Il Calderone di Severus

N.13: Un anno di sorrisi per Severus

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chiara53
view post Posted on 17/6/2013, 14:34 by: chiara53
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Pozionista sofisticato

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Per Severus, perchè sia di nuovo e per sempre felice! :lovelove: :lovelove:
Con tutto l'amore che posso. :D :wub:

SE VUOI PUOI CHIAMARMI SEVERUS



Ama e ridi se amor risponde
piangi forte se non ti sente
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior.


(Via del campo di Fabrizio de André)



Le auto, il traffico, il rumore mi sommergono, mi squassano.
Non ci sono più abituato, per la verità, non ci sono mai stato abituato.
Sono uscito dall’ospedale, ne sono fuori: mi trovo in un angolo squallido e polveroso di Londra, le mani sprofondate nelle tasche; ho scelto di indossare anonimi abiti Babbani.
Sono vivo e questa è l’unica cosa drammaticamente vera.
Decido di perdermi tra queste strade, forse mi sono già perduto, ma non me ne sono accorto; ho smarrito me stesso da tanto di quel tempo che non so più ritrovarmi.
Cammino, ma non so quanta strada posso percorrere prima di sentirmi stanco, non conosco più neanche le possibilità del mio corpo; continuo a domandarmi fin da quando mi sono svegliato in ospedale, per quale sarcastico fato, proprio io, tra tanti che sono ormai sotto terra, ce l’ho ancora e posso usarlo, questo dannato corpo.
La grande città anonima non riconosce nessuno, non si cura di nessuno; i passanti non esistono l’uno per l’altro, sono solo corpi che occupano uno spazio, un fastidio quando capita di voler coesistere in un luogo ristretto.
L’umanità si spintona, si accalca, ma non c’è una briciola di reciprocità, di aiuto, di consapevolezza dell’altro da sé: e a me va bene così.
Mi appoggio ad un muro, in un angolo, in disparte, fuori dalla pazza folla.
Da quanto tempo cammino? Forse non molto, ma dopo due mesi di ospedale mi stanco presto e più di così non ce la faccio, devo fermarmi: le mani nascoste nelle tasche insieme con la bacchetta, mentre la nebbia nasconde il resto di me.
L’insegna colorata di un pub ammicca in fondo alla strada è un luogo per relitti, per coppiette irregolari, per un’umanità stanca: niente di meglio.
Non mi curo degli altri avventori e loro non si curano di me, va tutto bene; il bancone è semivuoto, gli sgabelli liberi; ordino un whiskey e chiedo di avere tutta la bottiglia: posso pagare.
Il primo bicchiere mi brucia nella gola ancora sensibile, ma il secondo e il terzo vanno giù che è un piacere.
Porto via la bottiglia e consegno venti sterline al barista. Non mi chiede perché bevo, né perché sono lì; non gli interesso tranne che per i soldi che gli ho dato in cambio di un liquore di infima qualità, ed è quello che voglio.
Sono stordito, desidero esserlo è il meglio che mi capita da mesi e continuerò così.
Con la bottiglia in mano vado nell’unico posto che mi viene in mente, quella specie di casa a Spinner’s End, se ancora esiste dopo le visite di nemici buoni e cattivi; mi verrebbe quasi da ridere: ho solo nemici, ma anche questo l’ho sempre saputo.
Non ho fretta di rivedere quella catapecchia: evito la smaterializzazione, e poi sono troppo confuso e stanco.
La nebbia si fa più densa e le luci del traffico incessante si aprono un varco tra le spire di quello che sembra fumo spesso e grigio.
Ho la testa ovattata, leggera, i pensieri rallentano. Per non perdere questa sensazione, che pare riempire la voragine che ho dentro, bevo un altro paio di sorsi dalla bottiglia.
Meglio, va molto meglio: forse Tobias non aveva tutti i torti. Chissà perché quando penso a lui non mi viene mai la parola padre, ma non indago.
La ciminiera, il rigagnolo che non merita il nome di fiume e la strada sporca sono qui e in fondo, nel buio, la casa.
La porta è stata scardinata, qualche mio caro amico di una delle due fazioni ha cercato di farmi visita. Non mi ha trovato, ma mi ha lasciato qualche regalo: meritato, secondo lui o loro, forse anche secondo me.
Con la bacchetta riparo la porta e la chiudo alla meglio; non ho voglia di fare conoscenza con qualche balordo di passaggio che si farebbe male, dato che non mi conosce abbastanza.
Raddrizzo una sedia sbilenca e appoggio sul tavolo la bottiglia a metà, ma ancora per poco.
Buon sangue non mente! Nell’ebbrezza mi viene da ridere e rido, rido mentre sento le lacrime che mi bagnano il viso, poi bevo ancora per stordirmi di più, per perdere conoscenza e sensibilità, per non pensare: non ho fortuna, un barlume di lucidità mi perseguita e tutto quanto non ha più tanto senso.
Silenzio… buio… l’ultimo pensiero coerente: sono libero, se non di vivere, almeno di morire o di ubriacarmi; poi rumore di vetri infranti.

