Il Calderone di Severus


Lotta all'Ultimo Inchiostro - V° Turno
Poll choicesVotesStatistics
Oggi come ieri4 [33.33%]
Inadatto3 [25.00%]
No, non era un Grifondoro2 [16.67%]
Perdere tutto1 [8.33%]
Una questione di poca importanza (o forse no)1 [8.33%]
La luce di un addio1 [8.33%]
Insegnamenti paterni0 [0.00%]
Il nodo0 [0.00%]
Un attimo di vanità0 [0.00%]
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Lotta all'Ultimo Inchiostro - V° Turno, Una cravatta

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Swindle
view post Posted on 24/11/2010, 22:38




Mi scuso immensamente per non essere riuscita a partecipare... ma la mia connessione giovedì ha deciso di abbandonarmi e il pc l'ha seguita a ruota un paio di giorni dopo! >.<
La storia l'avevo anche scritta... la manderò a MSS, così se qualcuno volesse leggerla (come mi ha chiesto la curiosissima Ale) potrà farlo! :)

Detto questo, complimenti alla vincitrice!
Non ho ancora avuto il tempo di leggere tutte le storie, ma, appena l'avrò fatto, i miei complimenti andranno anche agli altri partecipanti! ^_^
 
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kijoka
view post Posted on 24/11/2010, 22:42




Grazie Swindle!
Sono molto curiosa anch'io di leggere la tua storia! Attendo di vederla su MSS!
Spero davvero riuscirai a partecipare a questo turno!
Ki

Edited by Ida59 - 15/8/2015, 18:28
 
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view post Posted on 10/1/2017, 16:30
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Lotta all'Ultimo Inchiostro - Storie partecipanti al V° Turno:

Una cravatta





Perdere tutto (53 parole)di Reoplano

Cerco i tuoi occhi
sperando di vedere i rossi bagliori
svanire.

Pensando di dominare l’antico legno,
hai preparato da solo il nodo
alla cravatta che ti stringerà il collo.

Perderai tutto, anche la vita.

E nel momento del trionfo, perdere tutto
ha uno strano sapore,
quello del mio sangue nelle fauci di Nagini.




Insegnamenti paterni (616 parole)di Fri Rapace

Severus si massaggiò con vigore le tempie, mentre controllava Lupin mescolare quello che sarebbe dovuto essere un calderone di Pozione Antilupo. Dall’aspetto che aveva assunto quella brodaglia, capì che non sarebbe stata buona neppure come antipulci.
“Cosa è questa… roba?” domandò, a quello che faticava a concepire come un collega. Era solo un… un…
“Sono un incapace, hai ragione, Severus,” lo anticipò il lupo mannaro.
La mente di Severus era inespugnabile, neppure il Signore Oscuro era mai riuscito a violarla, ma Lupin… lui riusciva a capire, e senza apparentemente dover usare la magia.
Stare in sua compagnia era come essere costantemente appeso a testa in giù nel mezzo di una folla di mocciosi urlanti, tutti pronti a ridere di quello che nascondeva nelle mutande.
Lo faceva sentire nudo, i suoi pensieri violati e derisi da quel suo stupido sorriso che nessuna scortesia era in grado di spegnere.
“Sarei tentato di somministrarti per sbaglio questa roba, al prossimo Plenilunio, Lupin. Il tuo vecchio amico recentemente evaso da Azkaban, avrebbe di sicuro trovato un’idea come questa divertente.”
Lo vide stringere i denti in un’espressioni di profondo disagio.
Severus non era stupito del suo fastidio, sapeva benissimo che stava complottando per fare accedere Black al castello, senza successo.
“Ma io ho una coscienza, Lupin,” lo mortificò con una lezione di moralità che dubitava fosse in grado di recepire.
Lupin si allentò la cravatta. “Non so che altro dirti, se non grazie. Per te non varrà nulla, ma non ho altro,” si guardò il petto, aggrottando la fronte. “A meno che… posso ricambiare insegnandoti io, qualcosa. Sicuramente ti riveleresti un allievo migliore di me.”
Severus si concesse un verso di scherno. “E cosa potresti mai insegnarmi, tu?”
“La cravatta,” indicò il suo collo. “Vedo che tu non la porti.”
“Non dovresti portarla neanche tu. È ridicola sui tuoi stracci,” lo attaccò, prima che potesse proseguire. Sapeva dove voleva arrivare: gli uomini portavano le cravatte, Mocciosus i vestiti muffiti della nonna di Paciock.
Vestiti da donna, come quelli che era stato costretto ad indossare durante la sua deplorevole infanzia.
Suo padre godeva nello scegliere i più ambigui che trovava tra quelli che gli venivano offerti dalla parrocchia del loro quartiere, si riempiva gli occhi del suo imbarazzo.
L’umiliazione di Severus lo ripagava della vergogna che un figlio sbagliato come lui gli faceva provare.
“Io la porto sempre,” lo ignorò Lupin. “È un ricordo. Come annodarla è l’ultima cosa che mi ha insegnato mio padre, facendomi indossare una della sue. Mi arrivava alle ginocchia.”
Lupin sorrise del ricordo, ma Severus non lo notò, troppo turbato nel sentirlo pronunciare la parola “padre”. Quanto era riuscito a indovinare dei suoi pensieri?
“È morto per la fatica di insegnare qualcosa a un incapace come te?” sibilò, per difendersi dal suo intuito da mostro.
“No,” Lupin abbassò appena lo sguardo. “Non è morto. Sono diventato un lupo mannaro. Da quel momento non…” si strinse nelle spalle. “Le cose sono cambiate.”
Severus si concesse di rilassarsi un poco, era evidente che malgrado la sua messa in scena, anche Lupin temeva uno scambio di confidenze.
“Tuo padre non ti ha insegnato come annodare le cravatte?” tentò nuovamente.
Non l’aveva mai fatto, ovviamente, ma avrebbe volentieri venduto lui a un circo come fenomeno da baraccone per comprarsene una per sé, pensò con odio. Un odio che riversò su chi insisteva nel provocarlo: “Mio padre mi ha insegnato che i fenomeni da baraccone dovrebbero stare in gabbie da circo, non dietro a una cattedra.”
Remus lo guardò con tristezza. “Tu non pensi davvero questo di me. Lo so,” gli voltò la schiena, dirigendosi verso l’uscita, e concluse, poco prima di imboccare il corridoio. “Dovresti smetterla di pensarlo anche di te.”


