Un po' di OOC più che di AU. Ma non riesco a fare di meglio. Non riesco a scrivere questa cosa, tutto quello che ho ricavato sono queste righe faticose, fortemente influenzate da tutte le vostre storie. Prendetelo come un omaggio, perché è così.
Il più pesante debito d'ispirazione è nei confronti di Ombra di Nykyo. Una delle più belle fanfiction che io abbia mai letto. Di quel racconto mi è rimasta per esempio l'idea di Harry che ferisce con le parole, e non con gli incantesimi. E tante altre cose, naturalmente. Questo è un omaggio inadeguato, giustificato solo dal fatto che c'è un'immagine che mi ossessiona, che ritorna nei miei racconti, e che forse qualcuno riconoscerà. A voi.
Titolo: Quello che avrebbe detto lei
Autore/Data: Aliseia/settembre-ottobre 2008
Beta reader: nessuno
Tipologia: one-shot
Rating: PG
Genere:Drammatico/introsepettivo
Epoca: Hogwarts Settimo Anno
Sfida: IL CONFRONTO
Quello che avrebbe detto lei
La cosa che più lo offendeva era vederli ridere senza apparente motivo, darsi di gomito, e guardare nella sua direzione.
Il ragazzo magro non lo sopportava.
Aveva una fiamma dentro e la sentiva bruciare.
Ma poi lo sguardo di lei scorreva come acqua sulle ferite.*
«Di chi era il cane?» domandò l'uomo con un sorrisetto sghembo, schivando l'ennesimo lampo rosso.
Il ragazzo davanti a lui si fermò stupito, per studiarlo attentamente.
Poi impallidì per la rabbia.
Il sorriso dell'altro era un piccolo taglio beffardo su quella faccia da Pierrot, bianca come la cera.
Un tragico Pierrot nero-vestito.
Ma sul volto non c'era traccia di una sola lacrima.
Non c'era traccia di niente, a dire il vero. Come un foglio bianco, il volto impassibile di Severus Snape aspettava che Harry Potter scrivesse la sua condanna a morte. Per questo Potter lo aveva chiamato. Solo il cognome: "Snape." Senza urlare, con una voce piatta e terribile. Un invito che non ammetteva rifiuti.
Era l'ultima sfida.
Per un attimo l'uomo aveva creduto di sentirlo dire: "Snivellus".
Si era voltato con calma, e con calma aveva portato la mano alla bacchetta.
L'ultima sfida.
"È troppo presto" si era detto l'uomo "Devo arrivare vivo alla verità. Saprai, ma non ora, non ancora."
In superficie nulla incrinò la sua condotta glaciale.
"Perché sorride?" si chiese il ragazzo. Onde di odio si spandevano da lui in cerchi concentrici, come fumo tossico.
"Di chi era il cane?" si chiese l'uomo, rievocando suo malgrado quei ricordi condivisi. Doveva tenere occupato il cervello. E poi, voleva, doveva saperlo. Ora gli sembrava più urgente che mai.
"Di chi era?" ripeté solo nella sua mente "Chi ti inseguiva?". Forse a mandare il cane era stato lo stupido cugino, con quello sguardo vuoto, o quella megera invidiosa di Petunia. Chissà come si era divertita. Di sicuro non le era sembrato vero di potersi vendicare.
Il ragazzino era sull'albero, dondolava nervosamente i piedi, mentre quella massa arruffata di peli, in basso, abbaiava.La scena avrebbe dovuto divertire anche lui, Severus Snape. C'era un mondo, fuori, dove Harry Potter doveva scappare, inseguito dai cani. Un mondo dove i Potter fuggivano, umiliati e offesi, mentre qualche idiota prepotente rideva di loro. Un mondo dove i ragazzini hanno paura, e schiumano rabbia e voglia di vendetta.
Un mondo non troppo diverso da Hogwarts, tutto sommato.
Mentre Severus così pensava, un torrente di maledizioni si riversò su di lui, non abbastanza forti, non abbastanza convinte. E quella voce, Merlino, che fastidio, così stridente e incostante nei toni, un po' da uomo e un po' da bambino.
Quella voce che ne ricordava un'altra.
Un sussulto d'odio, come un fiotto di veleno, andò dritto dal sangue al cervello, e poi alla mano di Severus Snape.