*************************
Mi sono svegliato disteso sul pavimento, sono caduto e devo aver vomitato: bravo Severus, mi complimento!
La bacchetta mi aiuta e faccio sparire lo sporco e i cocci della bottiglia.
La testa mi fa male da impazzire, ma forse pazzo lo sono già.
Sono uno a cui hanno tagliato i fili che lo reggevano, che lo facevano camminare, parlare, muoversi; i burattinai se ne sono andati e mi hanno buttato nell’immondizia; non servo più, sono rotto, sporco, inutile.
Qui, dentro questa baracca, ho vissuto i periodi peggiori della mia vita, ma non ho altro posto dove stare, l’alternativa è la strada o il marciapiede.
Hai finito di tenere la schiena dritta, Severus: hai finito di fingere.
****************************

Come ogni giorno torno dal market con la spesa: pane e tre bottiglie di whiskey.
Nel buio incontro tre individui, sono ladruncoli di passaggio.
Toglietevi dalla mia strada; sono un Mangiamorte: sento esplodere una risata cattiva, e mi accorgo che sono io a provocarla.
Credono di farmi paura quei tre, uno ha un coltello: sarebbe veramente ridicolo farmi ritrovare ucciso nel vicolo da un ragazzino, dopo essere sopravvissuto ad un serpente di cinque metri.
- Lasciatemi stare. – Dico con una voce roca che non sembra la mia: non la uso da tanto tempo e mi esce così. - Andatevene, vi fate male. – aggiungo sfoderando un ghigno che dovrebbe preoccuparli.
Ma insistono:
- Avanti, barbone, dacci le tue bottiglie!
Vogliono solo l’whiskey, non pensano che abbia denaro.
Uno spintone da dietro mi fa cadere: le bottiglie si rompono, mentre sono a terra si divertono a prendermi a calci, non sanno che sono un osso duro.
Senza pensarci impugno la bacchetta e mi sale alla bocca, insieme al sangue, una maledizione che conosco anche troppo bene.
- Crucio. – pronuncio con tutto l’odio e la rabbia che conservo gelosamente. – Crucio, Crucio.
Li vedo stupiti torcersi, improvvisamente, per il dolore inatteso e mi godo la scena, non provo nessuna pietà per questa umanità volgare e vigliacca: attaccare tre contro uno, che bastardi!
Cadono a terra storditi, ora ci vorrebbe un Avada, ma mi guadagnerebbe il resto della vita ad Azkaban.
Mi domando cosa sia peggio, se questo limbo confuso dall’alcool in cui vivo o un carcere di massima sicurezza…
Una bottiglia si è salvata, la raccolgo e proseguo, ma credo che quei disgraziati mi abbiano rotto qualcosa, una costola forse, e fa male; mi curerò con una sbronza: rimedio perfetto, professor Piton!