Il nodo(631 parole)di Ale85leoSign

Lenzuola e velluti tralucevano come fantasmi, illuminati da una falce di luna che filtrava dalla finestra, entrando, furtiva, nella stanza. In un desolato silenzio un'ampolla di vetro scintillava gelida, riflettendo la fiammella morente della candela appoggiata sul tavolo.
Esausto, si era coricato da poco ma il sonno tardava ad arrivare e nelle ore più profonde e cupe della notte, Severus aveva smesso di cercarlo, lasciando che i propri occhi si fondessero con quell’oscurità lugubre, per indagarla e indagare i suoi reconditi misteri.
Nei suoi sogni di rado comparivano incubi, creature che regnavano incontrastate nella realtà che viveva ogni giorno.
Il buio e le sue forme indistinte permeavano la piccola stanza e i pensieri del mago.
Ci fu un lieve rumore.
Improvvisamente ebbe la sensazione che qualcosa lo stesse osservando, una forma vicino alla sedia di fianco al tavolo che, a pochi passi dal suo letto, pareva muoversi piano, piano, come se stesse scivolando sul pavimento. Gli occhi tentarono di dirgli qualcosa che il cervello si rifiutava di credere. Quella forma sottile, avvicinandosi, stava crescendo, come se avesse voluto occupare tutta la stanza e il suo campo visivo.
Non riusciva a muoversi e non era la paura a trattenerlo.
Quella che provava era una sensazione molto diversa dal prevedibile timore che lo aveva spinto fino alla porta di Lily, molte lune addietro, per tentare di fermare l'inarrestabile: la sua era una rabbia annientata da una palpabile sensazione d’impotenza.
L’impulso cosciente, infatti, era ovvio: richiamare la bacchetta e respingere quella cosa. Combatterla, come aveva sempre fatto.
Ma la sua mente e il suo corpo erano immobilizzati, fissi in quella sinuosa apparizione, come se la sua stessa vita dipendesse da essa.
Gli occhi, ancora, cercarono di avvisare la mente quando si trovarono a fissare un altro paio di occhi, occhi non umani, ma grandi, predaci, luccicanti.
L’essere al quale appartenevano era solo a un paio di metri da lui: ancora un istante e l’avrebbe raggiunto.
Dopo un tempo che gli parve un’eternità, la grossa sagoma fu più vicina e si stagliò nel luccicante arco lunare che filtrava dalla finestra.
Un drago… no! Un serpente, enorme, spaventoso, terrificante.
Severus non disse il nome di quella creatura, ma le sue labbra, istintivamente, formularono altre parole, pensando che l'animale preannunciasse la venuta di qualcosa di ancora più spaventoso.
"Mio Signore..."
Lentamente, molto lentamente, il rettile tirò indietro la testa, come una molla che si carica, sibilando: infine balzò in avanti, fulmineo, spalancando le fauci, lacerando l’oscurità col lampo luccicante delle zanne dirette verso la gola scoperta del mago.
Si svegliò di soprassalto, il cuore martellante, la mente sconvolta.
Era ancora notte.
Batté le palpebre e respirò, avido, l’aria notturna, lasciando che il freddo placasse il palpito dell’emozione.
Si voltò: gli occhi del serpente erano svaniti nel buio dell'incubo, ma la luce bianca della luna illuminava la sedia sulla quale un cravattino sbiadito stava adagiato, come un serpente avvinghiato a un ramo.
Il mago si alzò e avanzando nel buio lo raggiunse.
Lo raccolse: non lo avrebbe morso, ma gli avrebbe comunque fatto male.
Ancora si ricordava, alla fine del settimo anno, quando il nodo della leggera striscia di stoffa si era allentato tra le mani tremanti, per poi sciogliersi, mentre un altro gli si era formato, violento, in gola. E da allora non se n’era mai andato.
Da anni non indossava più quel cravattino a strisce verdi e argentate.
Da sempre quel nodo alla gola era rimasto.
E guardando i palmi chiari delle mani aperte, sulle quali stava adagiato il sottile indumento, di una cosa fu certo e le sue labbra, a quel pensiero, si contrassero in un sorriso amaro.
Prima o poi qualcosa sarebbe strisciato nell'ombra e avrebbe posto fine a quell'incubo.
Avrebbe afferrato il suo cuore, incatenato i suoi occhi... e il nodo si sarebbe sciolto.



