Il Calderone di Severus

N.13: Un anno di sorrisi per Severus

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Alaide
view post Posted on 14/8/2013, 05:47 by: Alaide
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Autore/data: Alaide – 20 - 22 giugno 2013
Beta-reader: nessuno
Tipologia: One-shot
Rating: per tutti
Genere: Drammatico, Introspettivo
Personaggi: Severus Piton, Personaggio originale
Pairing: nessuno
Epoca: Post 7° anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: Una smorfia, simile ad un sorriso angoscioso, si disegnò per un istante sulle sue labbra.
Quel dolore, il dolore e la paura della bambina ricadevano sulle sue spalle.
Nota: La storia è il continuo di Preoccupazione
Parole: 1009

Sinfonie
8. Sinfonia in do minore op 2, n°2.
Quarto movimento. Paura



Judith sedeva nella sua cameretta, avvolta strettamente nel vecchio plaid. La scuola era finita anche quel giorno e, come ogni volta, appena rientrata all’orfanotrofio, era corsa nella stanza e si era stretta nella coperta, immaginando che ad avvolgerla fosse il signor Piton.
Avrebbe voluto fuggire dall’orfanotrofio e andare in Francia, ma era troppo piccola per poterlo fare.
«Judith.» la voce di Melusine la fece sobbalzare, ma era felice che ad entrare fosse la giovane. Di lei si fidava ed era certa che anche a Melusine mancasse il signor Piton.
«È arrivata una lettera per me?» domandò con una nota ansiosa nella voce, anche se sapeva che era troppo presto perché la posta fosse già arrivata dalla Francia.
«Hai spedito la tua lettera soltanto due giorni fa. Ci vuole tempo perché arrivi fino a Lione. E altrettanto tempo perché arrivi la sua risposta.» mormorò la giovane, chiedendosi, mentre si sedeva sul letto, poco distante dalla bambina, fino a quando avrebbe retto quella menzogna.
L’uomo si trovava ben più vicino a Judith di quanto la bambina potesse immaginare e, allo stesso tempo, era irraggiungibile. Se fosse stato veramente in Francia, avrebbe potuto cercare di convincere il direttore dell’orfanotrofio a permettere a Judith una visita all’uomo, ma il signor Piton era in carcere, con la sola compagnia di se stesso e delle lettere della bambina.
Un sorriso triste le si disegnò per un istante sulle labbra. In quel momento si sentiva unicamente invadere dal timore, forse sciocco, ma che non poteva fare a meno di provare, che l’uomo potesse non sopravvivere ai trent’anni di prigione. Sapeva che le sue condizioni fisiche stavano peggiorando o, almeno, così le era parso nel corso delle sue visite.
E si sentiva totalmente impotente.
Cercò di scacciare il pensiero, ma riuscì unicamente ad accentuare la tristezza del sorriso, una tristezza resa più profonda dalla consapevolezza che Severus stava scontando una pena che non meritava, per quanto egli credesse fermamente il contrario, una pena che le pareva mitigata unicamente dalle lettere di Judith, dalla presenza della bambina e dall’affetto che l’uomo provava per lei.
«Quando tornerà? Lo sai, Melusine?»
La domanda di Judith accentuò il senso di malessere della giovane. Severus non sarebbe mai tornato perché aveva scelto la prigione. Deglutì a vuoto, prima di parlare, con voce più calma di quanto non si credesse capace.
«Purtroppo no. Nemmeno lui lo sa. Alle volte scrive anche a me, parlandomi di particolari medici e non ha mai accennato ad una possibile data.»
«Però io… mi manca così tanto, Melusine.» mormorò Judith, facendosi più vicina alla giovane. «So che risponderà sempre alle mie lettere. Me l’ha detto. Mi ha promesso che non lo perderò. Ed io so che è vero. Ma vorrei non metterci così tanto per avere i suoi consigli. Credi che quando sarò grande, potrò andare a trovarlo?»
Per un istante il volto della bambina fu illuminato da un sorriso colmo di speranza.
Un sorriso così innocente, così fiducioso che Melusine seppe che non era rivolto a lei, ma al signor Piton, a quell’uomo buono che si ostinava a definirsi un assassino.
«Dipende da cosa diranno i medici.» decise di rispondere.
Sapeva che Judith avrebbe scoperto la verità. Su quel particolare era in accordo con l’uomo, ma era certa che nulla sarebbe cambiato, che la bambina avrebbe continuato ad amare l’uomo che le aveva salvato la vita, l’uomo che continuava a starle accanto anche da lontano, l’unico che poteva aiutarla a combattere le sue paure.


10 ottobre 2000
Caro Severus,
la scuola mi fa paura. Nell’aula sono seduta lontana dalla porta e non c’è un armadio dove nascondersi. Non mi piace. Siamo tanti e c’è poco spazio.
Gli altri bambini non capiscono che non va bene giocare con le spalle alla porta. Perché non lo capiscono? È perché hanno ancora la mamma ed il papà?
Perché quegli uomini cattivi hanno ucciso i miei genitori?
Ho tanta paura a scuola. Desidero che tu sia qui con me, magari al posto della maestra. Sono certa che tutto sarebbe meglio con lei come maestro.
Ho paura che accade qualcosa di brutto. Ho paura degli altri bambini. Alcuni mi guardano strano. Anche la bambina che è mia vicina di banco.
Però vado bene a scuola. In inglese sono più avanti degli altri.
Vorrei tanto averla qui.
Ti voglio bene,
Judith

Le mani di Severus tremarono leggermente quando giunse alla fine della lettera. La situazione della bambina era più grave di quanto avesse immaginato.
Da quelle parole traspariva un sorriso spaventato e disperato.
Il sorriso di una bambina che aveva perso tutto per motivazioni che non avrebbe mai compreso, motivazione che egli avrebbe potuto esporre con chiarezza.
I suoi genitori avevano fatto amicizia con due anziani coniugi che erano andati ad abitare da poco vicino a loro. Quello che non sapevano e che li aveva condotti alla morte, in quella notte d’agosto, era il fatto che i due nuovi vicini fossero maghi. Tanto era bastato per condannarli.
Era la loro unica colpa. Essere dei Babbani amici di una famiglia di Babbanofili.
I maghi erano stati i primi a morire, quella notte, poi era venuto il turno della famiglia di Judith ed era stata una fortuna che gli altri due Mangiamorte non avessero saputo da quante persone fosse composta la famiglia Babbana, che non si fossero nemmeno accorti della foto che la madre teneva sul comodino.
Ed ora, per quello che egli aveva fatto, la bambina soffriva e chiedeva consiglio a lui che aveva le mani ricoperte del sangue dei suoi genitori.
Una smorfia, simile ad un sorriso angoscioso, si disegnò per un istante sulle sue labbra.
Quel dolore, il dolore e la paura della bambina ricadevano sulle sue spalle.
Ed egli doveva trovare il modo di preservare l’innocenza di Judith, di mitigare quella paura.
Lo doveva a quell’affetto malriposto.
A quel sorriso affettuoso che, nonostante tutto, emergeva nelle ultime righe della lettera.
Alla luce che quelle lettere spandevano per brevi attimi nell’oscurità della sua vita.
Sarebbe giunto il giorno in cui quell’affetto si sarebbe tramuto in odio.
Nell’odio che desiderava.
Nell’odio che temeva.
 
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