Deve essere giorno, da un po’ credo di stare male.
Non riesco ad alzarmi ed uscire, non mi reggo in piedi: il fianco mi fa un dolore cane.
Il guaio è che ho finito anche l’alcool e non c’è nessuna boccetta o flacone qui vicino che non sia stata fatta a pezzi, il contenuto sparso dovunque.
Mi assopisco, ma mi sveglio sudato, urlo: di nuovo ho sognato lampi verdi, sangue e buio tanto buio…
Bussano, mi sveglio di nuovo, non smettono.
Entrano con la forza.
- Venite, è qui! – Dice una voce conosciuta
Potter, ancora lui.
Ci sono anche i suoi amichetti: vorrei dire qualcosa di disgustosamente sarcastico, ma… di nuovo chiudo gli occhi.

******************************
(Harry)

Finalmente l’abbiamo trovato, è sparito da un mese.
Tre giorni fa una traccia magica ci ha portato in zona.
Al Ministero si sono mossi finalmente e qualcuno aveva l’indirizzo Babbano di Piton.
La casa è in rovina, sporco dovunque, polvere, odore di whiskey e vomito.
Professore come hai potuto? Cosa ti sei fatto? Cosa ti abbiamo fatto per ridurti così?
Noi, i buoni, forse ci siamo comportati peggio dei “cattivi”.
Hermione sta cercando di rendere abitabile una stanza al piano di sopra.
Io e Ron lo abbiamo messo sul letto, Ron continua a dire che nonostante tutto è un bastardo, anche adesso.
Non è uno che cambia facilmente idea, ma mi aiuta e gli diamo una ripulita.
Piton ha la febbre alta e sta delirando, crede di essere alla presenza di Voldemort nel cerchio dei Mangiamorte e cerca la sua maschera d’argento; dalle frasi sconnesse capisco che non la trova e si agita ma, anche nell’incubo, non chiede aiuto.
E’ fatto così, anche nel delirio o nell’inferno peggiore sa che può contare solo su se stesso, è solo, come non ho mai conosciuto nessun altro.
Hermione lo sta curando, porta sempre con sé la borsa che contiene di tutto.
Cerca di far scendere la febbre, gli da qualcosa per il dolore e una pozione per aggiustare le ossa.
Ma questo è il meno.
Piton è malato dentro, l’ho capito quando siamo entrati in questa casa e l’abbiamo trovato sporco e svenuto sul pavimento, tra le pagine strappate dei libri, in mezzo ai resti degli ingredienti e delle ampolle che li contenevano: libri e oggetti conservati con meticolosa cura per anni, distrutti, come lui.
Abbiamo fatto il possibile per il suo corpo, ma l’anima e la mente sono perse, forse per sempre.
Resto a dormire qui stanotte, non posso lasciarlo in queste condizioni; Ron ed Hermione torneranno domani: anche se non lo sai, non sei solo, professore.


******************
Stamattina, abbiamo preparato qualcosa da mangiare e Hermione ha fatto il caffè nero, quello che Piton predilige: glielo porta ora che è sveglio.
- Granger, ti faccio pena? – sentiamo che le chiede con voce rabbiosa. – Il bastardo vi fa pena?
Dannazione, ha sentito le parole di Ron, ieri.
Salgo le scale, ma ho poche speranze di farlo ragionare.
Mi guarda con occhi che mi sembrano ancora più neri, ancora più determinati, con uno scintillio rabbioso in fondo alle iridi di carbone:
- Vattene, andatevene! Non mi serve niente, da nessuno! – Dice.
Poi parla con più pacatezza e forse è peggio:
- Se vi scordate questo indirizzo mi fate un favore. Potter, hai fatto buon uso dei miei ricordi, è ora che li dimentichi… tu non mi devi niente e io ho concluso il mio compito.
Lo guardo con gli occhi di mia madre, ma stavolta non serve.
Restiamo in silenzio per un altro minuto, poi ce ne andiamo:
- Arrivederci professore…
- Addio, Potter, non tornare!
Per ora non si può fare nient’altro; ci chiudiamo la porta alle spalle.