Una questione di poca importanza (o forse no) (717 parole)di Severia

“È morto questa notte. Era ricoverato qui da alcune settimane: il suo fegato era in condizioni disperate. Suo padre beveva decisamente troppo.”
Il medico babbano, con il suo camice bianco e lo stetoscopio appeso al collo, lo osservava con sguardo comprensivo. Severus Piton si limitò ad un lieve cenno d’assenso con la testa.
“Quando è arrivato, suo padre ci ha detto di non avere parenti ed è per questo motivo che non l’abbiamo avvisata prima. Poi, un vicino di casa che era venuto a trovarlo ci ha parlato di lei e da allora abbiamo provato a contattarla, signor Piton. Ma non è stato semplice.”
“Vivo all’estero. In effetti, non vedevo mio padre da molti anni.”
Da quando era entrato in ospedale, il volto di Piton non aveva lasciato trasparire nessuna emozione.
“Dovrebbe firmare un paio documenti e farci avere alcuni vestiti, in modo da poter preparare la salma per il funerale.”

Severus Piton uscì dall’ospedale: sopra di lui, un cielo scuro prometteva pioggia. Si infilò in un vicolo e, dopo aver controllato che nessuno gli prestasse attenzione, si smaterializzò.

Erano ormai diversi anni che non andava a Spinner’s End, ma era rimasto tutto come se lo ricordava, anche se la fabbrica aveva chiuso i battenti e non si vedevano più le colonne di denso fumo grigio salire verso il cielo.
La casa era sporca e disordinata. In cucina c’erano ancora i piatti sporchi con i resti di un pasto non finito. Sul tavolo del salotto, tre bottiglie di birra vuote e impolverate formavano una spettrale natura morta. Severus salì verso la camera da letto dei suoi genitori ben deciso a non lasciarsi sopraffare dai ricordi. Aprì l’armadio di legno, facendo cigolare le ante: che cosa si metteva addosso ad un cadavere? Severus scelse un vestito a giacca grigio, che sembrava il meno consunto tra quelli trovati. Poi aprì un cassetto, alla ricerca di una camicia: ne prese una bianca a cui mancava un bottone. Per quanto ne sapeva di abbigliamento babbano, quegli abiti avrebbero dovuto sembrare adatti alla macabra occasione. Cercò di capire se potesse mancare qualcosa e fu allora che la vide: ripiegata in fondo al cassetto, seminascosta tra le camicie, giaceva una cravatta. Severus appoggiò gli altri indumenti sul letto e prese delicatamente quel pezzo di stoffa, quasi si trattasse di una reliquia. Non aveva viso molte cravatte nella sua vita all’infuori di quelle che completavano la divisa scolastica, tuttavia poteva benissimo rendersi conto di quanto quell’esemplare fosse orribile: su uno sfondo viola elettrico erano disegnati dei piccoli elefanti grigi, con la proboscide rivolta all’insù, come simbolo ben augurante. Nel sentirne la stoffa tra le dita, i ricordi, che tanto Piton aveva cercato di tenere lontani, si affacciarono prepotenti nella sua mente.

Rivide il viso sorridente di sua madre mentre allungava un pacchetto a suo padre, augurandogli buon compleanno, mentre lui, dieci anni compiuti da poco, li osservava incuriosito.
“Ti piace?”
“Eileen, è la cravatta più brutta che io abbia mai visto.”
Il sorriso della donna si era spento immediatamente: era andata in un negozio babbano, ma, non avendo mai comprato una cravatta, si era fatta consigliare da una commessa. Le aveva chiesto la cravatta migliore che avessero in negozio, ma quando la signora aveva saputo quanti soldi aveva a disposizione, aveva cambiato espressione, si era allontanata un momento ed era ritornata con quella.
“Questa è solo buona per accendere il camino.”
Quella sera, Severus aveva sentito la madre piangere silenziosamente nella sua stanza.

Severus era sempre stato convinto che suo padre avesse gettato via quel regalo, ma ora lo ritrovava lì, piegato con cura nel cassetto. Possibile che suo padre avesse conservato un ricordo della moglie? Senza rendersene conto, si ritrovò seduto sul letto, a piangere la morte di un uomo che aveva odiato per tutta la vita. Non avrebbe mai pensato di provare un tale dolore per la morte di un uomo che gli aveva causato tanta sofferenza, tuttavia ora si trovava lì, nella sua casa, scosso dai singhiozzi.