"Levicorpus" pensò l'uomo.
Il ragazzo fu capovolto e appeso. "Così va meglio... Ah, non doverlo più sentire" Poiché la rabbia gli toglieva il fiato.
«Come va, Potter, cosa si prova?»
Ma qualcosa ancora, per Snape, non andava.
Ora gli occhi del ragazzo, mentre fili invisibili lo sospendevano nel vuoto, erano proprio all'altezza di quelli di Severus.
Specchi verdi, gelidi.
"E questo, caro Potter, non va bene" pensò Snape. "Non c'è un luogo né un tempo nell'Universo intero, che mi permetta di guardare quegli occhi senza tremare."
«Cosa si prova?» ripeté Severus con voce più bassa e grave, come una ruvida carezza. Forse solo un leggero tremito tradiva la sua rabbia.
La voce del ragazzo usciva in un rantolo di dolore: «Non lo sai?!» chiese.
Gli occhi, per fortuna, non erano più quelli di prima, ma due ferite bianche, due pozze di rabbia e frustrazione.
Il ragazzo dondolava leggermente, Severus lo seguiva con lo sguardo: senso di colpa e voglia di vendetta, dentro di lui, stranamente in equilibrio.
Rispose come se gli sfuggisse un sospiro: «Io lo so» appena un fiato «So cosa si prova»
«Non me lo ricordare, non mi interessa» un velo di gelo ricopriva ogni sillaba, mentre Harry Potter recuperava un'apparente calma, e gli occhi tornavano verdi, cristallini, spietati.
Severus ricordava bene anche quello sguardo.
«Non interessa più neanche me, Potter»
«Ma come...» la voce di Harry affondava come una lama nella greve atmosfera tra di loro «È solo per quello che l'hai fatto. Per una lite tra ragazzi»
«Non proprio» rispose Severus.
«Ah no? Non era quello che ti rodeva? Il tuo cruccio di ragazzino: non poterlo mai raggiungere, non essere mai come mio padre... O come Sirius... Non essere amato, popolare come loro...»
Severus Snape voleva ridere di quelle affermazioni, ma c'era nell'aria una parola pericolosa che aleggiava, e la parola era "amore".
«Amato, Potter? E da chi?»
"No, no, no" si disse mentalmente l'uomo "Che c'entra l'amore? Non adesso, non è il momento ancora"
Ma, Snape lo sapeva, tutti loro avrebbero pagato un prezzo. E il suo prezzo sarebbe stato la verità. E, subito dopo, una cosa di secondaria importanza: la sua vita.
Il ragazzo era sempre più pallido, ma non parlava più.
Gli occhi mobili e inquieti cercavano un brandello d'imprevisto, un'imperfezione a cui aggrapparsi per poter capovolgere la situazione.
Severus era a disagio.
Tutta la precedente agitazione, quelle invettive, avevano all'inizio stuzzicato la sua voglia crudele di giocare, come avrebbe fatto il gatto con il topo. Ma ora quel silenzio, quella rabbia gelida, gli davano i brividi, letteralmente. E allora si chiese, come per confortarsi: "Di chi era? Chi ti inseguiva? Chi rideva di te?" Sospirò. "Io lo so" disse nella sua mente "So come ti senti, come ti sentivi...Ci hanno provato per tutta la vita...
Capovolti, appesi, inseguiti dai cani… Ma ora siamo qui. È una sfida. Rimettermi in piedi, rimetterti in piedi… Non ho fatto altro, per tutta la vita..."
Gli occhi del ragazzo brillavano come schegge di vetro, trasparenti, taglienti.
Potter aveva ancora la bacchetta, ma la posizione scomoda, umiliante, gli impediva di pensare. Annaspava tra ricordi e falsi indizi, cercava di afferrare nell'altro un attimo di vulnerabilità, uno strappo sulla superficie candida della maschera, qualunque cosa potesse farlo ritornare in piedi.
Diritto, pronto a combattere.
«Il cane era di zia Marge» lo disse senza alcun tono, come un tentativo, invero un po' patetico, di incrinare la fredda sicurezza dell'altro.
Contro ogni previsione, l'uomo sorrise. «Non importa. L'importante, poi, è rimettersi in piedi.»
