Il Calderone di Severus

N.13: Un anno di sorrisi per Severus

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pingui79
view post Posted on 19/3/2013, 20:51 by: pingui79

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Dlen dlon, comunicazione di servizio: questa storia è nata dal nulla mentre cercavo di fare l'esercizio assegnato per la lezione sul Condizionale, che tutti siete invitati a fare. La prima frase ne è la riprova e ho deciso che la riciclerò impunemente. :lol: Detto questo, bando alle ciance.


Autore/data: pingui79 / 17-19 marzo 2013
Beta-reader: nessuno
Tipologia: one-shot
Rating: per tutti
Genere: introspettivo, malinconico
Personaggi: Severus Piton, Aberforth Silente
Pairing: nessuno
Epoca: post 7 anno
Avvertimenti: what if
Riassunto: Quando amicizia fa rima con condivisione.
Parole/pagine: 1040/3
Nota 1: storia scritta per il Gioco Creativo n.13 "Un anno di sorrisi per Severus"
Nota 2: seguito ideale di "Chocolate Cake". Non ho in mente una storia ben precisa, solamente stralci di quotidianità ed amicizia.

On ne voit bien qu'avec le cœur



«Direi che sei nuovamente sotto scacco, Severus.» Esclamò il ritratto di Albus Silente. Da una buona ora era la quarta volta che quella frase veniva ripetuta. Tuttavia in quell’ultima occasione la pacatezza con cui venne pronunciata durò giusto un attimo, il tempo di batter le ciglia. Il tono di voce mutò, diventando improvvisamente alto e squillante. «Anzi, scacco matto! Aber, vuoi vedere che questa volta ce l'abbiamo fatta per davvero?»
Il mago dalla barba argentata sembrava non stare più nella pelle, mentre si aggiustava gli occhiali sul naso e faceva atto di sporgersi verso i due contendenti avvicinandosi alla cornice. Si sarebbe detto che fosse sul punto di uscirne, tanto era l’entusiasmo che traspariva dai luminosi occhi azzurri e dal largo sorriso.
Entusiasmo che contrastava in pieno con l’immobilità del Preside. Il nero ebano dei suoi occhi si era fatto ancora più intenso e profondo del solito, un velluto su cui erano dipinte a chiare lettere incredulità ed un pizzico di rammarico.
Severus Piton – contro due Silente perfettamente coalizzati – aveva subìto la sua prima sconfitta.
Ed ultima, pensò con decisione.
Deglutì e fu quello il segno esplicito che non si era tramutato in una statua di sale per la batosta incassata. Anzi, a ben guardarlo si poteva notare anche un altro tipo di movimento: quello degli occhi, che correvano freneticamente da un angolo all’altro della scacchiera, la mente intenta in un disperato appello di ognuno dei pezzi per cercare un qualsiasi appiglio che confutasse la situazione.
Fu tutto inutile.
Il re nero, tutto mogio mogio, fece un molle inchino all’alfiere ed alla torre bianca, poi caracollò tristemente e si gettò a terra in una resa incondizionata, producendo un rumore sordo ed un gemito strozzato impossibili da fraintendere. I pedoni bianchi rimasti all’interno del quadrato di battaglia si lanciarono in hurrà di tripudio degni di una vittoria che si sarebbe potuta scrivere in Storia della Magia, sulla Gazzetta del Profeta e forse anche sul Cavillo.
Che grama sconfitta.
Attese, rimanendo ad occhi bassi, desiderando incontrare il più tardi possibile il sicuro dileggio che ne sarebbe venuto di lì a poco. Lui non si era mai speso in troppe parole tutte le volte in cui aveva vinto, ma gli era stato particolarmente facile ottenere la disfatta del suo avversario, anzi, dei suoi due avversari.
Intanto tutti i pezzi bianchi sulla scacchiera magica danzavano il loro girotondo di festa attorno al re nero non più imbattuto.
Beh, perché non era ancora stato sommerso di parole? Perché non aveva sentito alcuna risata che ormai gli era diventata nota ed amica?
Alzò finalmente il viso.
Aberforth non rideva.