“La salma è stata preparata. Se vuole, ora può vederlo.”
“No, non è necessario che lo veda. I vestiti andavano bene?”
“Sì, certo. Forse, solo la cravatta è un po’… come dire: fuori luogo. Di solito ai defunti si fa indossare qualcosa di più sobrio.”
“Era la sua preferita.”
“Allora, d’accordo. Come vuole lei.”


La luce in un addio (743 parole)di Severus Ikari

Era passato tanto tempo dall’ultima volta che era entrato in quella stanza.
Sul letto, che si reggeva in piedi a malapena, c’erano ancora le loro tracce: un abito nero sgualcito della madre e una bottiglia appartenuta al padre che emanava un acre odore di alcol.
Padre? Quale padre?
“Un padre abbraccia il figlio non una bottiglia, accarezza la moglie non la picchia” pensò serrando le labbra per la rabbia.
Carezzò la coperta impolverata dov’era solita dormire la madre, dove piangeva dopo l’ennesima lite con Tobias.
Non era solito entrarvi, tantomeno profanarla curiosando ovunque.
Il rispetto era la cosa più importante per lui, ma quel giorno qualcosa al di fuori di ogni controllo lo spinse ad aprire il piccolo e traballante comodino di Eileen.
Avvicinò lentamente le dita tremanti alla logora maniglia di legno, cercando di aprirlo, ma non ci riuscì poiché era sigillato da un incantesimo.
Sorrise debolmente: sua madre era davvero una strega brillante.
Ma lui era un grande mago e con un colpo di bacchetta eliminò la protezione.
La mano rimase per un istante immobile come se avesse timore. Sospirò per prendere coraggio e lo aprì.
Vuoto.
Perché proteggere con un incantesimo un cassetto vuoto?
Non riusciva a capire, possibile che Tobias avesse trovato un modo per forzarlo?
Impossibile!
Preso da una furia cieca al ricordo dell’odiato padre, afferrò il cassetto e lo lanciò contro il muro mandandolo in pezzi.
Colto da un senso di sconforto si gettò sul letto, facendo alzare una densa nebbia di polvere.
Un piccolo sacchetto di velluto nero logoro con una P d’argento ricamata da un lato attirò il suo sguardo, si avvicinò, lo raccolse da terra e lo fissò per qualche minuto: aveva timore ad aprirlo.
Emanava il tipico profumo dolce di Eileen.
Lo slacciò, traendone un lembo di stoffa nera: una lacrima gli scivolò lungo la pallida guancia.
***


Quell’anno Severus aveva deciso di passare il Natale ad Hogwarts per non assistere all’ennesima scena pietosa della madre piangente e del padre perennemente ubriaco.
Come sempre non avrebbe ricevuto regali.
Era intento a leggere quando un pacchetto, lanciatogli da Lucius Malfoy, gli era piombato sul petto.
Aveva posato il libro e s’era messo ad osservare il pacco grezzo fatto con della carta e dello spago.
Lo aveva aperto e vi aveva trovato una cravatta nera. Sull’involto c’era scritto qualcosa:

“Mio adorato, Severus,
perdona l’orribile pacco regalo, ma non dovevo destare sospetti in tuo padre: sai che odia qualsiasi cosa abbia a che fare con la magia.
Perdonalo ti prego.
Non è nulla di particolare, solo un piccolo pensiero.
Vorrei che la mettessi questo Natale così potrai essere elegante.
Per ricordarti di me, di tua madre che ti vuole bene e che è sempre con te anche quando non ti è accanto.
Vorrei che la indossassi per ogni momento speciale della tua vita perché ne avrai tanti, amor mio.
Sei un ragazzo straordinario e meriti tutto il bene di questo mondo, ma se questo significa stare lontano da qui, fallo, Severus!
Vivi la tua vita felice altrove.
Ti vorrò sempre bene e continuerò a donarti tutto l’amore possibile.
Indossala pensando a me.
Ti voglio bene!
Mamma.”

Su quel pezzo di carta sgualcito Severus aveva mischiato lacrime amare a quelle della madre che avevano sbiadito leggermente alcune parole.
Un debole sorriso gli aveva incurvato le labbra.

***

Piangendo strinse con rabbia quella cravatta.
Amava quel pezzo di stoffa: le ricordava sua madre, era un suo regalo. L’unico che avesse mai ricevuto.
L’amava perché, in una calda mattina d’ottobre, l’aveva mostrata a Lily che lo aveva preso in giro.
Al contempo la odiava perché era legata alle ultime ore di vita della madre.
Eileen aveva utilizzato gli ultimi soldi del mese per comprargliela e, quando Tobias l’aveva scoperto, era andato su tutte le furie e, spintonandola, le aveva fatto sbattere la testa a terra violentemente.
L’aveva lasciata sul pavimento agonizzante, mentre lui era scomparso chissà dove.
Aveva visto una tomba grigia e spoglia sulla quale aveva deposto il suo regalo: conservarlo gli avrebbe sempre ricordato che lei era morta per quel dono.
Si alzò dal letto e un’altra fitta nuvola di polvere si addensò nell’aria, avvicinò la cravatta alle labbra e vi posò un bacio.
Una lacrima scese lenta, poi, sorridendo, parlò come rivolto alla madre: - Addio per sempre! Ti vorrò sempre bene, mamma.
Posò la stoffa sul letto intriso di polvere e ricordi.
Uscì, sigillando il buio di un addio portandone con sé solo la luce.