"Per Merlino, cosa significa?" pensò Potter "Che significa rimettersi in piedi? E cosa significa tutto questo? Perché non mi uccide, o non mi consegna a Voldemort?"
Harry ricordò l'esaltata eccitazione dei Malfoy, di Bellatrix, dei fratelli Carrow, la gioia incontenibile e insieme preoccupata di ogni Mangiamorte che aveva creduto di tenerlo in pugno. Di ogni Mangiamorte che aveva creduto di poter catturare Harry Potter.
Ma Snape, lui no, non si agitava.
Niente urla né stridula esaltazione.
La sua era piuttosto una minaccia ancora lontana, come la sorda ma persistente vibrazione di un terremoto ancora da venire. Lo ricordava così, durante le lezioni: apparentemente gelido, palesemente insoddisfatto, ma costantemente acceso di un furore lento, inestinguibile.
Alla fine: un uomo infelice, sotto la superficie fredda e intatta.
Anche adesso che lo fissava senza muoversi e senza parlare, apparentemente padrone della situazione, sembrava nascondere un dolore segreto, un'amarezza, un rovello che lentamente ne demoliva la facciata imperturbabile.
Qualsiasi cosa l'uomo avesse in mente, Harry capì di non essere ancora sconfitto.
Fissò le iridi nere, quegli occhi che Snape non abbassava mai, e avvertì nella lontananza di quello sguardo un tremolio, una cosa che aveva già creduto di vedere, per tanti anni, tante volte: una frattura, la fragilità di una superficie che s'incrina.
Nonostante la rabbia, nonostante l'umiliazione, Potter sentì che avrebbe potuto spezzarlo, che avrebbe potuto mandare in frantumi quel sorrisetto di pallido vetro.
*
L'uomo lo fissava guardingo e silenzioso, come in attesa delle sue parole, la mano morbidamente appoggiata alla bacchetta.
«Cosa vuoi da me?» chiese Harry «Perché non mi finisci, in modo da compiacere il tuo “signore”? Cosa t'importa del mio passato? Tu non c'entri niente con me.» Harry sibilò le parole piano.
«No, non c'entro» ripeté l'uomo con voce incolore.
«Per tutta la vita sei stato là fuori come un cane» disse il ragazzo. Un sorrisetto di scherno trafisse la faccia dell'uomo.
«Sì, come un cane... Forse per questo motivo quella scena ti piaceva tanto. Volevi essere il cane che mi spaventava. Ma di te non avevo paura. Niente di te poteva toccarmi, né la tua presenza, né il tuo sarcasmo, né tanto meno i tuoi insegnamenti»
«Ci ho provato, almeno» l'uomo rispondeva con voce remota, voleva sembrare sagace, ma era sparito negli occhi quel luccichio ironico: solo una fiamma fredda, spaventosa, lontana, bruciava nel fondo delle iridi nere.
«Tu non potevi niente contro di me. Niente. Non hai mai potuto nulla contro la mia famiglia. Voldemort li ha maledetti. Ma
tu sei morto. Non loro. Sei solo un guscio vuoto, che non vale niente». Mentre parlava Harry avvertì il cambiamento sul volto di Snape. Vide la maschera di cera afflosciarsi e ritrarsi sulle ossa, plasmandosi in modo grottesco sugli zigomi affilati e sulle profonde occhiaie, deformandosi come se qualcuno l'avesse afferrata per strapparla.
Harry Potter aveva gettato l'amo, agganciando le orbite vuote e la loro fiamma lontana, straziando come un cencio quel pallore spettrale, e ora l'amo spietato scendeva e si conficcava in gola.
Tu sei morto, non loro.«Vero» mormorò Snape, un roco gorgoglio che uscì dalle sua corde vocali come il rantolo di un moribondo.
Un lampo di trionfo esplose nel cervello di Harry, un arrogante, splendente fuoco d'artificio. Era una sensazione che non aveva mai provato, qualcosa di crudele. Qualcosa di simile al giocare, ma senza le regole leali di ogni gioco, qualcosa guidato solo dall'istinto.
E il suo istinto, ora, gli diceva di colpire.
Lui, Harry Potter, era diritto, e Severus Snape si era rovesciato.
I ruoli si erano invertiti.
