Il Calderone di Severus

N.13: Un anno di sorrisi per Severus

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Alaide
view post Posted on 18/7/2013, 13:41 by: Alaide
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Autore/data: Alaide – 27-30 maggio 2013
Beta-reader: nessuno
Tipologia: One-shot
Rating: per tutti
Genere: Drammatico, Introspettivo
Personaggi: Severus Piton, Personaggio originale
Pairing: nessuno
Epoca: Post 7° anno
Avvertimenti: AU
Riassunto: Quel pensiero la fece sorridere.
Un sorriso dolce ed affettuoso.
Il sorriso che avrebbe rivolto all’uomo se lo avesse avuto davanti in quel momento.
Nota: La storia è il continuo di Una visita
Parole: 1113

Sinfonie.
4. Sinfonia in sol minore op.2 n.1
Un lieve lucore



Il sole di metà maggio illuminava la scatola di latta che giaceva aperta sul letto.
Judith stava rileggendo tutte le lettere che il signor Piton le aveva scritto. Erano tutte brevi come la prima che aveva ricevuto, ma la facevano sentire sempre al sicuro.
Di notte, quando gli incubi la tormentavano, quando sentiva le grida di mamma e papà, leggeva una di quelle lettere e si sentiva subito più tranquilla, perché sapeva che il signor Piton vegliava su di lei, seppur da lontano.
Immaginò, mentre prendeva in mano una delle lettere, che l’uomo la venisse improvvisamente a trovare ed allora lei gli sarebbe corsa incontro e lo avrebbe abbracciato. Ed il signor Piton l’avrebbe portata via dall’orfanotrofio e le avrebbe permesso di stare sempre con lui, così gli incubi sarebbero finiti e lei si sarebbe sentita al sicuro.
Protetta.
Quel pensiero la fece sorridere.
Un sorriso dolce ed affettuoso.
Il sorriso che avrebbe rivolto all’uomo se lo avesse avuto davanti in quel momento.
Prese in mano un’altra lettera e la lesse. Era la prima che l’uomo le aveva mandato, la prima che l’aveva fatta sentire, come era avvenuto con tutte le altre, felice e riconoscente, perché il signor Piton aveva trovato il tempo per risponderle, nonostante fosse in Francia per guarire.
«E’ arrivata una lettera.» annunciò Melusine, entrando nella stanzetta della bambina.
Judith si alzò e corse a prendere il pezzo di carta. Riconobbe subito la grafia del signor Piton ed il sorriso si fece ancora più evidente.
Melusine osservava la bambina intenta a leggere e rileggere le parole dell’uomo. Ogni volta che arrivava una lettera del signor Piton, sentiva la gratitudine invaderla.
Era grata all’uomo per quelle lettere.
Sapeva che, nonostante tutto, il signor Piton teneva a Judith. Altrimenti non le avrebbe scritto.
Eppure quel pensiero disegnava sul volto della giovane un sorriso triste.
Il signor Piton avrebbe potuto essere ancora all’ospedale se non avesse compiuto quella scelta terribile che lo portava a scontare una colpa che non aveva commesso.
Era certa che se l’uomo si fosse trovato ancora all’ospedale, la cappa di solitudine che lo circondava avrebbe potuto dissiparsi un poco, per lo meno. Durante le sue visite in carcere aveva notato che quel muro sembrava levarsi sempre più compatto.
Avrebbe voluto riuscire ad infrangerlo, ma non v’era nulla che lei potesse fare. In fin dei conti, l’unico legame che univa lei ed il signor Piton era Judith. V’erano momenti in cui sperava che le lettere della bambina potessero scardinare quella solitudine e quella sofferenza.
Invece le era parso, l’ultima volta che era stata in prigione, circa un mese prima, che il dolore fisico fosse aumentato e, di fronte a quel dolore e a quella solitudine, si sentiva unicamente impotente.
«Melusine, credi che sia orgoglioso di me?» domandò improvvisamente Judith, porgendo la lettera alla giovane.
Lione, 12 maggio 2000
Nessun errore. Lavoro accettabile.