Oggi come ieri (746 parole)di Kijoka

Oggi, come allora, disfo lentamente il nodo che ti serra la sciarpa attorno collo.
Il passato rivive in me mentre le dita sfiorano piano la stoffa scura, bagnata e scivolosa.
Ricordi quella notte, Severus?
Allora non c'era posto nella tua mente per nient’altro che la tua solitaria strada da percorrere fino in fondo.
Eri giovane, ma delle piccole rughe ti segnavano già il volto: segni inconfondibili del dolore che da sempre portavi dentro di te.
Quella notte i febbricitanti occhi neri erano spalancati nei miei: mi guardavi senza vedermi.
Non era mio il nome con il quale mi chiamavi, mentre slacciavo con attenzione la sciarpa che ti avvolgeva strettamente il collo come le spire di un futuro serpente.
Madama Chips aveva detto di non badare a ciò che dicevi perché l’alta temperatura ti faceva delirare.
Mi aveva avvisato che avresti sognato ad occhi aperti desideri che non esistevano.
Subito mi accorsi che ero diventata la trasfigurazione del tuo perduto amore, nel vaneggiamento della febbre indotta dalle crudeli attenzioni del Signore Oscuro.
Io ero diventata lei.
Perso nella nebbia inconsistente delle allucinazioni, avevi preso a parlarmi come si fa ad un’ amante.
D'un tratto le tue mani avevano guidato le mie verso il tuo volto e me le avevi baciate con trasporto.
A me non è rimasto che invidiare chi poteva muovere il tuo cuore, solitamente distaccato e freddo, ad un simile potente sentimento.
Appena slacciata la sciarpa aveva lasciato le tue spalle e, fluttuando in serici riflessi cupi, era caduta a terra mentre riuscivo a farti di nuovo sdraiare.
Non ti ero mai stata così vicino.
Gli occhi neri sembravano frugare nei miei, ma il luccichio febbricitante sapeva farmi comprendere che non ero il vero obbiettivo delle attenzioni che mi rivolgevi.
Quando mormorasti più chiaramente il suo nome, che conoscevo, compresi definitivamente che la tortura ti aveva condotto in un mondo dove, fino a quel momento, eri sempre stato solo coi tuoi desideri e coi tuoi ricordi.
Riuscivo solo a rispondere con monosillabi sussurrati ai tuoi richiami accorati, quasi che la voce potesse spezzare l’attimo e far riapparire il solito sguardo indagatore negli occhi ora posati su di me e colmi di un amore assoluto.
Quella notte ti ho conosciuto: così tenero e dolcissimo come non sei mai stato, come lei non ha mai visto, come ti sei mostrato a me credendo fossi lei.
Quale donna non sogna un amore così?
Da allora non sono più riuscita a guardarti senza ricordare la voce profonda sussurrare parole d'amore.
Non avrei più dimenticato quella tua notte di sofferenza dove solo un amore, finito prima ancora di cominciare, ti aveva in qualche modo trattenuto in vita.
Ti ho vegliato una notte intera e, come mi ero ripromessa, non ho mai rivelato nulla di ciò che quella notte ho visto, sentito e vissuto.
Io sono stata Lily e tu solo Severus.
Il presente mi strappa ai ricordi.
Le mani tornano ad allacciare il nodo e allargano la sciarpa pulita per nascondere il terribile squarcio che ti attraversa la gola.
Madama Chips ha chiamato me per ricomporti, prima dell'ultimo saluto.
Forse sa quello che mi si agita dentro e ha pensato volessi starti accanto per un'ultima volta.
Un momento privato per dirti addio.
Gli occhi neri, opachi ed immobili, mi straziano il cuore.
Delicatamente ti abbasso le palpebre e sistemo la lunga giacca.
Presto verranno a prenderti e devi essere bellissimo.
Farò in modo che tu appaia l’uomo affascinante e misterioso, dai lineamenti pronunciati ma eleganti.
Sarai fiero, come sei sempre stato.
Ti accompagnerò all’ ultima dimora perché se hai abbandonato questo mondo da solo, non lascerò che tu percorra l'ultimo tratto in un cammino solitario.
Resterò con te come in quella lontana notte, e ti veglierò.
Mi tremano le mani mentre stringo il nodo elaborato, ma stanotte le tue sono immobili.
La tua pelle è gelida e gli occhi neri non guardano più nei miei.
D’un tratto una pungente nebbia liquida mi appanna lo sguardo e i tuoi lineamenti si confondono.
Ora non hai più doveri e, là dove sei, sogno che il dolore non possa più raggiungerti.
Chiudo gli occhi.
Ora posso solo ascoltare ciò che provo.
Resterai nei miei ricordi come ti ho sempre desiderato nei miei sogni: l'oscuro principe del mio cuore. Le piccole gocce salate raggiungono il tuo petto, immobile nella giacca nera, lasciando piccoli cerchi scuri sulla stoffa ruvida.
E’ l’ultimo regalo, l'ultimo tributo.
Una piccola parte di me che resterà con te, per l'eternità.