Snape stava per crollare, Harry lo sapeva. Senza bisogno di usare la bacchetta, Harry avrebbe appeso il suo rivale ancora per i piedi, come aveva fatto suo padre in quel lontano pomeriggio sul prato.
E benché per qualche ragione fosse frenato nel fare l'ultima mossa, nell'imprimere quella piccola spinta per cui Snape avrebbe perso per sempre l'equilibrio, Harry comunque non poteva rinunciare ad infliggere il supplizio.
Tanti avevano sofferto a causa di Snape. Troppi.
Ed era davvero sorprendente vedere il suo ex-professore, il braccio destro di Voldemort, sconfitto e smarrito, preso e penzoloni, abbandonato persino dal suo solito sarcasmo.
Era uno spettacolo che Sirius avrebbe amato.
E anche suo padre.
E allora Harry andò avanti: «Tu non sei mai stato uno di loro. Tu non eri come loro. Non eri come mio padre. Non eri come Sirius. Non sei come Remus, non lo sarai mai. Non eri all'altezza dei Malandrini. Non eri degno dei Grifondoro. Questo ti avrebbe detto mio padre, se fosse vissuto: “Non c'è posto per te. Non c'è posto a Hogwarts. Non c'è posto nel Mondo Magico.” Nessuno ti vuole... perché sei marcio. E non è il sangue a renderti tale. Credevi davvero che fosse il sangue a rendere un mago superiore agli altri? Ma non è quello. Forse non è neanche ciò che ha dentro. Sono le sue scelte, le sue gesta, quello che fa. »
La voce del ragazzo vibrava d'orgoglio, e l'uomo pensò che quella voce sembrava diversa. Ancora uno strano disagio lo prese. La voce, le parole, erano quelle di un uomo. E a un uomo non si può togliere la dignità.
“Liberacorpus...” pensò. Lo rimise in piedi, con un breve movimento indolente della bacchetta.
Di nuovo diritto, Harry si riscosse, come svegliandosi da un incubo, mosse la testa di qua e di là, si guardò intorno, traendo un profondo sospiro di sollievo. Poi si morse le labbra, a stento trattenendo un urlo di trionfo.
Due uomini.
Una sfida.
Snape era rimasto immobile, e lo fissava con le labbra serrate, la bacchetta sollevata a mezz'aria.
Harry cominciò a girare intorno a lui in circolo, come avrebbe fatto una fiera con la sua preda.
Lo sguardo del ragazzo, attento, saettante, aveva un luccichio pungente e letale, la mano era sulla bacchetta, pronta a colpire. Ma Harry non era tranquillo. “Non ci si può fidare di Severus Snape”.
Il servo di Voldemort non era ancora sconfitto.
Era solo stordito, non ancora annientato. Harry continuò: «E dire che avresti dovuto saperlo, che il sangue non conta niente. Tu che sei figlio di un babbano. Forse era questo che ti bruciava. E pensavi, per questo, di dover punire il mondo intero. I Nati-babbani. Mia madre...» La voce gli morì in gola: il pensiero di lei faceva sparire tutto il resto. La rabbia apparve come una lama meno lucente, il livore aveva un fiele meno amaro. Sentì la rabbia sciogliersi, il livore ritirarsi come un'onda malsana. Ma subito si avvide che il proprio turbamento era nulla in confronto a quello che aveva prodotto in Snape.
Un mutamento, a dire il vero, esattamente opposto a quello che avrebbe voluto.
L'uomo aveva raddrizzato le spalle e la testa, lo sguardo era diretto, fiero, gli occhi lampeggiavano, le gambe erano ferme e sicure, come quelle di un lottatore.
Per un attimo fu come se Snape volesse dire qualcosa, ma le labbra rimasero chiuse, la piega decisa, senza smorfie, senza esitazioni.
Due uomini.
Una sfida.
Ma tra loro c'era ora una figuretta leggiadra, avvolta nella fiamma leggera, libera, dei capelli rossi. Una figura delicata, evanescente, ma con un cuore pulsante di luce, aggrappata al bianco di un sorriso, come una farfalla si aggrapperebbe a un fiore, con grazia forte e tenace.
"Lasciatelo stare" diceva lo spirito chiaro, con voce tenera e insieme imperiosa.
"Li sfidò tutti per difenderlo"
Lasciatelo stare.Perché?
