Il Calderone di Severus

N.13: Un anno di sorrisi per Severus

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Alaide
view post Posted on 4/4/2013, 07:48 by: Alaide
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Autore/data: Alaide – 26-28 febbraio
Beta-reader: nessuno
Tipologia: One-shot
Rating: per tutti
Genere: Drammatico, Introspettivo
Personaggi: Severus Piton, Personaggio originale
Pairing: nessuno
Epoca: Post 7° anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: Sicuramente quella bambina non aveva alcun motivo per sorridergli.
Non in quel momento.
Né mai.
Nessun bambino avrebbe dovuto sorridergli.
Nota: La storia è il continuo di Prima Giornata. Atto I. Canti lontani.
Tutti i riferimenti all’importanza dell’arte nell’educazione sono ispirati dal progetto pedagogico Dix mois d’Ecole et d’Opéra dell’Opéra National de Paris, che prevede, lungo il corso di due anni scolastici, di accogliere all’Opéra (visite, incontro con artisti e personale del teatro, visione di spettacoli, lavoro in atelier artistici) 33 classi provenienti dai quartieri più difficili della zona parigina o da zone particolarmente lontane dalla possibilità di accedere alla cultura o con problemi legati all’handicap. Lo scopo non è di creare artisti o cercare nuovo pubblico, ma di aiutare, tramite l’arte, i ragazzi nel loro modo di esprimersi e di comportarsi, il tutto in collaborazione con l’équipe pedagogica, in modo da far sì che il lavoro svolto all’Opéra si ripercuota su tutte le materie scolastiche. Per esempio in matematica (per costruire le scene bisogna conoscere i teoremi di geometria), la chimica ecc… Leggete quindi il fatto che Melusine diriga un coro di bambini che vivono una situazione difficile come un omaggio a questo splendido progetto.
Parole: 998

Tetralogia

3. Prima Giornata. Atto II, scena I. Un dono


La bambina sedeva, come sempre, tra la porta e la credenza.
Sola.
Gli altri bambini, presenti nella stanza, l’avevano invitata a giocare con loro, ma Judith aveva rifiutato perché starsene al centro di una stanza non era sicuro.
Al di fuori pioveva, una pioggia violenta ed incessante che ticchettava sulle finestre della vecchia casa vittoriana.
Melusine notò subito Judith, isolata dagli altri, e le si strinse il cuore. Avrebbe voluto che la grande casa fosse vuota, che l’orfanotrofio, creato per accogliere gli orfani i cui genitori erano morti di morte violenta, secondo l’ultima volontà di una donna morta nel 1898, non esistesse.
Sembrava strano che proprio nel centenario dalla fondazione fossero arrivati così tanti bambini i cui genitori erano stati uccisi, per quanto lei non sapesse se gli assassini fossero mai stati trovati, né come fossero morte quelle povere persone.
La donna incontrò lo sguardo del piccolo Jeremy che aveva compiuto da poco i tre anni. Quando i suoi genitori erano stati uccisi, era al parco con la baby-sitter. Accanto a lui Anne sembrava giocare tranquilla, ma Melusine sapeva che la bambina, prossima agli undici anni, era colma di rabbia per quello che era avvenuto, mentre lei era a dormire a casa di un’amica. Anche Elisabeth, con cui Anne stava giocando, era a casa di amici, ma durante il sonno chiamava la madre che non poteva più rispondere.
Soltanto Judith, però, aveva assistito alla morte dei genitori. La piccola Judith che sedeva sempre in quella posizione, che ancora faticava a parlare con gli altri bambini.
Melusine le si avvicinò e le sorrise gentile.
Quando aveva accettato di lavorare in quell’orfanotrofio tre anni prima, aveva pensato fosse una soluzione provvisoria, un modo per racimolare un po’ di denaro per continuare i suoi studi musicali, prima di coronare il sogno di poter, un giorno, dirigere un coro.
In quel momento si rendeva conto che la sua vita apparteneva a quei bambini, a cui aveva insegnato a cantare. Amava ognuno di loro e avrebbe voluto poterli aiutare maggiormente, ma quello che riusciva a fare era soltanto tentare di usare l’arte per aiutarli ad esprimere qualcosa di quello che portavano dentro, o forse a riuscire a rimanere insieme, uniti.
Ad esprimersi, in qualche modo, con maggior sicurezza.
«Judith, ti andrebbe di venire con me?» le chiese, dopo aver lasciato passare diversi istanti.
«Dove?» domandò la bambina.
«All’Ospedale.»
«Porterai altri disegni?»
Melusine scosse il capo.
«No. Si tratta di un progetto stipulato tra la direttrice del nostro istituto e l’ospedale.»
«Ed andrai anche dal signore a cui hai dato il mio disegno?» domandò la bambina nervosamente.
Il fatto che lei fosse stata l’unica a non incontrare chi aveva ricevuto un disegno, il giorno in cui erano andati a cantare, le faceva temere che nessuno la volesse veramente.
Forse nemmeno Melusine.