***********************************

I ragazzi, se ne sono andati. Non li voglio intorno, mi ricordano chi ero… Chi sono adesso, ancora non lo so, e non ho voglia di saperlo.
Il fianco non mi fa più così male, ma la mente snebbiata e lucida è un tormento che non voglio sopportare a lungo: dovrò uscire per rifornirmi di oblio.
Il caffè di Hermione è caldo e buono, non ne ricordavo il sapore amaro e l’aroma gradevole, se chiudo gli occhi vedo la Sala Grande all’ora di colazione, Albus che imburra il pane e chiacchiera: non me lo posso permettere, è insostenibile, dopo aver provato il bene o qualcosa che gli somiglia, sopportarne la perdita; non ho più spalle abbastanza grandi.
Ho deciso che il mio letto sarà il vecchio divano sfondato. Non sopporto di dormire in un letto vero è come se risvegliasse i miei incubi peggiori, mentre la precarietà del divano mi offre un po’ di sollievo di tanto in tanto.
Stanotte sono particolarmente insonne, sento rumori e mormorii; animo il buio di ombre ancora più scure, poi sento dei passi: qualcuno è entrato e bisbiglia.
Estraggo la bacchetta con un riflesso condizionato e la punto verso la fonte dello scalpiccio:
- Lumos. – Pronuncio.
Due paia di occhi spaventati mi guardano; appartengono ad una donna giovane e ad un bambino che avrà sette o otto anni: sono terrorizzati.
Accendo la luce Babbana che ho sempre conservato in questa casa, retaggio di mio padre.
La donna è giovane, piccola di statura, minuta, ha i capelli castani spettinati e sporchi e pare messa male.
Mi guarda e sembra riconoscermi:
- Signor Piton, non si ricorda? Sono la figlia piccola dei vicini, mia madre era amica della sua. Sono Teresa…- Aggiunge, ma non mi sovviene né chi fosse la vicina né tanto meno chi sia lei.
- Cosa ci fai qui, vattene a casa tua, allora! - le dico con rabbia, anch’io ho avuto un attimo di sconcerto sentendoli entrare.
- Non ce l’ho una casa, i miei sono morti e da quando ho perso il lavoro io e mio figlio veniamo a dormire qui. Era da tanto che lei non si faceva vedere. Non faccio niente di male; ci ripariamo, fuori è freddo, piove e Nicholas ha paura.
Mi guarda con gli occhi sbarrati, con apprensione.
Non le rispondo e torno sul divano: che restino pure se si accontentano del pavimento, di spazio ce n’è in abbondanza.
Faccio cenno alla ragazza di chiudere la porta: devo ricordarmi di mettere qualche incantesimo anti-Babbano, quando sono sobrio.
- Possiamo restare? - Chiede piena di speranza, mentre mi guarda fissamente, impaurita.
Teme un rifiuto: non rispondo e lo prende per un sì.
Dal fagotto che tiene in mano tira fuori una coperta che ha visto giorni migliori, la stende sul pavimento e l’arrotola intorno a sé ed al bambino: si addormentano abbracciati.
Cerco di dormire anch’io.
Mi sveglio e c’è odore di caffè e pane tostato.
Quella donna ha preparato una frugale colazione con il poco che ha trovato:
- Signor Piton vuole una tazza di caffè? – mi chiede imbarazzata, e me la porge senza una parola. Comincio a berla. Strofina le mani tra loro e, senza che io le chieda spiegazioni, me le offre:
- Ho usato poco di quello che c’era, ma il bambino aveva fame, ho pensato che non avrei fatto male a nessuno se preparavo un caffè anche per lei.- Abbassa gli occhi vivaci, ma segnati dalla stanchezza: l’ascolto, non so cosa dire.
- Siamo venuti a dormire qui solo quando era molto freddo o se pioveva; dopo che sono venuti quegli uomini strani che hanno scardinato la porta.
Mi guarda titubante e precisa:
- Non sono stata io a fare questo disastro e il disordine…
- Ma neanche hai cercato di sistemarlo! - Soggiungo sarcastico.
Il caffè è buono, forse per questo non l’ho ancora buttata fuori insieme con il figlio.
Il bambino è seduto a tavola e mangia, mentre mi guarda senza una parola. Ha molta fame.
- Devo uscire. – Dico – quando torno non voglio ritrovarvi qui.
Annuisce.
Quando torno se ne sono andati, ma la cucina è leggermente più pulita e il pavimento intorno al divano è lavato.
In un angolo ha ammucchiato ordinatamente le pagine strappate e le costolature dei libri distrutti.
Appoggio sul tavolo la bottiglia di whiskey insieme con pane, uova, latte e burro: non si sa mai mi venisse fame…
A notte fonda sento bussare piano, è lei.
Senza alzarmi, con un gesto della bacchetta apro la porta: mi chiedo come mai non si stupisca di nessuna stranezza.
Non dice una parola e stende la coperta, poi l’arrotola intorno al bambino e lo abbraccia stretto.
Li guardo dormire e invidio tanta serena fiducia in uno sconosciuto che li ospita sul pavimento di una casa devastata.
Nel silenzio e nel buio mi accorgo di piangere lacrime silenziose e calde, non so bene il perché: forse è il respiro calmo della donna. Penso a mia madre, quando mi abbracciava e mi teneva stretto. Poche volte in realtà. Ma è una sensazione che dura pochi attimi e un ricordo troppo sbiadito per consolare.
Il bambino, ora, non smette di tossire e ansima, la madre non riesce a calmarlo, così mi alzo e accendo la luce.
- Fammi visitare il bambino. – Le ordino, ma lei ha paura, e lo stringe più forte a sé.
Cerco di usare un tono meno imperioso, ma sono impaziente.
- Voglio solo vedere cos’ha, non mi fa dormire con quella tosse. – le dico con il tono più pacato che riesco a tirare fuori.
Finalmente acconsente: il bambino scotta per la febbre e respira male.
- Portalo nella camera di sopra. – Ingiungo - In fretta!
Li precedo e li faccio entrare nella stanza che aveva pulito Hermione per me.
- Metti il bambino nel letto, e resta con lui.
Mi guarda con gli occhi impauriti e pieni di lacrime; non sopporto uno sguardo così e me ne vado di sotto a cercare qualcosa di utile.
Dove diavolo sarà finita la mia scorta segreta di pozioni multiuso? Poi ricordo una nicchia nell’armadio in fondo alle scale nascoste da una libreria.
Scendo veloce con la bacchetta accesa, la testa snebbiata, l’adrenalina in circolo: le provette sono intatte e le pozioni integre, ne prendo tre e torno di sopra
Sotto gli occhi stupefatti e terrorizzati della madre, sollevo la testa del bambino e gli faccio inghiottire le prime due pozioni.
Poi cerco di tranquillizzare Teresa e con una gentilezza che non ricordavo di avere, le dico che tornerò tra un’ora, di controllare suo figlio e chiamarmi se peggiora.
Mi sono rammollito, una donna, un bambino malato e mi comporto come Chips.
Mentre chiudo la porta e scendo sento che dice:
- Grazie! L’ha mandata il Cielo.
Faccio finta di non aver sentito perché forse l’inferno è quello che più probabilmente mi ha risputato.
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(Teresa)

