Autore/data: Alaide – 20-22 febbraio
Beta-reader: nessuno
Tipologia: One-shot
Rating: per tutti
Genere: Drammatico, Introspettivo
Personaggi: Severus Piton, Personaggio originale
Pairing: nessuno
Epoca: Post 7° anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: L’uomo sembrava come gettato in un angolo, alla stregua di un vecchio arnese dimenticato, quasi nessuno volesse avere qualcosa a che fare con lui.
Nota: Il titolo, Tetralogia, fa riferimento alla Tetralogia wagneriana, una saga musicale costituita da quattro opere. Ovviamente non riprenderò il titolo delle opere, né la loro trama mi è servita da ispirazione. E’ stata più che altro la musica ad essere quasi una “colonna sonora” durante la scrittura della storia. Ciò che seguirò è, invece, la struttura delle quattro opere, quindi la divisione in atti e la divisione degli atti in scene.
Parole: 844
Tetralogia
1. Vigilia. La stanza dalle pareti gialle
L’uomo sembrava come gettato in un angolo, alla stregua di un vecchio arnese dimenticato, quasi nessuno volesse avere qualcosa a che fare con lui. La stanza stessa del piccolo ospedale di provincia aveva un che di dimesso e dimenticato.
La luce di un pallido sole di novembre non poteva far nulla per rendere più piacevoli le spoglie pareti giallastre.
«Chi è?» domandò una giovane donna, lanciando un’occhiata dalla porta semi-aperta. Da dove si trovava riusciva unicamente a scorgere un uomo seduto di spalle.
«Si chiama Severus Piton.» rispose l’infermiera che la stava accompagnando. «È arrivato quattro mesi fa. Ricordo perfettamente quel giorno, signorina Fairchild. Chi l’ha portato sembrava di fretta. L’ha lasciato qui, quasi non sapesse cosa farsene. E da allora nessuno è venuto a trovarlo.»
«Crede che sia un problema se entro? Ho un disegno per ogni paziente.» mormorò la giovane donna, lanciando un’occhiata oltre la porta a metà aperta.
«Non credo, signorina.» biascicò lentamente l’infermiera. Aveva visto più di un paziente – quasi tutti a dire il vero – dimenticato, quasi vi fosse qualcosa di nocivo in lui, anche quando così non era. E sapeva che molti di loro attendeva con impazienza la visita di Melusine Fairchild, o di una delle sue colleghe, o dei bambini stessi. «Non si aspetti però un’accoglienza calorosa. Anche se, qualsiasi cosa gli sia successa, ha le corde vocali terribilmente danneggiate, al punto che deve limitare al minimo l’uso della parola, riesce a farti sentire di troppo.»
La giovane donna annuì unicamente, poi bussò lievemente all’uscio per annunciarsi. L’uomo non si voltò, né fece cenno di averla sentita. Melusine si avvicinò lentamente, quasi timorosa di disturbarlo. Era l’unico nuovo paziente dall’ultima volta che era andata all’ospedale.
«Buongiorno, signor Piton.» disse, quando si trovò accanto all’uomo vestito di nero. «Spero…» si interruppe a disagio. Sul tavolino accanto al quale era seduto l’uomo, c’era un quaderno ed una biro. «Spero di non disturbarla.»
Fu in quel momento che gli occhi dell’uomo si posarono su di lei, facendola sentire ancora più a disagio. Le parve che quel paziente fosse circondato da una barriera fatta di solitudine, una solitudine che la inquietava.
Abbozzò un lieve sorriso, un sorriso gentile, un sorriso fin troppo simile a quello che utilizzava quando un bambino arrivava all’orfanotrofio. Aveva visto giungere fin troppi bambini durante la prima metà dell'anno precedente, bambini che non riuscivano a far altro che chiudersi nella loro solitudine.
Ed in quel momento, come di fronte a quei bambini che avevano perso forse per sempre il sorriso, non sapeva cosa dire o fare di fronte allo sguardo dell’uomo, se non sorridere gentilmente, quasi scusandosi per aver invaso la sua solitudine.
Eppure sapeva che qualcosa dove dire o fare.
Era cosciente che i bambini ci sarebbero rimasti male se fosse tornata senza aver distribuito tutti i loro disegni.
«Signor…»
Melusine si interruppe quando l’uomo le allungò il quaderno con un gesto brusco.
Faccia quello che deve fare e lo faccia alla svelta.
Alla giovane donna sembrava quasi di sentire il tono di quelle parole, vergate rapidamente. Rese il quaderno all’uomo e prese in mano, dalla cartelletta che portava con sé, un disegno. Gli getto un’occhiata e riconobbe le immagini cupe di Judith.
«I bambini dell’orfanotrofio dove lavoro hanno realizzato un disegno per ogni paziente.» mormorò Melusine, sotto lo sguardo dell’uomo.
Senza aggiungere altro, gli porse il disegno. Rimase per diverso tempo immobile, poi posò il disegno sul tavolo accanto all’uomo. Gli rivolse un ultimo sorriso gentile, chiedendosi, mentre usciva, cosa si celasse dietro quello sguardo che pareva rinchiudere un mondo celato a tutti.
Severus udì i passi della donna allontanarsi lentamente.
Sapeva che sul tavolo accanto c’era il disegno realizzato dalle mani innocenti di un bambino. Non voltò il capo, né allungò un braccio per poterlo afferrare. C’era qualcosa di terribilmente sbagliato in tutto quello, così come c’era qualcosa di sbagliato in quei sorrisi gentili che gli erano stati rivolti. Nessuno avrebbe dovuto donargli un disegno, men che meno creato da un bambino, nessuno avrebbe dovuto sorridergli come aveva fatto quella donna dal volto gentile.
Se per questo egli non avrebbe nemmeno dovuto trovarsi tra i viventi. Avrebbe dovuto trovare la morte nella Stamberga Strillante.
Invece viveva.
Ed accoglieva con gioia il dolore che nessuna Pozione poteva calmare, men che meno in quel momento in cui si trovava in un ospedale Babbano.
Forse in quell’allontanamento forzato dal Mondo Magico c’era una parvenza di giustizia, quella giustizia che non risiedeva nella sentenza del Wizengamot che l’aveva assolto.
In quel momento avrebbe dovuto trovarsi ad Azkaban a scontare le sue colpe, non in quel luogo, dove riceveva in dono il disegno di un bambino.
Si alzò faticosamente in piedi, appoggiandosi al tavolo. Infine lo sguardo si posò sul disegno: due persone, un uomo ed una donna erano immersi nell’ombra, una luce, stranamente fredda, per il disegno di un bambino, e qualche albero dai rami spogli.
Il disegno di qualcuno che sta crescendo troppo in fretta, si disse l’uomo, tornando a sedersi, lo sguardo fisso davanti a sé, sulle pareti giallastre della stanza, chiedendosi per quale scopo vivesse ancora.
Edited by Alaide - 23/5/2013, 23:07