La pioggia ticchettava contro i vetri dell’ospedale senza posa, rendendo ancora più squallida la stanza dalle pareti giallastre. Severus sedeva immobile, fissando le gocce di pioggia che picchiavano contro le finestre, creando un suono irregolare e, a tratti, dissonante, come dissonante era la sua vita.
Una vita costellata da decisioni sbagliate e terribili che era certo di non poter mai realmente espiare. Il perdono era precluso a chi aveva agito come lui.
Il perdono era irraggiungibile per chi non sapeva perdonarsi.
Il perdono era una chimera lontana ed inaccessibile per chi, come lui, aveva le mani sporche di sangue.
E gli pareva quasi, nella solitudine silenziosa di quella stanza squallida, che quelle parole fossero sussurrate dalla pioggia e dal suo ticchettio dissonante.
Un lieve colpo alla porta si mescolo al rumore della pioggia.
L’uomo non si voltò. Doveva essere l’infermiera, si disse.
Chi entrò nel suo campo visivo fu, invece, la donna che gli aveva portato quel disegno inquietante che ancora giaceva sulla scrivania. La giovane che si occupava dell’orfanotrofio.
Non notò subito che la donna non era sola, forse perché era stupito dalla sua presenza, forse perché non si aspettava di vedere lì, in quel luogo dove si trovavano unicamente esseri umani abbandonati come stracci vecchi, una bambina che lo fissava con grandi occhi marroni.
«Non vorrei disturbarla, signor Piton.» iniziò la donna «Credo che le potrebbe però interessare un’iniziativa posta in campo dall’istituto dove lavoro.» Melusine iniziò a parlare più rapidamente, quando vide che l’uomo stava per afferrare il quaderno e la biro. «Si tratta della biblioteca dell’orfanotrofio. Ci sono molti libri lasciati dalla donna che ha donato la casa, ma molti non sono stati letti da tempo. La direttrice ha deciso di chiedere se chi si trova qui voglia prendere in prestito alcuni di quei libri.»
Severus aveva lasciato dove si trovavano il quaderno e la biro, non appena aveva sentito la parola libri. Quelli che aveva portato con sé, li aveva letti tante volte che poteva dire con precisione dove c’era una macchia d’inchiostro che rendeva illeggibili le parole.
L’offerta di quella donna, che appariva terribilmente giovane per occuparsi di bambini rimasti soli al mondo, era un dono inestimabile, un dono che egli non meritava affatto.
Come non meritava il sorriso che gli stava rivolgendo la bambina, un sorriso che pareva esprimere qualcosa di molto simile al senso di sollievo. O forse esprimeva qualcosa di più indecifrabile, qualcosa che sfuggiva a Severus. Sicuramente quella bambina non aveva alcun motivo per sorridergli.
Non in quel momento.
Né mai.
Nessun bambino avrebbe dovuto sorridergli.
Non aveva fatto, né detto nulla che potesse generare quel sorriso che l’aveva come immobilizzato, che gli impediva di prendere foglio e penna per dire che avrebbe accettato l’offerta. Il richiamo della conoscenza che era nascosta in qualsiasi libro, era più forte di qualsiasi cosa, anche della consapevolezza che meritava un simile dono. Era quasi come se quei libri fossero acqua offerta ad un uomo che stava per morire di sete nel deserto.
Eppure quel sorriso aveva come bloccato ogni cosa.
I suoi pensieri. I suoi gesti.
Non v’era nulla di logico in quel sorriso. Ed era rivolto alla persona sbagliata, perché egli non meritava alcun sorriso.
 
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