"Perché era buona" Questo si disse Harry per rassicurarsi.
Ma non bastava.
C'era dell'altro, se l'uomo che aveva di fronte, prima ridotto a una pallida larva oscillante, aveva ora ripreso il proprio giusto verso.
Il centro, la dignità.
Harry alzò la bacchetta.
Il mantello si gonfiava sulle spalle di Snape, due lembi di stoffa come due assurde ali nere.
Tra poco lo avrebbero portato via, al di sopra, al di là della comprensione di Harry.
"Ora!" pensò Harry forzatamente. "Sta diventando sempre più forte, devo colpirlo ora"
Ma la sua mano pareva piombo, mentre quelle due immense ali rendevano Snape così ridicolmente leggero. Ben presto si sarebbe sottratto al suo sguardo. Harry non avrebbe mai saputo.
"Ora..." Ma la sua mano non si alzava.
Cosa avrebbe fatto Sirius?
Cosa avrebbe fatto suo padre?
Avrebbero fatto l'ultima domanda? Oppure avrebbero colpito subito, approfittando di quell'ultimo, esiguo margine di vantaggio?
Ma ogni volta che nella sua mente James, Sirius, e lui stesso, Harry, alzavano la mano, la voce di lei ritornava: "Lasciatelo stare".
Harry provò a riprendere il discorso, per darsi forza: «Mio padre avrebbe detto quelle cose, ne sono sicuro. E mia madre, Lily Evans...» pronunciò quel nome con il solenne rispetto che si deve a una preghiera «Mia madre avrebbe detto...»
«Rimettiti in piedi» terminò Snape, lo sguardo perso in una lontananza che Harry a stento riusciva a immaginare.
Snape abbassò la bacchetta.
Harry fece lo stesso.
Non c'era altro da fare. Ma una cosa Harry doveva dirla, prima che quell'attimo di consapevolezza svanisse, perché era troppo lo stupore che quel fatto gli causava. «Il ricordo di lei ti fa tremare» Fu una semplice constatazione, senza cattiveria.
Snape si riscosse. Pensò una cosa strana: "È la voce che avrebbe James… se fosse vissuto" Ma Severus non poteva esserne certo, poiché allora, all'epoca in cui si scambiavano insulti e maledizioni, erano solo dei ragazzini...
Solo dei ragazzini...
E lei era solo una bambina, una bambina con il corpo e lo sguardo di una donna, quando disse "Snivellus" per la prima e unica volta. E non era già più "la sua bambina".
Una lacrima premeva sotto le ciglia, con prepotenza. Ma lui non la lasciò passare.
Deglutì.
«Non piangevo mai davanti a loro» disse come per giustificare il proprio ritegno.
Harry annuì, senza sapere perché, come per dire "lo so", fingendo di non notare gli occhi rossi di Snape.
Il ragazzo pensò: "Sono pazzo, non posso lasciarlo andare, deve morire"
Ma più forte della sua rabbia, più tenace del suo desiderio di vendetta, la voce di lei si imponeva, privandolo di ogni iniziativa.
Lascialo stare.Una sola cosa Harry capiva: quell'uomo non poteva morire, prima che lui sapesse.
«Qualunque fosse il motivo per cui lei ti difendeva, io devo saperlo, prima di ucciderti» disse piano.
«Qualunque cosa fosse…» sottolineò Snape con voce bassa, e non priva di ironia «non sono affari tuoi, e tieni per te le tue supposizioni. Non è ancora il momento. Devo… preservarti per il mio Signore»
"Devo preservarti per lei" avrebbe voluto dire, ma sapeva che non era più vero.
Si scambiarono un ultimo sguardo.
Poi, senza altre parole, senza alcuna esitazione, senza nemmeno guardarsi le spalle, Snape si voltò e se ne andò.
Harry rimase a fissarlo mentre si allontanava, la bacchetta che era ormai solo un legno inutile tra le mani.
Nella sua mente vide un ragazzino bruno e magro, che con un agile salto scendeva da un albero.
Era dritto e disinvolto, e aveva le movenze sicure di chi non ha paura.
Non riuscì a scorgerlo in viso, ma seppe con certezza che sorrideva. Edited by Aliseia - 8/10/2008, 13:00