«Sono certa di sì.» mormorò Melusine, sorridendo incoraggiante alla bambina, dopo aver letto la lettera.
Erano poche parole che, se espresse da qualcun altro avrebbe giudicato brusche e sgarbate, ma credeva piuttosto che facessero emergere l’affetto dell’uomo per Judith, un affetto che avrebbe potuto essere la chiave per spezzare la solitudine ed il dolore in cui il signor Piton si costringeva.
Forse ci voleva solo tempo.
E se lo augurava con tutta se stessa.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per vedere Severus fuori da quella cella.
Per vederlo se non felice, per lo meno in pace con se stesso.
Forse v’era ancora speranza, si disse, con un lieve sorriso.
E, per quanto potesse sembrare folle, Melusine voleva sperare, anche se la sua razionalità le diceva che non v’era alcuna speranza.
Non poteva far altro che sperare, che sognare che un giorno sarebbe andata a trovare l’uomo in carcere e avrebbe notato una piccola crepa nel muro di solitudine e sofferenza che lo circondava.


Era notte, una notte oscura in cui la luna era coperta da una fitto banco di nubi.
La lampadina della cella spandeva un lucore biancastro che dava alle quattro pareti un aspetto inquietante, ma l’uomo non vi badava. In mano aveva le lettere della bambina che, fino a quel giorno di maggio, aveva gettato scompostamente in un cassetto del piccolo tavolo che la cella conteneva.
Quel pomeriggio, quando aveva ricevuto l’ultima lettera di Judith, aveva deciso di mettere ordine tra quelle carte, forse per assaporare per un istante il sorriso affettuoso che emergeva dalle parole della bambina, forse per far emergere maggiormente le colpe che aveva commesso, quelle colpe che non gli davano un solo attimo di requie.
Eppure dalle lettere della bambina emergevano affetto e riconoscenza, i sorrisi che Judith gli aveva rivolto tante volte all’ospedale, quei sorrisi che egli sapeva di non meritare.
Aveva riletto ogni lettera dalla prima all’ultima ed ogni volta aveva sentito di non essere degno, con le sue mani imbrattate di sangue, dei sorrisi che ne emergevano.
Il marciume della sua anima non avrebbe dovuto nemmeno sfiorare l’innocenza dell’animo di Judith.
Invece la bambina gli sorrideva da quelle lettere.
29 aprile 2000
Caro signor Piton,
oggi la maestra mi ha fatto i complimenti perché non ho fatto errori nel dettato.
So di aver potuto fare tutto giusto perché voglio scrivere lettere senza errori.
Ho fatto errori in questa lettera?
Spero di no.
Un abbraccio,
Judith.
Il sorriso innocente di una bambina alla quale troppo era stato tolto.
Il sorriso dell’innocenza rivolto al colpevole.
A lui che le aveva ucciso i genitori.
22 maggio 2000
Caro signor Piton,
sono così felice di leggere la sua lettera. Spero di non fare più neanche un errore.
Così sarà ancora una volta orgoglioso di me.
In Francia va tutto bene?
Quando tornerà?
Mi manca tanto poter parlare con lei.
Judith.
Affetto.
Un affetto sconfinato era tutto quello che emergeva da quelle parole.
L’affetto di una figlia per il proprio padre, di una figlia che voleva che il padre fosse orgoglioso dei suoi progressi.
Ma egli non era il padre di Judith.
Era colui che ne aveva ucciso i genitori.
Colui a cui Judith non avrebbe dovuto mai sorridere.
Colui che meritava il suo odio e non il suo affetto.
Eppure da quelle lettere emergeva un lieve raggio di speranza che gli faceva per un istante assaporare il calore nel gelo della sua solitudine, un lieve raggio di luce nell’oscurità delle sue colpe.
Erano momenti brevi, rapidi come il battito d’ali di una farfalla, momenti che si spegnevano in un attimo.
Ed allora ripiombava nel gelo della solitudine e nell’oscurità che meritava.
Ma, in quel momento, con le lettere della bambina davanti a sé, gli pareva, per la prima volta da un tempo che non riusciva nemmeno a computare, che sperare non era forse vano.
 
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