Che uomo strano, a volte mi fa paura. Lo ricordo fin da bambina quando tornava a casa per le vacanze dal collegio in Scozia, sempre vestito di nero, con lunghi capelli e uno sguardo cupo .
Credevo volesse buttarci fuori, invece la prima notte ci ha lasciato dormire e adesso si è preso cura del mio Nicholas.
Stamattina il bambino sta meglio, non tossisce quasi più e ha ripreso colore.
Non mi ha detto nulla, ma come per un tacito accordo, io e Nicholas siamo rimasti nella camera di sopra.
Mi guardo intorno e mi pare che questa casa abbia bisogno di una ripulita, se il signor Piton me lo permette ho deciso di farlo, anche per ringraziarlo dell’aiuto.
Quando mi ha visto con secchio e stracci non ha detto niente, non sembrava infastidito, ma è uscito subito.
Ho pensato di lavare le finestre per fare entrare più luce e le tende.
Ho visto in un angolo dei vestiti sporchi, laverò anche quelli, non mi sembra vero di poter tornare a fare queste cose.
La casa è malmessa, ma ci vorrebbe solo qualche lavoretto e tornerebbe come quando c’era ancora la signora Eileen.
Quando torna mette sul tavolo della cucina latte, frutta, carne, verdure e cioccolato.
Non mi ricordo più da quanto tempo non vedo tanto ben di Dio, mi vengono le lacrime agli occhi:
- Grazie! - Gli dico.
- Non è per te, è per il bambino: dagli frutta e carne; ne ha bisogno se deve rimettersi, così potrete andarvene.
- C’è anche della cioccolata. – osservo. – Tuo figlio ha bisogno di zuccheri, dagliene con moderazione.
Sembra seccato come se avessi detto qualcosa di sbagliato o lo avessi colto in fallo.
Non aspetta la mia risposta, si mette a raccogliere e sistemare i fogli e i libri che qualcuno ha strappato. Sarà un lavoro lungo a giudicare dalla carta che vedo sparsa in giro.
Ci si dedica con pignoleria e precisione, ma chissà perché non l’ha fatto prima?