Inadatto (750 parole)di Ellyson

Inadatto.
Era questa la parola che aveva in mente ogni volta che vedeva il suo riflesso.
Inadatto.
Era una sensazione che lo accompagnava ogni giorno da quando era nato.
Ma da quando era vicino a lei, la sensazione si era amplificata, raggiungendo livelli a volte insopportabili.
Tutte l’amavano, tutti le volevano bene e lui, un ragazzino vestito di nero e con l’aria imbronciata, era inadatto per starle vicino.
Sospirò rassegnato, appoggiato alla parete di pietra nei sotterranei; i suoi compagni gli passavano accanto felici, indossando gli abiti eleganti per il Ballo di Capodanno.
Nessuno si accorgeva della sua presenza e di questo se ne rallegrava.
Restava appoggiato a quella parete con addosso un vestito di secondo mano che sua madre aveva comprato, di nascosto dal marito, a Diagon Alley, credendo di fargli un favore.
Invece quell’abito nero, con i gomiti scoloriti e gli orli consumati, lo faceva sentire ancora più a disagio.
Anzi…inadatto.
Mentre indossava l’abito si era domandato più e più volte cosa l’avesse spinto a partecipare a quella festa.
Gli anni precedenti aveva passato quella serata nel suo letto a scarabocchiare incantesimi sul libro di pozioni; cercando di immaginare l’odiato nemico mentre veniva umiliato e deriso.
Poi ricordava il suo sguardo e si malediva per la sua debolezza.
Strinse i pugni e per poco non cedette alla tentazione di tornare in Sala Comune e fingersi malato. Possibilmente in fin di vita.
- Severus !
Sussultò staccandosi dal muro e nascondendo una mano dietro la schiena.
Lily avanzava verso di lui.
Indossava un vestito rosa pastello, le fiamme delle torce appese alle pareti facevano brillare i riflessi ramati dei capelli, al polso portava il braccialetto di perle che le avevano regalato i suoi genitori.
Deglutì abbeverandosi della sua innocente bellezza.
- Sei in ritardo! – lo rimproverò lei, fingendosi arrabbiata – E mi hai promesso un ballo!
Inadatto.
Abbassò il capo, i lunghi capelli neri a coprirgli il volto pallido.
- Rideranno di te... - sussurrò – ti prenderanno in giro. Non … non voglio che si prendano gioco di te per causa mia. Sono… inadatto.
La sentì sospirare.
Il suo orgoglio ringhiò furioso in petto; non voleva esser trattato come un bambino. Lui voleva solo proteggerla. E lei non lo capiva.
Scansò con un gesto più brusco del voluto il suo delicato tocco sulla spalla.
- Ne abbiamo già parlato. – disse lei pazientemente.
- Tu non vuoi ascoltare…
- E tu non vuoi capire che non mi interessa il giudizio degli altri!
Sollevò il capo incontrando i suoi occhi verdi, smeraldi luminosi in quel corridoio oscuro. Fari di speranza nel suo animo in burrasca.
- Va bene. – mormorò sconfitto per l’ennesima volta da quegli occhi – Verrò.
Lily sorrise. Severus si vide sorridere, riflesso in quei pozzi verdi.
- Però manca qualcosa, Sev. – fece la strega indicandogli il collo – Dov’é il tuo papillon?
- Oh… - mormorò il giovane mostrandole la mano che nascondeva dietro la schiena – Io… - nel pugno chiuso teneva il lembo di stoffa stropicciata – non so allacciarlo.
Lily gli prese la mano, il mago sentì la sua pelle formicolare.
- Lascia fare a me, Sev. – gli disse dolcemente, prendendo il cravattino sfatto.
Con delicatezza, senza che i suoi occhi si soffermassero sui punti lisi del vestito, gli sollevò il collo della camicia e con abili movimenti iniziò ad allacciargli il cravattino al collo.
- Mia madre lo fa sempre quando deve uscire con papà. – spiegò mentre faceva il nodo.
Aveva smesso di respirare. A volte la punta delle dita gli sfiorava la pelle e tutto iniziava a vorticare, mentre il cuore batteva furioso nel petto.
Chiuse gli occhi quando le emozioni furono troppo forti da poterle gestire tutte insieme.
- Ecco fatto! – disse infine Lily abbassandogli il collo della camicia – Ora sei perfetto, Sev! Andiamo, siamo in ritardo!

