Titolo: La purezza della neve
Autore/data: Ele Snapey, gennaio 2019
Tipologia: one shot
Rating: Per tutti
Genere: Introspettivo
Personaggi: Severus, personaggio originale
Pairing: Severus, personaggio originale
Epoca: Post settimo anno
Nota: Breve storia scritta in occasione del compleanno del professor Severus Piton.
Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.
La purezza della neve
Il silenzio dell’inverno è quanto di più rilassante possa esistere.
Così come i fiocchi che scendono senza fare rumore da un cielo livido che sembra dipinto ad acquarello, e si depositano delicatamente sul terreno fino a rendere il parco una meravigliosa distesa fredda e immacolata.
Ogni forma di vita si ritira nella propria tana alla ricerca di tepore, ogni rumore si attutisce, ogni colore viene assorbito da un riverbero bianco quasi accecante, ogni pensiero si raccoglie nell’animo di chi osserva. Tutto riposa, lasciando spazio finalmente alla pace.
E’ quanto sta pensando da diversi minuti l’uomo in piedi, davanti alla finestra, in muta contemplazione di prati, alberi e radure dormienti sotto l’alta coltre candida e intatta.
Il suo sguardo serio e lievemente malinconico non si staccherebbe mai da uno degli avvenimenti più affascinanti al quale, da sempre, è emotivamente legato: la caduta lenta e soffice della neve.
Un evento straordinario che aveva contribuito a renderlo meno infelice nelle gelide giornate d’inverno in cui la luce lasciava troppo in fretta il posto al buio, e da bambino si rifugiava in camera per sfuggire al ritorno a casa di un padre ubriaco.
Una magia della natura che anche una volta divenuto adulto ha spesso contribuito ad allontanare, almeno per qualche istante, i pensieri più cupi e tormentati.
Amava la neve allora, così come continua ad amarla ora. Bianca, pura, cristallina e diversa da lui ma allo stesso tempo anche misurata, silenziosa, dura e compatta come lui.
Gli occhi indugiano di nuovo sullo scenario incantato esteso fino ai rilievi che coronano il lago ghiacciato.
Sembra tutto uguale quando è così. Impossibile distinguere le forme dell’immensa foresta nascosta sotto il manto bianco e l’impercettibile tormenta in corso crea piccoli mulinelli che gli riportano alla mente un parchetto immerso nella quiete, il cui unico rumore è il tenue, ritmico cigolio delle altalene abbandonate, ricoperte da uno strato di neve e brina.
E rivede il fumo pallido che esce dai comignoli anneriti sopra i tetti tutti identici tra loro, ricordando come amasse perdersi nell’osservazione dei complicati arabeschi che formava stagliandosi verso un cielo grigio, incombente, simile a una patina di unto.
Se lo rammenta ancora perfettamente quel cielo color acciaio; lo stesso acciaio che produceva la fabbrica poco distante da casa, dove lavorava papà, e che era l’unica fonte di lavoro e di sostentamento per le famiglie che abitavano il povero quartiere.
I rintocchi ovattati del grosso orologio interrompono il filo dei ricordi.
Sospira leggermente, dirige un’occhiata al grosso quadro da dove solitamente il vecchio considera il mondo esterno (ma che ora è vuoto) prima di lasciare che la pendola scandisca dodici battiti; quindi si stacca dal punto d’osservazione, covando in petto una strana sensazione di rimpianto.
Ma sa che non può più rimandare. E’ giunta l’ora. Deve andare.
Afferra il lungo mantello nero ripiegato sullo schienale della poltrona posizionata di fronte alla scrivania, lo adagia con cura sulle spalle ed esce dallo studio.
Nel frattempo ha deciso che farà un giro preventivo di perlustrazione per il castello, prima di raggiungere il luogo dove lo stanno attendendo; perciò infila il corridoio e si dirige verso le scale senza troppa fretta.
L’eco del suo incedere controllato rimbalza sui vecchi muri bruniti dalla fuliggine dei bracieri.
I percorsi sono deserti, quieti e raccolti, illuminati appena da una luce fredda proveniente dai chiostri mentre i fiocchi bianchi continuano a giocare tra loro oltre il peristilio.
Non c’è anima viva, spira solo l’alito gelido dell’inverno e dei fantasmi che abitano il castello e per un istante gli viene da considerare come in quel periodo, privati del consueto andirivieni di studenti, gli androni abbiano un’aria desolata, abbandonata e sofferente.
Quando però passa accanto al cortile imbiancato vicino all’aula di Trasfigurazione si ferma diversi secondi a fissarlo, ammaliato: il chiostro ha l’aspetto di un’enorme torta glassata ricoperta di soffice panna montata, e quella fantasia gli provoca una voglia matta di uscire all’aperto per lasciare impresse nella coltre intatta le proprie impronte, pur sapendo che decisamente non è il caso, né il momento.
