Il Calderone di Severus

N.13: Un anno di sorrisi per Severus

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Alaide
view post Posted on 18/9/2013, 10:27 by: Alaide
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Autore/data: Alaide – 1 – 4 agosto 2013
Beta-reader: nessuno
Tipologia: One-shot
Rating: per tutti
Genere: Drammatico, Introspettivo
Personaggi: Severus Piton, Personaggio originale
Pairing: nessuno
Epoca: Post 7° anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: Melusine si sentì soffocare, mentre un sorriso triste le si disegnò sulle labbra, un sorriso che aumentò, quando entrò nella cella dell’uomo, così come aumentò la sua angoscia
Nota: La storia è il continuo di Disillusione e speranza
Parole: 1831

Sinfonie.
13. Sinfonia in fa minore op. 2 n°4
Primo movimento. Angoscia

La neve cadeva fitta quel giorno di febbraio. Melusine si affrettò ad entrare nel carcere, rilasciando un sospiro di sollievo, quando si trovò finalmente all’asciutto. Il sollievo durò per pochi istanti. Quel luogo le sembrava, ogni volta di più, claustrofobico e terribile. Deglutì a vuoto, mentre si sottoponeva all’abituale procedura. Lasciò la borsetta ad una guardia carceraria, mentre un’altra iniziò a condurla lungo il noto corridoio, ma si fermò prima che giungessero all’uscio dietro la quale avrebbe trovato il signor Piton.
Riconobbe immediatamente il luogo in cui si erano fermati. Erano davanti alla porta del medico del carcere, la porta davanti alla quale aveva parlato per l’ultima volta con il padre, poco più di un anno prima. Aveva visto il genitore unicamente a Natale e, oltre agli auguri, che le erano suonati vuoti e falsi da ambo le parti, non si erano rivolti parole. Dopo quel giorno in carcere, la madre e la sorella maggiore le avevano parlato per convincerla a chiedere scusa al padre. Le aveva detto che avrebbe fatto meglio a fare quello che le aveva chiesto lui. Non aveva potuto far altro che rifiutare, che ribadire la propria scelta. Stava facendo ciò che era giusto fare.
Quando la porta si aprì, dopo che la guardia ebbe bussato, Melusine sentì la tensione e l’ansia montarle dentro. Sapeva perfettamente che non erano dovute al ricordo di quel giorno del gennaio 2001. Piuttosto era terrorizzata dall’idea che qualcosa di grave potesse essere accaduto a Severus.
«Si segga, signorina Fairchild.» esordì il medico, quando furono soli. «So che non si aspettava di parlare con me, in questo momento.»
«È successo qualcosa al signor Piton?» domandò Melusine, senza riuscire a celare la propria ansia.
«Nulla di grave.» rispose gentile il medico. «Semplicemente da oggi in poi, lo incontrerà nella sua cella. Il direttore del carcere ha dato l’autorizzazione, in considerazione della buona condotta del signor Piton dal momento in cui è stato incarcerato.»
Melusine esalò un sospiro di sollievo. Per un istante aveva temuto che l’uomo avesse avuto una crisi o peggio che il suo fisico non avesse retto al carcere.
«Trent’anni sembrano troppi.» si lasciò sfuggire, senza rendersene conto.
«Non si deve preoccupare di questo, signorina Fairchild. Il signor Piton non è in pericolo di vita.» affermò il medico, con un sorriso rassicurante sulle labbra. «Il problema deriva da quella brutta ferita al collo. Camminare è diventato decisamente troppo faticoso per il signor Piton. Soprattutto senza aiuto. Può benissimo immaginare da sola, signorina Fairchild, che nessuno gli permetterebbe di aiutarsi con un bastone in un carcere. Lei sembra conoscerlo bene. Forse sa anche a cosa sia dovuta quella ferita al collo. Il signor Piton si rifiuta di parlare ed io non posso di certo obbligarlo.»
«Mi dispiace, dottore, ma non posso risponderle.» mormorò Melusine, senza aggiungere che lei non sapeva nemmeno della ferita.
«I problemi nascono tutti da lì. Speravo che lei potesse illuminarmi in proposito, in modo tale che io possa comprendere se non occorra cambiare il tipo di antidolorifico che gli prescrivo. Un’ultima cosa, signorina Fairchild. Sa per caso dov’era ricoverato prima di arrivare nella nostra città?» domandò l’uomo, osservando con attenzione la giovane.