***



- Andiamo, siamo in ritardo!
Lucius Malfoy è alla porta. Indossa un vestito elegante fatto su misura, Narcissa è al suo fianco.
- Arrivo. – risponde laconico il professore mentre si sistema il cravattino riflettendosi nello specchio.
I tempi sono cambiati.
Non indossa più il vestito liso di un tempo e non sta andando al ballo di Capodanno.
Severus adulto, il professore, la spia, il Magiamorte, l’amico e l’assassino, si guarda allo specchio.
- Non sono poi così diverso da allora. – pensa mentre le dita stringono il nodo del papillon rivivendo i gesti della sua amica d’infanzia.
Si guarda un’ultima volta allo specchio, prima che la porta si chiuda alle sue spalle la mente ha un solo unico pensiero: inadatto.


Un attimo di vanità (750 parole)di Helèna Velena

Mancava qualche notte a Natale e Severus si era fatto di nuovo incastrare per cenare a Grimmauld Place, il dominio dei Weasley, ormai, col blando pretesto di essere un membro dell’Ordine.
Così si ritrovò seduto a tavola, fra cibi troppo grassi da deglutire e la faccia di Potter impossibile da digerire.
Hmmm… i discorsi inutili dei convitati gli sembravano destinati a durare per sempre; fortuna che erano tutti piuttosto abituati a fare poco caso a lui, tanto da non riuscire nemmeno ad apprezzare le multiformi e immaginose varietà della sua espressione insofferente.
All’improvviso un gufo postale si fiondò dentro il salone recapitando un pacco, che gli atterrò dritto in grembo attraversando a piombo i densi fumi della sua inquietudine.
La piccola combriccola (tranne Severus) si entusiasmò.
Gli toccò aprire il pacco davanti a tutti, cedendo all’insistenza generale più che altro per il fastidio insopportabile di sentire i presenti vociare.
Una cravatta.
Una cravatta rossa.
Il Signor Weasley dichiarò che fra i Babbani (gli sembrava di ricordare), regalare una cravatta rappresentava un gesto importante, un presente originale.
Severus conosceva la verità con tutta l’amara consapevolezza di ritrovarsi figlio di un Babbano tra i più mediocri.
Il padre Tobias, infatti, aveva ricevuto in dono moltissime cravatte per Natale. E Severus sapeva bene come la cravatta fosse da considerarsi, in pratica, come la quintessenza stessa del regalo più banale, quello da fare a qualcuno per cui proviamo indifferenza, perché obbligati dalle consuetudini, per una pura formalità.
“Ma chi diamine…” si lasciò scappare in un sussurro forzato.
Quando capirono che il mittente rimaneva misterioso, tutti si dissero d’accordo che poteva essere stato soltanto Silente, a concepire quella idea.
Severus pensava di no.

Finalmente al riparo dagli sguardi altrui, avvolto dal silenzio delle sue stanze nel sotterraneo, Severus si trattenne proprio all’ultimo dall’incenerire la cravatta per pura stizza.
La prese invece fra le mani.
Era di alta qualità, molto ben confezionata. Una splendida cravatta rossa… a parte i suoi gusti contrari, che gridavano vendetta.
Severus si sfilò dalla sua solita veste nera, rigida e ruvida, e così fuori taglia. Si pettinò i capelli, calzò le scarpe migliori.
Non avrebbe saputo spiegare a cosa si stesse sentendo chiamato, di così irrazionale, ma c’entrava di sicuro quella maledetta cravatta rossa, troppo elegante per lui, e sofisticata. Sembrava che lo invitasse ad una sfida, quella di vivere un attimo di vanità.
I pantaloni migliori, una nera camicia dal taglio austero.
Infine…
Le dita si mossero sicure per compiere un preciso gesto tramandato, piuttosto inutile, visto che era un mago: l’unica cosa che suo padre gli avesse mai insegnato.
Esitò, ma poi…
Si sistemò il colletto e fece il nodo alla cravatta.
La sua stanza si dileguò in un turbine di materia scomposta, e Severus non fece in tempo a dire “maledizione”.

… Maledizione!
La cravatta doveva essere una Passaporta.
Severus si Materializzò in ginocchio davanti all’Oscuro Signore.
“Avevo fatto una scommessa, Severus, una scommessa azzardata…” cantilenò Voldemort appena la Magia fu dispersa, con la sua intensa malvagità.
“E mi ero domandato, vedi… Chissà se l’intransigente Piton, così indiscutibilmente serio, e così caparbiamente austero, conserva dentro di sé un briciolo di sciocca e inutile vanità!”
Severus, prostrato e messo a nudo sulle sue ginocchia piegate, gettato nella più immensa vergogna furiosa, non riuscì a dire nemmeno un “Mio Signore.”
“E devo ammettere che mi hai sorpreso, Severus, non credevo”, continuò Voldemort, riflettendo e valutando l‘uomo.
Avvicinò la sua imperscrutabile faccia da rettile, come per aumentare quella indicibile confidenza estorta.
“Ma tu, Severus, risulti sgradevole, malfatto, inguardabile. Non bastano i vestiti e la cravatta, perché non hai la statura. Sei… e rimani… un traditore, soltanto un servitore, per giunta incapace di strisciare bene!”
Voldemort si mosse indietro, risuonò una risata raggelante che scavava nell’aria.
“Vanità!” disse ancora, in un tono secco e declamatorio; “persino in un essere come te. Devo dire che riesci ancora a sorprendermi, Severus. Però…”
Si avvicinò di nuovo all’uomo inginocchiato, lo afferrò per la cravatta in un gesto a metà fra l’intimo e il minaccioso.
“… Però non devi avere rimpianti. Non le piacevi, non le saresti mai piaciuto!”
In un solo momento d’inferno Severus si vide come da fuori, come attraverso gli occhi di un Giudice ancora più spietato di sé stesso, peggio persino dell‘Oscuro Signore.
Rabbrividì riconoscendo la sua immagine, nell’infinita vergogna dolorosa.
Una tortura raffinata, questa volta, il disprezzo di sé rivoltato contro.
Non le sarebbe mai piaciuto, per questo l’aveva tradita?
Un solo attimo di vanità, e mai fu pagato così caro.


