Il Calderone di Severus

N.13: Un anno di sorrisi per Severus

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Alaide
view post Posted on 24/7/2013, 15:40 by: Alaide
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Autore/data: Alaide – 1- 6 giugno 2013
Beta-reader: nessuno
Tipologia: One-shot
Rating: per tutti
Genere: Drammatico, Introspettivo
Personaggi: Severus Piton, Personaggio originale
Pairing: nessuno
Epoca: Post 7° anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: Eppure, nonostante il lieve senso di nausea che le dava la disillusione, sorrise all’uomo, un sorriso dolce, gentile.
Nota: La storia è il continuo di Un lieve lucore
Parole: 1270

Sinfonie.
5. Sinfonia in do minore op 2, n°2.
Primo movimento. Disillusione



La sagoma del carcere appariva soffocante agli occhi di Melusine, quando vi giunse in un’assolata giornata di giugno. Da quella prima visita in gennaio, era riuscita ad entrare senza troppe difficoltà, ma, in fin dei conti, era la figlia minore del giudice Fairchild, a sua volta figlio del giudice Fairchild e sorella del futuro giudice Fairchild.
Trasse un sospiro prima d’entrare e sottoporsi all’ormai abituale procedura. Lasciò la borsetta ad una guardia carceraria e ne seguì un’altra.
Quella volta il signor Piton era già presente. Le parve che la coltre di solitudine e sofferenza si fosse come inspessita. In quel momento le parvero quanto mai sciocchi i pensieri colmi di speranza che aveva nutrito il mese precedente.
Sperare che le lettere di Judith potessero aiutare l’uomo le appariva in quel momento unicamente un’illusione che non poteva far altro che infrangersi.
Con ogni probabilità non esisteva nessuna speranza ed era quello un pensiero che le strinse dolorosamente il cuore.
Eppure, nonostante il lieve senso di nausea che le dava la disillusione, sorrise all’uomo, un sorriso dolce, gentile.
«Non è necessario che perda il suo tempo.» disse l’uomo, senza darle tempo di aprir bocca, dopo che si fu seduta.
Severus desiderava che la signorina Fairchild se ne andasse, che lo lasciasse nell’oscura solitudine che meritava, in quella solitudine dove sarebbe stato giustamente preda del dolore, delle sue terribili colpe e della punizione che meritava.
Non meritava di certo quel lieve lucore pieno di speranza che era presente nelle lettere di Judith. Era stato uno stolto ad aggrapparvisi quella notte del mese precedente.
Non importava quanta speranza emergesse da quelle lettere, quanti sorrisi affettuosi trapelassero da ogni parola, il suo giusto futuro era fatto di odio, solitudine e dolore.
«Non sto perdendo il mio tempo, signor Piton.» ribatté Melusine, sorridendogli nuovamente, un sorriso dolce e discreto. «Desidero farle visita.»
«Ma forse io non desidero che lei lo faccia.» la sferzò Severus, tenendo a bada il dolore che parlare gli procurava.
Melusine strinse le mani in grembo, mentre quelle parole la colpivano con un’intensità che, per un istante, la spaventò. Trasse un sospiro, calmandosi.
Non riusciva nemmeno a comprendere se quelle parole rappresentavano ciò che l’uomo voleva veramente oppure un modo per condannarsi alla solitudine perpetua, rinunciando ad ogni contatto umano, che non fosse quello delle guardie carcerarie.
Quell’ultima ipotesi le fece provare un’immensa e profonda tristezza, una tristezza simile ad una ferita dolorosa. Quello che temeva, seguendo il suo ragionamento, era che Severus potesse giungere ad allontanare da sé anche Judith, che giungesse a respingere le lettere della bambina ed era qualcosa che non poteva permettere.
«Signor Piton,» iniziò poco dopo, senza riuscire a controllare la tristezza che emergeva dalla sua voce, che emergeva dal suo sorriso tremante. «ho sempre creduto che nessuno meriti di essere privato di qualsiasi contatto umano. E lei meno di tutti. Sta già pagando troppo duramente.»
«Pensavo, signorina Fairchild, che lei fosse dotata di abbastanza intelligenza da capire che la mia pena non è abbastanza dura, se considera ciò che ho fatto.» ribatté l’uomo, osservando con attenzione la giovane ed il suo sorriso triste, una tristezza che ne offuscava il volto.
In quel momento le parve che la signorina Fairchild fosse invecchiata considerevolmente nel tempo in cui l’aveva conosciuta. Aveva distrutto la pace di quella giovane innocente, si disse. Un’altra colpa da assommare al cumulo di colpe che giaceva trionfante sulle macerie della sua vita.