Ma qualcosa lo trattiene dal proseguire e torna sui suoi passi decidendo, contro ogni norma e principio, di seguire il primo impulso.
Si guarda attorno rapido, vigile e circospetto. Continua a non esserci anima viva.
Allora spicca un piccolo salto dal lastricato duro e asciutto del corridoio alla superficie friabile del patio.
E quando gli stivali affondano nella neve fresca gli sembra all’istante di aver fatto un tuffo in un'altra dimensione, e di essere tornato bambino.
Nulla e nessuno può più farlo desistere dalla necessità di dover violare la superficie bianca e incontaminata estesa davanti a lui, esattamente così come quando da piccolo gli era permesso di uscire sul retro di casa, nell’angusto giardino protetto da uno spesso manto immacolato, e si divertiva a saltare e a rotolare dentro la meravigliosa distesa gelida e perfetta.
Raccoglie a sé il mantello e si accinge a percorrere il chiostro in lungo e in largo, sprofondando ad ogni passo fin quasi al ginocchio. Ma la fatica di muoversi nella neve alta non lo ferma, anzi, sente crescere interiormente il bisogno di fondersi - forse a dispetto della propria apparenza - in tutto quel biancore abbagliante.
Inizia ad avanzare a piccoli balzi, simile a un minuscolo corvo stagliato contro un enorme telo candido; lo fa come in preda a una sorta di furia distruttrice, marciando senza indugio, balzo dopo balzo, nella coltre bianca inalterata, ripercorrendo più volte il tratto dal perimetro del cortile fino al centro per poi tornare su un percorso diverso in senso contrario.
Intanto ridacchia tra sé, appagato dal caratteristico suono della neve che, scricchiolando, cede sotto il suo peso conservando il ricordo profondo delle sue impronte.
Il fruscio della neve fresca è davvero qualcosa di sublime. Qualcosa che non si può dimenticare.
Vorrebbe continuare così all’infinito, fino alla totale corruzione di tutto quel candore, ma all’improvviso lo ferma il segnale cupo del grosso pendolo che dalla Torre dell’orologio batte la mezza.
Si blocca in mezzo al cortile con le gambe leggermente divaricate, il respiro ansante condensato in nuvolette di vapore, il volto arrossato su cui spiccano gli occhi neri ancora lucidi di fervore, mentre i fiocchi continuano a scendere e a depositarsi, candidi, sulle spalle e sui capelli.
Rivolgendo l’attenzione ai rintocchi si rende subito conto, con una punta di apprensione, che si è fatto molto tardi.
Non c’è più tempo, adesso non può più rimandare, deve necessariamente andare.
Si arrampica di nuovo sul percorso asciutto che ha lasciato, scrollando il capo, la veste, il mantello e gli stivali per liberarsi dalla neve.
Cerca di recuperare anche una certa compostezza, quindi riprende il cammino con più urgenza, attraversando con passo energico corridoi senza vita, oltrepassando androni deserti, scendendo velocemente scale silenziose, il volto teso in un sottile sforzo di concentrazione, il nero mantello che si allarga alle sue spalle in morbide, ampie volute.
Giunge infine davanti al grande portone, soffermandosi davanti al battente intarsiato per qualche secondo.
Prende un grosso respiro, e lo sospinge.
–
Severus… finalmente!
Mancavi solo tu…La voce dal timbro velatamente accusatorio di Minerva McGranitt lo accoglie, sovrastando il forte brusio che proviene dal lungo tavolo apparecchiato a festa al centro del salone illuminato da centinaia di candele dorate. Vicino al banchetto si erge l’immenso abete carico di stelline iridescenti e di palline verdi, rosse, gialle e blu mentre in sottofondo una melodia soffusa diffonde le note di God rest you merry.
Sala Grande è un tripudio di addobbi talmente abbaglianti, che per un attimo stenta ad individuare i volti, tutti girati verso di lui, delle persone già sedute in attesa di pranzare; ma non fatica a riconoscere la piccola donna dal piglio battagliero e determinato che gli sta venendo incontro.
– Amor mio… ma,
non si era detto a mezzogiorno? – anche il suo tono è in modalità “attivazione senso di colpa”, mentre lo sguardo ha assunto la sfumatura dell’acciaio, proprio come la volta magica del salone da cui continuano a scendere fiocchi di neve.
- Vi prego di scusarmi. Ero concentrato sulla stesura di un documento, e non mi sono reso conto di aver fatto così tardi. – prova a giustificarsi alla platea che gli rivolge ampi sorrisi di benvenuto, e nel contempo si accorge come sua moglie gli stia osservando i pantaloni, il mantello e gli stivali fradici con un’espressione a metà tra l’inorridito e l’allibito.