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Sono passati quasi due mesi ed è inverno, tuttavia devo decidermi a mandarli via, meglio che stia solo, inoltre non ho più potuto ubriacarmi in pace da quando sono qui quei due.
Il marmocchio non fa che chiedere tutti i perché del mondo. Io non gli rispondo, quando posso… ma spesso insiste.
E’ un ragazzino tranquillo, inoltre non è una testa di pietra totale, ascolta le mie spiegazioni e legge anche i libri per bambini che ha trovato, non so come, tra i miei, sono quelli che ho conservato perché me li aveva comperati mia madre.
Li legge con interesse.
Guardo dalla finestra quella pazza che si è messa a strappare erbacce in giardino, dice che si ricorda com’era quando ci veniva da bambina; io dovevo essere ad Hogwarts, per questo non mi ricordo di lei né di sua madre.
Ma Teresa, si ricorda bene di Eileen e del suo bel giardino, curato e con le erbe profumate.
Mia madre le coltivava per farne decotti e tisane da vendere: anche lei strappava le erbacce.
Ad un tratto vedo Teresa lanciare un grido ed esco, pensando sempre al peggio, come mia abitudine.
Invece sorride con gli occhi scintillanti: in un angolo ha trovato una pianta di lavanda interrata da mia madre e raddoppia gli sforzi per liberarla completamente dalle infestanti.
Non ci posso credere; fisso la pianta profumata, sopravvissuta a tutte le ingiurie degli uomini e della natura, pianta rude, testarda, che si accontenta di poco, ma profumata e benefica: somiglia alla sua scopritrice che mi guarda infreddolita, con aria soddisfatta.
Nicholas esce incuriosito, mi prende la mano per ottenere la mia attenzione; mi allunga un pezzo di carta:
- E’ per lei. – Mi dice serio
E’ un disegno, sono io, vestito di nero, con i capelli lunghi, un grosso naso, un libro in mano e un sorriso sulle labbra. Ma quando mai questo moccioso mi ha visto sorridere?
Sotto ha scritto “Grazie signor Piton”.
- Mi chiamo Severus, puoi chiamarmi Severus, se vuoi.- Gli dico, e mi accorgo di sorridere.
Davvero.
Sento le lacrime che pizzicano agli angoli degli occhi, forse è come per la pianta sopravvissuta di mia madre, forse anche per me non tutto è perduto, forse con un po’ di amicizia, di affetto disinteressato e strappando le erbacce dal cuore posso aspettarmi di fiorire di nuovo, magari negli occhi di un bambino.
 
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