«No.» rispose brevemente Melusine, cercando di tener a bada l’ansia e la preoccupazione. Se il direttore del carcere aveva accettato di farle vedere Severus nella sua cella, le sue condizioni dovevano essere peggiorate. Era certa che stesse soffrendo terribilmente.
«Quando lo vede, signorina Fairchild, gli impedisca di parlare. Nella sua cella ha carta e penna. Immagino lei sappia del dolore che gli provoca ogni parola.» aggiunse il medico, mentre si alzava in piedi. Era a conoscenza, da sua sorella, del fatto che la giovane aveva incontrato il signor Piton nell’ospedale della cittadina, ma non stava a lui fare commenti in proposito.
«Farò del mio meglio, dottore.»
L’uomo annuì soltanto, mentre apriva la porta. Melusine lo seguì, lisciandosi la gonna di lana con mani nervose. Quando entrò nei corridoi su cui si aprivano le celle, si sentì quasi venir meno.
Le porte con gli spioncini, le grate, le guardie che controllavano ogni movimento.
Quello non era il luogo in cui doveva stare Severus.
Non lo era mai stato, ma sapeva che l’uomo aveva scelto di scontare la pena per una colpa che non aveva commesso. Deglutì a vuoto, quando giunse nell’ala ospedaliera del carcere. Non v’era alcuna differenza con l’altra. Melusine si sentì soffocare, mentre un sorriso triste le si disegnò sulle labbra, un sorriso che aumentò, quando entrò nella cella dell’uomo, così come aumentò la sua angoscia.
La giovane si sedette su una sedia traballante che era stata posizionata di fronte all’uomo, che si trovava dall’altra parte di un tavolo scheggiato.
«Il medico mi ha detto che d’ora in poi verrò a trovarla qui.» disse, infine, cercando di sorridergli con gentilezza, ma il sorriso che le uscì era triste, angosciato, quasi.
Severus sapeva che quel sorriso era dovuto a lui, al vederlo nella sua cella. Era uno di quei sorrisi che nessuno avrebbe mai dovuto rivolgergli perché quello era il luogo a cui apparteneva, il luogo in cui doveva scontare le sue innumerevoli colpe.
Non importava quanto affetto gli portassero le lettere di Judith, quanto affetto egli stesso provasse per la bambina, né quei brevi lampi di speranza che le parole della bambina portavano con sé.
Quello era il luogo per lui, il luogo in cui aveva scelto di stare.
Non importava se alle volte sentiva nascere il desiderio di poter essere più vicino alla bambina. Era un desiderio che reprimeva non appena gli sfiorava la mente.
«Judith è a lezione di viola, al momento.» aggiunse Melusine, senza riuscire a far suonare la sua voce calma. Era velata d’angoscia, un’angoscia che non aveva nulla a che fare con quello che stava dicendo. «Non è questo il suo posto, signor Piton.» aggiunse poco dopo, senza essere in grado di trattenere oltre le parole.
«Sa perfettamente che è dove ho scelto di scontare la mia giusta pena.» disse Severus, osservando il volto pallido della giovane, sempre attraversato da quel sorriso triste ed angosciato.
«Sì, lo so, ma non posso impedirmi di pensare che non dovrebbe stare qui.» mormorò di rimando la giovane.
«Quella notte, quando i genitori di Judith sono stati uccisi, io ero insieme agli altri due uomini.» rispose l’uomo, decidendo di spiegare, per quanto potesse, com’erano andate veramente le cose. Forse, a quel punto, la giovane avrebbe compreso che era quello il posto a cui apparteneva.
«Lo avevo immaginato, Severus.» affermò Melusine, facendo scivolare un foglio ed una biro, che stavano sul tavolo, verso di lui.
«Allora capirà perfettamente che devo stare in questo luogo. Ero con quegli uomini allo scopo di uccidere tutti coloro che abitavano in quella casa.» ribatté l’uomo, ignorando carta e penna.
Ed il dolore.
«Eppure lei ha salvato la vita di Judith.» disse la giovane, il sorriso triste, il volto pallido, gli occhi velati di lacrime.
«Ma non quella dei suoi genitori.»
Severus osservò il sorriso della giovane farsi più triste, se possibile, più angosciato ancora, mentre una lacrima le rigava il volto. Non avrebbe mai dovuto pronunciare quelle parole. Era certo che la signorina Fairchild le avrebbe travisate. Era certo che non avrebbe capito la verità. E come poteva, d’altronde, considerando che non sapeva nulla di quello che stava realmente succedendo?