La prende prontamente per mano prima che possa aprire bocca, e dirigendosi verso i due posti vuoti al centro della tavolata le sussurra in fretta:
- Ti spiego dopo.
Quindi inizia a salutare, uno ad uno, gli ospiti che lo hanno atteso fino a quel momento.
Ci sono veramente tutti, quest’anno, anche Molly e Arthur Weasley, con quasi tutto il resto della famiglia, accomodati vicino a Minerva. Ci sono perfino alcuni ex studenti tra cui Neville Paciock che da qualche mese affianca la professoressa Sprite come assistente.
Il ragazzo è molto promettente, ha la stoffa del bravo insegnante, e lo sguardo che gli sta indirizzando è brillante di ammirazione e fiducia: proprio tutt’altro rispetto a come, fino a qualche anno prima, fissava il temutissimo docente di Pozioni.
Remus, che ha appena annodato il tovagliolo al collo del piccolo Teddy seduto tra il padre e la nonna, gli sorride accennando a un brindisi imitato da Vitious e Sprite. E poi ecco Vector, Sibilla Cooman, Horace Lumacorno, Hagrid, ingombrante e festoso, che gli dedica un piccolo applauso annuendo bonariamente dietro al barbone incolto. Anche il grande vecchio è lì, e mentre regge un calice di vino bianco gli ammicca con espressione affettuosa dal grosso quadro accanto al camino raffigurante l’interno di un laboratorio di alchimia.
Sono tutti lì per lui, Severus lo sa, nonostante non sia ancora riuscito a modificare del tutto la propria avversione per qualsiasi forma di celebrazione o festività. Ma è costretto ad ammettere come la presenza di tanti amici gli stia procurando un innegabile, sottile piacere.
Tanti auguri, preside. Felicitazioni. Buon Natale.
Piovono buoni auspici da ogni lato della tavolata su cui iniziano ad apparire bevande e portate, e lui avverte una sensazione di calore mai provata, perché ognuno è lì indubbiamente per festeggiare il Natale, ma anche e soprattutto per celebrare il suo primo anniversario come preside di Hogwarts.
Un anno molto impegnativo, eppure incredibilmente ricco di soddisfazioni: la più grande scuola di Magia e Stregoneria al mondo è tornata ad essere tale, affermata e richiesta, così come era molto prima della guerra. Hogwarts è la sua certezza, la sua casa. E la donna che gli sta seduta accanto la sua famiglia.
Si volta a guardarla e le dedica una lunga, intensa occhiata. Lavinia ricambia con lo sguardo luminoso.
Gli ha già perdonato il ritardo – le iridi sono tornate ad essere color cielo terso – ma la conosce bene e nota che gli occhi tradiscono un’evidente impazienza, come se ancora non gli avesse detto qualcosa di importante e stesse morendo dalla voglia di farlo.
Si china appena verso di lei, prestando l’orecchio alla sua bocca.
– Non è tutto così meraviglioso? – gli mormora con dolcezza. Poi aspetta che lui annuisca, lo tira ancora leggermente a sé e sussurra:
- Aspetto un bambino.
Si raddrizza di scatto, con il calice stretto in mano ancora alzato a mezz'aria per il brindisi, e fissa la moglie, stralunato, come se si fosse appena trasformata in una puffola.
- Scusa,
scusa… avrei dovuto dirtelo stasera ma non ce la facevo proprio ad aspettare. - si giustifica, precipitosamente, preoccupata dalla sua reazione, fino a che lui riprende a respirare, posa il bicchiere e le afferra le mani.
- Che… che cosa… hai… detto? - farfuglia come mai gli è capitato in vita, (ma in fin dei conti mai gli era capitato di ricevere una comunicazione del genere) e cerca di recuperare un contegno dignitoso mentre Lavinia lo sta contemplando con il volto illuminato dall’emozione.
- Aspetto un bambino. – ripete, in un soffio, assentendo con entusiasmo.
- Ma… ma un… un bambino o una bambina? – si rende conto che sta blaterando cose senza senso, ma non gliene importa affatto perché il cuore vorrebbe scoppiargli in petto mentre si sente travolgere dalla felicità e sembrano scomparsi tutti quanti dalla sala traboccante di festa dove gli unici rimasti sono lui e Lavinia, che intanto continua ad annuire in modo quasi compulsivo, radiosa come una stella.
- Tutto bene, ragazzi?
La voce di Remus pare provenire da un’altra galassia, ma è sufficiente a far tornare entrambi sulla terra.
Si voltano a guardarlo con aria estasiata e l’amico leva di nuovo il calice; ha già capito il perché, continua a sorridere rivolgendo loro un cenno d’intesa e aggiunge:
- Buon Natale. Ma, soprattutto, buon anno! Qualcosa mi dice che…
per voi, questo sarà un anno davvero molto speciale.