No, non era un Grifondoro (574 parole)di Ida59

Primo settembre.
Ancora pochi minuti e il banchetto di inizio anno sarebbe iniziato.
Come sempre.
Poi sarebbe seguito lo Smistamento, come il primo settembre del lontano 1971, quando per la prima volta era giunto a Hogwarts.
Ora ne era il preside, odiato da tutti.
Un sorriso amaro incurvò le sue labbra: osservò il profilo pallido e spigoloso nello specchio, le lunghe dita sottili che, lentamente, liberavano i piccoli bottoni dalle loro asole. Tolse la rigida giacca, nero baluardo di protezione contro l’intimità con il mondo, monito di rifiuto e casta rinuncia.
Con la studiata lentezza di gesti troppe volte ripetuti, sciolse piano il nodo della sciarpa di seta nera che gli annodava strettamente il collo, ultimo drappo di lutto per un amore perduto.
Chiuse gli occhi e sospirò mentre le dita meccanicamente svolgevano la lunga sciarpa e, in un lento svolazzo, la lasciavano cadere a terra.
Nessuna mano di donna l’aveva mai sfiorata.
Nessuna mano di donna l’avrebbe mai sfiorata.
Riaprì gli occhi, neri nel bianco pallore di un viso ormai troppo stanco di soffrire.
Afferrò la bacchetta e si chinò sul secretaire, i lunghi capelli neri a carezzargli le guance: un piccolo lampo di luce e il cassettino segreto si aprì di scatto.
Sospirò di nuovo mentre infilava la mano per trarne delicatamente il contenuto: una cravatta rosso e oro, in parte macchiata di sangue. Il suo sangue di ragazzo ancora innocente.
Il cravattino della divisa di Lily che, tanti anni prima, la ragazza aveva usato per fasciargli il braccio sinistro ferito da uno dei soliti odiosi scherzi dei Malandrini.
Lacerato proprio nello stesso punto in cui ora spiccava il marchio nero.
Sorrise amaramente per la macabra coincidenza e portò la cravatta alle labbra per sfiorarla appena mentre s’illudeva di sentire ancora il profumo di Lily.
Ogni anno la trovava sempre più morbida. Eppure, quando la indossava, ogni anno gli pesava sempre di più sul cuore.
Avvolse la cravatta intorno al collo della camicia e la annodò; bagliori rosso e oro luccicarono sul suo petto alla luce delle fiamme del camino.
Un pugno violento nello stomaco.
Un pugnale acuminato conficcato nel cuore.
La lacrima scese cocente sulla guancia pallida e scavata, come sempre ogni volta che si guardava allo specchio indossando il cravattino di Lily.
Un viso rigido e serio, rughe profonde incise dal dolore e dal rimorso. Labbra sottili, strettamente serrate, che non avevano mai pronunciato parole d’amore.
Raddrizzò le spalle e sollevò fieramente il volto pallido.
Sei un uomo molto più coraggioso di Igor Karkaroff. Sai, a volte credo che lo Smistamento avvenga troppo presto... (1)
Scrollò il capo con forza.
No, quello non era il viso di un Grifondoro.
No, anche dopo tanti anni e nonostante i dubbi di Silente, no, non era un Grifondoro, neppure per il fugace istante del riflesso nello specchio. Neppure indossando il cravattino della donna morta a causa sua e che non aveva mai smesso di amare.
No, il Cappello Parlante non aveva sbagliato.
Velocemente svolse il nodo e tolse la cravatta rimettendola nel cassettino segreto, quindi fece lievitare la sciarpa di seta nera e di nuovo l’avvolse strettamente al collo, rimise la giacca e riallacciò rapido la lunga fila di piccoli bottoni.
Si guardò di nuovo allo specchio.
Il pallore era immutato ma gli occhi neri scintillavano d’orgoglio.
Era un Serpeverde, non un Grifondoro, ma, soprattutto, era un uomo che sapeva affrontare con coraggio il suo dovere. Fino in fondo.
E che sapeva amare.

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(1) Sono parole di Silente rivolte a Piton nel capitolo 33 di “Harry Potter e i doni della morte”.
 
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