«Le mie parole si basano esattamente su ciò che lei ha fatto, signor Piton, e sapendolo non posso non volere venire a farle visite.» affermò Melusine, con una convinzione di cui forse non si credeva capace, ma il sorriso rimaneva triste ed il volto continuava ad essere offuscato di tristezza.
«Perché vuole continuare ad illudersi in proposito? Posso comprendere le ragioni della bambina, ma lei è un’adulta, signorina Fairchild, e la sua razionalità dovrebbe dirle con forza che io sono un assassino.»
Severus fissò la giovane, con il suo sorrise triste, un sorriso rivolto a qualcuno che non meritava sorrisi, né speranza, né l’affetto di Judith.
Ciò che meritava era il dolore che affliggeva il suo corpo, era la pena che gli avevano comminato i giudici. Meritava l’odio che un giorno Judith avrebbe provato, scoprendo la verità sul suo conto.
Ma non meritava quel sorriso triste, né che quella giovane perdesse il suo tempo venendo in un luogo dove unicamente i colpevoli dovevano stare.
«So che lei era presente quella notte e so cosa ha fatto. Judith non l’amerebbe in questo modo se lei avesse commesso ciò di cui si accusa.» rispose Melusine, continuando a fissare l’uomo negli occhi, occhi in cui avrebbe voluto veder comparire per un istante un barlume di speranza, ma che rimanevano specchio della solitudine e della sofferenza che parevano circondare l’uomo come una muraglia in cui era impossibile fare breccia. «Ed è a causa di ciò che è accaduto che non ritengo di star sprecando tempo venendo a trovarla. Sono ore di riposo che mi spettano di diritto e che voglio spendere in questa stanza.»
Il sorriso della giovane da triste si era fatto più deciso, come la sua voce.
L’uomo si rese conto che la signorina Fairchild era fermamente convinta di quello che diceva e lo sarebbe stata fino a quando su di lei non fossero crollate le rovine dell’illusione che aveva costruito. Eppure v’era qualcosa in quell’insistenza, in quella convinzione, che giunse a sfiorare la corazza della sua solitudine, della sua volontà di ignorare qualsiasi barlume di speranza. E fu forse per quel lieve lucore che voleva soffocare, per poter scontare pienamente la sua pena, che prese una decisione.
E non era la decisione giusta.
«Se ha del tempo da perdere, signorina Fairchild…»
Il volto della giovane si riempì di improvviso sollievo, un sollievo che raggiunse il sorriso e ne illuminò gli occhi. Un sollievo assurdo, si disse l’uomo, come assurdo era l’affetto della bambina. La signorina Fairchild e Judith erano colme di illusione, si illudevano che lui fosse una brava persona, quando egli era soltanto un assassino.
E presto o tardi sarebbe arrivata la disillusione, quando avrebbero compreso quante macchiate di sangue fossero le sue mani.
«Judith ha la varicella e non è ancora riuscita a scriverle.» disse Melusine, senza replicare, se non con un sorriso grato, che però aveva ritrovato parte della tristezza che le riempiva l’anima di fronte alla solitudine a cui voleva costringersi l’uomo. «Ne è terribilmente dispiaciuta, ma vuole scriverle nel migliore dei modi.»
Severus notò il sorriso grato e triste della giovane, un sorriso che non aveva ragione d’essere.
La signorina Fairchild era grata perché non l’aveva costretta a non visitarlo più, triste perché percepiva, forse, l’assenza di speranza.
Una tristezza che non aveva ragione d’essere.
Così come non aveva ragione d’essere il dispiacere di Judith perché non era riuscita a scriverle. I pensieri della bambina avrebbe dovuto essere ben diversi. Avrebbe dovuto pensare a guarire dalla varicella, lamentarsi perché sentiva prurito ovunque, senza nemmeno avere a disposizione una pozione che potesse farle sentire un notevole sollievo, di certo più efficace di qualsiasi medicina Babbana le avessero somministrato.
Invece pensava a lui, al fatto che non riusciva a scrivergli nel migliore dei modi.
Aveva notato in ogni lettera che aveva ricevuto i miglioramenti della bambina e, alle volte, aveva sentito una punta d’orgoglio per quei progressi.
Quasi Judith fosse sua figlia.
Un pensiero orribile.
Tragicamente ironico.
Un pensiero che non avrebbe nemmeno dovuto formulare.
Egli aveva ucciso i genitori della bambina.
Era un carnefice.
Non importava quanto Judith o la signorina Fairchild gli sorridessero.
Quella verità non sarebbe mai cambiata.
E qualsiasi barlume di speranza non era altro che un’illusione.
 
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