«È per questo che… è per questo che ha scelto il carcere? Perché non è riuscito a salvare i genitori di Judith? Eppure, se lei era con quegli assassini, non avrebbe nemmeno dovuto salvare Judith, men che meno sentire la necessità di pagare per non essere riuscito a salvare i suoi genitori. Signor Piton, non dovrebbe trovarsi qui. Per nessuna ragione al mondo.» affermò Melusine, senza riuscire a trattenere ulteriormente le lacrime.
Severus avrebbe rimbrottare la giovane, dirle che non valeva la pena piangere per lui, ma non lo fece. Per qualche strano motivo, gli sembrava che quelle lacrime riuscissero a lavare parte del sangue che gli copriva le mani. Gli parve per un istante che il sorriso angosciato e triste della giovane, unito alle sue lacrime, portasse con sé quel perdono che egli sapeva irraggiungibile.
Era un pensiero che non avrebbe nemmeno dovuto formulare, così come non avrebbe dovuto assaporare quei brevi lampi di speranza che le lettere di Judith, con i loro sorrisi affettuosi, gli donavano.
«Crede che quella notte, sia l’unica volta che mi sono macchiato le mani di sangue?» domandò aspro, dopo qualche tempo, continuando ad ignorare il foglio di carta. Voleva reprimere, cancellare quel senso di sollievo che aveva provato poco prima. Voleva l’odio della signorina Fairchild e di Judith. E voleva anche sentire l’affetto di Judith e la speranza che la bambina gli donava. E voleva avvertire ancora il perdono. «Ho ucciso innumerevoli volte, signorina Fairchild. Ho compiuto azioni orribili, azioni che lei non potrebbe nemmeno immaginare. Quindi non dica che io non dovrei trovarmi qui. Dove altro dovrebbe trovarsi qualcuno che ha ucciso e torturato innumerevoli innocenti?»
Il sorriso di Melusine si fece più colmo di angoscia, ma non comparve alcun odio, né disprezzo nei suoi occhi. Solo tristezza ed altre lacrime.
Severus avrebbe voluto che la giovane dicesse parole simili a quelle che Lily gli aveva rivolto l’ultima volta che aveva parlato con lei, quando aveva perso per sempre la sua amicizia.
Voleva la solitudine, il dolore. Voleva sentire le proprie colpe schiacciarlo senza pietà.
«Sta pagando già così duramente, Severus.» mormorò Melusine con un filo di voce. «Si sta torturando da solo, senza bisogno che viva in questa cella. Si stava già torturando quando l’ho vista per la prima volta all’ospedale. Eppure sono certa che, qualsiasi delitti lei abbia commesso, abbia già pagato il prezzo, forse in maniera terribile. Forse mi sbaglio, lo so, signor Piton, ma non posso negare ciò che penso, ciò di cui sono certa in questo momento. Lei ha già pagato il prezzo per le sue colpe. Ed in questo momento…» la giovane si interruppe di colpo, quando udì qualcuno armeggiare con la porta della cella. Si asciugò le lacrime con un fazzoletto. L’ultima cosa che voleva era che la guardia carceraria facesse ipotesi inutili. «Quello che le spetta, signor Piton, è il perdono. E l’affetto di Judith.» riuscì a dire, prima che la porta si aprisse.
Sorrise lievemente all’uomo, un sorriso meno angosciato, meno triste. Poi si alzò in piedi.
Quando Severus fu nuovamente solo nella cella, si prese il capo tra le mani. Le parole della giovane gli rimbombavano nella mente. Quell’unica parola gli rimbombava nella mente.
Il perdono.
Ma egli sapeva che il perdono era irraggiungibile, perché non poteva esistere perdono per lui.
Non importava quello che aveva appena detto la signorina Fairchild. Per quanto anelasse al perdono, non era ciò che gli spettava. Era l’angoscia della certezza dell’assenza del perdono ciò che gli spettava.
Eppure, in qualche modo, quelle parole continuavano a rimbombargli nella mente. Forse v’era una lieve, impalpabile speranza di perdono, così simile alla speranza contenuta nelle lettere di Judith.
E, per quanto tentasse, non riuscì a reprimere quel pensiero.
 
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