Teneva lo sguardo fisso davanti a sé, verso un punto lontano che andava oltre Severus, poco sopra di lui.
Incredulo, sbalordito e completamente senza parole, somigliava ad un bambino che vede per la prima volta la neve – o il mare aperto – e che resta senza fiato, con il cuore a mille che batte per l’emozione improvvisa e la bocca spalancata da una meraviglia incontrollabile.
Tremava Aberforth. La mano rugosa, appoggiata sul tavolo accanto ai pedoni che erano stati battuti ed esiliati temporaneamente dal campo di battaglia, era scossa da un tremito violento.
Severus sentì nascere l’impulso di stringerla per donare conforto. Non lo assecondò – maledetta ritrosia a mostrare ancora la propria umanità – ma rimase ad osservare la lacrima solitaria che luccicò dietro le lenti squadrate e scese a rigare la guancia del vecchio mago, perdendosi infine nella folta barba grigia. Il Preside fu certo che quell’unica lacrima rifletteva un fiume in piena che non poteva esser visto con gli occhi ma compreso con il cuore.
Non poté fare altro che voltarsi verso il punto che attirava lo sguardo dell’amico e che lo stava straziando così tanto.
Ariana.
Come aveva fatto a non pensarci prima?
Saltellava festante dentro la propria cornice, con le mani giunte e l’espressione estasiata rivolta al fratello vittorioso. Non pronunciava alcuna parola, ma il suo sguardo carico di affetto e di gioia – un viso di ragazzina serena che mai si era visto prima di quel momento – valeva più di una miriade di lunghi discorsi.
Gli occhi di Severus tornarono a posarsi su Aberforth.
Non c’era tristezza in quel pianto composto e trattenuto. C’erano piuttosto amore fraterno ed una quasi beatitudine che trovava la propria pace in una felicità fatta di tela, legno e pittura ad olio, tutto quello che di lei gli era rimasto.
Infine arrivò.
Un sorriso, dapprima debole ed appena accennato, poi sempre più aperto e radioso.
Radioso, sì, anche se a farlo era un vecchio mago da barba e capelli perennemente arruffati e ingrigiti dagli anni.
Radioso, perché veniva dal cuore e Merlino sapeva quanto tempo quell’uomo aveva atteso per poterlo fare senza provare più odio o rimorso alcuno.
In un altro tempo – in un’altra vita – Severus forse avrebbe pensato di essere “in più” e quasi certamente avrebbe provato un moto d’invidia per quello spicchio di vera felicità che a lui non era mai stato concesso. Ma in quel momento, chissà per quale inspiegabile motivo, la bilancia del suo destino aveva deciso che era ora di rimettersi in pari con il mondo intero, poco alla volta. Non si sentì più come un estraneo, qualcosa di troppo che assiste impunemente agli istanti di gioia altrui, come un ladro che non ruba ma che comunque posa gli occhi su ciò che non gli spetta né gli spetterà mai.
Comprese di far parte di qualcosa, solo per il fatto di essere lì, presente.
La gioia dell’amico divenne la sua e dopo tanti anni – troppi – Severus riscoprì il significato felice della parola “condividere”.
Aberforth abbassò gli occhi, posando lo sguardo sul nero pipistrello che nei mesi aveva accettato ed imparato ad essergli amico. Lesse in quel viso una muta comprensione che non aveva bisogno di parole per essere donata.
Per essa – e per molto altro – gli fu sinceramente grato.
Sorrise anche a lui, asciugandosi la guancia con la manica della veste e tirando un po’ su con il naso. Un’occhiata alla sua sinistra e fu ancora complicità fraterna, anche se tra un uomo in carne ed ossa ed un ritratto.
Quel pomeriggio d’inverno, nel salottino sopra il pub Testa di Porco, Severus promise a se stesso che in futuro avrebbe perso un po’ più spesso.



***


Non chiedetemi il perchè del francese del titolo. M'è venuto spontaneo, forse perchè mi suona più musicale rispetto l'italiano.
 
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