli) conterrà molte delle sue lettere.

CITAZIONE
Che faccio, devo temere o sperare?

Qui taccio ovviamente :D
 
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view post Posted on 19/6/2013, 13:27
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Lunedì 24 mi prenoto io con il sorriso n. 17
 
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Martedì 25 è libero: fatevi sotto, gente! :)





Prenotazioni per la 24a settimana di Sorrisi per Severus:

Giovedì 20: kijoca (24)
Venerdì 21: Elly (16)
Sabato 22:Ida (24)
Domenica 23: Ida (poesia)
Lunedì 24: Elly (17)
Martedì 25:

Un sorriso per Severus al giorno
toglie il malumore di torno :)



Edited by chiara53 - 20/6/2013, 19:16
 
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